Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
APPALTOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
(* Per i concorsi pubblici e per gli Esami di Stato, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).
(* Per l’esame truccato di avvocato, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).
Di Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SOMMARIO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IO CORROMPO, TU RUBI, EGLI (S)PUTTANA.
GRANDI OPERE. TAV, AUTOSTRADE E LA SOLITA CORRUZIONE.
IN QUESTO MONDO DI LADRI.
CHI FA LE LEGGI?
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
ANAS: UFFICIO MAZZETTE E CILIEGIE A GO GO'.
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
SANITA’: L’OBBIETTIVO NON E’ SALVARE, MA INCASSARE.
ROMA ED IL MOSTRO MARINO.
LA GRANDE CERTEZZA.
L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
SENZA CONCORSO PUBBLICO. LA PARENTOPOLI DELL’ANTIMAFIA E GLI INCARICHI FIDUCIARI NEI TRIBUNALI.
IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
IN ITALIA UN APPALTO SU TRE E' TRUCCATO.
COME ARRICCHIRSI CON L'1%.
CONFLITTI DI INTERESSI SUGLI APPALTI: QUANDO IL CONTROLLORE LAVORA PER IL CONTROLLATO.
COME SI CORROMPE UN POLITICO OD UN AMMINISTRATORE PUBBLICO.
IL PRIVATO VINCE SUL PUBBLICO.
TANGENTI: CORRUZIONE E COLLUSIONI. LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.
IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.
IL MONDO SEGRETO DEL FISCO: I DIRIGENTI TUTTI FALSI.
IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.
IL MONDO DEI TRASFORMISTI.
IL MONDO DELLE CRICCHE.
APPALTI PUBBLICI. IL BANDO DI GARA: UN CAMPO MINATO.
COME PARTECIPARE AD UNA GARA DI APPALTO PUBBLICA.
COME PRODURRE LA DOCUMENTAZIONE NECESSARIA PER LA GARA.
GARE PUBBLICHE E L'AFFIDAMENTO DIRETTO.
COME SI VINCE UN APPALTO PUBBLICO IN ITALIA?
COME TRUCCARE LEGALMENTE UNA GARA D'APPALTO?
COME TRUCCARE GLI APPALTI PUBBLICI NEL SETTORE SOCIALE.
AZZERAMENTO DELLA NORMATIVA O NUOVE PROPOSTE? FORSE IL SORTEGGIO?
I DINOSAURI DELLA BUROCRAZIA.
CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.
MAFIA E MAZZETTE.
CORRUZIONE. LA GRANDE IPOCRISIA.
IPOCRISIA ITALICA. E' TUTTO UN VOTO DI SCAMBIO. ERGO: SIAM TUTTI MAFIOSI.
APPALTI TRUCCATI, ITALIA MAGLIA NERA IN EUROPA.
ITALIANI: CORROTTI E CORRUTTORI.
APPALTO TRUCCATO? SE PROTESTI PAGHI IL PIZZO!
ITALIA: UNA REPUBBLICA FONDATA SULLO SCANDALO.
FAMILISMO E RACCOMANDAZIONE. LE COLPE DEI FIGLI RICADONO SUI PADRI.
TERREMOTO '80. IRPINIA E BASILICATA: LA RICOSTRUZIONE INFINITA.
1992. TANGENTOPOLI. L'ERA DI MANI PULITE.
A SINISTRA: PARTITO DI TASSE E MANETTE.
2002. IL TERREMOTO IN MOLISE.
6 APRILE 2009. IL TERREMOTO DELL'AQUILA E LA RICOSTRUZIONE.
GRANDI EVENTI. G8, LA MADDALENA E LA LA CRICCA DEGLI APPALTI.
EXPO. APPALTI E TANGENTI.
LOMBARDIA, LA MADRE DEGLI AFFARI TRUCCATI.
IL MOSE TANGENTIZIO.
LO SPAZIO E LE VORAGINI.
MAFIA CAPITALE.
COOP ROSSE...DI VERGOGNA!
LA GRANDE INCOMPIUTA: LA SALERNO-REGGIO CALABRIA.
GRANDI OPERE...TRUCCATE.
LIBERA E LE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA: TROVI UN AMICO, TROVI UN TESORO.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.
LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.
A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.
SPUTTANATI E SPUTTANANDI.
CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE PER I MAGISTRATI.
REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.
LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.
TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.
TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE.
TANGENTOPOLI E LE SOCIETA' CREATE AD HOC.
TANGENTOPOLI ED I SUBAPPALTI MIRATI.
TANGENTOPOLI E L’ELUSIONE DELLA GARA CON LA DIVISIONE DEGLI INCARICHI.
SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.
Ed invece.....
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.
Fara, presidente Eurispes: «Italia patria della corruzione? Una menzogna, vi spiego perché». Intervista di Errico Novi dell'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio" al sociologo che ha fondato e guida uno dei maggiori istituti di ricerca del Paese: «Compiamo sforzi enormi nella lotta al malaffare: ma paradossalmente questa lotta, con la sua intensità, sovraespone il fenomeno. E poiché i rating internazionali riflettono la percezione dei cittadini, finiamo ultimi in classifica…» «È tutto rovesciato, paradossale. Noi italiani lottiamo contro la corruzione, la contrastiamo con eccellenti metodi d’indagine, apparati di polizia e giudiziari così articolati e numerosi da metterli persino in concorrenza. Non solo, perché abbiamo anche un sistema dell’informazione libero, davvero libero, che non ha alcun ostacolo, per fortuna, nel segnalare ogni singolo episodio di malaffare. E sa cosa succede?». Cosa, professore? «Che finiamo in fondo alle classifiche internazionali. Che paghiamo l’eccellenza in fatto di repressione e trasparenza con un effetto del tutto particolare: la sovraesposizione del fenomeno convince i cittadini che l’Italia è il più corrotto dei Paesi. E questo a sua volta fa in modo che l’Italia compaia ai primi posti dei ranking sulla corruzione, perché le graduatorie in questione sono costruite su indicatori soggettivi, come la percezione appunto». Gian Maria Fara, fondatore e presidente dell’Eurispes, è un signore gentile e ha un’arma formidabile: la disarmante franchezza. Dev’essere per questo che i professionisti del giustizialismo non l’hanno ancora lapidato (come nemico del popolo, avrebbe detto il magnifico Paolo Villaggio). Lui invece dice quello che pensa, cose incredibili visti i tempi, con una tale serenità che l’interlocutore, se malintenzionato, si paralizza. E appunto, non gli manda i gendarmi con i pennacchi e con le armi, per citare un altro genovese qualsiasi, Fabrizio De Andrè. Insomma, Fara è intervenuto al convegno di incredibile spessore organizzato due giorni fa a Tivoli, dalla Procura e dall’Ordine dei commercialisti della città laziale. Si è parlato di “Codice antimafia e corruzione”. E lo studioso che guida uno dei maggiori enti di studi sociali del Paese ne ha approfittato per ribaltare un dogma: «Non credo proprio che l’Italia sia tra i Paesi più corrotti del mondo. Secondo le agenzie internazionali da noi il malaffare produrrebbe un giro da 80 miliardi l’anno: non sta né in cielo né in terra».
Ci spieghi, professore.
«È semplicissimo. Le agenzie internazionali si affidano a indicatori soggettivi. Del tipo: si intervista un campione e si chiede: ‘ Lei ritiene che nel suo Paese la corruzione sia particolarmente diffusa? ’. In Italia la risposta è ‘ sì’ nella stragrande maggioranza di casi. Quando poi si va a chiedere alle stesse persone se si sono personalmente imbattute in casi di corruzione, se l’hanno vista con gli occhi per così dire, la risposta affermativa arriva in 3 casi su 100. Ma questo secondo elemento, chissà perché, nel paniere delle classifiche pesa molto meno.
Chiarissimo. E perché gli italiani danno risposte così definitive?
«Le rispondo a partire da un altro esempio. Nel nostro ultimo Rapporto sul sistema Paese, il trentesimo, abbiamo interpellato i cittadini sull’immigrazione: la gran parte degli italiani è convinta che gli stranieri rappresentino ormai il 30 per cento della popolazione. Purtroppo l’immaginario collettivo si nutre di paure, di allarmi, di fake news. Avviene anche con la percezione dell’insicurezza, che si diffonde nonostante le statistiche sui reati siano in calo. Ma lei mi chiede come siamo arrivati ad alterare la percezione dei fenomeni fino a questo punto.
Infatti: come?
«Ecco, la dinamica è singolare: più combatti un fenomeno e più lo rendi percepibile, lo sovraesponi, e poiché gli indici internazionali si basano proprio sulla percezione, l’Italia passa per un Paese corrotto nonostante combatta più di altri la corruzione, nonostante riesca probabilmente a ridurne l’effettiva incidenza rispetto ad altri grandi Paesi. Abbiamo organizzazione dal punto di vista delle strutture investigative e inquirenti, particolare severità nelle misure, abbiamo l’Anac: tutto questo diventa un danno. Avviene anche con la mafia: certo che da noi la criminalità organizzata si è manifestata in forme straordinariamente aggressive e penetranti, ma è anche vero che abbiamo messo in campo strategie di contrasto rimaste finora ineguagliate. La corruzione, o la mafia, appaiono perché le combatti.
È un paradosso da farsi venire le vertigini.
«Scusi, ma lei crede davvero che a qualche giudice francese sia mai venuto in mente di incriminare un grande operatore economico del suo Paese per aver corrotto il governo della Nigeria? Nel nostro caso avviene eccome, lì neanche ci pensano: così noi finiamo per essere i corruttori, francesi e inglesi diventano dispensatori di virtù. Eppure non è che non paghino tangenti per avere grandi appalti da Paesi stranieri: ne pagano pure di più forti, è una pratica ancora più consolidata, ma nessuno ne parla, quindi non esiste.
Lei pretende di confutare un teorema, come osa?
«Vogliamo parlare dell’agroalimentare? Noi dispieghiamo, nell’ordine: Nas dei carabinieri, Guardia di finanza, Istituto prevenzione frodi, le Asl, le Direzioni distrettuali antimafia. Un lavoro incessante, diffuso, per prevenire le sofisticazioni. Ne ricaviamo l’immagine negativa di un Paese in cui si adultera di continuo. In Germania non lo si fa mai, a quanto pare: ma non è così. È che lì non esistono forme di controllo paragonabili alle nostre. Vogliamo restare in Germania?
E perché no.
«Si sono accorti della ’ ndrangheta con la strage di Duisburg. Fino a quel momento non esisteva. Ci fu un caso di clamoroso riciclaggio, un operatore che arrivò ad acquistare qualcosa come 800 immobili solo con pagamenti in contanti. Evidentemente erano felici e contenti che qualcuno investisse tanto, da noi al terzo appartamento ti inceneriscono. Sono solo esempi, è per dare l’idea dell’atteggiamento prevalente.
Quindi lei, da sociologo, ritiene infondato che gli italiani siano naturalmente inclini alla corruzione.
«La corruzione è sempre esistita in qualsiasi Paese. Gli italiani hanno in più, forse, una spiccata capacità di autocritica e un pizzico di masochismo.
Ma lei si rende conto di abbattere un dogma, di sfidare una verità incontestabile, vero?
«Detto francamente, me ne infischio. Sono un laico, per me i dogmi non esistono: ci sono solo informazioni vere e informazioni false. Sarkozy è accusato di essersi lasciato corrompere lui, da un governo straniero. Giscard d’Estaing era omaggiato da Bokassa in diamanti, e sono solo i primi casi che vengono in mente. Non capisco perché noi italiani dobbiamo sempre sentirci peggiori. Ripeto, anziché essere giudicati positivamente per gli sforzi compiuti nelle azioni di contrasto, paghiamo il fatto che tali sforzi alimentano una percezione alterata nella nostra opinione pubblica.
La corruzione sopravvalutata produce anche la delegittimazione della politica, punto di caduta di tutto il malaffare: con la conseguenza, fatale, che i cittadini si trovano di fatto privi dell’unico strumento di rappresentanza a loro disposizione.
«Ho sempre pensato che il dramma di questo Paese sia in una doppia articolazione della morale. Il che determina, tra l’altro, che gli italiani si sentono migliori della classe politica che li rappresenta. È un errore di fondo che compiamo di continuo. Dai rapporti col fisco, perché a evadere sono sempre gli altri ma poi anche chi è lavoratore dipendente e si vede trattenute le imposte fino all’ultimo centesimo esce d’ufficio e va a fare il secondo lavoro in nero, tale errore, dicevo, si verifica ovunque, dal fisco alle relazioni personali. La stessa cosa è peccato se fatta dagli altri, così e così se la facciamo noi. Quando realizzammo il nostro quarto rapporto sulla pornografia, un esponente del mondo ecclesiale ci disse: per chi viene a confessarsi la pornografia è sempre quella che maneggiano gli altri, di sé si dice sempre ‘ io non pratico pornografia ma erotismo’.
Fantastico. Ma ancora sulla politica, eccedere nel rappresentarla come indegna non finisce per tenere lontane dall’impegno pubblico proprio le persone che potrebbero offrire il contributo migliore?
«È così. Ma a sua volta la crisi della politica rischia anche di diventare il capro espiatorio della crisi generale della classe dirigente.
Come si spiega la crisi generale?
«Nel presentare il Rapporto Italia di quest’anno l’Eurispes ha come sempre messo a fuoco il sistema- Paese, ma mai come stavolta ha segnalato la rottura fra i due termini del binomio: il sistema da una parte appunto e il Paese dall’altra. Due separati in casa che non s’intendono più.
C’è stato un momento in cui il discorso sulla corruzione è partito per la tangente? Nella seconda metà degli anni Duemila, in particolare, tutti le campagne contro la cosiddetta casta e sul presunto costo della corruzione non hanno anche determinato una svolta nelle dinamiche del consenso, tanto da favorire per esempio la nascita del Movimento di Grillo?
«A questa dinamica del consenso assistiamo tuttora e mi pare che la percezione alterata sul malaffare abbia deciso in gran parte anche le scelte più recenti degli elettori. Non si può stabilire con esattezza quanto, ma di sicuro in una misura importante.
Le emergenze immaginarie sono sorelle delle fake news. L’Italia ora è di fronte ai suoi problemi strutturali. Fondati sulla realtà, non sulla percezione costruita dai mass media, scrive Piero Sansonetti l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’Eurispes – come spiega nell’articolo qui a fianco Errico Novi – certifica un dato del quale questo giornale ha parlato già in altre occasioni: non è vero che l’Italia è il paese più corrotto d’Europa. Del resto esistono varie ricerche le quali dimostrano che il coefficiente della corruzione, in Italia, è perfettamente in media con il coefficiente europeo, anzi è lievemente inferiore. L’Eurispes ci racconta come esista un baratro che divide la corruzione reale dalla corruzione percepita. L’Italia è il paese dell’Occidente dove la percezione della corruzione è la più alta. Non è però un paese particolarmente corrotto. Qual è il motivo di questo gap tra realtà e percezione? Ci sono due motivi. Il primo è la particolare attenzione messa dalla magistratura italiana nel ricercare e colpire la corruzione. Specialmente – o quasi esclusivamente la corruzione politica. Finché questa particolare attenzione si esercita nel rispetto dello Stato di diritto e senza sfumature persecutorie, francamente, non c’è niente di male. Anzi, è un orgoglio poter dire: l’Italia è il paese che più di tutti gli altri paesi occidentali combatte la corruzione. Quando Invece questa attenzione supera i confini della legalità, dando il rango di “certezza” al sospetto, allora le cose si complicano. Ma ora non è di questo che vogliamo parlare. Restiamo al problema della divaricazione tra realtà e sensazione. La seconda ragione di questa divaricazione riguarda non più chi indaga ma chi racconta. Cioè l’informazione. E qui non c’è più niente di cui andare orgogliosi. La stampa e la Tv italiane (e con effetto domino i social e i vari strumenti della rete) offrono una informazione gonfiata, falsata, unilaterale e scandalistica della corruzione e della lotta alla corruzione. Prima di tutto ignorando sempre gli argomenti della difesa, che in genere vengono nascosti, oppure sbeffeggiati, indicando i difensori come complici, e stendendo un velo di silenzio su tutte le assoluzioni, le archiviazioni, gli errori giudiziari. Spesso gli organi di informazione vanno anche oltre, considerando colpevoli persone che non sono state nemmeno “indiziate”, lasciando dubbi sull’onorabilità delle persone assolte, quasi sempre violando il “segreto d’ufficio”, che non è una formalità ma è la garanzia, per la magistratura, di poter indagare liberamente senza compromettere il proprio lavoro e senza compromettere la dignità di un possibile ( o probabile) innocente. Torniamo al punto di partenza. Eurispes ci ha detto che la corruzione in Italia è un problema come in molti altri paesi sviluppati. Ma non è un’emergenza. Vogliamo discutere invece della sicurezza? Ve ne abbiamo parlato tante volte e abbiamo snocciolato i dati. La criminalità in Italia esiste, ma non è superiore a quella degli altri paesi europei. Proprio come la corruzione. La criminalità violenta è decisamente la più bassa d’Europa e dunque del mondo. Il tasso di criminalità è in continua discesa da vent’anni. Mentre è in aumento il numero delle condanne e in fortissimo aumento (raddoppio) il numero dei detenuti. Questo non vuol dire che non si deve difendere la società dai fenomeni criminali, però è chiaro che non esiste un’emergenza sicurezza. Eppure… Eppure l’ultima campagna elettorale è stata giocata quasi tutta su queste due emergenze. Emergenza corruzione ed emergenza sicurezza. Ed hanno funzionato benissimo. Perché in campagna elettorale la “percezione” conta mille volte più della realtà. E’ inevitabile. E se il sistema dell’informazione ha creato la percezione delle due emergenze, è chiaro che sono le due emergenze a dominare in campagna elettorale e a determinare il risultato. Ora però la campagna elettorale è finita. Bisogna governare. E l’Italia è un paese che nel 2018 non si trova di fronte a nessuna emergenza. Si trova invece di fronte ad alcuni seri problemi strutturali, che vanno trattati per quello che sono: problemi strutturali. Ne cito tre: la necessità di ridare slancio alla sua macchina produttiva; la necessità di dare maggior protezione al lavoro, cioè ai lavoratori (che da 25 anni hanno perduto moltissime protezioni); la necessità di ridare forza e inviolabilità allo stato di diritto. Naturalmente non è facile affrontare insieme questi tre problemi. Perchè la scelta a favore di uno o dell’altro non è indifferente. Per capirci: ridurre il costo del lavoro aiuta il rilancio produttivo. Ma ridimensiona ulteriormente i diritti dei lavoratori. Così come aumentare la forza dello Stato di diritto, e della sua prevalenza sul mercato, aiuta la modernità, ma non aiuta certamente l’aumento dei profitti e, dunque, della produttività. E’ qui che dovrebbe entrare in gioco la politica. Perché è alla politica che spetta la mediazione e il disegno di assieme. La politica – dico – non la politichetta. La politica degli statisti, non dei propagandisti. Ecco, noi siamo a questo punto. Ci sono molte forze politiche in campo. Ciascuna con alle spalle una certa quantità di consenso. Benissimo: il consenso non basta più, occorre il programma, la visione del futuro, il progetto, il pensiero. Un’idea di società e un’idea di riforma. E’ inutile rifugiarsi dietro il vecchio slogan: affrontiamo le emergenze. Non ci sono emergenze, c’è un paese da ristrutturare.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Bisogna studiare.
Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.
Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.
Bisogna sapere il vero e non il falso.
Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.
Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.
Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).
Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!
Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.
E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.
Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.
Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.
Dr Antonio Giangrande
Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.
L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.
Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita.
Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.
Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.
Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.
Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);
Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);
Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);
Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);
Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);
Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).
Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.
Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.
Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.
I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.
A chi votare?
Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.
Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).
A costui si deve rispondere:
Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?
I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.
Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.
La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.
Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.
Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.
Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.
Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.
E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.
L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.
Quindi io non voto.
Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.
Se nessuno votasse?
In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…
Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996
Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
quasi tutte le canzoni son di destra
se annoiano son di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po’ di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La patata per natura è di sinistra
spappolata nel purè è di destra
la pisciata in compagnia é di sinistra
il cesso é sempre in fondo a destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po’ di destra
mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione l’ossessione della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera é di destra
la nutella é ancora di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La tangente per natura è di destra
col consenso di chi sta a sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po’ degli anni '20 un po’ romano
è da stronzi oltre che di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.
Canticchiar con la chitarra è di sinistra
con il karaoke è di destra
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze é più che mai di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è a destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po’ più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa é nostra
é evidente che la gente é poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Basta!
Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.
E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.
Nuntereggae più
Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè con le canzoni
senza fatti e soluzioni
la castità (NUNTEREGGAEPIU')
la verginità (NUNTEREGGAEPIU')
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU'
Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi (NUNTEREGGAEPIU')
dc dc (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi pli pri
dc dc dc dc
Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')
Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')
Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')
Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa, Guccini
onorevole eccellenza, cavaliere senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
NUNTEREGGAEPIU'
Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè
il numero 5 sta in panchina
s'è alzato male stamattina
mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')
il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
aliena ogni compromess
ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
ci sarà la ress
se quest'estate andremo al mare
solo i soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia
dove sei tu? non m'ami più?
dove sei tu? io voglio tu
soltanto tu dove sei tu?
NUNTEREGGAEPIU'
Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')
il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')
il quindici-diciotto
il prosciutto cotto
il quarantotto
il sessantotto
le pitrentotto
sulla spiaggia di Capocotta
(Cartier Cardin Gucci)
Portobello e illusioni
lotteria trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c'è chi fa la patta
a settemezzo c'ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c'ha l'acqua corrente
non c'ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
ci giurerei
sei meglio tu
che bella sei
che bella sei
NUNTEREGGAEPIU'
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.
La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno
Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,
Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia
E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,
per accorgermi che stato e mafia sono intimi,
Dogo Gang, lo sanno già tutti,
Southfam, lo sanno già tutti,
il peggio è che lo sanno già tutti.
Vengo al mondo con il piombo nel '79
con il cielo rosso sangue sopra la nazione
l'anno prima della bomba dentro la stazione
il Paese inginocchiato ai piedi del terrore
l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80
quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna
basta una botta di pala per insabbiare la trama
e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia
poi la nuova alleanza tra politica e mala
la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata
i pilastri di cemento con i cristiani dentro
l'acido e le vasche, e il primo pentimento
sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla
lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,
e se volevi lavorare dovevi pagare
l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.
I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda
i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna
la politica assassina che soffoca i cittadini
e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti
i loro vizi esauditi col sangue degli operai
e i soldi delle pensioni che non bastano mai
12 teste al mese per ogni parlamentare
e 8000 euro all'anno per la fascia popolare
l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale
bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare
tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame
una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare
ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso
che davanti al nome è presidente o ministro
e non conta il reato, il verdetto è fisso,
non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.
Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia
L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia
in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette
come in Quirinale, il criminale che non si dimette
ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore
devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie
l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato
(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato
la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,
come al cesso mano nella mano le due amiche sceme
ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota
nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota
questa è la Bella Italia, tira una bella raglia
faccia da galera del magnaccia sul Carrera
scorda i problemi, sogna il montepremi
il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.
In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Pistole in macchine in Italia
Machiavelli e Foscolo in Italia
I campioni del mondo sono in Italia
Benvenuto in Italia
Fatti una vacanza al mare in Italia
Meglio non farsi operare in Italia
Non andare all'ospedale in Italia
La bella vita in Italia
Le grandi serate e i gala in Italia
Fai affari con la mala in Italia
Il vicino che ti spara in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
I veri mafiosi sono in Italia
I più pericolosi sono in Italia
Le ragazze nella strada in Italia
Mangi pasta fatta in casa in Italia
Poi ti entrano i ladri in casa in Italia
Non trovi un lavoro fisso in Italia
Ma baci il crocifisso in Italia
I monumenti in Italia
Le chiese con i dipinti in Italia
Gente con dei sentimenti in Italia
La campagna e i rapimenti in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Le ragazze corteggiate in Italia
Le donne fotografate in Italia
Le modelle ricattate in Italia
Impara l'arte in Italia
Gente che legge le carte in Italia
Assassini mai scoperti in Italia
Volti persi e voti certi in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi…
Dove fuggi...
La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese
Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;
tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;
il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:
Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.
Commando sì commando no, commando omicida.
Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita
il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;
infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì primario dai, primario fantasma,
io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò
"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.
Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.
Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.
Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.
Italia perfetta, perepepè' nanananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo:
in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.
Italia sì Italia no, Italia sì
uè, Italia no, uè uè uè uè uè.
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No
L'italiano medio degli Articolo 31
Io mi ricordo collette di Natale
Campi di grano ai lati della provinciale
Il tragico Fantozzi, la satira sociale
Oggi cerco Luttazzi e
Non lo trovo sul canale
Comunque sono un bravo cittadino
Ho aggiornato suonerie del telefonino
E un bicchiere di vino con un panino
Provo felicità se Costanzo fa il trenino
Ho un santino in salotto
Lo prego così vinco all'enalotto
Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto
Che mi fa diventare milionario come Silvio
Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio
Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane
Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!
Però ricordo collette di Natale
Campi di grano ora il grano è da buttare
M'importa poco oggi io vado al centro commerciale
E il mio problema è solo dove parcheggiare
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Io sono un bravo cittadino onesto
Bevo al mattino un bel caffè corretto
Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila
La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000
Che bella la vita di una stella
marina o Martina o quella della velina
La mora o la bionda è buona e rotonda
Finchè la barca va finchè la barca affonda
E intanto sto perdendo sulla patente il punto
E un auto blu mi sfreccia accanto
Che incanto
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
Ma spero che un sogno così non ritorni mai più
Mi voglio svegliare, mai più
Ti voglio fare vedere
Che sono proprio un bravo cittadino
Ho il portafoglio di Valentino
E l'importante è quello che ci metto dentro
Vado con il vento a sinistra a destra
Sabato in centro fino a consumare le suole
Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo
A seguire le parole e penso a fare l'amore
Alla villa di Briatore alla nonna senza
Ascensore alla donna del calciatore
A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza
Monsignore ancora baciamo la mano
Che del miracolo italiano
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
C'era una volta
E non solo una
Un re che amava così tanto i vestiti nuovi
che spendeva in essi tutto quello che aveva
Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata
Niente importava per lui
Eccetto i suoi vestiti
Eppure non trovava soddisfazione
Il sarto era sull'orlo della disperazione
Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto
Che cambiava colore e forma ad ogni momento
Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi
A loro il tessuto sarebbe stato invisibile
E pensate, e pensate
Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC
Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi
A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile
La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili
Sono tanti, arroganti coi più deboli,
zerbini coi potenti, sono replicanti,
Sono tutti identici, guardali,
stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.
Come lucertole s'arrampicano,
e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
spendono, spandono e sono quel che hanno
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
e come le supposte abitano in blisters full-optional,
Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,
Vivono col timore di poter sembrare poveri
Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,
In costante escalation col vicino costruiscono
Parton dal pratino e vanno fino in cielo,
han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..
Sono quelli che di sabato lavano automobili
che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,
Medi come I ceti cui appartengono,
terra-terra come I missili cui assomigliano.
Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano
e poi s'impastano su un albero
Nasi bianchi come Fruit of the Loom
che diventano più rossi d'un livello di Doom
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica
mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano
Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano
Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,
Mani lisce come olio di ricino,
Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,
che si alzano alle spalle dei Fratelli.
Quelli che la notte non si può girare più,
quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,
Che fanno I boss, che compra Class,
che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica
Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara
Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,
Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sabbie Mobili di Marracash
Non agitarti
Resta immobile
Non agitarti
Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda Nelle sabbie mobili
Si perde Nelle sabbie mobili
Penso spesso che potrei farlo
Andare via di punto in bianco
Così altra città. Altro Stato
Potrei se avessi il coraggio
Ho un orizzonte limitato
E' follia stare qua nel miraggio
Che basti essere capaci
Quanti ne ho visti scavalcarmi
Rampolli Rapaci. Raccomandati
Quanti ne ho visti fare viaggi
E dopo non tornare
Restare. Spaccare. Affermarsi
Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo
Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto
Se sei un ragazzo ambizioso
In un sistema corrotto
Non puoi fare il botto
E non uscirne più sporco
Nessuno lascia le poltrone
Niente si muove
Nessuno osa e nessuno dà un occasione
Impantanati in queste sabbie mobili
Si muore comodi
Lo Stato spreca i migliori uomini
Non agitarti. Resta immobile.
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che Affonda
Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Parto dal principio
Io della scuola ricordo un ficus
Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio
Vale più un mio testo letto in diretta da Linus
Il paese ha un virus
Una paralisi da ictus
Come prima più di prima
Madonna potrebbe essere mia nonna
A 50 anni è ancora a pecorina
E' il nulla
Come la storia infinita
Come la mummia
Che si sveglia e torna in vita
Puzza di muffa
The beautiful people
The beautiful people
La bella gente pratica il cannibalismo
Sa di già visto
Come un film di cui capisci la fine
Già dall'inizio
I vecchi stanno al potere
Non vanno all'ospizio
E se MTV sta per music television
Vorremmo più video e meno reality e fiction
Sono pesante apposta come chi fa sumo
Tu fai musica che piace a tanti
E non fa impazzire nessuno
Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Niente di nuovo. Niente di che
Quel rapper che ti piace
Non dice niente di sé
Solo cliché
Attacca il premier
Come se quando cadrà il premier
Vincerà il bene
Se non ci fosse di che parlerebbe
Chi comanda è lì da sempre
E non si elegge con il voto
E prende decisioni senza cuore e senza quorum
E se tornassi indietro io lo rifarei
Il mio incubo era fare la vita dei miei
Sì quella vita strizzata in otto ore
Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa
Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione
Ma non ci crede
Come chi brinda
Ma poi non beve
Non prendere la bufala
Che tanto non è bufala
E' una bufala
Hai una chance di andartene frà. Usala
Se riesci sei un genio
Se fallisci sei uno zero
Se fai quello che fanno gli altri
Rischi di meno
Quindi. Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare il paese che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber
Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Non è per colpa mia
Ma questa nostra Patria
Non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
Che sia una bella idea
Ma temo che diventi
Una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
Non sento un gran bisogno
Dell'inno nazionale
Di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
Non voglio giudicare
I nostri non lo sanno
O hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Se arrivo all'impudenza
Di dire che non sento
Alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
E altri eroi gloriosi
Non vedo alcun motivo
Per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
Ma ho in mente il fanatismo
Delle camicie nere
Al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
Questa democrazia
Che a farle i complimenti
Ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Pieno di poesia
Ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia.
Mi scusi Presidente
Ma questo nostro Stato
Che voi rappresentate
Mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
Agli occhi della gente
Che tutto è calcolato
E non funziona niente.
Sarà che gli italiani
Per lunga tradizione
Son troppo appassionati
Di ogni discussione.
Persino in parlamento
C'è un'aria incandescente
Si scannano su tutto
E poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Dovete convenire
Che i limiti che abbiamo
Ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
Noi siamo quel che siamo
E abbiamo anche un passato
Che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
Ma forse noi italiani
Per gli altri siamo solo
Spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
Son fiero e me ne vanto
Gli sbatto sulla faccia
Cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Forse è poco saggio
Ha le idee confuse
Ma se fossi nato in altri luoghi
Poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
Ormai ne ho dette tante
C'è un'altra osservazione
Che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
Noi ci crediamo meno
Ma forse abbiam capito
Che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
Lo so che non gioite
Se il grido "Italia, Italia"
C'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
O forse un po' per celia
Abbiam fatto l'Europa
Facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo
Per fortuna o purtroppo
Per fortuna. Per fortuna lo sono.
Mamma L'Italiani di Après La Classe
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Rivoluzione di Renato Zero
Protesterai
ogni tregua è finita oramai
dalla sabbia la testa alzerai
dritto al cuore colpirai.
Libererai
quello che soffocavi in te
la tua voce è più forte se vuoi
del silenzio e l'omertà
C'è una guerra giusta e devi farla tu
è la tua risposta a chi non chiede più
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
su la testa adesso tocca te
Ti accorgerai
che il nemico è nascosto tra noi
che il futuro non viene da sé
e ogni brivido ha un suo perché
E sentirai
che resistere è pura follia
ci sarà poi chi ride di te
ma è soltanto paura la sua
Perché niente al mondo viene come vuoi
Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi
Rivoluzione è la promessa che mi fai
di calci e sputi non avere mai paura
Non posso andare sempre avanti io
ho già dato e adesso tocca te
Politica assente famiglia vacante
quaggiù si congeda anche Dio
Se la corda si spezza s'incendia la piazza
E ritorno a lottare con te!
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione! Rivoluzione.
Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc
In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:
ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che
qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si
esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che
caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente
“affanno” – non sanno a quale conclusione non
Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam
Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!
Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro
Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i
Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han
Cappucci e cornetti sulle fronti.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci
intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette
nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del
vicino: ragazzi che casino! Senza via di
scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è
venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo
campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello
shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti
quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli
mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci
resta che il bavaglio.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni
sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi
ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma
i peggio restan quelli genealogici… Visto che la
base del sistema è la clientela e siamo separati
da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una
ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea
collaterale come un'unica famiglia in un immenso
psicodramma: sta bravo che altrimenti piange
mamma. Cambio di programma: annulliamo la
rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere
coinvolta…
Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in
Televisione… chi c'è andato che delusione! Era
chiuso anche il portone.
"Chi comanda il mondo?" di Povia
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
C’è una dittatura di illusionisti finti
economisti equilibristi
terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti
che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti
gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia
fino a portarci all’apatia
creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa
media, oggetti, nomi, colori, simboli
la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli
dormiamo bene sotto le coperte
siamo servi di queste sorridenti merde
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene
La libertà e la lotta contro l’ingiustizia
non sono né di destra né di sinistra
la musica può arrivare nell’essenziale
dove non arrivano le parole da sole
gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati
da Maastricht a Lisbona
siamo tutti indignati perché questi trattati
annullano ogni costituzione
quì bisogna dare un bel colpo di scopa
e spazzare via ogni stato da quest’Europa
se ogni stato uscisse dall’Euro davvero
magari ogni debito andrebbe a zero
perché per tutti c’è un punto d’arrivo
nessuno lascerà questo mondo da vivo
vogliamo una terra sana, sana
meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.
Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».
Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.
Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana.
“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:
· Il certificato di nascita
· Il codice fiscale
· La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).
Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?
Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?
Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità».
COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti».
POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata».
“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto. 2. Applica con rigore il mansionario. 3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti. 5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate. 6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio. 7. Non regalare mai un minuto. 8. Otto, undici, tredici, quindici. 9. Vai in ferie a giugno o a settembre. 10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.
La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.
IO CORROMPO, TU RUBI, EGLI (S)PUTTANA.
Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione, scrive Roberto Galullo il 28 ottobre 2016 su “Il Sole 24 ore". Deve essere perché la carne è debole e il portafoglio è gonfio se il sostantivo corruzione ha un sinonimo che, da neppure 10 anni, ha fatto irruzione nella vita sociale e politica. Già, perché se ancora vanno alla grande mazzette e bustarelle, viaggi e regali, assunzioni e promozioni, non c'è niente che vada più di moda di una bella escort – in lingua inglese, letteralmente, accompagnatrice, in italiano qualcosa di più – per piegare politici, dirigenti e funzionari pubblici o privati e persino giudici di gara a fini diversi da quelli per i quali, in teoria, dovrebbero prodigarsi. Bene pubblico, trasparenza, imparzialità e terzietà vanno a farsi benedire quando c'è di mezzo una bella figliola pronta a concedere le proprie grazie. Il conto, tanto, in un modo o nell'altro lo pagano i cittadini, mica i beneficiari. L'ultimo esempio arriva dall'indagine Arka di Noè della Procura di Genova sulla presunta corruzione nella realizzazione di alcune opere del cosiddetto Terzo Valico ferroviario che ha portato all'arresto anche di Giandomenico Monorchio, imprenditore 46enne figlio dell'ex Ragioniere di Stato Andrea e all'indagine su Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Pietro. Tutti innocenti fino a eventuale sentenza di colpevolezza passata in giudicato. Sembra che le serate con le escort – come merce di scambio per la corruzione – per alcuni degli indagati andassero più forte del panettone a Natale. Talvolta gli incontri riuscivano, talaltra fallivano per impossibilità di trovare una figliola all'altezza della prestazione. Tanto – è il caso di dire – paga la ditta. Interessata, in questo caso, a ottenere i lavori corrompendo, secondo l'accusa, alcuni funzionari di un Consorzio e trovando anche il tempo di disquisire sul colore della pelle: «Senti io conosco due amiche mie brasiliane nere, ti piacciono brasiliane nere?». La risposta negativa – «Mi fanno schifo» – darà il tempo necessario per cambiare carnagione. Guardia di finanza / Operazione «Arka di Noe». Da Genova a Milano il viaggio è breve. Con o senza l'alta velocità ferroviaria. E così, nell'indagine Underground del 3 ottobre della Procura meneghina – costata il carcere a 11 persone e i domiciliari ad altri tre, accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di corruzione diretta all'acquisizione di subappalti di opere pubbliche realizzate in Lombardia, reati di natura fiscale, per presunta utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e indebite compensazioni e ancora truffa ai danni dello Stato, bancarotta fraudolenta, intestazione fittizia di beni e complessi societari e illecita concorrenza realizzata attraverso minaccia e violenza – si scopre che c'è chi, per accumulare appalti e lavori, è pronto a pagare in escort. La tariffa non sarebbe neppure così cara: 500 euro. Non è dato sapere, però, se all'ora o “a cottimo”. Senza tener conto delle indagini di alcuni anni fa a Roma e Milano sulle vere o presunte escort che giravano intorno a Servitori dello Stato, dirigenti pubblici, imprenditori e capi di governo, la svolta era già apparsa chiara nelle indagini tra il 2013 e il 2015 nel corso delle quali, tra le altre, le Procure di Palermo, Torino e ancora Genova e Milano (forse per una particolare predisposizione ai piaceri della vita che si respira in Liguria e Lombardia) hanno avuto il loro bel daffare per rincorrere la scia di profumo rilasciato dalle accompagnatrici nelle stanze di politici più o meno noti e burocrati più o meno grigi. In questo scenario ha le sue ragioni da spendere il criminologo e neuropsichiatria Francesco Bruno, docente di Criminologia e di psicopatologia forense all'università di Roma La Sapienza. Di fronte all'ormai massiccia regalia di prostitute di alto bordo a uomini d'affari e politici, già nel 2009 dichiarava che nel tempo «non c'è stato più bisogno della semplice meretrice come era ad esempio all'epoca delle case chiuse, ma si è iniziata ad avvertire l'esigenza di una donna che accompagnasse l'uomo d'affari nei viaggi. E dall'altro lato uomini molto timidi o al contrario assai spregiudicati, le hanno utilizzate per i loro interessi». Insomma, la società dell'immagine rinnova la sua immagine. Meglio se spregiudicata e di bella presenza. Certo che, se questo è vero, appare difficile mandar giù anche – come dire – le devianze. L'indagine Rent della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, questa settimana ha infatti portato alla luce un episodio che – se non fosse stato messo nero su bianco nel decreto di sequestro d'urgenza firmato dai pm della Dda Antonio De Bernardo e Luca Miceli – sarebbe degno di uno sceneggiatore cinematografico. Per carità, poca cosa rispetto a un'operazione che svela associazione di tipo mafioso, riciclaggio, estorsione, detenzione illecita di armi da fuoco, con l'aggravante del metodo mafioso e – ancora una volta – l'ombra della ‘ndrangheta sulle grandi opere e le grandi infrastrutture del nord. A partire da Expo. Uno degli indagati in Rent è appassionato di cani tanto da avere nel Bergamasco un allevamento di esemplari addestrati per la difesa e l'attacco. Secondo l'accusa avrebbe reclutato, per farla prostituire, una donna da lui stesso stipendiata grazie ad un rapporto di lavoro simulato con la società di cui era proprietario occulto. L'indagato, nel giugno 2015, l'avrebbe indotta a concedersi ad un giudice della gara canina “World Dog” tenuta a Milano 2015, così agevolando, favorendo e sfruttando il meretricio in cambio del vantaggio (anche economico) della vittoria di un proprio cane nella classifica finale della gara. Con l'aggravante di aver commesso il fatto per agevolare l'attività della cosca Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria). Ah, come erano lontani i tempi della Prima Repubblica quando bastava solo scendere in pista e dimenarsi sulle note della disco music per richiamare a frotte ragazze “affamate di fama”.
Raffaele Cantone: "La corruzione nasce dalla politica, in giro ci sono troppi Romeo". Il presidente dell'Autorità anticorruzione respinge i sospetti sul caso Consip: "Da quando faccio il magistrato sono attentissimo a chi frequento, difficile avvicinarmi", scrive Liana Milella il 13 marzo 2017 su "La Repubblica". "La politica continua a occuparsi di gare e appalti. La corruzione nasce qui". Il presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone parla di Consip e di Romeo. E sui politici sotto inchiesta dice: "Si valuti, a prescindere dagli interventi giudiziari, se sono compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese".
Lei è qui da tre anni. Sempre sulla ribalta. Troppo, dicono i suoi detrattori. Non è pessimista sulla corruzione in Italia. Ma come la mette con Romeo e l'inchiesta Consip?
"Non ho mai detto che il contrasto alla corruzione sarebbe stata una passeggiata e non ho neppure lontanamente pensato che potessero bastare tre anni di Anac per invertire il trend. Abbiamo avviato un percorso, che è ancora lungo, tortuoso, irto di ostacoli. Vicende come quelle di Consip non saranno certo le ultime che emergeranno in questo Paese. La corruzione è tutt'altro che vincibile domani o dopodomani".
Decine di politici nelle carte giudiziarie su Consip. Dopo averle lette lei vede ancora positivo?
"Resto ottimista e mi attengo ai fatti. C'è un'indagine molto seria tra Napoli e Roma che ha fatto emergere allo stato un unico, seppur grave, episodio di corruzione che potrebbe lasciar intravedere altro. Per parlare di sistema c'è bisogno di attendere gli sviluppi giudiziari".
Non sta sminuendo troppo?
"Assolutamente no, sono abituato a ragionare da magistrato e a pensare che i fatti sono quelli accertati giudiziariamente, mentre le ricostruzioni sono utili sul piano sociologico ".
Da quegli atti non emerge un sistema in cui corrono in parallelo appalti e politica?
"Il vero problema è che una parte della politica continua a occuparsi di appalti e gare pubbliche. Se questo non ci fosse tutto sommato avremmo una corruzione fisiologica".
Avremmo pure imprenditori che cercano sempre di corrompere...
"Contesto assolutamente quest'affermazione. Se fosse davvero così dovremmo rinunciare a qualsiasi possibilità di scardinare la corruzione. Il punto vero è garantire agli imprenditori onesti ed estranei alla politica la possibilità di accedere agli appalti importanti, quelli che contano".
Guardi Bocchino, un ex politico usato da Romeo che arriva a lamentarsi degli appalti troppo concentrati nella Consip perché le chance di dividere la torta si riducono.
"Questa storia evidenzia un'enorme ipocrisia. I grandi imprenditori hanno bisogno di utilizzare meccanismi lobbistici per promuovere la loro attività. Ma la parola lobby in Italia è sempre stata intesa in senso negativo perché non si è mai avuto il coraggio di affrontarla e regolarla".
Bocchino vuole arrivare a lei e ottenere la sua benevolenza.
"Sui giornali ho letto cose fantasiose, per esempio che mi avrebbe cercato Fini, falso perché per telefono non ci ho mai parlato, né l'ho mai incontrato tranne in un'occasione pubblica in cui ci siamo appena salutati".
La lettura delle intercettazioni di Bocchino però è chiara...
"Quello poteva essere il loro intendimento, ma non ci sono riusciti. Su questo sfido chiunque a dimostrare che il tentativo di avvicinamento a me sia anche solo iniziato".
Il sindaco di Napoli De Magistris dice di aver tolto a Romeo la gestione del patrimonio. Perché Consip non lo ha fatto?
"Romeo ha partecipato e vinto gli appalti, in molti casi oggetto di ricorsi al Tar che li ha confermati. Romeo è stato assolto con formula piena nel caso Global Service. Se non ci sono condanne, un soggetto non può essere escluso. Il singolo può decidere di non frequentare un imprenditore chiacchierato, e l'uomo delle istituzioni fa bene a non farlo, ma sul piano formale il soggetto assolto è definitivamente riabilitato".
Pure lei ha notato anomalie nelle gare Consip di Romeo. Perché non le ha fermate?
"Le abbiamo evidenziate anche pubblicamente, ma si trattava di rischi che di per sé non erano tali da far pensare alla corruzione ".
È giusto che l'ad di Consip Marroni resti al suo posto?
"I magistrati lo considerano fino a oggi un testimone attendibile. E chi collabora con la giustizia in modo corretto e leale fa il suo dovere; non spettano a me valutazioni diverse, di opportunità connesse anche alla serenità di svolgere un ruolo tanto difficile; è compito del ministro dell'Economia e dello stesso Marroni ".
Ha parlato con lui?
"Anac ha fatto accertamenti su molte gare di Consip. Ora Marroni ci ha chiesto alcuni pareri. Risponderemo analizzando le questioni giuridiche, ma non ci sostituiremo certo alle valutazioni che spettano a Consip".
E Lotti? Dovrebbe farsi da parte come Renzi aveva chiesto per Idem e Cancellieri?
"Su questo non ho nulla da dire perché sono in ballo valutazioni politiche da cui è necessario che mi tenga lontano. In generale, come ho detto tante volte, non basta un avviso di garanzia per imporre il passo indietro, ma la politica deve valutare se i fatti, a prescindere perfino da interventi giudiziari, siano più o meno compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese".
Renzi ha puntato molto su di lei. Ora che il padre è indagato e Lotti pure, vede ricaschi negativi?
"Renzi, da premier, non ha in nessun modo interferito nella mia attività. Personalmente credo sia giusto aver rispetto per una persona che sta vivendo un momento difficile. Le valutazioni complessive sulla vicenda potranno essere fatte quando si diraderà la cortina fumogena delle chiacchiere e i fatti saranno portati all'attenzione dei giudici".
Lei è napoletano come Romeo. Come si comportava con lei?
"Non ho avuto alcun rapporto con lui che non fosse puramente formale e l'ho conosciuto quando la sede dell'Avcp passò all'Anac e avemmo l'esigenza di rescindere il contratto ".
Possibile? Per anni a Napoli senza conoscerlo?
"Ho saputo dell'esistenza di Romeo solo quando è stato arrestato per la vicenda Global Service e ho visto la sua foto per la prima volta sui giornali".
A leggere le carte dell'inchiesta risulta evidente il suo tentativo di avvicinarla. Il convegno del Cresme, la consulenza a suo fratello Bruno, le telefonate di Bocchino con Fini. Lei cosa ha fatto?
"Da quando sono magistrato sono attentissimo alle frequentazioni, non vado a feste, pranzi o cene con nessuno. I rapporti istituzionali sono sempre pubblici o passano per l'Anac. Al convengo del Cresme sono andato e ci tornerei perché si discuteva di un tema di grande interesse per l'Anac, c'erano relatori importanti, mi sono trattenuto per il mio intervento e sono andato via. Credo sia doveroso per una persona che ha la mia carica esprimere la propria opinione non certo in conventicole private ma in convegni pubblici. Quanto alla vicenda di mio fratello, Bruno ha avuto un incarico professionale per pochi mesi per aver conosciuto Romeo per via della vicinanza dei rispettivi studi, ma non si è mai occupato di vicende che neanche lontanamente interferivano con Anac. E io ne ho avuto notizia solo quando ne hanno parlato i giornali".
Una sua "nemica", Carla Raineri, ci vede un conflitto di interesse.
"Non considero la dottoressa Raineri una mia "nemica". A titolo personale non ho fatto nulla contro di lei. Il consiglio dell'Anac ha espresso un parere sulle modalità della nomina a capo di gabinetto che la dottoressa avrebbe ben potuto contestare in via giudiziaria o amministrative. Quelle sul conflitto di interesse sono insinuazioni prive di ogni fondamento e sull'incarico sia io che mio fratello, come fanno le persone per bene, abbiamo riferito tutto quello che c'era da dire all'autorità giudiziaria di Napoli".
Quanti Romeo ci sono in giro che cercano di circuire Cantone?
"Credo ce ne siano tanti, ma io sono tranquillo, e sono sicuro che gli eventuali tentativi non vanno da nessuna parte".
Sarà la Procura nazionale anticorruzione il suo prossimo incarico?
"Non credo che una simile struttura sia necessaria. E al mio prossimo incarico in magistratura penserò a partire dalla fine del 2019 quando si avvicinerà l'aprile 2020, mese in cui scade il mio mandato non rinnovabile all'Anac".
L'inarrestabile ascesa di Romeo. il manager con giardino sulla spiaggia. L´ultimo business: un mega albergo col suo nome, scrive Patrizia Capua il 7 dicembre 2008 su “La Repubblica”. Voleva restare nell'ombra, ma poi gli ha dato il suo nome: Romeo. L´albergo a 5 stelle nell´ex Palazzo Lauro è un business da 100 milioni, solo l´ultimo per Alfredo Romeo, amministratore del gruppo specializzato nella gestione dei patrimoni immobiliari pubblici. L´imprenditore, 55 anni, ora al centro dell´inchiesta sul Global service, ha preparato un´inaugurazione in tre serate, l´11, il 12 e il 13 dicembre, per le istituzioni, per un selezionatissimo pubblico giovane, per gli operatori. Come consulente ha scelto il prestigioso Heinz Beck, chef tedesco della Pergola, il ristorante dell´Hilton di Roma. «L´albergo più innovativo e lussuoso della città, un oggetto unico non solo per Napoli» ha dichiarato in un´intervista a Repubblica il patron della "Romeo gestioni spa", con sede in via di Villa Ruffo a Roma, «è anche e soprattutto un´operazione di valorizzazione integrata - ha aggiunto - che rientra nel rilancio e nella riqualificazione dell´intera zona di piazza Municipio». Il gusto per il lusso è una costante nella sua vita. Che c´è di più esclusivo, infatti, di una villa a Posillipo, un eden a sei piani con giardino sulla spiaggia, prato inglese, piante grasse e bordure fiorite? Tanto sulla spiaggia, però, che l´antiabusivismo ha aperto un procedimento e ha sequestrato l´area. Poco dopo Romeo e sua moglie, Vittoria Parisio Perrotti sono stati denunciati per violazione dei sigilli. Accadeva l´anno scorso, periodo in cui sono state intercettate telefonate tra Romeo e il giudice Bruno Schisano, in cui si faceva riferimento a un presunto interessamento del magistrato nel procedimento in corso. Il giudice comparirà a Roma il 19 dicembre per rispondere di tentato abuso d´ufficio. Romeo, "ragazzo d´oro" di Napoli, inizia la sua ascesa negli anni Ottanta come agente immobiliare con la Er, e distilla amicizie e uscite pubbliche. Il sabato pomeriggio lo si può incontrare in via dei Mille, nello show room del suo amico storico, Mariano Rubinacci e insieme vanno dal parrucchiere Boellis, in via Vetriera. È un altro dei suoi vecchi amici, Antonio Napoli, del Pci di allora, che nel 2000 lo porta come cliente a Reti, la società di comunicazione fondata da Claudio Velardi. Un sodalizio finora mai interrotto. Di proverbiale timidezza, riservato, l´avvocato Romeo si fa notare per le sue fugaci apparizioni alle assemblee dell´Aici, Associazione italiana consulenti e gestori immobiliari, dove lo ricordano nel suo elegante nel suo cappotto di vicuna, lana peruviana o ai convegni di settore come il Forum di Scenari Immobiliari, nel maggio 2003 a Capri. Raccontano le cronache della real estate community che «Romeo si è presentato al convegno e nessuno sino al giorno prima ci credeva davvero», per parlare del "full facility management", il modello di business che Romeo ha mutuato dalla cultura anglosassone, un know how di capacità organizzativa notevolissima che comprende anche vendite, e gli ha fatto ottenere appalti nelle maggiori città d´Italia: Napoli, Venezia, Milano, Firenze e altro ancora. Global service by Romeo anche per il Quirinale e per il Senato (importo di 22,385 milioni per quattro anni). Un tecnico dell´outsourcing, l´esternalizzazione che anche gli enti pubblici sposano per tagliare i costi. Nel 2007 Romeo impiega più di 500 persone e controlla un patrimonio da 48 miliardi. Schivo, sì, perché Romeo «non è un personaggio napoletano, qui lo conoscono in pochi» assicurano i bene informati. Ma a testa bassa è entrato nel gotha degli immobiliaristi italiani: nel 2007 e fino al 2009 è vice presidente di Assoimmobiliare con Carlo Puri Negri e Elio Gabetti. Nel 2004 si aggiudica assieme a Puri Negri l´Epic prize special award «per aver contribuito alla crescita qualitativa del patrimonio immobiliare italiano». Sempre vivo il suo rapporto con la politica, dal Pci al Pds fino ai Ds. Pronto a sostenere Nomisma, il pensatoio di Romano Prodi allorquando l´ex premier lancia un sos per una leggera crisi finanziaria. Uno zampino nello sport d´affezione: è sponsor della squadra di basket in C2 "Romeo Gestioni Pontano". Si prodiga anche in beneficenza come testimonia il grazie di Sos Terzo mondo missioni onlus «per la preziosa donazione per una nuova casa "Nel villaggio per bambini orfani" a Bangui, capitale centraficana». Imprenditore moderno e molto chiacchierato, non soltanto per le inchieste giudiziarie in cui è incappato - il processo del 1993 per la Tangentopoli napoletana, denominato "Romeo + 19/Di Donato", in cui da accusato divenne accusatore e definì «cavallette» i politici - ma anche, dicono alcuni inquilini, per la cattiva gestione degli immobili di proprietà del Comune di Napoli, che ha in carico dal 1989. Basta ascoltare la voce dei molti che dicono di essersi ritrovati in case umide e piene di disservizi; e che, aggiungono, dopo avere chiesto assistenza affermano di essersi visti sbattere la porta in faccia.
Alfredo Romeo, un impero costruito con gli appalti pubblici. A Napoli è noto come «l’Avvocato». È il prototipo dell’uomo d’affari tanto attivo quanto invisibile: di lui non si hanno tracce di vita mondana. L’unico vezzo è una vecchia Citroen 2 Cv nera ristrutturata, scrive Fulvio Bufi l'1 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. C’è il grande appalto Fm4 che la Consip dovrà assegnare per l’affidamento dei servizi gestionali in Università, centri di ricerca e svariati altri uffici della pubblica amministrazione, al centro dell’inchiesta che ha portato mercoledì all’arresto dell’imprenditore Alfredo Romeo. Ci sono in ballo 2 miliardi e 700 milioni. Si tratta quindi di una delle più grandi commesse pubbliche, gestita per intero dalla Consip (Concessionaria servizi informativi pubblici), la società per azioni in house del ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi al cento per cento pubblica. Ed è proprio con gli appalti pubblici che Alfredo Romeo ha costruito il suo impero, un gruppo imprenditoriale e finanziario che oggi conta 20 mila dipendenti, sedi a Napoli e a Roma e interessi nel settore immobiliare, in quello alberghiero, nelle partecipazioni e nella gestione dei servizi.
Per tutti è l’Avvocato. Casertano d’origine ma napoletano di adozione, una laurea in giurisprudenza grazie alla quale lo chiamano tutti avvocato, anche se la professione legale non l’ha mai esercitata, Alfredo Romeo è il prototipo dell’uomo d’affari tanto attivo quanto invisibile. Di lui non si hanno tracce di vita mondana, né a Napoli, dove vive in una lussuosa casa a Posillipo e ha il quartiere generale del suo gruppo al centro direzionale, né a Roma, dove pure è spesso presente. Unico vezzo una vecchia Citroen 2 Cavalli nera perfettamente restaurata con la quale si muove per la città. Ma raramente, perché per abitudine si sposta in taxi.
Cronache giudiziarie. Se le cronache si sono occupate di lui è stato sempre e solo per questioni giudiziarie. La più nota, e clamorosa, fu quella riguardante l’appalto Global Service con il Comune di Napoli per la manutenzione dell’intera rete stradale cittadina. Era il 2008, a Palazzo San Giacomo il sindaco era Rosa Russo Iervolino che si trovò la giunta dimezzata dal coinvolgimento di numerosi assessori nell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione di quell’appalto. Romeo fu arrestato e passò in carcere oltre due mesi, senza però mai ammettere di aver corrotto qualcuno per ottenere la commessa. I magistrati napoletani gli contestarono dodici capi di imputazione, ma dopo sei anni e tre gradi di giudizio l’imprenditore fu assolto da tutte le accuse.
Gli appalti. Le Procure hanno però sempre continuato a occuparsi di lui, ma allo stesso tempi lui ha continuato a rastrellare appalti importanti. Con il suo gruppo ha lavorato per il Quirinale, Palazzo Chigi, numerosi tribunali, gli aeroporti di Linate e Malpensa. Anche con il Comune di Napoli ha continuato a vincere appalti: quando fu eletto il sindaco de Magistris, la gestione del patrimonio immobiliare era in mano a Romeo, e c’è stata una lunga battaglia da parte dell’amministrazione comunale per revocargli la commessa. Naufragò così, nei pessimi rapporti con il nuovo sindaco, il progetto che Romeo aveva in mente per la zona portuale della città: una riqualificazione totale dell’area dove sorge anche il suo albergo cinque stelle lusso. Tutto ovviamente con soldi pubblici e tutto, altrettanto ovviamente, da affidare a lui.
Romeo, fortune e cadute di un asso degli appalti pubblici, scrive Saverio Fossati il 2 marzo 2017 su “Il Sole 24 ore". Una storia di mattoni, soprattutto pubblici. Perché Alfredo Romeo, 64 anni, è nel settore immobiliare da sempre. Il suo curriculum da imprenditore è impressionante, in un crescendo rossiniano di appalti pubblici e semipubblici, segnato da alcuni scivoloni, determinati da incomprensioni con l’autorità giudiziaria, dai quali si rialza sempre con eleganza (almeno sino a ieri). Le prime notizie sulle sue disavventure con la giustizia risalgono al 1993, l’epoca d’oro di Tangetopoli, quando emersero i primi riscontri del sistema descritto da Alfredo Vito (Dc). Romeo era stato dichiarato latitante nell’ambito dell’inchiesta su Silvano Masciari e Eugenio Buontempo: Romeo, per ottenere l'appalto di 100 miliardi per la privatizzazione e la gestione del patrimonio comunale, era accusato di aver versato una tangente di 4,5 miliardi divisa tra lo stesso Vito e Di Michele. Ma un anno dopo il suo dossier sugli immobili del Comune viene presentato in municipio, mentre l’inchiesta v avanti stancamente. Tanto che nel 1999 si (ri)aggiudica la gestione del patrimonio immobiliare comunale: su quei 2,1 miliardi di valore di case e uffici, la Romeo gestioni, sino al 2008, aveva riscosso somme per soli 25 milioni, a un ritmo medio di poco più di due milioni l'anno. Insomma, meno dell’uno per mille, quasi peggio di prima (colpa della morosità, si disse allora). Nel 1995 ottiene la gestione di buona parte del patrimonio Inpdap. Negli anni successivi si aggiudica parti sempre più ampie dei patrimoni pubblici: Comuni di Roma e Milano e vari enti previdenziali che stanno scoprendo le gioie della gestione efficiente, una volta acclarata la loro totale incapacità di occuparsi di manutenzione e affitti. Risanamento, Radice Fossati, Metropolis e Pirelli RE sono i compagni di lotta di Romeo in quei tempi eroici, assi pigliatutto di succulenti appalti, che in alcuni casi hanno condotto a polemiche e contenziosi (come nel 1997 da parte del Comune di Roma). Nel 1998 Romeo riesce a inserirsi persino nella gara in detta da Consap, concessionaria assicurativa pubblica, per gestire il programma di valorizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare del ministero della Difesa, benché fosse riservata a soggetti pubblici. Nel 2000 si aggiudica la gara indetta dal Tesoro per affidare la gestione integrata dei servizi della sede di via XX settembre. E naturalmente partecipa alle mega dismissioni immobiliari degli enti previdenziali del 2003, gestendo le aste del Centro-Nord Italia. Nel 2008 altro rovescio di fortuna: viene accusato di essere ideatore e capo di un'organizzazione che applicava “il sistema Romeo” per vincere appalti pubblici in apparenza regolari, utilizzando conoscenze di alto profilo politiche e imprenditoriali (e in questa prima occasione emergono i legami con Italo Bocchino). Un’accusa che lo porta per la prima volta in carcere ma da cui è assolto (dopo molti mesi di carcere), anche se si becca due anni per una raccomandazione fuori luogo. La corte d’Appello di Napoli nel 2013 ribalta la sentenza condannandolo a tre anni di reclusione per corruzione; ma non importa: nello stesso anno viene scelto dall'associazione dei comuni (Anci) come partner per la società che si occuperà di riscossione tributi e vince l'appalto della Sea per una serie di servizi negli aeroporti di Malpensa e Milano Linate. Del resto la vecchia condanna per corruzione sarà annullata in Cassazione nel 2014.Nel 2011, nell’ambito dell’inchiesta sui traffici di Luigi Bisignani, torna alla ribalta ma non viene indagato. E continua a lavorare, sino all’ultima chiamata dei giudici, che inspiegabilmente continuano a interessarsi a lui sin dall’anno scorso, e che ieri hanno deciso di arrestarlo, coinvolto in un’indagine che lo vede protagonista, ancora una volta insieme a Italo Bocchino.
Gli affari d'oro di Romeo: dalla Consip in 10 anni oltre 600 milioni di euro. All'imprenditore numerose commesse dalla centrale acquisti del Tesoro sin dal 2008, scrive Stefano Sansonetti, Sabato 04/03/2017, su "Il Giornale". Altro che l'ultimo e contestatissimo super appalto Consip da 2,7 miliardi di euro, ormai famoso come l'appalto pubblico più ricco d'Europa. I rapporti tra la centrale acquisti del Tesoro e Alfredo Romeo vanno ben oltre la commessa per il facility management, ovvero la gestione e manutenzione degli immobili pubblici, che ora ha messo nei guai l'imprenditore campano, il papà di Matteo Renzi e il ministro Luca Lotti. Se si va a setacciare l'archivio della società pubblica, per esempio, si scopre che il 7 dicembre del 2016, ovvero poco prima che esplodesse il caso, la Consip ha assegnato alla Romeo Gestioni un lotto da 115 milioni di euro di un appalto per la gestione e conduzione degli edifici pubblici adibiti a uso sanitario (ospedali e via dicendo). Il tutto con l'aggiunta della fornitura di energia elettrica. Tra l'altro questo bando vale complessivamente 2 miliardi di euro, un'enormità, e non tutti i 16 lotti in cui è stato diviso risultano ancora assegnati. Il dato certo è che tra i vincitori c'è Romeo, peraltro in un lotto geografico che copre due regioni molto care alle sue società, ovvero Campania e Molise. I rapporti tra le parti, infatti, non finiscono certo qui. Nella precedente edizione della commessa sul facility management per gli immobili pubblici, assegnata dalla Consip nel maggio del 2012, la Romeo Gestioni era riuscita ad assicurarsi 4 lotti sui complessivi 12. In soldoni significa che il gruppo dell'imprenditore campano ha messo i cascina un importo massimo di 353 milioni su un totale di 1,2 miliardi. Davvero niente male. Tra l'altro anche qui, nella ripartizione geografica, un lotto aggiudicato a Romeo riguardava Campania e Basilicata, mentre gli altri tre erano così ripartiti: Lombardia, Roma-1° municipio, Puglia più Molise. I corsi e ricorsi geografici, nei rapporti tra Consip e Romeo, si sprecano. Verificare, per credere, quello che è successo tra ottobre e novembre del 2009, quando la società di Stato aggiudicò l'edizione ancora precedente del facility management degli immobili di Stato. Su 11 lotti del valore complessivo di 520 milioni di euro, la Romeo Gestioni riuscì ad aggiudicarsene 3 per 128 milioni. Curiose coincidenze, dicevamo, sulla distribuzione geografica dei lotti incamerati dall'imprenditore campano: Roma-1° municipio, Campania più Basilicata, Puglia più Molise. Risalendo ancora nel tempo, poi, si scopre che tra ottobre e novembre del 2008, proprio mentre Romeo veniva coinvolto in un'altra inchiesta partenopea (dalle quale poi è uscito completamente indenne), la Consip aggiudicò alla sua società 3 lotti su 10 di una precedente edizione della commessa per la gestione e conduzione degli impianti tecnologici degli ospedali. Il tutto per un incasso massimo di 82 milioni su un valore complessivo dell'appalto di 280. E quale fu, in quell'occasione, la copertura geografica? Ancora Campania e Molise, ancora Basilicata e Puglia (con l'aggiunta della Calabria) e Lazio più Sardegna. Insomma, Romeo faceva e continua a fare affari con la Consip, ormai da quasi 10 anni. Periodo in cui, per gli stessi bandi e quasi sempre per gli stessi lotti geografici, il gruppo dell'imprenditore campano ha incassato più di 600 milioni. Una storia che, tra l'altro, dovrebbe far riflettere su come si sia evoluta negli anni la Consip, a capo della quale l'ex premier Matteo Renzi ha voluto il suo fedelissimo Luigi Marroni.
Inchiesta Consip, Marroni chiese aiuto: "Per la mia compagna un posto nel board di Fondazione Cassa". Le intercettazioni: il manager voleva l'intervento di Vannoni e Bianchi per arrivare a ottenere l'impegno di Carrai, scrive Franca Selvativi il 16 marzo 2017 su "La Repubblica". Luigi Marroni "Senti, Marco non s'è fatto più vivo e io c'ho anche da gestire un po' questa cosa con Laura". È il 16 novembre 2016 e Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip, conversa con l'avvocato Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open, la cassaforte di Renzi. Marco, secondo i carabinieri del Noe, è Marco Carrai, membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che ogni anno eroga circa 30 milioni per interventi sul territorio. E Laura, detta Lalla, è Laura Gucci Frati, compagna di Marroni e socia della Fondazione, a quanto pare aspirante ad entrare nel consiglio di amministrazione. Marco, però, non si fa vivo. "Non mi sembra molto corretto", si lamenta Marroni. E all'amico chiede un aiuto: "Mi faresti un piacere se mi ci dai un'occhiata, e se glielo dici al babbo, dai". I carabinieri ritengono che si riferisca a babbo Tiziano Renzi che, da quel che emerge nell'inchiesta Consip, sembra assai influente all'interno del Giglio Magico. Il problema Lalla si ripresenta il giorno successivo - 17 novembre 2016 - quando Marroni riceve in ufficio il suo amico Filippo Vannoni, renziano, presidente di Publiacqua e consigliere economico presso la Presidenza del Consiglio. "Sai chi è un po' stronzo? Carrai". "Eeeh", commenta Vannoni. "Lalla lo sta cercando per la Cassa di Risparmio. Ora una persona seria dice: "Laura, lascia perdere, ché non posso". Lui invece non si fa trovare". Vannoni: "No no ma guarda è una roba... non lo pigli, non lo pigli". Marroni: "È un po' strano come persona, no?". Vannoni assicura che si sta dando da fare per trovare un lavoro a Laura. "Io vado a bussare a qualsiasi porta... tutti devono in qualche modo lavorare, no? Perché lei non può lavorare?" "A Firenze è morta", si duole Vannoni, ma poi aggiunge: "Comunque la cosa dell'arte va avanti, quella è viva, quella arriverà". "Sì, però non è quello che vuol fare lei... io che gli posso fare?", commenta sconsolato Marroni, quasi che Laura fosse una nullatenente disperata in vana ricerca di una occupazione. Altro cruccio, per i due amici, è il rischio incombente, in quei giorni di novembre, che il referendum costituzionale potesse andare male per Matteo Renzi e di riflesso per loro, che si aspettavano conferme negli incarichi o nomine anche più interessanti. Vannoni sospira: "No, bisogna aspettare il 5 che passi la nottata". Però tutti e due sono preoccupati perché "quelli bravi son pochi", dice Vannoni, "rispetto ai tanti che hanno messo", conclude Marroni. "Ma comunque sei andato dal babbo? Ci sei mai andato dal babbo?", gli chiede l'amico. "Dopo il 5 se va bene bisogna sopravvivere", sostiene Marroni. "No, il 5 se va male bisogna sopravvivere", obietta Vannoni. Tutti e due si danno da fare per il sì al referendum e si fanno coraggio: "Il mondo sta andando benino, benino", dice Vannoni e, riferendosi probabilmente alla trasmissione di Porta a Porta sul referendum della sera precedente, aggiunge: "Ieri sera è andata bene, lo hanno preso in c., cioè sono una banda di raccattati". Si riferisce ai sostenitori del no. Curiosamente uno dei più autorevoli era suo suocero, il presidente emerito della Corte Costituzionale Luigi De Siervo. Quando la conversazione si fa delicata Vannoni non parla. Scrive. Marroni era stato messo in guardia sulla possibile presenza di microspie e quindi è prudente. Il che non gli impedisce, quel 17 novembre, di scambiare opinioni con l'amico su Stefania Saccardi, che gli è succeduta nell'incarico di assessore regionale alla salute. "Ho visto che la Stefania Saccardi c'ha un po' di cose nel bilancio...". Vannoni è tranchant: "Non c'ha i soldi la Regione, è chiaro!... Non hanno soldi ma fanno delle cose che non possono fare, cioè, capito?" Ieri l'avvocato Federico Bagattini, difensore di Tiziano Renzi, indagato per traffico di influenze con l'amico Carlo Russo perché avrebbe favorito l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo, aveva convocato Marroni, che però ha scelto di non presentarsi. L'avvocato definisce "sorprendente" la sua decisione ma rileva che dai verbali delle sue dichiarazioni risulta che Carlo Russo non gli ha mai raccomandato le aziende di Romeo, e che i contatti asseritamente avuti da Marroni con babbo Renzi e con Russo risalgono a 9-12 mesi prima degli incontri fra Russo e Romeo.
Così la corruzione uccide: parla il primo pentito delle grandi opere. Gallerie che possono crollare. Cemento che non tiene. Buchi nell’amianto. Un ingegnere che per più di vent’anni ha occupato una posizione strategica nella mappa delle infrastrutture nazionali rivela le tangenti che diventano un pericolo per il territorio e le persone, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 16 marzo 2017 su "L'Espresso". Perché le grandi opere costano sempre molti miliardi in più del dovuto? Come mai in Italia sono così frequenti crolli di viadotti, cedimenti di gallerie e altri disastri? Perché la Tav e gli altri mega-appalti ferroviari e autostradali sono al centro di continue retate per corruzione? A rispondere a queste domande, per la prima volta, è un super-tecnico interno al sistema: un ingegnere che per più di vent’anni ha occupato una posizione strategica nella mappa delle infrastrutture nazionali. Il primo pentito delle grandi opere. Giampiero De Michelis, nato in Abruzzo 54 anni fa, ha guidato i lavori dell’Alta velocità, i cantieri infiniti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e molti altri appalti, sempre con ruoli cruciali di “direttore dei lavori”: il primo e decisivo controllore pubblico delle imprese private. In ottobre è finito nel carcere di Regina Coeli con la retata (31 arresti) che ha coinvolto anche manager di colossi come Salini-Impregilo e Condotte. In novembre De Michelis ha cominciato a vuotare il sacco con i magistrati di Roma e Genova. Il suo è un racconto nero, che svela intrecci spericolati e dagli anni Novanta arriva ai nostri giorni, coinvolgendo ministri, grandi imprenditori, progettisti eccellenti, figli di politici e burocrati, funzionari di altissimo livello dello Stato. L’inchiesta di carabinieri e guardia di finanza mostra anche costi e danni della corruzione, con risvolti drammatici: intercettato prima dell’arresto, De Michelis parlava di «cemento troppo liquido: sembra colla».
“Deroga”: la parola magica. In carcere il pm genovese Paola Calleri gli contesta altre intercettazioni con parole pesantissime: «Sta venendo giù la galleria di Cravasco. E anche in quella di Campasso si sono arricciate le centine!». I magistrati, preoccupati, hanno chiesto una serie di perizie sui tre tunnel più importanti della nuova ferrovia Milano-Genova. Una prima consulenza è stata consegnata: gli esperti, per ora, escludono l’ipotesi di forniture tanto scadenti da provocare crolli. Le indagini sulla sicurezza però continuano e l’allarme resta altissimo. L’indagine è stata chiamata «Amalgama»: è la parola usata dagli stessi indagati, mentre erano intercettati dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma, per descrivere l’evoluzione del malaffare. Nella vecchia Tangentopoli la corruzione era diretta: buste di soldi in cambio di appalti d’oro. Oggi c’è una corruzione strutturata su almeno tre livelli, più difficile da scoprire. Il fulcro è ancora il controllore pubblico che favorisce una cupola di imprese privilegiate, che ora lo ripagano indirettamente, dividendo la torta con altre società private, attraverso subappalti, consulenze o compartecipazioni in apparenza regolari. Il trucco è che dietro queste aziende c’è lo stesso pubblico ufficiale, che le controlla segretamente tramite soci occulti. Con questi giochi di sponda, le grandi imprese comprano il controllore-direttore dei lavori, che a quel punto non controlla più niente. L’11 novembre 2016 De Michelis ammette di aver beneficiato di questo sistema corruttivo e confessa, in particolare, che era suo il 50 per cento della Oikodomos, un’azienda intestata a un socio-prestanome, l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, a sua volta arrestato in ottobre, ma conosciuto vent’anni fa nei cantieri della Salerno-Reggio. Confermando l’accusa-base, l’ingegnere delle grandi opere spiega che il sistema esiste da decenni e non l’hanno certo inventato lui e Gallo: «È sempre stato così. Prima c’era la Spm di Stefano Perotti. Dopo gli arresti di Firenze il sistema è continuato con la Crono e la Sintel di Giandomenico Monorchio. E prima ancora c’era Lunardi». Perotti è il progettista arrestato nel marzo 2015 con il potente direttore ministeriale Ercole Incalza. La Sintel è la società d’ingegneria dove lavorava De Michelis. Il suo titolare Giandomenico è il figlio di Andrea Monorchio, l’ex ragioniere generale dello Stato. L’ingegnere Pietro Lunardi è l’ex ministro del governo Berlusconi che nel 2002 ha varato la contestatissima legge-obiettivo per accelerare le grandi opere in deroga a tutte le regole. Qui il pm Giuseppe Cascini, titolare del fascicolo romano dell’inchiesta, interrompe l’interrogatorio per avvertire l’indagato che, se accusa altri, diventa testimone e, se dichiara il falso, verrà incriminato. De Michelis se ne assume la responsabilità e giura di voler raccontare tutto dall’inizio.
I disastri del progettista-ministro. «La storia nasce ancora prima che Lunardi diventi ministro, quando progettava le gallerie per l’alta velocità Bologna-Firenze», esordisce De Michelis. «Lunardi era il progettista che doveva garantire certi ricavi alle imprese private. Da allora il sistema è rimasto sempre lo stesso: il progetto è fatto male in partenza, così poi si devono fare le modifiche, le varianti, che portano soldi in più alle imprese. Anche l’autostrada Salerno-Reggio Calabria è un progetto di Lunardi fatto malissimo. Le perizie di variante le faceva lo stesso Lunardi. C’era un accordo a un livello molto più alto del mio, che coinvolgeva i vertici del consorzio di imprese: io l’ho saputo dal manager Longo di Impregilo». I magistrati gli chiedono riscontri oggettivi. Il tecnico arrestato descrive un caso esemplare di progetto disastroso targato Lunardi. Si riferisce alla galleria Piale, a Villa San Giovanni, sulla Salerno-Reggio. De Michelis premette che per iniziare uno scavo del genere bisogna puntellare la montagna «con paratoie e micropali». Una muraglia fondamentale per impedire le frane, per cui dovrebbe essere studiata al millimetro. Ricorda invece De Michelis: «Il capo-cantiere mi chiama e mi dice: “Ingegnere, qui non c’è niente, che facciamo?”. Sono andato a vedere: il progetto di Lunardi prevedeva più di 30 metri di paratoie e micropali dove in realtà non c’era la montagna, c’era solo il vuoto». De Michelis non crede ai suoi occhi. Bisognerebbe fermare tutto e chiedere una variante: allo stesso Lunardi. Soluzione: «A quel punto ho tirato una riga dritta, siamo scesi con i micropali lì dove arrivava la montagna e siamo andati avanti». De Michelis fa notare ai pm che il problema dei progetti variabili (e dei costi gonfiabili) è facilmente verificabile sulle carte: «Le varianti tecniche sono ammissibili solo per le gallerie. All’esterno le modifiche non dovrebbero esserci: se il progetto cambia, dovrebbero pagare le imprese private. Invece paga sempre la parte pubblica. Anche nel 2016, dopo le mie dimissioni dalla Sintel, hanno continuato imperterriti a fare varianti: me lo dicono i tecnici che sono ancora lì in cantiere». Appalti comprati a suon di tangenti, strade costruite con materiali scadenti e molto altro: sull'Espresso in edicola da domenica 12 marzo le rivelazioni di un super tecnico sulla corruzione nelle grandi opere. Con costi esorbitanti e rischi per la sicurezza di tutti. Queste accuse colpiscono il cuore del sistema dei “general contractor”, inaugurato con l’avvio della Tav nel 1991 dall’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci (morto dopo una condanna definitiva per corruzione) e poi perfezionato con la legge obiettivo di Lunardi. In sintesi, lo Stato delega tutto a un consorzio di imprese private, che gestiscono direttamente i soldi pubblici: in cambio, dovrebbero assumersi tutti i rischi, tecnici e finanziari, e consegnare l’opera finita, “chiavi in mano”, al prezzo prefissato. «In realtà non c’è mai un progetto chiavi in mano», sostiene De Michelis. «La legge prevede un’alta sorveglianza sui general contractor, che spetta all’Anas per le autostrade e all’Italferr-Rfi per la Tav, che dovrebbero controllare e approvare tutte le varianti che aumentano i costi. Ma tutta l’alta sorveglianza è finta. Per le mie opere Italferr non ha mai controllato niente». Quando è stato arrestato, De Michelis era il direttore dei lavori degli ultimi “macro-lotti” dell’autostrada Salerno-Reggio e della nuova Tav Milano-Genova. I magistrati gli chiedono se conosca altre grandi opere inquinate dal malaffare. La risposta è istantanea: «Il Brennero. Per i tunnel ferroviari di Aica e Mules, Perotti ha vinto la gara per la progettazione, mi pare nel 2008, con una falsa certificazione firmata dal manager Z. ex dirigente Fiat. Questo perché, per l’alta velocità Emilia-Toscana, il general contractor era il gruppo Fiat. Impregilo è nata dalla fusione tra Fiat-Impresit, Girola e Lodigiani». Tre aziende travolte da Tangentopoli. Il verbale integrale è discorsivo, De Michelis parla al presente storico: «Quindi l’ex manager Fiat gli fa questo certificato e lo manda a Impregilo. Io sapevo che la gara era finta: erano previsti certi requisiti che io come Sintel ero l’unico ad avere. Invece così vince Perotti, che ha dietro Incalza. Quindi Giandomenico Monorchio mi dice: “Adesso vado da Incalza con mio padre e vedo di ottenere qualcosa in cambio”. Infatti gli danno in cambio il progetto della Porto Empedocle in Sicilia, quello fatto dalla Cmc. Tolgono il lavoro a Perotti e lo danno a Sintel, senza gara, con affidamento diretto. E così Sintel non fa ricorso per i tunnel del Brennero». La superstrada al centro del presunto baratto è un’opera strategica per la Sicilia: il raddoppio della Caltanissetta-Agrigento. Va ricordato che in questo come in altri casi più gravi, De Michelis parla di appalti pubblici gestiti dalle imprese private senza alcun vincolo, grazie a una «norma criminogena», come viene definita nelle ordinanze d’arresto: un articolo della legge-obiettivo ha autorizzato le aziende controllate a scegliersi il controllore-direttore dei lavori (e a pagargli legalmente un ricco compenso). Una norma-scandalo che ha trasformato le grandi opere in un festival dei conflitti d’interesse ed è stata abolita con il nuovo codice degli appalti sollecitato nel 2014 dall’autorità anti-corruzione. Proprio le scelte dei progettisti, controllori e subappaltatori permetterebbero ai privati, ieri come oggi, di agganciare i grandi protettori a livello di governo, che De Michelis definisce «santi in paradiso». «Il sesto macro-lotto della Salerno-Reggio l’ha vinto la cordata Impregilo-Condotte, che è la stessa del Cociv, il consorzio dell’alta velocità Milano-Genova. Allora l’affare comprendeva tutto: general contractor e direzione lavori. A quella gara globale, gestita dall’Anas, ho partecipato io come persona fisica su richiesta di Impregilo. Però poi il contratto l’hanno fatto alla Sintel, che mi ha confermato, ma come dipendente. Bisognava dare la direzione lavori alla società del figlio di Monorchio perché il padre era al vertice di Infrastrutture spa, cioè era lui che decideva i finanziamenti pubblici, e poi è diventato anche presidente della commissione di collaudo. Quindi in pratica è Monorchio senior che impone il figlio. Lo stesso succedeva con la Spm: era Incalza che sbloccava i finanziamenti e di fatto imponeva Perotti. Monorchio padre e Incalza erano i santi in paradiso di Sintel e Spm». I pm gli chiedono come fa a saperlo. Risposta: «Me l’ha detto personalmente Monorchio figlio, titolare della Sintel». Anche dietro la Spm ci sarebbero storie di famiglia: «Il padre di Perotti aveva fatto lavorare Incalza, il rapporto è nato da lì». Nelle sue lunghe confessioni, il pentito indica ai magistrati un’altra società che sarebbe stata utilizzata dalle imprese delle grandi opere per arricchire Monorchio junior: «Il consorzio di Impregilo ha affidato alla Crono le prove di laboratorio per i cantieri della Salerno-Reggio. Sono contratti da cinque milioni di euro. Che la Crono fosse di Monorchio lo sapevano tutti». Giandomenico Monorchio, finito agli arresti domiciliari, nega di aver commesso illeciti e sostiene di non aver mai approfittato dei poteri pubblici del padre. Anche Perotti e Incalza, a Firenze, hanno respinto tutte le accuse. Lunardi non è neppure indagabile: i fatti a lui addebitabili sono ampiamente prescritti. Fino a prova contraria, dunque, bisogna presumere che siano tutti innocenti. Anzi, dopo Tangentopoli, è sparito il reato: la spartizione privata dei lavori pubblici si può fare a norma di legge.
Il metodo dei santi in paradiso. De Michelis conferma ai magistrati di possedere addirittura la copia di un patto segreto per dividersi i progetti in tutta Italia, siglato quando Impregilo era controllata dal gruppo Gavio, prima di essere scalata dalla Salini: «È un accordo scritto per la spartizione delle direzioni dei lavori tra la Sintel, la Spm e la Sina che allora era di Gavio». Questo sistema spartitorio nato dopo Tangentopoli, secondo l’ex direttore delle grandi opere, rende inutile o quantomeno marginale la corruzione classica. Quando i magistrati gli chiedono se Monorchio junior, per avere quei contratti, abbia pagato tangenti, De Michelis risponde così: «Non sono cose che si dicono. A volte Monorchio mi diceva che doveva fare un regalo, certo, ma solo questo. Di più non so. Ma in questo sistema non c’è più bisogno delle buste di denaro. Dietro Sintel e Spm ci sono i santi in paradiso. Se non davano i lavori a loro, Monorchio padre e Incalza non finanziavano i progetti». De Michelis, in pratica, ammette di aver dirottato sulle società dell’amico Gallo gli appalti che prima finivano a Monorchio e prima ancora venivano spartiti con Perotti. Di qui le proteste degli imprenditori intercettati: «Abbiamo creato un mostro!». Un’affermazione a doppio taglio: nelle grandi opere c’è un mostro che divora soldi, ma è stato creato dalle stesse aziende che lo pagano. De Michelis parla anche della massa di subappalti gestiti direttamente dai general contractor. E mette a verbale i nomi di vari dirigenti di Impregilo che avrebbero incassato tangenti dai subappaltatori («Me l’hanno detto loro stessi»), uno dei quali è soprannominato «mister 3 per cento». L’ingegnere arrestato denuncia anche una cordata di manager che si arricchirebbero da anni con «ruberie enormi»: una «Impregilo parallela», la chiama De Michelis, chiarendo che «nel gruppo ufficiale comanda Pietro Salini», mentre «lì comanda il signor C., in passato ha avuto un ruolo di peso nella gestione della tratta toscana dell’alta velocità, ora ufficialmente è solo un consulente esterno, ma in realtà è a capo di un ordine gerarchico: c’è, ma non compare». Le grandi opere, precisa il pentito, producono colossali quantità di detriti e terre di scavo che dovrebbero essere accumulate in «cave di deposito», per essere poi rivendute e ridurre i costi. «Dai cantieri escono i camion con tonnellate di materiale, ma nelle cave ufficiali non arriva niente: quelli dell’Impregilo parallela intascano milioni rubandosi gli inerti e rivendendoli in nero». Anche questa «Impregilo parallela» nascerebbe da rapporti di famiglia. De Michelis, infatti, spiega che il signor C. era «amico del papà» di un manager arrestato di Impregilo: «È lui che gli ha fatto assumere il figlio nel consorzio per l’alta velocità». Per questo l’erede continua ancora a obbedire a quella «eminenza grigia di Impregilo». De Michelis aggiunge che aveva chiesto «un incontro a Pietro Salini, per fargli sapere della struttura parallela che aveva dentro Impregilo, perché avevamo tutti il dubbio se lui sapesse o no. Salini però non ha voluto vedermi». Questo presunto contrabbando di materiale da cava, sostiene De Michelis, sarebbe proseguito anche in Liguria, con le gallerie del Terzo valico. Ma qui emergono profili più inquietanti.
Emergenze amianto e cemento. «Il problema più grosso, per il consorzio guidato da Salini-Impregilo, è l’amianto, soprattutto per la parte ligure», denuncia il pentito. Anche i magistrati, nelle domande, parlano di materiale «marcio». E l’arrestato conferma che le terre dove si scava per la nuova Tav sono altamente contaminate dall’amianto: «Ce n’è tanto», sostiene l’ingegnere. La legge impone di analizzare tutto il materiale e smaltirlo in totale sicurezza. Il direttore dei lavori però non sa neppure dove sia finito con esattezza. Salvo poi indirizzare gli inquirenti verso una cava, la Isoverde, tra le più grandi della Liguria. «Poi parliamo anche di questo», lo blocca il pm, che sembra molto interessato alla questione. Ma preferisce trattare in successivi interrogatori questo capitolo che potrebbe riservare brutte sorprese per il territorio. Probabile, dunque, che l’ingegnere venga riascoltato per chiarire i misteri dello smaltimento delle fibre di amianto. In questo mare di ammissioni, tuttavia, De Michelis nega ostinatamente solo l’accusa di aver diviso con Gallo anche i soldi di società come la Breakout, che forniscono cemento. «È vero che presentavo Gallo alle grandi imprese e portavo i manager a vedere le sue cave, ma lo facevo gratis, per amicizia. Per la Oikodomos facevamo al 50 per cento, ma con la Breakout io non c’entro». Una posizione che ai magistrati sembra assurda: che senso ha ammettere la corruzione con alcune società e negare la stessa accusa con le altre? Proprio qui l’ingegnere minimizza anche le intercettazioni sul cemento scadente: «È un problema di consistenza, non di qualità. Mandavo indietro i camion solo per rifare le bolle formali». Il pm Cascini non gli crede: «Perché quando viene fuori che il cemento è colla o è troppo liquido, lei cerca di evitare che emerga?». La domanda resta senza risposta. Forse perché è un segreto inconfessabile: chiunque ammettesse di aver usato cemento pericoloso, rischierebbe di rispondere non solo di corruzione, ma anche delle eventuali vittime di nuovi crolli di grandi opere.
L'imprenditore: «Chi parla viene perseguitato». Ha testimoniato contro un vice sindaco corrotto. «Ma le ritorsioni sono state e sono tutt'ora all'ordine del giorno», scrive Paolo Biondani il 16 marzo 2017 su "L'Espresso". La corruzione esiste anche nei paesi più civili, dove però vale una regola che la frena: chi sbaglia, paga. Nei paesi meno civili la regola è rovesciata: i corrotti hanno altissime probabilità di assicurarsi l’impunità, che in Italia è garantita dalle favolose norme sulla prescrizione. A rischiare il peggio, invece, è chi denuncia il malaffare. Soprattutto se al potere c’è ancora la stessa parte politica che ha espresso i governanti corrotti. Alessandro Leardini è un ricco imprenditore di Verona, Italia. Nel novembre 2013, convocato dalla polizia, ha confermato di essere stato taglieggiato per anni da un politico in gran carriera: il vicesindaco Vito Giacino, a cui il sindaco ex leghista Flavio Tosi, tuttora in carica, aveva concesso pieni poteri di assessore all’edilizia e all’urbanistica. Nella città dell’Arena, come in tutto il nostro Paese, gli imprenditori edili sono in balia della politica, che ha il potere assoluto di decidere chi, dove, cosa e quanto si può costruire. Tra i sette imprenditori sospettati di aver dovuto pagare il turbo-assessore, solo Leardini ha avuto il coraggio di testimoniare. Giacino è stato condannato sia in tribunale a Verona che in appello a Venezia per concussione, che è una variante politica del reato di estorsione. I giudici, che hanno confermato la serietà e l’attendibilità di Leardini, gli hanno finora concesso un rimborso di 20 mila euro, circa un ottavo degli oltre 160 mila euro intascati dal politico attraverso false consulenze intestate alla moglie: un risarcimento “morale” che diventerà effettivo solo se e quando la doppia sentenza verrà confermata anche in Cassazione. Occhiali, barba curata, vestito con sobria eleganza, Leardini racconta la sua esperienza all’Espresso con molta cautela, soppesando le parole.
Perché ha deciso di denunciare quel politico?
«Non ho denunciato nessuno. Sono stato convocato come testimone, per far luce su gravi fatti su cui la procura indagava già da diversi mesi. A quel punto avevo solo due possibilità: negare tutto, raccontando un sacco di frottole e diventando in qualche modo complice del malaffare, oppure raccontare la verità. Nei mesi precedenti, per altro, avevo avuto una forte discussione con Giacino: avevo già detto a lui stesso che la situazione per me era diventata insostenibile».
Lite che coincide con il suo rifiuto di continuare a pagare. La sua scelta ha provocato vantaggi o svantaggi alle sue imprese?
«I costi diretti sono costituiti dalle spese legali sul piano penale, civile e amministrativo. Sono cifre importanti, ma di poco conto rispetto ai costi indiretti: le ritorsioni sono state e sono tutt’ora all’ordine del giorno. Le mie pratiche edilizie vengono rallentate, sospese, bocciate. Potrei documentare tantissimi esempi di progetti ostacolati con i pretesti più inimmaginabili. Il tutto associato alla fortissima crisi iniziata nel 2008 e che soltanto ora, almeno per le mie aziende, manifesta i primi sintomi di ripresa».
Davanti al tribunale lei ha precisato che le sue pratiche superano tutte le valutazioni tecniche, ma vengono fermate dai politici. E ora un altro assessore di Tosi minaccia di denunciarla: è preoccupato?
«Per nulla. Anzi, spero che si apra un processo per fare chiarezza anche su questo aspetto della vicenda. Visto che non riesco a spiegarmi i sistematici rallentamenti e dinieghi sulle mie pratiche, non escludo di essere io il primo a intraprendere azioni legali».
Sul piano umano e sociale, è stato un problema testimoniare contro un politico che aveva in mano la città?
«È stata senza dubbio una scelta molto ponderata e sofferta. Quando sono stato convocato dalla procura ho passato una notte insonne. Nemmeno le persone a me più vicine erano a conoscenza del reale contenuto dei miei rapporti con Giacino. Ho riflettuto a lungo, elencando a me stesso le conseguenze positive e negative di una scelta e dell’altra. Sapevo che avrei subito pesanti ritorsioni. Ma ho deciso di agire secondo coscienza. Poi ci sono stati periodi molto difficili in cui colleghi, amici o presunti tali, semplici conoscenti mi evitavano. Forse questa è la reazione che ho fatto più fatica a comprendere e ad accettare».
Lei sa che la poliziotta Margherita Taufer, dopo aver guidato questa inchiesta, ha subito un’incredibile catena di misure disciplinari puntualmente annullate dai giudici?
«L’ho appreso in occasione della sua testimonianza al mio processo. È un fatto che mi ha molto colpito».
Le sentenze la dichiarano vittima di un sistema concussivo, parlano di un tariffario di tangenti calcolate al metro quadrato e di parcelle molto sospette versate anche da altri imprenditori: perché nessun altro ha avuto il coraggio di testimoniare?
«Perché sono situazioni e vicende che cambiano il corso della vita».
Luca Magni, l’imprenditore che 25 anni fa fece scoppiare Tangentopoli, ha visto fallire la sua impresa e si è pentito di aver testimoniato. Oggi lei lo rifarebbe?
«Senza alcuna esitazione. Agendo diversamente, avrei dovuto rimanere per sempre succube di un vicesindaco. Ora sono una persona serena e sono determinato a continuare a lottare per far valere i miei diritti di cittadino e di imprenditore».
Tra poche settimane a Verona si vota per la nuova amministrazione: cosa augura ai cittadini?
«Di non trovarsi mai nella mia situazione. Di godere di buoni servizi senza dover prezzolare nessuno, di avere un’amministrazione che lavora solo nell’interesse della città, di poter entrare in contatto con la politica senza paure, ansie e turbamenti. In sostanza, auguro a tutti di essere semplicemente cittadini e non sudditi».
Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 29 novembre 2016 su "L'Espresso". Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli. Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.
L’Italia della Banda Bassotti. Dall'Expo al Mose, dalla Pedemontana al tunnel del Brennero: viaggio tra le infrastrutture che dovrebbero modernizzare il Paese. E che invece sono diventate la mangiatoia di politici e tangentisti. Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti». Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana. Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.
Il “mostro” e l’amico calabrese. Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte. E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.
Il figlio dell’uomo di Stato. Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione. La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali». Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto cazzo di contratto?», chiedeva il primo. Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».
Lunardi e la legge obiettivo. Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”. La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.
La mangiatoia di Venezia. L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale. Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.
Milano tra Expo e Mose. L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio. Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati. «Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».
L’autostrada dimezzata. La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria. Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana. Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.
I big agli atti. Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo. Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».
Ricatto al sistema. A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio. De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.
GRANDI OPERE. TAV, AUTOSTRADE E LA SOLITA CORRUZIONE.
Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 29 novembre 2016 su "L'Espresso". Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli. Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto. Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti». Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana. Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova. Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte. E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici. Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione. La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali». Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto cazzo di contratto?», chiedeva il primo. Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!». Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”. La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo. L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale. Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema. L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio. Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati. «Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto». La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria. Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana. Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015. Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo. Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino». A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio. De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.
La precisazione di Cefla e Manutencoop e la risposta de L'Espresso.
In merito a quanto riportato nel box a pagina 50 dell’articolo “Corruzione in corso” (l’Espresso n. 47), Manutencoop Facility Management precisa che né la società né alcun dipendente è stato mai condannato, tantomeno in via definitiva, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta “Città della Salute” di Sesto San Giovanni. Manutencoop Facility Management.
Il grafico sugli appalti Expo pubblicato a pagina 50 a corredo dell’articolo “Corruzione in corso” (l’Espresso n. 47) può dare adito a interpretazioni non corrette: precisiamo quindi che la società cooperativa Cefla non è mai stata condannata, né indagata per tali vicende. Cefla è stata senz’altro aggiudicataria, assieme ad altre imprese, degli appalti citati, per i quali si sono manifestati problemi, ma tali problemi non hanno interessato in alcun modo la scrivente azienda. Cefla Società Cooperativa
Il grafico si riferiva alle condanne di tre imputati, i soli nominati nell’articolo: Enrico Maltauro, Primo Greganti, Gianstefano Frigerio. Le tre sentenze definitive, datate 27 novembre 2014, spiegano che la società di Maltauro ha versato tangenti come «capofila di un raggruppamento d’imprese» e «nell’interesse» di tutte le consorziate. Cefla e Manutencoop non sono complici di alcun reato, quindi, ma sono indicate (dai giudici) come beneficiarie indirette delle corruzioni organizzate da Maltauro. L'Espresso
Quanto piacciono le grandi opere alla mafia. I clan hanno lavorato in quasi tutti i cantieri d'Italia. Piccoli e grandi. Da Sud a Nord. Expo, Tav, autostrade. E persino per le opere propedeutiche al ponte sullo Stretto. Una storia italiana che si lega all'inchiesta "Corruzione in corso" su l'Espresso in edicola, scrive Giovanni Tizian il 18 novembre 2016 su "L'Espresso". Expo, Salerno-Reggio Calabria, Alta velocità. E persino le opere preliminari per il ponte sullo Stretto. Grandi opere, grandi affari. Per pochi, non per tutti. In questa fortunata cerchia rientrano le aziende delle cosche. E dato che le vie del riciclaggio sono infinite, seguirle conduce spesso a indirizzi che non ti aspetti. In fondo, è ciò che ha fatto la procura antimafia di Roma: sentendo puzza di denaro sporco col timbro dei clan di 'ndrangheta, ha illuminato quei canali ritrovandosi a un certo punto del viaggio nel bel mezzo dei cantieri delle grandi opere italiane. La scintilla dell'ultima inchiesta "Amalgama" è proprio questa, un tremendo puzzo di quattrini lerci che ha portato gli inquirenti sulla pista di un sistema in cui i protagonisti principali della storia sono manager dei più importanti colossi delle costruzioni, ingegneri esperti di direzione lavori, imprenditori che collezionano subappalti nelle grandi opere. Al centro di tutto c'è lei: la signora Mazzetta. Che da Tangentopoli in poi ha subito un'evoluzione costante, fino a trasformarsi in un do ut des fatto non tanto di scambi di denaro liquido, ma di favori in cambio di appalti, consulenze, incarichi. Sull'Espresso in edicola da domenica l'inchiesta "Corruzione in corso" mostra, attraverso documenti inediti, il Sistema che si arricchisce, in maniera illecita, lucrando con le infrastrutture strategiche per il Paese. Riciclaggio mafioso, dicevamo. I clan, nel settore delle costruzioni, hanno sempre detto la loro. Difficile trovare una grande o piccola opera in cui direttamente o indirettamente le imprese dei boss non abbiano lavorato. La storia dei cantieri italiani è costellata di padrini in doppio petto e con la partita iva che si sono inseriti nel business del calcestruzzo. Talmente normale, che anche i media non ci fanno quasi più caso. È notizia di pochissimi giorni fa, per esempio, la retata che ha portato in carcere l'estesa rete di fiancheggiatori del boss di Reggio Calabria Domenico Condello, detto "Micu u pacciu". Un'inchiesta durata alcuni anni che, oltre ad azzoppare il livello militare, ha svelato il network di aziende della galassia Condello. E proprio una di queste ha lavorato - agli atti c'è persino il numero di contratto stipulato - per il consorzio Eurolink, il gruppo di società composto in primis da Salini-Impregilo, Società Condotte d'Acqua e Cmc, che dovrà realizzare il ponte sullo Stretto. Eurolink ha affidato nel 2010 l'esecuzione di alcuni lavori alla cordata costituita da Teknosonda, Calabrese Pasquale e Calabrese Antonio per un valore, stimano gli investigatori, di oltre 1 milione di euro.La commessa riguarda la cosiddetta "Variante ferroviaria di Cannitello", un lavoro propedeutico alla grande opera dello Stretto. Non è raro che aziende sospette riescano a bucare i controlli, insinuandosi persino laddove esistono protocolli antimafia, all'apperenza molto severi, in pratica facili da aggirare. Sempre nella stessa indagine della procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho, il Ros dei carabinieri ha individuato altre imprese legata al clan Condello all'interno dei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. In particolare nel sesto macrolotto, che arriva fino a Campo Calabro. Lo stesso pezzettino al centro delle inchiesta romana "Amalgama" sulle grandi opere. Anche in questo caso il general contractor era composto da Salini-Impregilo e Società Condotte d'Acqua. Se lasciamo la Calabria, direzione Lombardia, Milano, la situazione non migliora. Anzi. Per l'Expo 2015, è stato accertato come la 'ndrangheta abbia realizzato numerosi lavori. Dai padiglioni a lavorazioni legate al maxi appalto della Piastra sulla quale poi sono stati montati i vari stand del mondo. Anche sull'Esposizione universale la magistratura ha indagato. I pm di Milano per quel che riguarda il filone delle tangenti, Reggio Calabria per le infiltrazioni mafiose. Ancora una volta corruzione e mafia si mostrano per quello che sono: due facce della stessa medaglia in un Paese esausto e la cui crescita è bloccata da un mercato che privilegia i furbetti e non i più competenti. Persino nel cantiere militarizzato della Torino-Lione, il Tav che taglierà in due la Val di Susa, le 'ndrine sono riuscite a infilare i propri uomini. Emerge, per esempio, dall'indagine del Ros dei carabinieri e della procura antimafia di Torino. Mafia ad alta velocità, non esattamente una novità. Stesso copione lo ritroviamo nelle tratte Torino-Milano, Bologna-Parma, Napoli-Roma. Imprenditori delle organizzazioni che si sono occupati principalmente di lavorazioni specifiche, movimento terra in particolare ma non solo. Dell'intreccio tra mafie e corruzioni, ne ha di recente parlato la procura nazionale antimafia. Nella sua ultima relazione ha denunciato quanto le organizzazioni mafiose siano ormai dentro i sistemi corruttivi. E che al piombo, i padrini preferiscono la mazzetta quale principale strumento di entrata nei circuiti che contano. Insomma, prima provano a comprare il dirigente, il tecnico, il manager e, in caso di rifiuto, rispolverano i vecchi arnesi del mestiere. Ma è l'inchiesta della procura di Roma coordinata dal pm Giuseppe Cascini che rivela ancora una volta la saldatura tra i due mondi: corrotti e mafiosi sulla stessa barricata. Nelle informative dei carabinieri della Capitale c'è più di qualche indizio. Come per esempio il passaggio in cui Giampiero De Michelis, l'ingegnere dai mille incarichi, detto anche il "Mostro" dai manager dei general contractor, fa riferimento a un suo collaboratore. Tale Pasquale "Lillo" Carrozza. Chi è "Lillo"? È un geometra, «già dipendente della Società Condotte d'Acqua con la qualifica di capo cantiere presso i lavori di costruzione della Salerno-Reggio Calabria. Tratto in arresto dall'antimafia reggina nel 2012 per associazione mafiosa, truffa, frode nelle pubbliche forniture». Ecco cosa dicono di lui De Michelis e un altro intercettato: "Lillo", in pratica, accompagnava alcuni boss della 'ndrangheta in Anas e agli stessi capi bastone forniva le proprie utenze telefoniche per fare chiamate riservate. Ma, stando al racconto dei due, Carrozza era considerato «l'intermediario tra la società Condotte e la 'ndrangheta». De Michelis è un professionista stimato. Non per niente era dentro la società di ingegneria Sintel, di Giandomenico Monorchio, figlio del più noto Andrea, ex ragioniere generale dello Stato, poi in Infrastrutture Spa e ora ingaggiato da Salini Spa come presidente del collegio sindacale.
Falsi certificati per Tav e autostrade: tra i 21 arresti per corruzione anche il figlio di Monorchio. Tra gli arrestati nell’ambito dell’inchiesta romana c’è anche Giandomenico Monorchio, imprenditore e figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea. Indagato a piede libero Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, scrivono Giovanni Bianconi e Raffaella Cagnazzo il 26 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Ci sono anche i nomi di Giandomenico Monorchio, imprenditore e figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato, Andrea, e Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture tra le persone raggiunte dal provvedimento di custodia cautelare della Procura di Roma. Ma mentre Monorchio è già stato arrestato, Lunardi risulta indagato a piede libero. L’inchiesta portata alla luce da un’indagine della Procura di Roma e dai carabinieri del Comando provinciale della Capitale che ha portato all’arresto di 21 persone tra Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria. Secondo gli inquirenti, il direttore dei lavori di grandi appalti per la realizzazione di alcune tratte autostradali e dell’alta velocità ferroviaria era pronto a chiudere un occhio – o tutti e due – per certificare la regolarità delle opere, in cambio di subappalti per forniture e opere connessi a società riconducibili a se stesso. I contratti interessati erano nell’ambito dei lavori per la realizzazione della tratta Tav Milano - Genova, 6 Macrolotto dell’Autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria e della People Mover di Pisa. Altre 14 le ordinanze di custodia cautelare eseguite dalla Guardia di Finanza di Genova su ordine del Gip del Tribunale di Genova, per corruzione, concussione e turbativa d’asta, nei confronti di alcuni imprenditori e di dirigenti di un consorzio - General Contractor - che sta realizzando la linea ad alta velocità sul Terzo Valico dei Giovi, di importanza strategica per il Paese. Tre gli arrestati, quattro persone arrestate legano i due filoni di inchiesta: l’indagine dei Carabinieri nasce da uno stralcio dell’inchiesta su Mafia Capitale e riguarda anche 4 persone che avrebbero avuto a che fare con i lavori del Tav ligure e che sono appunto destinatari del provvedimento della procura di Genova nell’inchiesta sul Terzo valico. Si tratterebbe di Michele Longo ed Ettore Pagani, presidente e vicepresidente di Cociv, l’ingegnere Giampaolo De Michelis e l’imprenditore Domenico Gallo. Al centro del meccanismo l’ingegnere Giampiero De Michelis, considerato il «promotore e organizzatore» della banda insieme all’imprenditore calabrese Domenico Gallo. Era lui che, incaricato della direzione dei lavori dal «contraente generale», svolgeva compiacenti controlli di qualità e rilasciava certificati dove si affermava il falso, ottenendo come contropartita «commesse per beni e servizi» fatturati a ditte riferibili a parenti o amici. «Il vincolo criminale ha un forte addentellato anche nel rapporto familiare», annota il giudice nel provvedimento d’arresto. Secondo quanto accertato dagli investigatori, il sodalizio tra il direttore dei lavori e il suo socio imprenditore calabrese sarebbe riuscito a ottenere dalle ditte esecutrici dei lavori contratti, tra consulenze, commesse e forniture, oltre 5 milioni di euro a favore delle aziende a loro riconducibili. A spiegare come funzionava il meccanismo, nella ricostruzione dei carabinieri, sono le intercettazioni dei dialoghi dei due principali protagonisti e di altri personaggi coinvolti nell’inchiesta. Come questa dell’aprile 2015, nella quale Gallo dice a un coindagato: «Chi fa il lavoro… la stazione appaltante… i subappaltatori… deve crearsi l’amalgama, mo’ è tutt’uno… Perché se ognuno tira e un altro storce non si va avanti… Quando tu fai un lavoro diventi… parte integrante di quell’azienda là… E devi fare di tutto perché le cose vadano bene… è giusto?». Nel resoconto degli investigatori, poco dopo lo stesso Gallo si stupisce perché l’interlocutore credeva che i controlli sui lavori venissero svolti secondo le regole: «Ah, perché pensavi che erano…». Quello risponde «Io sì», e Gallo chiarisce: «Nooo… non pensare…. Chi pensa male fa peccato ma non sbaglia mai». «Cemento che sembra colla» dice in un’intercettazione un altro degli indagati nell’inchiesta romana sulle grandi opere in una conversazione intercettata, riferendosi a lavori eseguiti con materiali scadenti. Nella cosiddetta «amalgama» il ruolo di corrotti e corruttori quasi si confonde, dando vita a un contesto di reciproca convenienza tra chi paga il prezzo di concedere subappalti alle imprese indicate dal direttore dei lavori, garantendosi così le verifiche favorevoli che consentono di continuare a lavorare e accaparrarsi altri appalti. È ancora Gallo a spiegare questo concetto di collaborazione fondata sulla corruzione, in un altro colloquio registrato dai carabinieri: «Le loro aziende hanno un orticello loro e cose… però… in joint venture con l’ingegnere (cioè De Michelis, secondo gli inquirenti, ndr) … L’ingegnere è tosto, non è che l’ingegnere, se non passano dalla strada giusta… fa alla lettera il suo lavoro e vuol dire che è meglio che rinunciano… che si buttano a mare…». Tra gli indagati, appunto, due nomi illustri. Nell’elenco delle persone arrestate su ordine della Procura di Roma c’è il nome di Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello Stato, in carica dal 1989 al 2002. Monorchio, classe 1970, ha fondato la Sintel Engineering nel 1998. Tra gli incarichi svolti dalla società, si legge sul sito internet,: direzione, responsabilità e coordinamento dela sicurezza dei lavori dell’ammodernamento del Radar di rotta dell’aeroporto di Bologna e dello scalo di Milano Malpensa; i laboratori di cantiere del progetto Mose al porto di Venezia; la direzione lavori della Palermo Lercara Friddi; la direzione lavori di adeguamento a quattro corsie dell’Agrigento Caltanissetta e del tronco Torino Novara est della A4; il coordinamento della sicurezza della Sede Fintecna di Trieste; la direzione lavori della linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Napoli nella tratta Bologna-Firenze e la direzione lavori e assistenza tecnico amministrativa della Linea ad alta Velocità Milano-Genova, III Valico dei Giovi. Indagato a piede libero Giuseppe Lunardi, figlio di Pietro, ex ministro delle Infrastrutture e Trasporti per il Pdl tra il 2001 e il 2006. Giuseppe, ingegnere, è responsabile di Rocksoil, azienda di progettazione di cui è proprietaria la famiglia Lunardi. Fondata nel 1979, la società si occupa di progettazione, consulenza, assistenza tecnica di opere di ingegneria civile.
Tav e autostrade: «Vuole subito i 45 milioni? Chiami zio Paperone». Nelle parole di Giampiero De Michelis c’è la sintesi del meccanismo per l’aggiudicazione degli appalti legati alle Grandi opere. L’ingegnere è considerato il «promotore e organizzatore» della presunta associazione per delinquere, scrive ancora il 26 ottobre 2016 Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera. «Loro sanno benissimo, le imprese... Le imprese sanno come si devono comportare... C’hanno pochi soldi, no? ... So’ disorganizzati, ma mica so’ stupidi... A te ti capiscono come si de..., che cosa gli conviene fare... Loro devono capire che il servizio è omnicomprensivo». Nelle parole di Giampiero De Michelis c’è la sintesi del meccanismo: le imprese che volevano da lui, direttore dei lavori, un trattamento compiacente, dovevano affidare sub appalti alle ditte indicate dallo stesso De Michelis. L’ingegnere è considerato il «promotore e organizzatore» della presunta associazione per delinquere messa in piedi per corrompere ed essere corrotti nell’aggiudicazione e gestioni degli appalti legati alle Grandi opere. «Servizio omnicomprensivo», dunque: prendi e dai. Che il giudice per le indagini preliminari, nell’ordine d’arresto eseguito ieri, riassume in un una «gravissima commistione di interessi tra controllori e controllati, nella quale l’unico collante è dato dal perseguimento dei profitti illeciti in danno della collettività». Il sospetto «socio occulto» di De Michelis, l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, esprime lo stesso concetto in altre parole: «Le loro aziende, hanno un orticello loro e cose ... però... in joint venture con l’ingegnere». Anche perché, altrimenti, i controlli del direttore dei lavori sarebbero di tutt’altra severità. E dall’esito poco conveniente: «L’ingegnere è tosto... se non passano dalla strada giusta... fa alla lettera il suo lavoro e vuol dire che è meglio che rinunciano... che si buttano a mare». In un’altra conversazione Gallo cita «l’amalgama», ma al di là delle definizioni il sistema è abbastanza chiaro. Così funziona una fetta di lavori pubblici in Italia, secondo le intercettazioni dei dialoghi dei protagonisti. Se si tratta di indizi sufficienti a diventare prove della responsabilità delle persone arrestate si vedrà nel corso dell’inchiesta e dell’eventuale processo; intanto l’apparente trama per lucrare indebitamente sulle Grandi opere emerge dalla viva voce di imprenditori e manager impegnati nei cantieri del Terzo valico dell’Alta velocità, o nell’ultimo tratto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E risale a molto tempo fa. Ne parla Ettore Pagani, direttore generale del Consorzio Cociv (dove la Salini Impregilo è presente con il 63 per cento delle quote), con un altro manager del gruppo, sempre a proposito dei comportamenti e delle richieste di De Michelis: «Purtroppo siamo stati noi ad aver abituato questa gente a operare in un certo modo, e in passato lo abbiamo fatto su Cavet soprattutto. (…) Lui viene da lì... Lo abbiamo fatto sulla Salerno-Reggio e da altre parti ancora... Va bè, il vero problema è che sono cambiati i tempi e loro non riescono a capirlo... Diventa un po’ un pasticcio». Dunque lo scambio tra direttori di lavori e imprese controllate, attraverso sub-appalti pilotati, sarebbe di antica data, ammette Pagani: «Non è la prima volta che fa queste cose, e noi diciamo che lo sappiamo ma non lo sappiamo... Però lo sappiamo... Le abbiamo gestite anche noi queste cose, anche io... però non c’erano parenti, non c’erano collegamenti così palesi». Stavolta, invece, sono quasi diretti: tra le aziende a cui affidare le commesse imposte dal direttore dei lavori alle ditte da controllare, ce n’è una riferibile alla figlia di De Michelis, Jennifer. Proprio con Cociv, nella primavera del 2015, secondo gli inquirenti De Michelis mostra un «atteggiamento compiacente» quando si dichiara pronto a certificare uno stato di avanzamento dei lavori (Sal) gonfiato. L’ingegnere si mostra subito disponibile: «Vabbé, se Italfer è d’accordo non è quello il problema... si straccia tutto e si rimette, a fare si può fare». E il giorno dopo si parla di cifre: «Fare 23 milioni di Sal in più, non sono spicci... Erano i 40 che, hai capito che si aspettavano, no?», dice De Michelis a un suo collaboratore. Ventiquattr’ore più tardi viene intercettato uno scambio di sms tra De Michelis e Pagani che i magistrati considerano piuttosto eloquente.
De Michelis: «Ettore, totale 45».
Pagani: «Ma 45 sono l’extra di giugno o è compreso il Sal lavori?».
De Michelis: «Esagerato, 17 vecchio più recupero 45 totale».
Pagani: «Ma lo zio Pietro ha chiamato che li vuole tutti e subito. Sigh».
De Michelis: «Digli che chiami zio Paperone, oppure la Banda Bassotti».
Nella ricostruzione dell’accusa, per un periodo De Michelis s’è mosso in combutta con Giandomenico Monorchio, che come amministratore della società Sintel incaricata della direzione dei lavori sul Terzo valico aveva individuato De Michelis per quel ruolo. Nella seconda metà del 2015, però, l’ingegnere comincia a muoversi autonomamente, creando allarme nell’ambiente. È ancora Pagani a rivelare che «lui si sta mettendo in proprio, anziché farlo con Giandomenico lo fanno loro... È un mostro che abbiamo creato noi... poi ho paura che possa diventare un problema». La rottura tra Monorchio e De Michelis arriva a provocare l’estromissione dagli incarichi del secondo decisa dal primo. De Michelis vuole essere reintegrato, e si muove in modo tale che ora è scattata l’accusa di estorsione ai danni di Monorchio. Il cui nome compariva, seppure di sfuggita, nelle carte dell’indagine di Firenze sull’Alta velocità, sfociata negli arresti del marzo 2015. A dicembre De Michelis lancia la sfida tramite Pagani: «Io un po’ di cazzi li so (e ride, annotano i carabinieri, ndr)... Siccome sono stato qualche giorno fa a Firenze, no? E quello mi ha detto “ma ingegnere, lei è sicuro di non sapere come stanno queste cose?”... Io dico no, non so niente... Però posso ricordarmi». Pagani aveva già intuito a chi era rivolta la minaccia: «Riferirò, tu parli al nuoro perché suocero intenda». Ma lo aveva avvertito: «Stai attento anche tu, perché... quando si fa il botto ci si può anche finire dentro». Tuttavia l’ingegnere sembra deciso ad andare avanti. A gennaio va a parlare con un maresciallo dell’Arma a Firenze, e all’uscita confida alla moglie: «Io c’ho una lettera... in cui si spartiscono i lavori... Ci sta scritto che fanno 50 per cento a Sina (Società iniziative nazionali autostradali, ndr), 3o per cento a Monorchio e 20 per cento a me». In un’altra occasione De Michelis si sfoga contro Monorchio: «Lo voglio vedere in galera». Ieri ci sono finiti tutti e due.
Grandi opere, 30 arresti per Tav Milano-Genova e A3. In carcere anche il figlio di Monorchio. Carabinieri e Guardia di Finanza davanti alla sede Cociv a Genova: in corso le perquisizioni. Il gip: "In alcune strutture il cemento sembra colla". Tra gli indagati Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro alle Infrastrutture. Le ordinanze colpiscono dirigenti Cociv, tra i quali il presidente Longo e il vice Pagani, e manager di Salini-Impregilo e di Condotte. Tra le accuse la tentata estorsione. Alcuni funzionari pagati con escort. Prestipino (Dda): "Circuito di riciclaggio a Roma, legato a fenomeni di stampo mafioso", scrive Fabio Tonacci su "La Repubblica". Appalti truccati da Nord a Sud, dall'alta velocità ferroviaria alle autostrade. Un'operazione del nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Roma torna a dipingere un'Italia in cui il sottobosco della corruzione affianca tutte le grandi opere. Le persone coinvolte sono almeno 30 in diverse Regioni, con accuse che vanno - a vario titolo - dalla corruzione alla tentata estorsione, fino all'associazione a delinquere. Tra gli arrestati Michele Longo e Ettore Pagani, presidente e vicepresidente di Cociv, la concessionaria impegnata sul Terzo valico ferroviario tra Genova e Milano e il general manager domestic operation di Salini-Impregilo. Arrestato anche Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello Stato (dal 1989 al 2002). Tra gli indagati Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro alle Infrastrutture del governo Berlusconi, Pietro Lunardi. Ai domiciliari anche un manager della società Condotte. Scrive il gip nella sua ordinanza: "Il cemento in alcune opere sembra colla". "L'inchiesta nasce dalla scoperta di un circuito di riciclaggio a Roma, legato a fenomeni di stampo mafioso" spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Roma, e aggiunge: "Attorno a pezzi di Grandi opere si sono create delle organizzazioni di tecnici e imprenditori che si scambiano utilità fra loro, a danno del contribuente perchè sono soldi pubblici". E Paolo Ielo, aggiunto della procura di Roma per i reati contro la pubblica amministrazione: "L'ordinanza del gip è un piccolo atlante della corruzione, attività criminale che diventa anche un ostacolo per la concorrenza del mercato". Gli investigatori ipotizzano "condotte corruttive per ottenere contratti di subappalto" nei lavori di una tratta della Tav Milano-Genova, del 6° Macrolotto dell'A3 Salerno-Reggio Calabria e del People Mover di Pisa, l'impianto a fune che mette in collegamento l'aeroporto Galileo Galilei con la stazione centrale della città. I reati contestati a vario titolo sono: associazione a delinquere, sei casi di corruzione e uno di tentata corruzione. Uno anche per tentata estorsione. L'attività investigativa, denominata "Amalgama", ha fatto scattare arresti nel Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria. L'indagine ha ricostruito presunte condotte illecite di un gruppo di persone costituito, organizzato e promosso dall’ingegnere Giampiero De Michelis, fino al 2015 direttore dei lavori nell'ambito delle tre opere pubbliche interessate e dal suo socio di fatto, Domenico Gallo, imprenditore calabrese considerato da tempo un nome noto delle costruzioni stradali. Entrambi tratti in arresto. Insieme a loro, lavoravano per il medesimo obiettivo, altre 9 persone, fra cui alcuni funzionari del Cociv, consorzio di costruttori privati costituito al 64% da Impregilo, al 33% di Condotte e altri minori. Secondo quanto emerso, in alcuni casi, era De Michelis a obbligare le ditte vincitrici della commessa a spezzettare i lavori in diversi subappalti, da assegnare a ditte da lui indicate, pena un certosino lavoro di verifiche e controlli, sinonimo di costi aggiuntivi, ritardi e penali. In altri casi invece, l'opera di corruzione avveniva a monte, durante le gare bandite dal general contractor. Oltre a Roma si è mossa la Procura di Genova. L'inchiesta affidata al Gico della guardia di Finanza ha portato ai domiciliari 14 indagati, tra cui 4 già presenti nell'inchiesta di Roma. Alcuni funzionari, hanno scoperto gli investigatori, erano pagati con le escort. "La lotta alla corruzione è assolutamente una priorità" per garantire "lo sviluppo economico e sociale" ha detto il comandante generale della guardia di Finanza, Giorgio Toschi. "Gli strumenti che abbiamo a disposizione per combattere la corruzione - aggiunge - sono assolutamente adeguati e lo dimostrano i risultati che stiamo ottenendo". Le opere coinvolte. La Tav Genova-Milano è un'opera che vale 6,2 miliardi e ha l'obiettivo di potenziare i collegamenti del sistema portuale della Liguria con le principali linee ferroviarie del nord Italia e il resto d'Europa. Si sviluppa lungo 53 chilometri, di cui 37 in galleria. Il Cipe ha fissato un limite di spesa di 6,2 miliardi per il consorzio Cociv - un colosso di cui fanno parte Salini Impregilo, Condotte e Civ - che dovrà realizzare i sei lotti. Il VI Macrolotto dell'A3 Salerno-Reggio Calabria riguardava il tratto compreso tra lo svincolo di Scilla e lo svincolo di Campo Calabro, in cui erano presenti 32 tra ponti e viadotti (per una lunghezza complessiva di 3 chilometri), otto gallerie naturali e 1 galleria artificiale (Scilla) di 155 metri. Inoltre i lavori riguardavano anche l`ammodernamento di quattro svincoli (Scilla, Santa Trada, Villa San Giovanni e Campo Calabro). In particolare, spiegano gli inquirenti, "è emerso che durante le gare d'appalto indette dal General Contractor, alcuni dirigenti preposti al loro svolgimento, per pilotare l'assegnazione dei lotti ad alcune società ed escluderne altre, hanno fatto in modo, in alcuni casi, che offerte 'anomale' divenissero regolari e, in altri, si sono avvalsi della compiacenza di concorrenti di comodo, in realtà non interessati all'aggiudicazione della gara, per indirizzare direttamente l'assegnazione all'unico concorrente interessato. In una circostanza la turbativa veniva accompagnata dal pagamento di una somma di denaro". Secondo la Procura di Genova, gli indagati nell'inchiesta avrebbero compiuto una serie di atti di corruzione, concussione e turbativa d'asta per commesse pubbliche per un valore di 324 milioni. (Ha collaborato Alessia Candito)
Genova, tangenti sul Terzo Valico pagate ai dirigenti Cociv per favorire le imprese degli "amici". Quattordici persone finite agli arresti in merito all'inchiesta della Procura del capoluogo ligure, scrive Giuseppe Filetto il 26 ottobre 2016 su "La Repubblica". Il passaggio delle mazzette nel video ripreso dalla Gdf (ansa)Il centro smistamento delle mazzette era l'ufficio di Cociv di Campi. Lì, al piano di sotto e in quello di sopra, secondo le indagini della Guardia di Finanza si sarebbero verificati gli episodi di corruzione. Lì sarebbe stato orchestrato come aggiustare le gare e favorire gli amici per la realizzazione delle opere del Terzo Valico. Tanto che stamattina sono scattati gli arresti (ai domiciliari) per dieci funzionari e dirigenti di Cociv e delle società che fanno capo al consorzio (Impregilo e Condotte). Più 55 perquisizioni in tutta Italia che hanno impegnato 250 militari del Nucleo di Polizia Tributaria e dei carabinieri. L'inchiesta per corruzione, concussione e turbativa d'asta della Procura della Repubblica di Genova si incrocia con quella di Roma per "associazione a delinquere" che ha portato in carcere undici persone, più nove ai domiciliari ed una raggiunta dall'obbligo di firma. Quattro soggetti risultano indagati sia a Genova che a Roma e sono stati arrestati. Si tratta di Michele Longo ed Ettore Pagani, rispettivamente presidente e direttore generale di Cociv; di Giampaolo De Michelis, direttore dei lavori del Terzo Valico ma dipendente di una società facente capo a Monorchio. Complessivamente, le due procure hanno ottenuto dai rispettivi gip 30 ordinanze di custodia cautelare. La vicenda giudiziaria ruota attorno agli appalti affidati alle imprese che pagavano, mentre altre venivanio escluse dai funzionari preposti alla stesura dei bandi di gara. I pm Paola Calleri e Francesco Cardona Albini sul versante genovese e del Basso Piemonte della Tav avrebbero accertato almeno tre episodi di corruzione e di tentata per cinque lotti di lavori, tra cui la galleria di Cravasco, la galleria Vecchie Fornaci (Borzoli), la "finestra" di Pozzolo Formigaro. Sempre imponendo le ditte degli amici.
Corruzione e grandi opere, indagati il figlio di Lunardi e quello di Monorchio. Sono ventuno gli arresti nell'inchiesta della procura di Roma sugli appalti dell'alta velocità. Quattordici, invece, quelli richiesti dai pm di Genova. Due inchieste collegate. E tra le persone coinvolte spuntano il figlio dell'ex ministro dei trasporti e quello dell'ex ragioniere generale dello Stato, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 26 ottobre 2016 su "L'Espresso". Ci sono anche due figli illustri nell'inchiesta della procura di Roma per gli appalti sulle grandi opere. Tra gli indagati per corruzione compaiono infatti Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro e attuale responsabile di Rocksoil, l'azienda di progettazione di cui è proprietaria la famiglia Lunardi, e Gian Domenico Monorchio, figlio dell'ex Ragionere generale dello stato, accusato di corruzione ma non del reato associativo. Fondamentale, secondo l'accusa, anche il ruolo di Michele Longo, general manager per l'Italia di Salini Impregilo, che è stato arrestato stamani. E di Ettore Pagani, direttore del general contractor Cociv. Longo è presidente del Cociv, il consorzio privato che gestisce gli appalti pubblici per l'ata velocità Milano-Genova e presidente del consorzio Reggio Calabria Scilla che gestisce il macro lotto della Salerno Reggio Calabria che dovrebbe essere inaugurato a fine anno. Un ruolo chiave nel meccanismo corruttivo svelato dagli inquirenti è stato poi svolto da De Michelis, ingegnere abruzzese che lavora per una grande società di ingegneristica Sintel Engeniering che secondo l'accusa è controllata da Monorchio jr. Al centro delle indagini il direttore dei lavori delle tre opere e il suo socio di fatto, l'imprenditore calabrese Domenico Gallo. Le ordinanze riguardano tra gli altri Michele Longo ed Ettore Pagani, presidente e vicepresidente di Cociv. Che con l'ingegnere Giampaolo De Michelis e l'imprenditore Gallo sarebbero il punto di contatto tra le inchieste di Roma e Genova. L'indagine che sembra correre su un unico binario, infatti, è in realta doppia. Una parte è di competenza della procura di Roma, l'altro filone è a Genova. Sono questi, dunque, gli ingredienti dell'indagine sul sistema di mazzette e appalti scoperto dalla procura di Roma e dai carabinieri della Capitale. I reati contestati vanno dall'associazione per delinquere, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e tentata estorsione sono i reati contestati a 21 indagati destinatari di una ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip. L’indagine, denominata «Amalgama», ipotizza ci sia stata corruzione per l’ottenimento di contratti di subappalto nell’ambito dei lavori per la realizzazione della tratta ad Alta velocità Milano-Genova (con il tanto contestato Terzo valico), del Macrolotto della Salerno-Reggio Calabria e della People mover. All'inchiesta romana, tuttavia, si aggiunge un pezzo genovese, coordinato dalla procura di Genova e portato avanti dalla guardia di finanza del capoluogo ligure. Su questo fronte nordico della corruzione gli arresti sono stati 14. Il meccanismo utilizzato è identico. Con una variante hot: per aggiudicarsi gli appalti dei lavori per il Terzo Valico genovese gli imprenditori non pagavano soltanto tangenti, ma offrivano anche prestazioni con escort. Almeno, questo è quanto emerge dall'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice del tribunale. In un caso la guardia di finanza ha documentato la consegna di una tangente da 10 mila euro nella sede di Cociv da parte di un imprenditore verso un alto dirigente del Consorzio. «Missione compiuta, secondo indicazioni ricevute», commentava l’imprenditore intercettato. Monorchio, amministratore della Sintel, è finito in carcere per corruzione. Il gip scrive: «Sono continue le sue pressioni verso Ettore Pagani (Cociv) per cercare di ottenere liquidazioni di parti del corrispettivo nell'ambito del rapporto tra Cociv e la stessa Sintel, di cui al contratto milionario del primo aprile 2015 che invece alla luce dei fatti, ove fosse stato correttamente valutato dagli organismi di vigilanza delle aziende di cui al Cociv o Scilla Reggio Calabria scpa, avrebbero comportato certamente l'immeditata risoluzione dello stesso, come del resto riscontrabile dalla lettura degli inadempimenti gravi e del codice etico». Secondo la Procura, in pratica, Monorchio, d'accordo con De Michelis, avrebbe ricevuto indebitamente da Pagani «promesse di utilità consistite in forniture di servizi nel settore delle prove sui materiali da costruzione in favore della societa' consortile Kronotech, partecipata dalla Crono srl, riconducibile a Monorchio, quale prezzo per l'esercizio della funzione e per la violazione dei doveri di imparzialita' e terzieta' del pubblico ufficiale». Non solo. Anche dai vertici della Ceprini Costruzioni spa e da quelli della Berti Sisto e Costruzioni Stradali, Monorchio avrebbe ricevuto «utilità». Per Lunardi junior, invece, il capo d'accusa è unico. Corruzione, nella veste di consigliere e proprietario in quota della Rocksoil spa e amministratore della Tre Esse Engineering srl. Avrebbe promesso nel 2015, assieme a Giovanna Cassani, direttore tecnico della stessa Rocksoil spa e amministratrice di fatto dell'altra società, a Giampiero De Michelis, nella veste di direttore dei lavori per la realizzazione della tratta dell''Alta Velocita' Milano-Genova, Terzo valico Ferroviario dei Giovi. Utilità, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare, «consistite in commesse in favore di società riconducibili allo stesso De Michelis e da Domenico Gallo per la fornitura di servizi». Nell'inchiesta della procura di Roma c'è un particolare che spiega bene quanto sia importante la condivisione del sistema da parte di chi corrompe e di chi viene corrotto. Una visione comune, verrebbe da dire, per raggiungere il medesimo obiettivo. L'arricchimento illecito, infatti, si raggiunge solo se c'è «l'amalgama», che ci consente di stare «tutti a coltivare l'orticello», dice uno degli indagati al telefono. Insomma, è inutile farsi la guerra. Meglio e più proficua la pace. De Michelis ha creato la cosiddetta «Amalgama», quell'accordo, cioè, per cui «faceva fare tutto ciò che volevano alle imprese ma doveva ricevere qualcosa in cambio per restare amici per far sì che non ci fossero difficoltà cioè a dire del Gallo 'perché se ognuno tira e un altro storce non si va mai avanti». Un «modo preventivo ed efficace per evitare che vi siano guerre con l'effetto di mettere tutti contro». Il gruppo finito sotto inchiesta, con a capo il direttore lavori De Michelis e l'imprenditore Domenico Gallo, è così descritto dal procuratora aggiunto Michele Prestipino: «Un'organizzazione stabile composta da tecnici, imprenditori e professionisti che si sono accordarti per un reciproco scambio di utilità ai danni dei contribuenti». Per gli inquirenti si tratta una «Corruzione triangolare» in cui lavori e utilità venivano orientati a società terze riconducibili agli indagati. «C'è una trasformazione della tangente da denaro ad assegnazione dei lavori» ha sottolineato il pm anticorruzione Paolo Ielo. Era De Michelis, sostiene l'accusa, a obbligare le ditte vincitrici della commessa a spezzettare i lavori in diversi subappalti, da assegnare a ditte da lui indicate. In altri casi invece, l'opera di corruzione avveniva a monte, durante le gare bandite dal general contractor. Di De Michelis, due indagati intercettati dicono: «Abbiamo creato un mostro». Secondo gli inquirenti, effettivamente, il Mostro, «apparteneva a una logica illecita che, come abbiamo già visto, non era nuova all' interno di questi appalti per le Grandi Opere. O meglio, il corrispettivo delle corruzioni per gestire in modo domestico l'esecuzione delle opere pubbliche a danno dello Stato italiano e dei suoi cittadini, avveniva secondo accordi che, invece di essere corrisposti mediante dazioni di denaro, erano sorretti da compiacenti contratti per la fornitura di beni e servizi». L'inchiesta della procura di Roma nasce da alcune verifiche sul riciclaggio di quattrini mafiosi. Lo ha spiegato anche l'aggiunto Prestipino durante la conferenza stampa. E questo non è casuale. La Procura nazionale antimafia da due anni ormai denuncia quanto mafia e corruzione siano due facce della stessa medaglia. Ossia che la prima utilizza la seconda per raggiungere i proprio scopi. Mazzette più che lupara per convincere i propri clienti. I clan comprano e ottengono ciò che vogliono. Se poi sulla strada trovano chi per soldi è disposto a tutto il gioco è ancora più facile.
Tav e autostrade: corruzione in cambio di appalti. Imprenditori e tecnici indagati per le Grandi Opere. Coinvolti i figli dell'ex ragioniere dello stato Monorchio e dell'ex ministro dei Trasporti Lunardi, scrive il 26 ottobre 2016 Panorama. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma oggi hanno eseguito misure cautelari in diverse regioni nei confronti di 21 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere, corruzione e tentata estorsione nelle Grandi Opere. Gli investigatori ipotizzano un'associazione per delinquere che ha compiuto condotte corruttive per ottenere contratti di subappalto nei lavori di una tratta della Tav Milano-Genova; del sesto Macrolotto dell'A3 Salerno-Reggio Calabria e della People Mover di Pisa. Michele Longo ed Ettore Pagani, presidente e vicepresidente di Cociv, l'ingegnere Giampaolo De Michelis e l'imprenditore Domenico Gallo sono, secondo gli inquirenti, le quattro persone che legano le inchieste di Roma e Genova sulla presunta corruzione negli appalti per le Grandi opere. In particolare, secondo quanto emerso dall'inchiesta, De Michelis e Gallo volevano mettere in piedi lo stesso sistema adottato per i lavori di realizzazione dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria. Per gli inquirenti, i due avrebbero intimidito anche con metodo mafioso gli imprenditori per fare acquistare loro gli inerti dalle ditte da loro indicate. Tra gli arrestati c'è anche Giandomenico Monorchio, imprenditore e figlio dell'ex ragioniere generale dello Stato Andrea. Giuseppe Lunardi, invece, figlio dell'ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, risulta indagato a piede libero. L'attività investigativa, coordinata dalla Procura della Repubblica di Roma e condotta dai carabinieri del nucleo investigativo del Comando provinciale di Roma, è denominata Amalgama e ha fatto scattare arresti nel Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria. L'indagine avrebbe ricostruito condotte illecite di un gruppo di persone costituito, organizzato e promosso da De Michelis, che, fino al 2015, è stato il direttore dei lavori nell'ambito delle tre opere pubbliche interessate e dal suo socio di fatto, l'imprenditore calabrese delle costruzioni stradali Domenico Gallo, che si è avvalso del contributo di altre 9 persone, tra le quali anche alcuni funzionari del consorzio Cociv. L'ex direttore dei lavori avrebbe "messo a disposizione la sua funzione pubblica per favorire alcune imprese impegnate a eseguire i lavori, ottenendo in cambio commesse e subappalti in favore di società riferibili di fatto a lui stesso e a un imprenditore calabrese". È quanto ipotizzano gli investigatori. Inoltre, sarebbe stata accertata l'esistenza di rapporti corruttivi tra il direttore dei lavori con i vertici dei General Contractor che si occupano della realizzazione delle tre grandi opere pubbliche. La consegna di una tangente è stata documentata dagli investigatori della Guardia di Finanza all'interno di alcuni uffici del Consorzio Cociv, un colosso di cui fanno parte Salini Impregilo, Condotte e Civ che sta realizzando i sei lotti della linea ad Alta Velocità Genova-Milano. Lo scambio della "bustarella" avviene tra un dirigente generale del Consorzio e un imprenditore: le immagini delle telecamere nascoste posizionate dagli uomini della Guardia di Finanza riprendono infatti in un primo momento un soggetto che oscura l'ufficio abbassando le tapparella; successivamente si vede una seconda persona che consegna la "bustarella". I due parlano per qualche minuto dopodiché, secondo gli investigatori, il secondo soggetto si allontana e il primo conta il denaro contenuto all'interno della busta. "Cemento che sembra colla". È quanto detto da uno degli indagati in una conversazione intercettata, riferendosi a lavori eseguiti con materiali scadenti. In un'altra intercettazione si sottolinea che è "fondamentale raggiungere l'amalgama" che consente di "stare tutti a coltivare l'orticello".
IN QUESTO MONDO DI LADRI.
In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.
Eh, in questo mondo di ladri
C' ancora un gruppo di amici
Che non si arrendono mai.
Eh, in questo mondo di santi
Il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Non siamo molto importanti
Ma puoi venire con noi.
Eh, in questo mondo di debiti
Viviamo solo di scandali
E ci sposiamo le vergini.
Eh, e disprezziamo i politici,
E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,
Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.
Voi, vi divertite con noi
E vi rubate tra voi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Voi siete molto importanti
Ma questa festa per noi.
Eh, ma questo mondo di santi
Se il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.
Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”
In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.
“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl
Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".
Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».
Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori».
«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.
Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?
«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».
Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.
«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».
Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?
«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».
Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.
Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.
Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.
Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.
CHI FA LE LEGGI?
Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?
Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.
I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.
Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.
Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.
Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.
I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.
Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.
Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.
Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.
Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).
Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.
Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.
Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
ANAS: UFFICIO MAZZETTE E CILIEGIE A GO GO'.
Tangenti per appalti Anas: 10 arresti C’è anche un ex sottosegretario. Si tratta Luigi Giuseppe Meduri, alle Infrastrutture nel governo Prodi. Nelle intercettazioni si parla di «stringere ai fianchi» gli imprenditori che non pagano. Lavori affidati anche a ditte contigue alla ‘ndrangheta, scrivono Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" del 22 ottobre 2015. Una «cellula criminale» che aveva un «diffuso rapporto di connivenza in tutta Italia» e che, come nei contesti mafiosi, utilizzava i pizzini per scambiarsi le informazioni «in modo da non lasciare traccia degli accordi corruttivi». Era ciò che accadeva, secondo la Guardia di finanza, all’interno della direzione generale dell’Anas, la più grande stazione appaltante pubblica d’Italia, oggi scossa dal terremoto generato dall’inchiesta «Dama nera»: dieci ordinanze di custodia cautelare, 31 indagati, un giro di tangenti di 200 mila euro utilizzate per «muovere» appalti del valore di centinaia di milioni. Insomma, «un sistema collaudato, tutt’altro che episodico», sfociato nell’arresto di un ex sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Prodi, cinque dirigenti e funzionari dell’Anas, un avvocato e tre imprenditori che si sono aggiudicati le gare. Associazione a delinquere, corruzione e voto di scambio sono le accuse contestate dalla Procura di Roma all’organizzazione in cui i dipendenti pubblici infedeli «prendevano soldi da tutto ciò che poteva essere trasformato in denaro». Mazzette che, stando alle intercettazioni, erano state ribattezzate con nomi innocui come «ciliegie», «libri», «topolini», «medicinali antinfiammatori». Luigi Giuseppe Meduri, 73 anni, cresciuto politicamente con la Dc, poi deputato di centrosinistra, tuttora iscritto al Pd, presidente della Regione Calabria dal gennaio 1999 all’aprile 2000 e dal maggio 2006 al maggio 2008, è l’ex sottosegretario del ministero delle Infrastrutture finito ai domiciliari. In carcere la «dama nera», cioè la dirigente dell’Anas Antonella Accroglianò , 54 anni, considerata al vertice dell’organizzazione. Il gip Giulia Proto ha disposto la stessa misura nei confronti dei suoi colleghi Oreste De Grossi, 59 anni, e Sergio Serafino Lagrotteria, 48 anni, e dei funzionari Giovanni Parlato, 48 anni, e Antonino Ferrante, 54 anni. Ai domiciliari, oltre a Meduri, l’avvocato del Foro di Catanzaro Eugenio Battaglia, 53 anni, e gli imprenditori Concetto Albino Bosco Lo Giudice, 52 anni, Francesco Domenico Costanzo, 53 anni, e Giuliano Vidoni, 70 anni. Per gli investigatori del Nucleo tributario Meduri, «oscuro faccendiere», era l’interfaccia politica della Accroglianò. L’ex sottosegretario da un lato si sarebbe adoperato per mettere a disposizione il suo pacchetto di voti a favore del fratello della dirigente, Galdino, candidato nelle liste dell’Udc in in Calabria a novembre 2014; dall’altro si sarebbe dato da fare per procurargli una poltrona all’interno di una società della Regione dopo il fallimento alle elezioni: in cambio Meduri avrebbe chiesto alla Accroglianò due posti da geometri all’Anas. E per far eleggere il fratello la «dama nera» si sarebbe spesa anche in prima persona, cercando di far assumere in una società legata all’Anas un certo Pasquale Perri, calabrese, che avrebbe sponsorizzato la candidatura di Galdino con parenti e amici. Ma l’ex presidente della Regione Calabria avrebbe anche fatto da intermediario tra la dirigente e gli imprenditori catanesi Bosco Lo Giudice e Costanzo, colpevoli di aver ritardato il pagamento di una tangente relativa alla gara da 145 milioni per la realizzazione della variante di Morbegno, in Lombardia. I due, attraverso Meduri, avrebbero chiesto alla Accroglianò la cessione del contratto d’appalto, pratica vietata dalla legge. Gli investigatori del Gico hanno documentato almeno sei passaggi di denaro, dal dicembre 2014 all’agosto 2015, per un totale di circa 150 mila euro. «Meduri ha certamente una funzione di supporto non indifferente - scrive il gip nelle oltre cento pagine di misura cautelare - dal momento che lui stesso richiama gli imprenditori ai loro illeciti doveri ove gli stessi versino in ritardo sui pagamenti» Ed è «la stessa Antonella Accroglianò che dice di aver recuperato una delle tranche corruttive grazie a Meduri, al quale lei si rivolge quando “quelli” spariscono. E d’altra parte il suggerimento di stringerli ai fianchi per recuperare il denaro proviene proprio dal politico». In un’altra gara a Palizzi (Reggio Calabria) la «dama nera» avrebbe «consigliato» ai titolari dell’impresa aggiudicataria di subappaltare alcune opere a ditte contigue ai clan. La dirigente infatti da una parte avrebbe chiesto l’assunzione di operai e geometri; dall’altra avrebbe esercitato «pressioni inequivoche affinché la fornitura del calcestruzzo e il movimento terra, attività notoriamente di interesse quasi esclusivo delle cosche della `ndrangheta in quei territori, venisse affidato ad una persona di sua fiducia». Il blitz delle Fiamme gialle è scattato all’alba: circa 300 finanzieri del Gico hanno eseguito, oltre alle ordinanze di custodia, più di 90 perquisizioni in dieci Regioni e 23 città: Lazio, Calabria (Catanzaro e Cosenza), Puglia (Bari), Campania, Sicilia(Catania, Messina e Siracusa), Friuli Venezia Giulia (Udine e Gorizia), Toscana (Arezzo), Umbria, Piemonte (Torino e Vercelli), Veneto (Venezia e Padova) e Abruzzo. Sequestrati per equivalente 200 mila euro, 70 mila dei quali in contanti e gioielli a casa della madre della Accroglianò. «La sensazione è deprimente vista proprio la quotidianità della corruzione», ha detto sconsolato il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, nella conferenza stampa con il comandante provinciale della Finanza Giuseppe Magliocco, quello del Nucleo tributario Cosimo Di Gesù e quello del Gico Gerardo Mastrodomenico. La «dama nera», ha spiegato il magistrato, «ha sempre la borsa aperta, tratta male chi ritarda i pagamenti e anche i suoi collaboratori che fanno male non le pratiche, ma la riscossione delle mazzette dagli imprenditori». Pignatone ha anche sottolineato l’importanza delle intercettazioni nelle indagini per corruzione, sostenendo che senza di esse «i processi per corruzione non si possono fare». E infine il procuratore ha precisato che il nuovo presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, «non ha assolutamente nulla a che vedere con la vicenda ed è parte offesa».
“Pizzini” e parole in codice. Così agiva «la banda dell’Anas». «Ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori» avevano un significato ben diverso nelle comunicazioni tra gli arrestati per tangenti, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera". «Ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori»: erano queste le parole in codice usate dalla «cellula criminale» che agiva dentro la direzione generale dell’Anas. La Finanza ha arrestato 10 persone fra cui l’ex sottosegretario Luigi Giuseppe Meduri (alle Infrastrutture nel governo Prodi). A capo dell’associazione c’era Antonella Accroglianò, dirigente responsabile del Coordinamento tecnico amministrativo di Anas Spa, appunto la Dama nera, deus ex machina del sodalizio insieme ai colleghi Oreste De Grossi, dirigente responsabile del Servizio incarichi tecnici della Condirezione generale tecnica, e Sergio Serafino Lagrotteria, dirigente Area progettazione e nuove costruzioni. Coinvolti anche due funzionari, Giovanni Parlato e Antonio Ferrante. I cinque ora sono in carcere. A gestire il giro di mazzette, secondo la Finanza, era la Accroglianò, descritta nell’ordinanza del gip Giulia Proto «vera regista dell’operazione», che istruiva i suoi sottoposti su come comportarsi «muovendoli come pedine nelle proprie mani». La sua «pericolosità», sottolinea ancora il giudice è anche nella «freddezza e capacità di organizzare una protezione per sé e per i suoi sodali dopo il controllo da parte della gdf (25mila euro ritrovati durante un posto di blocco creato ad arte nell’auto di uno degli indagati, ndr)». Dopo questo episodio, la associazione si attiva per creare falsi documenti a copertura delle operazioni illecite commesse e la dirigente dell’Anas si preoccupa di nascondere il suo bottino a casa della mamma, dove sono stati trovati 70mila euro in contanti. «Ti porto le medicine», dice alla mamma temendo di essere intercettata l’anziana risponde candidamente di non essere malata. In altre intercettazioni la «Dama Nera» da cui prende il nome l’operazione si lamentava della «poca serietà degli imprenditori che ritardavano i pagamenti» delle tangenti, ribattezzate «ciliegie», «libri», «topolini» o «medicinali antinfiammatori». Tangenti che venivano richieste e pagate per diversi «servizi», dall’aumento delle cifre per gli espropri agli accordi bonari, passando per l’operazione di cessione di un ramo d’azienda. In sostanza i dirigenti corrotti, che comunicavano tramite «pizzini», «prendevano soldi da tutto ciò che poteva essere trasformato in denaro». E quando interviene l’ex sottosegretario Luigi Meduri come mediatore con le imprese da favorire, la Accroglianò gli chiede in cambio l’assunzione del fratello Gandino - trombato nelle elezioni locali - in una società partecipata dalla Regione Calabria, dove Meduri ha ancora grande influenza per il suo passato da presidente della Regione e politico di lungo corso. La stessa dirigente Anas definiva la sua condotta «una scuola» e ai suoi complici spiegava: «Speriamo di tenerci forte come abbiamo fatto fino ad adesso e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare..perché poi quello è lo scopo, capito? Io sono stata abituata in questo odo...chi cresce si porta gli altri dietro... questa è la scuola. Se viaggi solo non fai niente, chi viaggia da solo poi l’hanno azzoppato».
Blitz della Finanza per appalti truccati Anas: 10 arresti. Dirigenti, imprenditori e l'ex sottosegretario Meduri. L'esponente politico ha ricoperto l'incarico al ministero delle Infrastrutture,durante il secondo governo Prodi. E' stato presidente della Regione Calabria. Le ipotesi di reato sono associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio, scrive "la Repubblica". C'è anche il nome dell'ex sottosegretario alle Infrastrutture Luigi Meduri fra le 10 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale di Roma che gli uomini della Guardia di Finanza in corso in queste ore. Nell'inchiesta delle fiamme gialle, chiamata 'Dama nera', sono coinvolti 5 dirigenti e funzionari dell'Anas della Direzione generale di Roma, 3 imprenditori, titolari di aziende appaltatrici di primarie opere pubbliche e un avvocato, oltre allo stesso Meduri. L'esponente politico ha ricoperto il suo incarico come membro della Margherita dal maggio 2006 al maggio 2008, durante il secondo governo Prodi, con Antonio Di Pietro ministro. Dal gennaio 1999 all'aprile 2000 era stato presidente della Regione Calabria. Meduri, nato a Reggio Calabria nel 1942, fino ad oggi era membro dell'assemblea nazionale del Pd, ma dopo l'arresto, la Commissione nazionale di garanzia del Partito democratico ha deciso di sospenderlo dall'albo degli iscritti e degli elettori e dagli organismi di cui fa parte con provvedimento immediatamente esecutivo. Meduri non è più in Parlamento dal 2006. L'Autorità nazionale anticorruzione chiederà gli atti relativi all'inchiesta. Le ipotesi di reato sono: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio. Sono in corso anche 100 perquisizioni, in undici regioni diverse. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha fatto sapere che il nuovo presidente di Anas, Gianni Vittorio Armani, è estraneo ai fatti e si costituerà parte offesa. "La mia sensazione leggendo le carte, Che sono prevalentemente, ma non solo, intercettazioni, è la sensazione deprimente della quotidianità della corruzione", ha aggiunto Pignatone che ha ricostruito i movimenti di Antonella Accroianò, una dirigente dell'Anas coinvolta nelle tangenti. "La principale indagata, chiamata la 'dama nera', va in ufficio per lavorare - ha riferito Pignatone - ma il suo lavoro è gestire il flusso continuo della corruzione: c'è la borsa sempre aperta, arriva qualcuno e ci mette una busta. Tratta pure male i collaboratori, che non sono ritenuti all'altezza nell'avere a che fare con gli imprenditori per riscuotere le mazzette. La sensazione della lettura di queste carte è la quotidianità della corruzione vista come cosa normale", ha continuato Pignatone. Secondo l'indagine la Accroianò, avrebbe chiesto a Meduri di aiutare la carriera politica del fratello, in Calabria. In cambio avrebbe offerto assunzioni in Anas. "Meduri era l'interfaccia politico di Accroglianò - ha spiegato il colonnello Cosimo Di Gesù del nucleo polizia tributaria di Roma - .In ballo c'era un pacchetto di voti a sostegno della candidatura del fratello al consiglio regionale della Calabria nel novembre 2014. La contropartita per la mancata elezione nelle liste dell'Udc sarebbe stata nell'intenzione della Accroglianò un importante incarico in una società partecipata dalla Regione Calabria". "A fronte di queste richieste Meduri chiedeva da un lato l'assunzione di due geometri in Anas, con lo sfruttamento di una azienda pubblica come meccanismo clientelare per favorire assunzioni. Dall'altro lato si poneva come intermediario con imprenditori arrestati, Costanzo e Bosco, rispetto al ritardo nel pagamento delle tangenti". Meduri avrebbe svolto inoltre il ruolo di mediatore in un episodio di corruzione che chiama in causa i vertici dell'Azienda delle strade. Secondo l'accusa l'esponente politico avrebbe veicolato a due imprenditori precise richieste corruttive provenienti dai dirigenti della pubblica amministrazione. "Meduri ha certamente una funzione di supporto non indifferente - scrive il gip Giulia Proto nelle oltre 100 pagine di misura cautelare - dal momento che lui stesso richiama gli imprenditori ai loro illeciti doveri ove gli stessi versino in ritardo sui pagamenti. E' la stessa Antonella Accroglianò che dice di aver recuperato una delle tranche corruttive grazie a Meduri al quale lei si rivolge quando 'quelli' spariscono. E d'altra parte il suggerimento di - stringerli ai fianchi - per recuperare il danaro proviene proprio dal politico". Il quale, a sua volta, chiede che la Accroglianò "si interessasse per far assumere all'Anas due geometri da lui raccomandati". Nelle intercettazioni Accroglianò chiamava più volte 'medicinali', i soldi ricevuti dagli imprenditori, che nascondeva nell'appartamento della madre. A casa della donna i finanzieri hanno trovato ben nascosti 70mila euro, ritenuti proventi dell'attività corruttiva. Il gip Giulia Proto riferisce di "immorali principi" che ispiravano Accrogliano', parlando dei "propositi illeciti" con alcuni suoi sodali. "Speriamo di tenerci forte, come abbiamo fatto fino ad adesso e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare... Perchè quello è poi lo scopo, capito? Io sono stata abituata in questo modo... chi cresce, chi fa un salto in avanti, si porta gli altri dietro... questa e' la scuola", dicevano. Le incertettazioni, ambientali e telefoniche, dicono che la donna ricopriva "il ruolo di capo e promotore indiscusso" dell'organizzazione. La regola, valida per tutto il gruppo, era che "se viaggi da solo non fai niente, chi ha cercato di viaggiare da solo poi l'hanno azzoppato". Il presidente dell'Anas Armani, ha espresso piena fiducia nel lavoro della Procura di Roma, e ha fatto sapere che l'Anas si costituerà parte offesa. "Ho parlato col presidente dell'Anas Armani e ho detto di offrire la massima collaborazione agli inquirenti", ha detto il ministro dei Trasporti e Infrastrutture, Graziano Delrio. Nel pomeriggio, durante una conferenza stampa Armani ha spiegato che i funzionari coinvolti saranno licenziati. L'operazione, chiamata 'Dama nera', segue un'indagine condotte dalle Fiamme Gialle del Nucleo di polizia tributaria di Roma, coordinate dalla procura della capitale. In tutto sono state effettuate circa 100 perquisizioni e sono stati sequestrati 200.000 euro. Accanto alla dama nera Accroianò, in carcere sono finiti in carcere Oreste De Grossi (capo del servizio incarichi tecnici della condirezione generale tecnica), Sergio Serafino Lagrotteria (dirigente area progettazione e nuove costruzioni) e i funzionari di rango minore Giovanni Parlato e Antonino Ferrante. Agli arresti domiciliari, invece, sono finiti l'ex sottosegretario al ministero delle Infrastrutture Meduri, l'avvocato catanzarese Eugenio Battaglia, e tre imprenditori, Concetto Logiudice Bosco, Francesco Domenico Costanzo e Giuliano Vidoni.
Appalti Anas, a Roma 10 arresti per corruzione. Pignatone: “Deprimente, c’era l’ufficio mazzette”. Le intercettazioni. Cento perquisizioni in 11 Regioni. Tra le ipotesi di reato anche il voto di scambio. C'è anche Luigi Meduri, sottosegretario con Prodi tra il 2006 e il 2008. Decapitata una struttura della società, che faceva capo alla "Dama nera" Antonella Accroglianò. Intercettata, chiamava le tangenti "ciliegie, libri, topolini, antinfiammatori". E le "ciliegie" venivano definite "smozzicate" quando l'importo era più basso di quanto atteso, scrive "Il Fatto Quotidiano". I finanzieri l’hanno chiamata la Dama nera. Antonella Accroglianò, per l’inchiesta, è il vertice della “cellula criminale” all’interno dell’azienda statale dell’Anas. Lei gestiva quello che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ha chiamato “ufficio mazzette” nel quale “va in ufficio tutti i giorni ma il suo principale lavoro è gestire questo flusso di corruzione, trattar male chi ritarda i pagamenti”: una “deprimente quotidianità della corruzione“, ha precisato. E questo “sistema strutturato” e “non episodico”, come precisano gli investigatori, era guidato dalla Accroglianò, capo del coordinamento tecnico-amministrativo. Ma era alimentato da altri funzionari dell’azienda statale, come Oreste De Grossi (responsabile del servizio incarichi tecnici) e Sergio Serafino Lagrotteria (dirigente nell’area progettazione) e ancora funzionari di livello inferiore come Giovanni Parlato eAntonino Ferrante. Una specie di spoils system della corruzione, secondo la descrizione della Procura di Roma e della Guardia di Finanza: “Speriamo di tenerci forte come abbiamo fatto fino ad adesso – dice Accroglianò in un’intercettazione – e di fare tutti un saltino in avanti per poterci aiutare. Perché quello è poi lo scopo, capito? Che chi… Io sono stata abituata in questo modo. Chi cresce, chi fa un salto in avanti, si porta gli altri dietro. Questa è la scuola”. Chiamava le mazzette “ciliegie”, “libri”, “topolini”, “farmaci antinfiammatori”. Le ciliegie erano “smozzicate” quando la tangente ricevuta era inferiore a quanto pattuito. Oppure “medicinali”, che nascondeva nell’appartamento della madre. Qui, in una delle 90 perquisizioni effettuate in 10 Regioni, la Finanza ha trovato 70mila euro in contanti e gioielli. In carcere sono finiti in 5, tutti i funzionari Anas. Altri 5 sono finiti ai domiciliari: tre imprenditori (Concetto Bosco Lo Giudice,Francesco Costanzo eGiuliano Vidoni), un avvocato che aveva fatto da “navetta” per le tangenti” (Eugenio Battaglia) e un politico iscritto al Pd (sospeso nel pomeriggio di oggi dal partito) che formalmente non ricopre incarichi pubblici da 7 anni. Luigi Meduri, infatti, è stato presidente della Regione Calabria per un anno (dal 1999 al 2000) dopo un ribaltone condotto da una parte di Forza Italia, poi è stato deputato dal 2001 al 2006 e infine sottosegretario alle Infrastrutture del governo Prodi. Nel Pd è stato tra gli ex popolari che hanno sostenuto nella corsa alle primarie i segretari di formazione comunista, prima Pierluigi Bersani e poi Gianni Cuperlo. Di recente aveva fatto notizia perché tutti i giorni si presentava in Transatlantico, a Montecitorio. Per le fiamme gialle è un “oscuro faccendiere“, l’interfaccia politica della Dama nera. Ma non al livello nazionale, semmai calabrese. Il centro di tutto infatti erano gli appalti per i lavori sulleautostrade: gli inquirenti hanno parlato di tangenti per almeno 200mila euro per progetti da centinaia di milioni di euro. Gli imprenditori finiti ai domiciliari stavano gestendo attualmente appalti per 150 milioni. La storia più importante, per questa inchiesta, riguarda la strada statale dello Stelvio, nel tratto vicino a Sondrio. Qui, secondo le accuse, la Accroglianò prese denaro per velocizzare i pagamenti dell’Anas per i lavori per la realizzazione della Variante di Morbegno. Ma le tangenti più cospicue (150mila euro in sei “rate” pagate tra il dicembre 2014 e l’agosto 2015) arrivavano alla Dama nera da due imprenditori arrestati (Costanzo e Bosco) che pagavano per ottenere il nulla osta a una cessione di un ramo aziendale. L’operazione portava di fatto alla cessione ai due imprenditori, senza gara, di un appalto per la realizzazione della strada (valore di 145 milioni). Ma tra le ipotesi di reato, oltra all’associazione a delinquere e la corruzione, c’è anche il voto di scambio. In un caso, infatti, secondo i finanzieri, sono state promesse assunzioni in Anas in cambio di un pacchetto di voti alle Regionali in Calabria di fine 2014, che vedeva impegnato – come candidato dell’Udc, peraltro poi non eletto – il fratello della Accroglianò, Galdino. “La contropartita per la mancata elezione – ha spiegato il colonnello Cosimo Di Gesù del nucleo polizia tributaria di Roma – sarebbe stata nell’intenzione della Accroglianò un importante incarico in una società partecipata dalla Regione Calabria. A fronte di queste richieste Meduri chiedeva da un lato l’assunzione di due geometri in Anas, con lo sfruttamento di una azienda pubblica come meccanismo clientelare per favorire assunzioni. Dall’altro lato si poneva come intermediario con imprenditori arrestati, Costanzo e Bosco, rispetto al ritardo nel pagamento delle tangenti”. Poi c’è l’ombra della ‘ndrangheta. La Accroglianò ha infatti “consigliato” ai titolari di un’azienda vincitrice di un appalto in Calabria, di subappaltare alcune opere a ditte di imprenditori contigui alla criminalità organizzata calabrese. Una vicenda che riguarda una serie di opere pubbliche nel comune di Palizzi, in provincia di Reggio Calabria. La dirigente Anas avrebbe da un lato chiesto l’assunzione di operai e geometri alla ditta vincitrice dell’appalto e, dall’altro, dicono gli investigatori, avrebbe esercitato “pressioni inequivoche affinché la fornitura del calcestruzzo e il movimento terra, attività notoriamente di interesse quasi esclusivo delle cosche della ‘ndrangheta in quei territori, venisse affidato ad una persona di sua fiducia, che avrebbe così garantito la sicurezza del cantiere da interventi o pressioni di gruppi criminali egemoni”. Costanzo e Bosco sono due noti imprenditori catanesi ai vertici della Tecnis, grande azienda del Sud Italia, che si è aggiudicata appalti pubblici per quasi 800 milioni l’anno. Dalla metropolitana catanese ai lavori dell’anello ferroviario e del collettore fognario di Palermo, passando per il porto di Catania, quello di Ragusa, l’interporto di Catania oltre alla Salerno-Reggio Calabria e ad altre centinaia di commesse che hanno fatto della Tecnis la prima impresa del Sud Italia. Tra i lavori affidati alla Tecnis figura anche un lotto del viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, franato una settimana dopo l’inaugurazione nel dicembre scorso. Costanzo e Bosco sono noti per le loro battaglie contro il racket delle estorsioni e per avere siglato protocolli di legalità in ogni appalto. Costanzo era tra i favoriti nel rinnovo dei vertici di Confindustria Catania. Il presidente di Anas Gianni Vittorio Armani ha espresso “piena fiducia nel lavoro della Procura di Roma, con l’auspicio che possa arrivare velocemente a fare chiarezza sui fatti ed aiutare il vertice dell’azienda a voltare pagina”. Anas sta “attivamente collaborando alle indagini della Guardia di Finanza, dando il massimo supporto anche in qualità di parte offesa dai fatti oggetto di indagine, accaduti negli anni passati”. L’Anas, annuncia la società, si costituirà in giudizio quale parte offesa. Anche “ho parlato col presidente dell’Anas Gianni Vittorio Armani e ho detto di offrire massima collaborazione”. Così il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Graziano Delrio, a margine di un incontro all’Enel in cui ha sottolineato: “La nostra linea è molto semplice, vogliamo assoluta trasparenza e collaborazione con le forze dell’ordine e con la magistratura”.
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
Corruzione, efficienza, calcio: ecco perché Milano batte Roma (6-0). Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano, scrive Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera".
1. La storica rivalità. Il problema dei milanesi con Milano? La criticano, sempre, comunque. Appena possono, infatti, fuggono dalla città. Dicono di non volerci vivere. Nonostante l’happy hour, nonostante la vita notturna, nonostante le opportunità di lavoro, nonostante lo shopping. Per i romani, invece, niente è come Roma: l’ottima cucina, il clima mite, la storia millenaria, la bellezza sfrontata. D’altronde, anche Audrey Hepburn in Vacanze Romane aveva risposto in maniera inequivocabile alla domanda su quale fosse la sua città preferita: «Roma! Certamente, Roma!». Se il New York Times ha piazzato il capoluogo lombardo al primo posto tra 52 destinazioni nel mondo da vedere nel 2015, la capitale d’Italia è finita in questi mesi sulle prime pagine dei giornali per altre ragioni - davvero poco invidiabili. La rivalità tra le due città esiste da sempre: tra un «c’avete solo la nebbia» e un «Roma Ladrona», la (spesso) interminabile discussione si sposta quasi sempre sul calcio. Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni miti e luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano: ecco, in sei punti, le conclusioni a cui gli analisti sono arrivati.
2. Resilienza economica. Nel corso della recessione più lunga dalla Seconda Guerra Mondiale (2000-2015), il pil pro capite nella regione Lazio è sceso del 24,3 per cento (da circa 36 mila euro a circa 29 mila), secondo le proiezioni Bloomberg. In Lombardia il calo è stato dell’8,5% (da circa 37 mila euro a poco più di 36 mila).
3. Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione nella provincia di Roma è salito all’11,3 per cento nel 2014 (dati Istat). Milano e la Lombardia hanno registrato rispettivamente l’8,4% e l’8,2% di persone in cerca di lavoro - una situazione meno critica rispetto al resto all’Italia (ormai al 12,7%). C’è poi il problema del numero esorbitante di dipendenti pubblici, che affligge la capitale. Per esempio l’Atac (l’azienda che gestisce i servizi di trasporto a Roma) ha circa 12 mila dipendenti, mentre l’Atm di Milano ne ha circa 9 mila. Il Comune di Roma da solo conta circa 24 mila dipendenti, e aggiungendo anche le municipalizzate di acqua, rifiuti e trasporti si superano i 50 mila addetti.
4. Efficienza. Nel 2015, la rete metropolitana milanese ha superato i 100 chilometri, mentre Roma è ferma a 62 km. Vale la pena ricordare che Roma è sette volte più grande di Milano, con quasi il doppio della popolazione. Bisogna dire che creare una rete sotterranea per la metro nella città eterna è parecchio complesso. I mezzi pubblici a Milano trasportano ogni anno quasi 750 milioni di passeggeri; a Roma, i passeggeri che utilizzano autobus e tram sono circa 927 milioni, solo 273 milioni per la metropolitana. Il bike sharing nella capitale è stato un fiasco. Il servizio BikeMi a Milano invece riscuote sempre più successo: ha contato nel 2014 oltre 2,4 milioni di noleggi, un incremento del 244,7% dall’esordio (nel 2009), con un ulteriore +26,7% rispetto al 2013.
5. Fascino. È vero che la città eterna attira più di 10 milioni di turisti stranieri l’anno, rispetto ai circa 7 milioni che arrivano a Milano. Tuttavia, grazie a Expo 2015, il numero di turisti nel capoluogo lombardo è aumentato del 9 per cento a maggio e del 12 per cento a giugno di quest’anno (a Roma è salito del 5 per cento nel mese di giugno 2015).
6. Corruzione. Sia Roma che Milano sono finite al centro di vari scandali. Gli appetiti della mafia sui grandi lavori di Expo sono un fatto ormai, tristemente assodato. Lo testimoniano le decine di inchieste giudiziarie e gli arresti (oltre 15 da marzo 2014) che hanno messo in luce i legami tra imprenditori e famiglie mafiose. Ma nel 2015 Roma è finita sulle prima pagine per la sporcizia, i rifiuti e «Mafia Capitale»: da dicembre sono circa 80 le persone finite in manette e oltre 100 gli indagati.
7. Calcio. «Milan e Inter? Sono squadre di calcio. Roma e Lazio: sono religioni». Alla fine, scrive Bloomberg, si torna quasi sempre a parlare di pallone, di giocatori, di campionato. E di quale città può vantare più scudetti: Milan e Inter hanno entrambi 18 scudetti, la Roma ne ha 3 e la Lazio 2. E così la «finalissima» (sempre secondo Bloomberg) vede Milano vincente su Roma per 6 a 0. Anche se nell’ultimo campionato...
PARADOSSI SUL WEB. Ecco le ragioni per cui Milano è «la peggiore città al mondo». BuzzFeed, il popolare sito americano esprime - con ironia - tutta la propria ammirazione per il capoluogo lombardo, scrive ancora Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera". Gli americani adorano Milano. Non lo dicono solo i numeri: dei 3,8 milioni di turisti giunti nei primi cinque mesi di Expo, al primo posto si collocano proprio gli statunitensi. E per puro divertimento BuzzFeed, il popolare sito con oltre 200 milioni di utenti unici al mese, ha pubblicato nei giorni scorsi una classifica delle 32 ragioni per cui «Milano è il peggio in assoluto». Il sito, con una carrellata di foto e didascalie assolutamente ironiche, esalta per antitesi il capoluogo lombardo, proprio come aveva fatto ad aprile, poco prima dell’apertura di Expo, con le «39 ragioni per cui l'Italia è il peggior Paese al mondo».
1. Dunque, hai sentito grandi cose su Milano? Inizia così, con una bella immagine del Duomo, il singolare racconto di BuzzFeed che elogia la città di Milano. Il titolo: «Dunque, hai sentito grandi cose su Milano?».
2. Pensi che valga la pena farci una breve vacanza? La seconda immagine è quella della galleria Vittorio Emanuele II, uno dei punti di forza di Milano: grazie soprattutto alla presenza delle tante boutique griffate, la splendida struttura in stile neorinascimentale viene percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, che rimangono affascinati dal passaggio coperto. Anche chi fa la più breve delle vacanze non può non vederla.
3. Be’, risparmia tempo e soldi...La terza immagine è quella di Borgo Pirelli, in zona Bicocca, un gioiello di 30 case in stile liberty nato nel 1921 per ospitare gli operai dell’omonima fabbrica che sorgeva proprio lì di fianco. Sullo sfondo le Alpi innevate in una (ahimé rara) giornata limpida.
4. Perché Milano non li vale...I Navigli: centro nevralgico della movida milanese. La (riuscita) riqualificazione della Darsena è uno dei progetti che Expo lascia in eredità a Milano e alla Lombardia.
5. E nessuno dovrebbe mai andarci! Altro gioiello: il Teatro alla Scala, il Piermarini.
6. Seriamente, guarda quanto è brutta! Ancora una veduta dei Navigli.
7. È come una brutta grande verruca sulla faccia dell'Italia. Di nuovo la Galleria Vittorio Emanuele, in uno scatto dall’interno.
8. È semplicemente ripugnante. Lo skyline di Milano visto dal Duomo: il santo sulla guglia sembra fissare i nuovi grattacieli di Porta Nuova.
9. Così ripugnante da essere al limite dell'insulto. La basilica di Santa Maria delle Grazie, situata nel cuore della città. L’imponente opera architettonica è legata in modo indissolubile all’affresco di Leonardo, il Cenacolo, conservato al suo interno, nel refettorio. Dal 1980 è sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
10. Questa città non ha classe. Il Duomo: simbolo del capoluogo lombardo, per superficie è la terza chiesa cattolica nel mondo (dopo San Pietro e la cattedrale di Siviglia). Per Expo, il Duomo è stato consegnato in tutto il suo splendore ai milanesi e ai tanti visitatori. La ristrutturazione è costata decine di milioni di euro.
11. Nessun mordente. I variopinti graffiti sulle saracinesche sono piaciuti agli autori del sito americano. Sull’argomento i milanesi hanno pareri discordi.
12. Nessuna vita culturale. Il Teatro alla Scala, uno dei più celebri al mondo: da oltre duecento anni ospita artisti internazionalmente riconosciuti. Fu inaugurato il 3 agosto 1778 con «L’Europa riconosciuta», dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri.
13. Non c'è arte. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie. Databile al 1494-1498, è la più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale.
14. Zero storia. L’espressione «Fabbrica del Duomo» è divenuta proverbiale per parlare di qualcosa che dura moltissimo tempo, perché la costruzione e la manutenzione della cattedrale di Milano sono un processo infinito. La Veneranda Fabbrica del Duomo fu istituita nel 1387, con il compito di provvedere all’amministrazione, alla conservazione e alla disponibilità per il culto del Duomo.
15. Davvero una pessima moda. Milano vuol dire moda. Assieme a New York, Londra e Parigi, è tra le capitali più importanti dell’industria del fashion. E gli americani questo lo sanno benissimo: alla Settimana della moda le star non mancano mai.
16. E assolutamente nessun senso per lo stile. Che i milanesi abbiano un sesto senso per la moda lo si può capire anche dal look dei motociclisti in strada. Il sito americano approva, i milanesi si lamentano del traffico.
17. Proprio no. Un’auto d'epoca in centro.
18. Qui non succede mai nulla. Il coro e l'orchestra del Teatro alla Scala durante l'evento di apertura di Expo 2015 in piazza Duomo.
19. Non c'è nessun posto dove andare nel fine settimana. Lago di Como, a circa 50 km da Milano
20. L'architettura è noiosa. Il Bosco Verticale, a Porta Nuova, progettato da Stefano Boeri, che si è aggiudicato l’International Highrise Award 2014 vincendo su 800 grattacieli di tutti i continenti.
21. Non hanno proprio immaginazione... Le Residenze Zaha Hadid a CityLife. L’architetto anglo-iracheno ha anche progettato lo «Storto», il secondo grattacielo di CityLife - 44 piani per 170 metri di altezza - che sarà pronto entro il 5 ottobre 2016. Il «Dritto», la torre Isozaki, aspetta i tremila dipendenti di Allianz (arriveranno nel 2017).
22. È datata. La Torre Unicredit, 239 metri di altezza, è collocata a ridosso di corso Como e della Stazione Garibaldi. Cuore del complesso è la piazza Gae Aulenti. È stata progettata dall’architetto César Pelli ed è sede della direzione generale di UniCredit. Tutt’altro che datata, è stata inaugurata l’11 febbraio 2014.
23. Il tutto è semplicemente orribile. E qui vien quasi voglia di dar ragione al titolo: risente proprio dello stile del Ventennio la «porta urbana» che, secondo il proposito dei progettisti, avrebbe segnato il passaggio dall’antica alla nuova città. Ma evidentemente agli autori del sito americano è piaciuto anche l’Arengario, palazzo costruito negli anni Trenta su progetto degli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini e sopravvissuto ai bombardamenti del 1942. Ora ospita il Museo del Novecento.
24. Urta i miei sentimenti. Lo skyline di Porta Nuova: a sinistra il Diamante.
25. Davvero, vorresti andarci? L’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II.
26. Vorresti passeggiare per queste strade? Il nome Brera deriva da braida: terreno incolto, ortaglia. Oggi questo quartiere pullula di negozi, bar, ristorantini. E di tanti, ma davvero tanti, turisti.
27. Sederti su questa fontana? La «torta degli sposi» in piazza Castello, ricostruita dopo i lavori per la linea 1 della metropolitana. Il Castello Sforzesco, fondato da Galeazzo II Visconti, venne ricostruito da Francesco Sforza nel 1450, che affidò al fiorentino Antonio Averlino il compito di realizzare la spettacolare torre dell’orologio. Una curiosità: alla fine dell’Ottocento si pensò seriamente di abbatterlo per sostituirlo con una fila di palazzi residenziali. Alla fine venne salvato dall’intervento (provvidenziale) di Luca Beltrami che ne curò poi anche la ristrutturazione.
28. Guidare attraverso questo arco? In effetti non si può passare in auto sotto l’Arco della Pace, ma si vede che agli americani l’idea piace. La costruzione dell’Arco della Pace, progettato nel 1807 da Luigi Cagnola, fu interrotta dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo; venne terminata per volontà di Francesco I d’Austria. È uno degli ingressi del Parco Sempione, e tutta l’area circostante è pedonale.
29. Dovresti essere pazzo per voler vivere in un posto del genere! Via della Spiga, una delle zone più lussuose e centro dello shopping dell’alta moda a livello mondiale. Sono in pochi quelli che possono dire di viverci.
30. Quindi credimi quando dico: non visitare mai Milano! Perché è la peggiore in assoluto! La carrellata si conclude con un’immagine tipica di turisti in piazza Duomo: un invito per i cittadini americani.
INVECE NO! TUTTI UGUALI. ROMA –MILANO, ITALIA. cOME NEL '92.
Questa volta nel mirino di Crozza finisce Mario Mantovani, il vicepresidente della regione Lombardia (ed ex assessore alla salute) finito in manette proprio poco prima di partecipare alla "giornata della legalità". Come chiosa il comico genovese. “Oggi a Milano hanno arrestato il vicepresidente della Regione Lombardia, ex assessore alla sanità. Doveva partecipare alla giornata della trasparenza e della legalità, ma è stato arrestato "un secondo prima". Voi avete mafia capitale e a Milano abbiamo sanità criminale”, scherza il comico nella copertina Di Martedì del programma di La7 del 13 ottobre 2015, in onda su La7, condotto da Giovanni Floris. Quanto all'accusa di aver truccato gli appalti per il servizio di trasporto dei malati in dialisi, commenta "Di fronte a questo gli scontrini di Marino sono bazzecole", dice Crozza. «Voi avete Mafia Capitale a Roma e noi Sanità regionale. Tu mi dirai cosa c’entra? Da voi è Cosa Vostra, da noi Cosa Nostra, il bicamorrismo è perfetto». Crozza ha notato che l'accusa rivolta al vice presidente della Regione guidata da Bobo Maroni è quella di aver fatto "la grana sui dializzati". Se ne conclude che "mentre al Nord fottevano i malati, a Roma fottevano il medico", con riferimento alle dimissioni di Ignazio Marino: Marino come dottor House, solo che il bastone al momento non gliel'hanno messo proprio in mano. (...) Ieri al Campidoglio 2000 persone chiedevano a Marino di restare. Tutta gente che era stata a cena con lui, tra l'altro. Quindi un passaggio su "Sabrina Ferilli che fa il caxxiatone al Papa" e sulle idee del Premier per il post Marino nella Capitale: Renzi vuole sostituire Marino con 1 commissario e 8 sottocommissari. 9 al posto di 1, vedi che il Jobs Act funziona! Su Marino: «La data per le dimissioni ufficiali è il 2 novembre, il giorno dei morti. E’ sfigato, dai non gliene va bene una».
Se Roma Piange, Milano non ride. Maroni farebbe bene a dimettersi, scrive “On Line News”. Se Roma piange Milano non ride, espressione consunta ma tremendamente efficace. Mettiamo pure da parte il luogo comune ma la situazione si fa veramente difficile, la corruzione sembra una pianta inestirpabile che condizione sempre più la politica. Certo dove ci sono i grandi affari si sono i corrotti, i corruttibili e i corruttori. Milano e Roma in prima fila. Ma si poteva ragionevolmente pensare che la storia avesse insegnato qualcosa. Invece ci cascano tutti e gli sviluppi della corruzione scoperta, del malgoverno, del malaffare, trascinano a fondo la politica e i politici. Che reagiscono in modo diverso. Ma sostanzialmente lasciano malvolentieri incarichi e poltrone, come se la colpa fosse di altri, o almeno condivisa. Pochi che si facciano da parte spontaneamente. Marino è rimasto aggrappato al suo scranno come una cozza, si è fatto massacrare e difficilmente, al di là delle utopie, avrà un futuro politico. Maroni, presidente della regione Lombardia rischia di essere trascinato nello stesso vortice. Si fosse presentato alla stampa con le dimissioni in tasca con un discorsetto del tipo: non potevo non sapere e se non me ne sono accorto sono un pessimo presidente. Sarebbe stato un atto di dignità che gli avrebbe procurato applausi, consensi e lo avrebbe tenuto in partita. Così come si sta comportando, invece, rischia grosso. Credibilità a picco, palla nel campo avversario, demolizione mediatica. Provare per credere.
Mantovani e le tangenti in Lombardia. L’ira di Salvini, che si autodenuncia «Segnalavo associazioni benefiche». Il leader leghista: a Garavaglia accuse assurde, colpiti perché cresciamo, scrive Marco Cremonesi su “Il Corriere della Sera”. «Sono stanco. Stanco e inc...». Matteo Salvini è in tour per l’Emilia. Il tono è secco, molto più cupo del solito:
«Sa che faccio? Mi autodenuncio. Sono colpevole».
E di che cosa?
«Di segnalazione. Al posto di Garavaglia, lo avrei fatto anche io. Anzi, l’ho fatto: da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò».
Il segretario leghista sta arrivando a Parma per un comizio. Salvini mette fuori dal finestrino dell’auto il telefonino, si sentono rumoreggiare dei cori. Sono leghisti festanti? No, sono militanti dei centri sociali:
«Li sente? - grida Salvini nel telefono - sono i democratici urlanti e lancianti che cercano di impedirmi di parlare. Poi, però, chi viene indagata è una persona come Garavaglia perché avrebbe segnalato un’associazione di ambulanze. Senza prendere un euro, beninteso. Pazzesco, pazzesco...».
Secondo la procura di Milano, Garavaglia avrebbe agito per mantenere o aumentare il suo consenso elettorale. Almeno come ipotesi, è ammissibile. O no?
«Macché, mi faccia il piacere... Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca».
Lui ha detto che ci deve essere un errore. Lei non la pensa così?
«Di nuovo, mi faccia il piacere... Guardi, giusto ieri (lunedì) ero stato un facile profeta. Al consiglio federale della Lega avevo detto: ragazzi, visto che siamo in crescita, prepariamoci. I sondaggi ci danno al 15,2 per cento e per fermarci le proveranno tutte. E in effetti, eccoci qui. Un’inchiesta che segna un primato».
Quale primato?
«È la prima indagine al mondo in cui si accusa una persona di aver cercato di dare una mano ad un’associazione benefica. Peraltro, senza riuscirci. Per l’ufficio di Garavaglia passano qualcosa come venti miliardi di euro».
Beh, la proroga dell’incarico all’associazione Croce azzurra Ticinia la avrebbe comunque favorita.
«Ma quale favorita, se poi non ha vinto? Comunque, ripeto: io l’avrei fatto e lo rifarei. Se c’è una Croce di qualsiasi colore, un’associazione che conosco e stimo, per farli partecipare a un bando io telefono anche al presidente della Repubblica».
La vicenda di Mantovani è altrettanto irrilevante, dal suo punto di vista?
«Non mi permetto di commentare l’indagine che riguarda Mantovani. E peraltro non ne so nulla, anche se lui mi pare una brava persona. In ogni caso, quella sembra un cosa diversa, che non riguarda l’aiuto alle ambulanze. Per quanto mi riguarda, mi permetto soltanto di dire che sono vicino a un padre a cui è nato un figlio dieci giorni fa (il capo di gabinetto dell’assessorato alla Sanità, Giacomo Di Capua), per un qualcosa che riguarda fatti che risalgono come minimo a un anno fa».
Insomma: un complotto?
«Beh, nel passato già ci hanno provato. Si ricorda quando per due anni hanno cercato dei soldi che ci avrebbero dato degli indiani per degli elicotteri. Poi, l’inchiesta (quella su Finmeccanica ndr ) è stata archiviata. Perché non c’erano soldi, non c’erano indiani, non c’erano elicotteri».
Ma quale sarebbe lo scopo?
«A qualcuno dà fastidio la sanità lombarda. Un solo numero: l’anno scorso in Lombardia sono venute da altre regioni per farsi curare tante persone da fare 872 milioni di fatturato. Un record europeo. Chissà, forse un po’ d’invidia...».
Scusi, che c’entra l’invidia?
«Massì, e allora la dico più chiara: forse qualcuno vuole coprire e far dimenticare i problemi del Pd e di Ignazio Marino? E Montepaschi? Nessuno ha pagato, tranne gli italiani. La Lombardia è la Regione meno costosa per i cittadini. E a qualcuno dà fastidio che la Lega, il partito delle ruspe e delle felpe, sia al governo nelle Regioni che producono il 30 per cento del Pil».
Come cambia Salvini se lo scandalo è a Roma o a Milano. Il leader della Lega tuona contro i giudici: "Si tratta di un attacco politico per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino". Il tutto a pochi giorni dalle dichiarazioni del governatore Maroni, che vede nel numero uno del Caroccio un buon candidato per la poltrona di sindaco di Milano, scrive Selene Ciluffo il 14 Ottobre 2015 su Today. Dopo l'arresto del vicepresidente della regione Lombardia, uno dei primi a schierarsi a fianco di Mario Mantovani è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Lo fa "berlusconianamente" apparendo su tutti i media possibili (dalle televisioni ai giornali) e prendendosela con i giudici: "Un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia magari per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino e Renzi. C’è stata una giornata di sputtanamento mediatico sulla migliore sanità europea e anche sulla Lega". Per questo secondo il leader del Carroccio la giunta lombarda non sarebbe a rischio, nonostante la mozione di sfiducia pronta di Pd e M5s. D'accordo con lui anche il governatore Roberto Maroni: "Salvini ha ragione, si tratta di un attacco politico". Mantovani è accusato di corruzione per aver favorito un architetto, Gianluca Parotti, nell’ottenimento di incarichi in appalti pubblici, compresi lavori in diversi ospedali lombardi, in cambio di prestazioni gratuite nei propri affari immobiliari privati. La Lega fa quadrato intorno a un berlusconiano di ferro a pochi mesi dalle elezioni comunali milanesi, previste per la primavera del 2016. E quando si è parlato di un possibile candidato, Lega e berlusconiani si sono trovati d'accordo su un nome: Matteo Salvini. Ovviamente la procura milanese la pensa in maniera diversa dal leader della Lega: per il pm Giovanni Polizzia, l'unico modo per "interrompere il funzionamento della concatenazione delittuosa" è quello di "neutralizzare Mantovani". Parole pesanti, sottoscritte anche dal gip Stefania Pepe, nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto del vicepresidente della regione Lombardia. La sua sarebbe una "fittissima rete di relazioni" da cui risulta "evidente che l'unica misura effettivamente in gradi di prevenire sia la commissione di nuovi delitti che, soprattutto, le attività di condizionamento ed intervento sulla genuinità delle prove (già peraltro avviate) sia quella massima della custodia cautelare in carcere”. Il leader della Lega è anche entrato nel merito dell'inchiesta della procura, prendendo le difese anche di Massimo Garavaglia, assessore regionale all’Economia e braccio destro di Maroni. Garavaglia è indagato per turbativa d’asta, insieme a Mantovani e altri, nel filone di una gara d’appalto per il trasporto dei dializzati, cancellata a esito già stabilito, secondo l’accusa per far rientrare in gioco alcuni operatori delle Croci con sede nei bacini elettorali dei due politici. Salvini usa i social per schierarsi con gli indagati. “Da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò”. In realtà secondo la procura di Milano Garavaglia non ha semplicemente fatto delle segnalazioni, ma si sarebbe adoperato per annullare una gara d’appalto già assegnata per il servizio di trasporto dei malati di reni bisognosi del trattamento di dialisi. Ma questo al leader della Lega non interessa: “Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca”. Per Salvini si tratta di una vera e propria campagna, visto che il Carroccio, in particolare negli ultimi mesi, ha aumentato i propri consensi nei sondaggi e di conseguenza "la giunta non deve dimettersi". Diversa invece era stata la reazione di Salvini quando lo scandalo aveva coinvolto la giunta e la città di Roma. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale, Salvini aveva marciato sul Campidoglio chiedendo a gran voce le dimissioni del sindaco Marino. Non solo: in merito all'amministrazione capitolina, il leader della Lega non ha mai negato la necessità di "onestà, trasparenza e pulizia". Parametri però che non vengono applicati alla giunta lombarda, fatta secondo il leader del Caroccio da "brave persone". Eppure qualche dubbio la procura milanese su questo lo ha avuto: tanto da far scattare dei provvedimenti cautelari, come gli arresti domiciliari.
Tangenti nella sanità, arrestato il numero due del Pirellone Mario Mantovani. Uomo forte di Berlusconi in Regione, ex senatore e fino ad agosto assessore alla sanità. È accusato dei reati di concussione e corruzione aggravata. Indagato anche il Richelieu di Maroni, il leghista Massimo Garavaglia, scrive Michele Sasso il 13 ottobre 2015 su “L’Espresso”. Un terremoto scuote il Pirellone: arrestato Mario Mantovani, numero due in Regione Lombardia a fianco di Roberto Maroni e fino ad agosto potente assessore alla sanità. Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha comunicato che è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Mario Mantovani per i reati di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti. Arrestati, per gli stessi reati, Giacomo Di Capua, collaboratore di Mantovani e dipendente regionale, e Angelo Bianchi, ingegnere del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Nell’ambito della stessa indagine è indagato per turbativa d’asta anche l’assessore all’Economia della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, ex parlamentare della Lega e potente Richelieu di Maroni: ogni decisione della giunta passa dalla sua approvazione. L'inchiesta riguarda il periodo tra il 6 giugno 2012 e il 30 giugno 2014 per tangenti negli appalti della sanità. In quel periodo Mantovani faceva la spola tra Roma come senatore e sottosegretario ai Trasporti nel governo Berlusconi e la sua città natale Arconate, dove ha fatto il sindaco ininterrottamente dal 2001. Solo nel 2013 ha lasciato la Capitale per diventare vicepresidente della regione Lombardia. Secondo il pubblico ministero Giovanni Polizzi, Mantovani avrebbe sfruttato l’influenza derivante dalle sue numerose cariche per pilotare alcune gare d’appalto nel settore sanitario, favorendo liberi professionisti in concorso con altri pubblici ufficiali e ottenendo in cambio «mazzette» non sotto forma di denaro, ma di prestazioni di professionisti. Arrivando al Senato, il presidente di Forza Italia commenta la notizia dell'arresto per corruzione di Mario Mantovani, vicepresidente della Regione Lombardia ed esponente di spicco dei forzisti a Milano di Marco Billeci e Angela Nittoli. Per esempio, avrebbe ottenuto che i lavori di ristrutturazione di alcuni immobili di sua proprietà venissero realizzati da un architetto «amico», che in cambio avrebbe ottenuto alcuni incarichi pubblici e vinto alcune gare d’appalto. L’accusa di turbativa d’asta deriva dal fatto che Mantovani avrebbe contribuito a pilotare gare pubbliche relative tra l’altro al trasporto di pazienti dializzati, all’edilizia scolastica e alle case di riposo. Nell’elenco sono finiti anche la casa di riposo Opera Pia Castiglioni a Cormano e la struttura di Casorezzo. Entrambe controllate dall’impresa di famiglia, la fondazione Mantovani (in memoria della sorella Ezia, Mario è presidente), e poi appartamenti e uffici ad Arconate, la cascina dove abita il politico e immobili di alcuni familiari. Secondo l’accusa avrebbe anche fatto pressioni a un dirigente del provveditorato alle Opere pubbliche per far ottenere incarichi a persone a lui vicine. Tra politica e business, Mantovani è l’uomo forte di Forza Italia: è stato il più votato dai lombardi (quasi 13mila preferenze nel 2013), tanto da autodefinirsi “sindaco di Lombardia”. Partito dal comune dell’hinterland milanese di Arconate, ha costruito da qui la sua carriera politica e imprenditoriale: 65 anni, docente, imprenditore, europarlamentare. Nel 2008 il grande salto a Roma come senatore e sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti. E allo stesso tempo coordinatore del Popolo della Libertà per tutta la regione-simbolo del potere degli azzurri. Negli affari il core business di questo epigono di Berlusconi è proprio la sanità, come raccontato da “l’Espresso” alla vigilia della campagna elettorale che ha portato Roberto Maroni all’ultimo piano di Palazzo Lombardia. Di Mantovani si è parlato per un conflitto d'interessi, visto che i suoi affari di famiglia prosperano grazie anche ai contributi della Regione. Gli assi nella manica sono la fondazione Mantovani e la cooperativa Sodalitas, dove siede come presidente del consiglio di amministrazione la moglie Marinella Restelli. L’attività principale è la progettazione, costruzione e gestione della residenze socio assistenziali, le Rsa per anziani. Già nel 1996 dalla giunta guidata dal compagno di partito Roberto Formigoni arrivano oltre 14 milioni dai fondi sanitari come strutture accreditate per la cura degli anziani: la Regione rimborsa con soldi pubblici una quota della retta giornaliera. Nelle voci a bilancio anche 4 milioni e 300 mila euro a fondo perduto per costruire "infrastrutture sociali" proprio ad Arconate. A San Vittore Olona nel 1997 la fondazione acquista dalla parrocchia locale il diritto di superficie per 40 anni, grazie all'imprimatur del Pirellone che certifica con una delibera che il progetto «è finalizzato alla realizzazione di una Rsa per 60 anziani non autosufficienti». L'affare delle case di riposo si allarga e vengono inaugurate nuove strutture, tutte nel milanese. Nel 2003 la casa famiglia di Affori, periferia nord di Milano, e a pochi chilometri un altro centro a Cormano. E poi l'Hospice di Cologno Monzese con posti letto ad hoc per malati terminali e centro diurno. Gli affari non si arrestano neppure con le inchieste della magistratura che svelano la corruzione milionaria della sanità lombarda e travolgono l’ex governatore Roberto Formigoni: ad aprile 2012 altri 40 posti per il centro di Cormano. Oggi i posti letto sono oltre 400, un piccolo impero di residenze che ha permesso alla cooperativa Sodalitas di chiudere il bilancio 2011 con un giro d'affari di 18 milioni e utili per 687 mila euro. A conti fatti la Regione ogni anno stacca un assegno da 6 milioni di euro per le due creazioni di Mantovani. E nessun dubbio quando è stato il momento di decidere a chi assegnare l’assessorato alla sanità, una poltrona cruciale dove si decidono finanziamenti per quasi 8 miliardi di euro. L’uomo forte di Berlusconi doveva fare il custode di questo tesoretto.
Il tuttofare del potente politico forzista si dovrà occupare di: "analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici". Peccato abbia solo il diploma e nessuna competenza in materia, scrivono Marzio Brusini ed Ersilio Mattioni il 21 luglio 2014 “L’Espresso”. Mario Mantovani, vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Sanità, ha garantito una consulenza da 16 mila euro per il suo autista-segretario, il 21enne Fabio Gamba, per occuparsi di “analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici”. C'è da chiedersi con quali competenze. E infatti è lo stesso Gamba il 6 maggio scorso in un comune alle porte di Milano, Arconate, a svelare l'arcano: “Non ho nessuna esperienza - dice - e questo potrebbe essere apparentemente un problema, ma in realtà fortunatamente so di poter contare sulla competenza e sull’esperienza del nostro fuoriclasse, Mario Mantovani”. O più semplicemente basta essere il vicepresidente della Regione, per procurare al proprio autista-segretario un incarico. Non di certo il primo perché già nel 2013, il “fuoriclasse” Mantovani assicura al suo tuttofare una consulenza, da maggio a dicembre, per 10 mila euro per svolgere mansioni ancora oggi avvolte nel mistero. Il sito web di Regione Lombardia, alla voce consulenze, non brilla per trasparenza e l’interessato, interpellato all’epoca dei fatti, aveva risposto in modo evasivo: “Lavoro nello staff del vicepresidente”. "Non ho nessuna esperienza, ma so di poter contare sul nostro fuoriclasse, Mario Mantovani". Chi parla è Fabio Gamba: 21 anni, diplomato al liceo di Arconate e autista dello stesso Mantovani. L'occasione per questo discorso è la presentazione, lo scorso 6 maggio, di una lista per le elezioni comunali. Dopo Gamba a prendere la parola è lo stesso Mario Mantovani, assessore della Sanità e vicepresidente forzista della Lombardia, che ricorda come lui preferisca "segnalare la gente di Arconate". Detto, fatto: l'autista tuttofare, senza alcuna competenza, ha ottenuto una consulenza al Pirellone da 16 mila euro per "analisi dei costi della spesa farmaceutica territoriale ospedaliera, oltre che presidio tavoli tecnici" di Ersilio Mattioni. Anno nuovo, consulenza nuova. Ed ecco il nome di Gamba compare ancora nell’elenco degli incarichi fiduciari, ai sensi della legge regionale 20 del 2008. La normativa, 57 pagine, regola ogni tipo di rapporto di lavoro dentro il Pirellone. Leggendo il testo ci si imbatte decine di volte nelle parole “merito”, “controllo” e “trasparenza”. Fino all’articolo 23, quello relativo alle segreterie degli assessori. Il comma 7 recita testualmente: “Può essere assunto personale esterno all'amministrazione regionale”. E tanti saluti, fatta salva la competenza che deve possedere chi riceve un incarico. Nello specifico, l’autista-segretario di Mantovani dovrà dimostrare di intendersene del costo dei farmaci e pure del lavoro utilizzo negli ospedali. E vantando solo un diploma al liceo linguistico di Arconate non deve essere particolarmente facile. Il curriculum del ragazzo di bottega di Mantovani è comunque ricco di spunti interessanti. Nel 2009 è in stage “presso la segreteria politica del sottosegretario di Stato Sen. Mario Mantovani in via Giolitti 20 ad Arconate”; nel 2010 fa l’educatore al “centro vacanze giovani di Igea Marina, in provincia di Rimini”, gestito da una cooperativa della famiglia Mantovani; nel 2011 lavora nella sede romana del fu ‘Popolo della Libertà’ in via dell’Umiltà; nel 2012 presta una collaborazione occasionale in Rai, sempre a Roma, dove però nessuno si ricorda del suo passaggio. E’ iscritto all’università Bocconi di Milano, anche se gli esami, causa la sua intensa attività al fianco del vicepresidente della Lombardia, vanno un po’ a rilento. Il suo curriculum si chiude con una perla: “Ulteriori informazioni: La mia più grande passione è la Politica”. ‘P’ maiuscola, per carità. Ma per quale motivo questa grande passione deve essere spesata dai lombardi con consulenze fantasiose? Spesata dai lombardi pure la spedizione del mese scorso in terra giapponese in occasione della festa della Repubblica: tre notti a Tokyo da 2 giugno al 5 giugno. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’inchiesta sulle missioni internazionali del ‘World Expo Tour’, alle quali lavora anche Maria Grazia Paturzo, una delle due donne che il governatore Roberto Maroni avrebbe fatto assumere nella società Expo 2015 (stipendio mensile: 5 mila euro), mentre l’altra, Mara Carluccio, è finita in Eupolis, ente controllato dal Pirellone. Per i magistrati bustocchi quello di Tokyo sarebbe stato un “viaggio in stile prima Repubblica”. Di diverso avviso il capogruppo di Forza Italia al Pirellone, Claudio Pedrazzini, ex assistente di Mantovani a Strasburgo nel 1999: “Il viaggio sarebbe finito nel mirino dei magistrati. Ma sulle altre missioni analoghe nessuno ha nulla da dire?” Difesa rocciosa. Ma Pedrazzini riesce persino a peggiorare la situazione: “A quel viaggio hanno partecipato quattro persone (doveva andare il presidente Maroni, sostituito il giorno prima della partenza dallo stesso Mantovani) e il costo totale è stato inferiore ai 25mila euro”. In pratica, 6 mila euro a persona. Fra volo, alberghi e ristoranti i rappresentanti della Regione devono essersi trattati bene. Assieme all’assessore alla sanità c’era anche, non è ben chiaro a che titolo, il suo autista-segretario Gamba. Il quale, lo stesso 2 giugno, postava su Facebook una foto di Mantovani a Tokyo con tanto di messaggio del vicepresidente lombardo, che con la consueta modestia si attribuiva il merito di aver portato Expo a Milano: “Questa mattina ho preso parte alle celebrazioni per la festa della Repubblica presso l'ambasciata italiana a Tokyo, in rappresentanza della Lombardia e del nostro paese. Dopo essermi impegnato nel 2008, da parlamentare europeo, affinché Milano ottenesse l'assegnazione di Expo 2015, in questi giorni con il ‘World Expo Tour’ stiamo promuovendo con soddisfazione l'evento in tutto il mondo. Buona festa della Repubblica a tutti! Viva l'Italia!”. Gamba, interpellato il 6 giugno di ritorno dal Giappone dal cronista Paolo Puricelli del settimanale ‘Libera Stampa l’Altomilanese’ sulle spese del viaggio, aveva replicato: “Fortunatamente posso pagarmelo da solo (la famiglia Gamba-Trimboli è fra le più ricche di Arconate). Visto però il vostro interesse per i miei viaggi, la prossima volta vi manderò una cartolina”. Intanto basterebbe sapere a che titolo possa redigere un'analisi dei costi della spesa farmaceutica degli ospedali lombardi. Per le cartoline c'è sempre tempo.
Mario Mantovani e Massimo Garavaglia intercettati mentre discutevano del nostro articolo. Che aveva anticipato il nuovo business delle ambulanze, scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso” il14 ottobre 2015. Mario Mantovani e Massimo GaravagliaI due uomini chiave del potere lombardo si scrivono via sms. Da una parte c'è il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e braccio destro del governatore Roberto Maroni, ora indagato. Dall'altra Mario Mantovani, berlusconiano della prima ora, vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità, da ieri in cella a San Vittore. A preoccuparli è un'inchiesta de “l'Espresso”, pubblicata a marzo 2014, che metteva in luce il cuore dello scandalo: “Assalto all'ambulanza. Fuori i volontari, il soccorso diventa un affare”. I due si stavano muovendo proprio per azzerare un appalto sul trasporto di pazienti in dialisi: undici milioni l'anno. Una torta che vede scendere sul sentiero di guerra una galassia di croci e associazioni di lettighieri, alcune professionali, altre di puro volontariato, diverse con agganci politici. Garavaglia manda quindi un messaggino a Mantovani, intercettato dalle Fiamme Gialle. «Su l'Espresso questa settimana ho trovato un articolo dal titolo Assalto all'ambulanza. Evidenzia quel che dicevamo ieri. Il servizio è ad alto rischio. Mi arriva qs per croce azzurra». La risposta è sintetica: «Sto lavorando martedì ne parliamo». E il leghista chiude la chat: «Grazie». Poche frasi, che vengono incluse nell'ordine di cattura per il numero due del Pirellone, perché secondo gli inquirenti evidenziano l'interesse di Garavaglia e le attività illecite di Mantovani per riaprire un appalto pubblico già chiuso. Una gara dove venivano richieste garanzie finanziarie e tecniche, che avrebbero tagliato fuori alcune realtà più piccole del soccorso. Come la Croce Azzurra Ticinia Onlus, sponsorizzata da Garavaglia che si sarebbe attivato con il ras della Sanità Mantovani. L'interesse dei due politici è convergente: Mantovani interviene sul vertice della Asl Milano 1 «affinché non venissero escluse Croci definite dallo stesso assessore “nostre”». A muovere la coppia di assessori ci sono interessi di campanile: le associazioni di volontariato operano nei “loro” comuni, in quell'area dell'hinterland milanese dove Garavaglia è stato sindaco e Mantovani all'epoca lo era ancora. Il sostegno alle Croci che gestiscono le ambulanze significa voti e consenso. Ma nel momento in cui le Onlus – che per definizione non dovrebbero avere finalità di lucro – entrano in affari da decine di milioni di euro, il quadro cambia radicalmente. Perché le autolettighe diventano di fatto un'azienda, che gestisce fondi e assunzioni. Proprio quello che per primo “l'Espresso” ha raccontato con l'inchiesta di Michele Sasso: “Assalto all'ambulanza. Il soccorso diventa un business. L'obiettivo non è più salvare ma incassare”. Parole che vengono sottolineate dall'assessore Garavaglia nel suo sms allarmato per l'articolo: «Fuori i volontari il soccorso diventa un affare». La nostra inchiesta descriveva la metamorfosi del settore, dove una deregulation strisciante trasforma le onlus in cavalli di Troia per le operazioni di politici e mafiosi, il tutto a danno del vero volontariato. Un'analisi confermata dalla procura di Milano: «Il problema di queste Croci è di tipo economico. Tali associazioni pur essendo state escluse dalla gara non solo vogliono recuperare l'affidamento del servizio ma lo vogliono a condizioni più favorevoli di quelle previste nella gara». Il procedimento per turbativa d'asta può apparire una storia piccola. Matteo Salvini parla di «un'indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti. Lo accusano di avere cercato di dare una mano a un'associazione benefica». Certo. Ma questa vicenda mostra come pur di assecondare il desiderio di un assessore si arrivi a svuotare una gara di appalto pubblica già conclusa, innescando un circuito colossale di conflitti di interesse fino a raggiungere il risultato. Vengono mobilitati decine di dirigenti regionali e funzionari delle Asl per garantire incassi di poche migliaia di euro alla Croce Azzurra Ticinia tanto cara a Garavaglia. E proprio seguendo le mani che si sono mosse per gestire questa pratica i magistrati hanno ricostruito gli assetti di potere nella Regione. Monitorando così i rapporti di forza tra Lega, Forza Italia e Ncd; i settori di lottizzazione e la mappa dei centri di spesa nella sanità pubblica dell'era Maroni. Un'attività di indagine che potrebbe presto portare a vicende molto più rilevanti delle ambulanze.
Mantovani, la notte insonne in cella. «Io, all’inferno da innocente». In carcere non ha potuto leggere i giornali. «Sono stato molto massacrato?», chiede il vice presidente della giunta regionale ed ex assessore alla Sanità, scrive Simona Ravizza su “Il Corriere della Sera”. Le lacrime in una notte insonne, la prima a San Vittore, passata a pensare ai figli, Lucrezia e Vittorio, tutti e due chiamati a raccolta l’altra mattina, «per un abbraccio e un saluto», prima di essere portato in carcere. Quando la Guardia di Finanza martedì si è presentata all’alba a Cascina Vittoria, l’abitazione di Arconate, Mario Mantovani, il «Faraone della Lombardia» arrestato per corruzione, pensava a una perquisizione, com’era già avvenuto del resto per il suo architetto di fiducia, Gianluca Parotti: «Mai mi sarei aspettato di finire qui», dice l’ex assessore della Sanità e numero due della Regione a chi è andato a trovarlo. All’avvocato Roberto Lassini, amico di vecchie campagne contro i pm ai tempi dei processi contro Silvio Berlusconi e oggi suo legale, consegna la linea di difesa: «Sono finito in un inferno da innocente». Con gli amici politici, invece, si lascia andare all’amarezza: «La mia immagine politica è distrutta». Cella 117, Terzo raggio, quello destinato ai colletti bianchi finiti nelle grane con la giustizia, dieci metri quadrati con un letto a castello e un altro di fianco. Una mini-cucina e il bagno. La televisione sempre accesa. Ora il suo mondo è questo. Mantovani vuole seguire in diretta le notizie che lo riguardano. Non può leggere i quotidiani e chiede informazioni, il desiderio è sapere quel che si dice - e scrive - fuori: «Sono stato molto massacrato?». In tuta da ginnastica scura, le scarpe da tennis, il volto segnato di chi ha trascorso la notte in prigione. Dopo tutti i dossier scottanti che ha maneggiato come assessore alla Sanità (prima che il governatore Roberto Maroni lo silurasse), adesso sfoglia nervosamente le 216 pagine con le accuse che l’hanno portato in carcere. Per «una spiccata attività criminale», scrive la Procura. Sull’ordinanza Mantovani mette punti interrogativi, punti esclamativi e parentesi. Prima di costruire un impero di case di riposo, foraggiate con soldi pubblici, era un insegnante: e adesso - racconta chi l’ha visto - sembra un docente impegnato a correggere i compiti a casa. Uno dei suoi compagni di cella, a San Vittore da 14 anni, prepara un piatto di spaghetti anche per lui. Ma lo sguardo torna subito sulla porta d’acciaio blindata e con il finestrino. La sensazione è quella di sentirsi rovinato. Anche se Mantovani è determinato a difendersi. Tra chi l’ha incontrato in carcere c’è anche Matteo Salvini, il leader della Lega, entrato a San Vittore non tanto da politico, ma come uomo preoccupato per le condizioni di un altro detenuto, il braccio destro di Mantovani Giacomo Di Capua, anche lui agli arresti per corruzione. È diventato papà da pochi giorni. Gli amici più stretti hanno sempre definito Mantovani «un uomo a cui spari, ma non riesci a fargli uscire sangue», proprio per la sua capacità di restare impassibile in qualsiasi situazione. Ma la giornata in carcere è lunga e l’avvocato Lassini è preoccupato: «Temo per la sua tenuta psicofisica - dice -. L’ho visto provato anche se è un uomo forte. Nei suoi occhi ho trovato lo smarrimento che fu il mio 20 anni fa (Lassini fu arrestato da sindaco di Turbigo, ma poi assolto, ndr ). Quello di un innocente».
COME NEL 92. Filippo Facci su "Libero Quotidiano": "E' tornata Tangentopoli".
Ma che bell'autunno tiepido: sembra di essere tornati al 1992, quando gli arresti erano un festival e ogni regola veniva stravolta con gioia e soavità. Naturalmente non ci sogniamo nemmeno di entrare nel merito delle accuse rivolte al vicegovernatore della Lombardia Mario Mantovani (più altri sei, compresi un suo collaboratore e un ex assessore regionale leghista) anche perché dalle carte non si capisce niente, o quasi, ma contiamo che per gli inquirenti sia diverso. Se dovessimo affidarci a quanto scritto da agenzie di stampa come LaPresse - che di norma bada al succo - dovremmo infatti accontentarci di roba così: «Per il gip Stefania Pepe, Mantovani andava arrestato perché gli "interessi illeciti" suoi e "dei suoi familiari" e la "fittissima rete di relazioni che il politico vanta nel territorio di Arconate di cui è stato sindaco per oltre dieci anni (e non solo) che potrebbe essere efficacemente strumentalizzata dall' indagato sia al fine di perpetrare ulteriori illeciti che di porre in essere attività svolte ad inquinare le prove, altresì del perpetuarsi ad oggi - secondo le più recenti acquisizioni investigative - delle già accertate dinamiche delittuose"». Chiaro, no? Ma stiamo barando: avevano detto che non entravamo nel merito. Dunque, a proposito di manette e clima da revival, limitiamoci a notare che:
1) Mantovani è stato arrestato all' alba a casa sua, ma fuori c'erano già cronisti e fotografi ad attenderlo: l'hanno anche salutato. Significa che lo sapevano da almeno la sera prima. Bello, bravi, la gente deve sapere.
2) Secondo quanto riferisce il suo legale, l'arresto è di ieri mattina all' alba, appunto: ma la richiesta del pm risale al settembre 2014. Più di un anno per la convalida. E dopo più di un anno, beh, non c'era altra strada che scegliere proprio il giorno in cui Mantovani doveva aprire i lavori della «Giornata della Trasparenza» organizzata dalla Giunta e dal Consiglio regionale. Niente di strano che il presidente Roberto Maroni, che doveva intervenire, abbia cambiato programma.
3) E niente di strano che le manette abbiano eccitato i Cinque Stelle tipo il capogruppo Dario Violi, che col suo bell'accentone di Costa Volpino (Bergamo) si è presentato al convegno con una mezza cassa di arance da associarsi tipicamente alla galera di Mantovani: senza sapere tra l'altro - come pochi sanno - che in carcere le arance sono proibite, al pari di angurie e banane. Senza sapere, in realtà, nulla di quanto andava succedendo. Ma c'erano le telecamere. È bastato.
4) Quanto alla necessità dell'arresto («extrema ratio») passa la voglia di occuparsene, ormai. Mantovani non era più un assessore «pesante» da tempo, si era dimesso dall'assessorato alla Salute (fulcro dei presunti illeciti, da quanto inteso) ed era soltanto assessore ai Rapporti con l'Unione Europea, alla Programmazione comunitaria e alle Relazioni internazionali: poltrone più che altro di rappresentanza. Fa niente, l'arresto era necessario lo stesso. Anzi, le dimissioni a quanto pare lo hanno favorito. Pericoli di fuga? È un anno che si vocifera dell'arresto: e Mantovani - i cui interessi economici non si spostano dalla Lombardia - non si è mai mosso. Tuttavia le cariche pubbliche e imprenditoriali, nonché la lunga carriera politica di Mantovani, nell'ordine d'arresto vengono snocciolate come indizio sostanziale di pericolosità sociale: le carte del gip sembrano un approfondito curriculum. Non ci sono di mezzo mazzette, comunque: ci sono utilità personali accumulate in una vita da politico. Secondo l'accusa sono illecite, secondo la difesa no. Difficile cogliere la necessità di un arresto proprio ora.
5) L'arresto di Mantovani fa calare la tela sulla presunta «tregua per Expo» concessa dalla procura di Milano e considerata, più o meno da tutti, come qualcosa di assodato e soprattutto lecito: peccato che la Costituzione, nonché l'obbligatorietà dell'azione penale, non contemplino niente del genere. Fu vera tregua? L'invito alla moderazione causa Expo (palesemente benedetta da Governo, Quirinale, Confindustria, Csm e procura di Milano) ha inaugurato un'ambiguità da cui ora pare difficile districarsi. Siamo a ottobre: significa che la tregua è finita, visto che sta per chiudere anche Expo? Dunque la tregua c'era? Dunque l'azione penale può andare ufficialmente a velocità differenziata, come in realtà sappiamo benissimo che - da sempre, in Italia - possa andare non ufficialmente? Se l'arresto di Mantovani era stato richiesto più di un anno fa, significa che, senza la tregua Expo, l'avrebbero ingabbiato prima? Sono tutte domande cervellotiche e da giornalisti all' italiana: ma che il fantasma della tregua Expo purtroppo ora autorizza. Se davvero Expo ha congelato inchieste e manette, aver caldeggiato Expo potrebbe divenire un indizio di colpevolezza. Avvisati.
Caso Mantovani: sta’ a vedere che ora i pm s’inventano anche la “mafia meneghina”, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista. Chissà se nel corso dell’interrogatorio di garanzia cui sarà sottoposto oggi nel carcere milanese di San Vittore, al vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani, arrestato due giorni fa, sarà contestato anche il reato di associazione mafiosa. Non ci sarebbe di che stupirsi, ci troveremmo di fronte a una riedizione lombarda di “Mafia capitale”, una sorta di “Mafia meneghina”, insomma. Del resto, che cosa aspettarsi da un’inchiesta che i magistrati hanno voluto battezzare con il nome di “entourage”, quasi a voler processare un intero ambiente invece che singole persone? Si ha la sensazione, leggendo la corposa ordinanza di custodia cautelare, che i soliti noti hanno diffuso a piene mani ai giornalisti, che ormai, a Roma come a Milano, l’unico modello processuale possibile sia quello nel quale si perseguono i reati di mafia. Cioè il modello del maxiprocesso, nel quale si giudicano più gli ambienti e le situazioni che non – come invece vorrebbe il codice del 1989, che prevede un sistema di tipo accusatorio – il singolo imputato e il singolo reato. Ecco quindi che, nel caso di Mario Mantovani, si spendono molte pagine per elencare gli incarichi politici che nel corso del tempo il vicepresidente della Regione Lombardia ha ricoperto, quasi come se fosse strano che una persona di 60 anni si sia candidata diverse volte e diverse volte sia stata eletta (tra l’altro alle elezioni europee con il sistema delle preferenze e altrettanto alle regionali, in cui è arrivato primo tra i candidati di tutti i partiti con 13.000 preferenze). Tutto ciò evidentemente rappresenta un’aggravante, agli occhi di pubblici funzionari con carriera garantita, quali sono i magistrati. Fatto sta che, mentre a Roma stanno ancora contando gli scontrini di Ignazio Marino, per il quale nessuno tiene conto del fatto che è diventato sindaco con regolari elezioni e non con un colpo di Stato, ecco che si sgancia la bomba su Milano. Le elezioni di primavera sono servite. Se ne accorge anche la Lega (che non è proprio campionessa di garantismo) questa volta, dato che tra gli indagati spicca anche una figura di primo piano di quel partito e della Regione Lombardia, l’assessore al Bilancio Massimo Garavaglia. Il quale è indagato insieme a Mantovani per un episodio in realtà secondario, ma che ha acceso la fantasia della stampa perché riguardava il trasporto di pazienti dializzati e la richiesta che questo servizio fosse prorogato (per novanta giorni) in capo a un’associazione di volontariato prima di effettuare la gara. Una sorta di “raccomandazione”, insomma. Non certo una gara truccata. Sufficiente a giustificare un arresto? Mah. Ma c’è altro, ovviamente. E riguarda l’interessamento dell’assessore Mantovani nei confronti della carriera di un funzionario del provveditorato delle Opere pubbliche e parcelle non pagate a un architetto, che sarebbe stato compensato con qualche consulenza. È sufficiente tutto ciò per montare la panna e di conseguenza specchiarsi nelle prime pagine dei giornali al grido di “è tornata tangentopoli”? È tanto evidente il fatto che si è costruito un monumento su episodi più o meno commendevoli per creare il caso politico, che il Gip ha impiegato un anno a decidere sulle richieste di custodia cautelare, chieste dal Pm esattamente 12 mesi fa. Tanto che non c’è attività investigativa del 2015, ma fatti che vanno dal 2012 al 2014. Quanto tempo ci vorrà a far sgonfiare il soufflé? O davvero vogliamo davvero inventarci, dopo “Mafia capitale”, anche “Mafia meneghina”?
Mantovani reo di «consenso». Ecco i buchi neri dell'inchiesta. Incongruenze nelle accuse al vicepresidente della Regione Lombardia: dalle tangenti inesistenti alle «pressioni» negate dalla stessa vittima, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale. C'è una vittima presunta che nega di essere una vittima. Ci sono favori promessi e in realtà mai ottenuti. Lavori fatti per la collettività e contestati invece come vantaggi personali. Nell'inchiesta che ha sbattuto in una cella di San Vittore il vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, vi sono indubbiamente spaccati eloquenti di un andazzo dove all'interesse pubblico si soppianta spesso quello del politico, della sua cordata, del suo bacino elettorale; e vi è altrettanto evidente il conflitto di interessi potenziale di uno stesso individuo che è businessman dell'assistenza e assessore alla Sanità. Ma vi sono anche buchi neri e incongruenze che lasciano alla difesa di Mantovani spazi ampi per una battaglia con la Procura che si annuncia aspra: a partire dalla richiesta di scarcerazione che quasi certamente l'avvocato Roberto Lassini, difensore di fiducia dell'ex senatore, presenterà dopo l'interrogatorio di oggi. Mantovani è accusato di concussione ai danni di Pietro Baratono, provveditore alle Opere pubbliche della Lombardia, per averlo costretto ad riaffidare incarichi operativi a Angelo Bianchi, un funzionario che era stato messo da parte in quanto inquisito per corruzione. A verbale, Baratono parla di «pressioni molto decise» da parte di Mantovani, ma dopo l'arresto dell'ex senatore, parlando col Giornale, ha modificato il tiro: «Non pressioni, direi consigli». Sta di fatto che Baratono si guardò bene dal denunciare le pressioni o i consigli di Mantovani, rimise Bianchi al suo posto, e ai pm spiegò: «Su Bianchi ho successivamente maturato un giudizio personale nel corso di quell'anno». «Tangenti sui dializzati», titolano ieri i giornali sull'arresto di Mantovani, affrontando il tema eticamente più delicato dell'affare, l'appalto per il servizio di trasporto pubblico dei nefropatici. In realtà, la Procura non ipotizza che siano passate tangenti, tant'è vero che a Mantovani e all'assessore Massimo Garavaglia viene contestato solo il reato di turbativa d'asta. I due sarebbero intervenuti per consentire ad alcune associazioni di volontariato della loro zona di continuare a svolgere il servizio («Te lo segnalo prima che poi ci rompono le balle che abbiamo escluso la croce azzurra», dice Garavaglia a Mantovani). E ieri al Giornale il presidente della onlus che Mantovani avrebbe «miracolato», la Ticinia, spiega: «Non abbiamo chiesto nessuna raccomandazione, abbiamo solo scritto a tutte le istituzioni che alle gare d'appalto non avrebbe potuto partecipare l'intero mondo del volontariato, che statutariamente non può svolgere servizi commerciali. E infatti noi quel servizio non lo svolgiamo più». L'accusa di corruzione mossa a Mantovani riguarda gli appalti e gli incarichi pubblici che avrebbe fatto avere all'architetto Gianluca Parotti in cambio di una serie di lavori svolti per lui dal professionista gratuitamente o a prezzo ridotto. Alcune di queste prestazioni riguardano Mantovani e i suoi familiari, ma altre sono state effettuate da Parotti a favore della collettività di Arconate. Ma Mantovani ci guadagnava ugualmente, dice il giudice, perché era il sindaco del paese e in questo modo «si avvantaggia in termini di consenso».
SANITA’: L’OBBIETTIVO NON E’ SALVARE, MA INCASSARE.
Sanità, il soccorso diventa business. L'obbiettivo non è salvare, ma incassare. In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona. Il paziente è nelle mani dell’abilità del guidatore a destreggiarsi nel traffico, della capacità del personale nel massaggio cardiaco e nella rianimazione. Adesso invece anche il soccorso d’emergenza sta diventando un ricco business: in Italia si spende un miliardo e mezzo di euro per garantire gli interventi. Oggi si punta al profitto, tagliando sulla qualità, risparmiando sui mezzi e imbarcando soggetti senza qualifica. Una torta che attrae interessi spregiudicati e lottizzazioni politiche, un serbatoio di soldi facili e posti assicurati. Perché il settore di fatto è stato investito da una deregulation, che rischia di creare un Far West a sirene spiegate. Il ministero della Salute ha ceduto i controlli alle Regioni, che preferiscono affidarsi ai privati. Dalla Lombardia alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia è scattato l’assalto all’ambulanza. Nunzia De Girolamo ha perso la poltrona di ministro proprio per uno scandalo sugli appalti del 118. Ovunque sono segnalati disservizi e a Sud nella mangiatoia si è infilata persino la criminalità. Questo ai danni di oltre 150 mila volontari, che vengono scacciati per fare spazio a organizzazioni spregiudicate. «Ci sono finti volontari che ricevono lo stipendio in nero mascherato da rimborso», spiega Mario, soccorritore di Torino. Il metodo è uguale da Milano a Napoli: le associazioni di pubblica assistenza, le cosiddette “Croci”, si iscrivono all’albo regionale e sgomitano per accaparrarsi le corse. L’obiettivo non è più salvare, ma incassare. «Abbiamo scoperto persino casi di autisti alcolizzati e soccorritori zoppi», racconta Mirella Triozzi, responsabile del settore per il sindacato medici italiani: «Con l’arrivo dei privati il soccorso è diventato un colossale affare, dimenticando che in ballo c’è la sopravvivenza di migliaia di persone». In Puglia le 141 basi delle ambulanze costano 68 milioni di euro l’anno. La pioggia di denaro pubblico ha scatenato la concorrenza tra decine di onlus, che sgomitano per conquistare le postazione delle ambulanze: averne tre (il massimo consentito) significa fare bingo e incassare 120mila euro ogni mese. «Ai presidenti delle associazioni rimangono in tasca 6 mila euro al mese», riconosce Marco De Giosa, responsabile del 118 della Asl di Bari. C’è più di un sospetto su come siano stati assegnati gli incarichi: la procura del capoluogo sta indagando su un sistema di tangenti che sarebbero state smistate ai funzionari arbitri degli appalti. Stando alle inchieste, i controlli fanno acqua da tutte le parti. Nessuno ha mai chiesto la fedina penale a Marcello Langianese, ex presidente dell’Oer, Operatori emergenza radio, un ente morale con 50 ambulanze e decine di dipendenti. Langianese era il manager del soccorso che gestiva diverse postazioni tra Bari e Modugno. Mentre veniva stipendiato per salvare i pazienti, è accusato di avere architettato una rapina clamorosa. Secondo i carabinieri ha avuto un ruolo chiave nell’attacco contro un furgone portavalori nel centro di Ortona: un colpo che ha fruttato quasi due milioni e mezzo di euro. Nella regione per il business delle ambulanze si combatte persino con le bombe incendiarie, che hanno distrutto i mezzi di alcune onlus a Bari, Trani, Barletta e Foggia. A Turi, sempre nel Barese, hanno bruciato un’autolettiga nuova di zecca. L’ipotesi investigativa è che si tratti di avvertimenti criminali. Per evitare che le associazione di volontari possano spezzare il monopolio di un cartello che invece agisce solo a scopo di lucro. L’intercettazione è esplicita: «Quando ti chiamano e abbiamo bisogno a quell’orario di un’autoambulanza, mi fotto 1500 euro». È agli atti dell’inchiesta sui Lo Bianco, la cosca di Vibo Valentia che dominava la Asl locale, e spiega come ogni uscita a sirene spiegate si trasforma in denaro contante. Guadagni sicuri, costi ridottissimi: per entrare nel settore non sono richieste competenze particolari. L’imprenditore mette il capitale, acquista o noleggia i mezzi e cerca gli autisti. Va bene chiunque. Uno degli indagati è stato registrato mentre ingaggia il personale: «La guideresti l’ambulanza? La patente è quella della macchina, sono 800 euro puliti». Non è l’unico caso. Nello scorso luglio è emersa la vicenda della Croce Blu San Benedetto di Cetraro nel Cosentino. I magistrati sostengono che a gestirla fosse Antonio Pignataro detto “Totò Cecchitella”, seppur privo di incarichi ufficiali. Pignataro non è una pedina qualunque: è stato arrestato per i legami con il boss Franco Muto, “Il re del pesce”. Quanti interessi si muovano dietro i 118 “liberalizzati” lo ha fatto capire la vicenda che ha travolto Nunzia De Girolamo. Le registrazioni dei colloqui tra l’esponente del centrodestra e i vertici della sanità sannita mostrano l’opacità del settore. Sono riuniti nel giardino di famiglia e Nunzia chiede: «In tutto questo si deve fare la gara?». La discussione verte su come “bypassare la gara pubblica” e favorire un’impresa amica. In quel luglio 2012 l’atmosfera attorno alle ambulanze di Benevento è incandescente, con i lavoratori che protestano per il mancato stipendio. Il servizio è nelle mani di due imprese: la Modisan e la Sanit che lo gestiscono in proroga intascando oltre quattro milioni di euro l’anno. La prima è molto vicina alla regina del Sannio, tanto da aver contribuito finanziariamente al congresso del suo partito. L’altra ditta, invece, non è allineata: «Quelli non li voglio», dice Michele Rossi, l’uomo messo dall’ex ministro alla guida dell’Asl. La lottizzazione riguarda pure la rete dell’assistenza, sfavorendo la copertura nei comuni guidati da giunte non allineate. Come racconta Zaccaria Spina, sindaco di Ginestra degli Schiavoni a 40 chilometri dal capoluogo: «Per venire da noi l’ambulanza ci mette un’ora. I cittadini ormai si sono rassegnati e se c’è un’emergenza si mettono in auto e scappano. Scoprire cosa c’era dietro quelle scelte dà molta amarezza». Nel Lazio uno strano appalto agita i sonni dell’agenzia regionale che gestisce migliaia di ambulanze. La cronica mancanza di risorse ha portato l’ex governatrice Renata Polverini a concedere ai privati quaranta basi, le postazioni dalle quali partono gli equipaggi che coprono la provincia di Roma. Un affare da dieci milioni l’anno, senza gara: vengono assegnate per affidamento diretto alla Croce rossa italiana. Un’istituzione storica seppur piena di debiti, che decide di “girare” l’attività operativa a una srl di Milano, la Cfs costruzioni e servizi: una società specializzata in pulizia e manutenzione di immobili, che applica la logica del ribasso. Così al personale assunto per la missione capitolina viene offerto un contratto singolare: quello da animatore turistico. Soccorritori trattati come se lavorassero in un villaggio vacanze. Perché? Semplice: con questo contratto si risparmia un terzo della paga. Solo dopo un esposto del sindacato è scoppiato il caso. «In questo settore c’è il divieto di dare subappalti, eppure è quanto ha fatto la Croce rossa con l’aggravante di aver avallato condizioni di lavoro ridicole», accusa Gianni Nigro della Cgil Lazio. In Sicilia anche le ambulanze sono diventate uno stipendificio: un pronto soccorso per favorire assunzioni di massa. Nel 2002 grazie a un corso per formare i guidatori-soccorritori con prove di guida banali e surreali test di comunicazione, ben 1600 persone vennero imbarcate in una società creata da Regione e Croce Rossa per garantire il salvataggio nell’isola. Un colosso con un totale di 3300 dipendenti. Che secondo la Corte dei Conti ha prodotto uno spreco di denaro pubblico. L’allora presidente Totò Cuffaro è stato condannato a pagare un danno erariale da 12 milioni per quell’infornata di autisti e soccorritori. Troppi. E troppo costosi. In Sicilia si spende per un’autolettiga 440 mila euro l’anno, contro 100 mila della Toscana. La ragione? Molte macchine sono praticamente ferme o escono solo per tre interventi al mese. L’ultima truffa da venti milioni di euro l’ha scovata l’assessore alla Salute Lucia Borsellino: negli ultimi due anni 160 dipendenti sarebbero stati regolarmente stipendiati mentre in realtà rimanevano a casa. Oltre 600 mila ore non lavorate ma retribuite. Nonostante lo sperpero di denaro, l’assistenza non soddisfa. E la giunta Crocetta ora vuole schierare la cavalleria dell’aria: sei elicotteri, con un costo per il noleggio di 178 milioni in sette anni. Non è una questione solo meridionale. Dietro le sirene si scoprono ovunque storie di sfruttamento e drammatici disservizi. In Lombardia ogni anno il Pirellone stanzia 315 milioni per dare assistenza rapida: ogni intervento è una fattura e inserirsi nelle metropoli permette di moltiplicare i guadagni. Ma a Milano un incidente stradale ha scoperchiato un sistema marcio: l’ambulanza ha bruciato un semaforo e si è andata a schiantare. Si è scoperto che l’autista non dormiva da tre giorni. Da lì sono partite le indagini che hanno svelato quanto sia pericolosa la trasformazione del soccorso in business: precari a bordo pagati a cottimo e obbligati a turni massacranti, mezzi fuori norma, corsi d’addestramento fantasma. Tre inchieste parallele della Finanza in corso dal 2010 stanno svelando lo stesso meccanismo di truffe e peculato. Con risultati raccapriccianti: i responsabili di tre onlus - Croce la Samaritana, Ambrosiana e San Carlo - usavano il denaro pubblico destinato alle emergenze e alla formazione per le loro vacanze, per l’asilo dei figli, scommesse ai videopoker, le auto personali e perfino l’acquisto di una casa. Spese senza freno e i rischi scaricati su migliaia di feriti. Loro stessi ne erano consapevoli e dicevano cinicamente: «Se stai male non chiamare le nostre ambulanze sennò muori». Hanno collaborato Antonio Loconte, Piero Messina, Claudio Pappaianni e Giovanni Tizian.
Pillole a chi non ne aveva bisogno. Le truffe milionarie della sanità. Le truffe nella sanità sono costate allo Stato più di un miliardo, tra false esenzioni e prescrizioni inutili Buco di 1,67 miliardi tra gennaio 2014 e settembre 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera". Furgoncini utilizzati come ambulanze, centinaia di migliaia di farmaci per l’ipertensione prescritti anche a chi non ne ha bisogno, dipendenti di ospedali e cliniche convenzionate che timbrano il cartellino della presenza e tornano a casa. E poi strutture costate decine di milioni di euro e mai aperte come il «Centro cuore» della Calabria, appalti truccati, Isee falsificati per ottenere l’esenzione dai ticket. Se si esamina il dettaglio delle truffe e degli abusi nel settore della sanità pubblica si comprende che molto si può fare per riuscire a risparmiare. La quantificazione del danno è stata effettuata dalla Guardia di Finanza: un miliardo e 67 milioni di euro tra il 1 gennaio 2014 e il 30 settembre 2015. A tanto ammonta il «buco» nelle casse dello Stato provocato dagli illeciti compiuti da medici, infermieri, tecnici di laboratori, ma anche da quei cittadini che lucrano sulle prestazioni per ottenere vantaggio. Non a caso le indicazioni fornite ai comandi delle Fiamme Gialle di tutta Italia invitano ad aumentare i controlli «perché l’attività a contrasto degli illeciti in materia di spesa pubblica contribuisce all’aumento del livello di compliance della platea di soggetti a cui spettano le misure di agevolazione assistenziale e previdenziale». Secondo le norme «la prescrizione di alcuni farmaci “anti-ipertensivi” di costo elevato e rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale deve essere preceduta da una cura con farmaci contenenti il medesimo principio attivo ma non in “associazione fissa”, il cui costo è inferiore ai primi di circa un terzo». Le verifiche compiute in Puglia dai finanzieri sulle ricette emesse tra il 2012 e il 2014 hanno portato alla denuncia di «482 medici di Brindisi, Bari, Lecce e Taranto, che hanno indebitamente prescritto farmaci - ben 15.541 confezioni - arrecando un aggravio al bilancio delle Asl di 194 mila euro». È costata invece oltre un milione e mezzo di euro la truffa contro la Asl di Brescia per la convenzione con alcune società che dovevano occuparsi del trasporto dei pazienti dializzati grazie alla presentazione di richieste di rimborso per oltre due milioni di chilometri mai percorsi e di tariffe ben più alte di quelle massime fissate dalla Regione Lombardia, ma anche facendo risultare un numero di trattamenti molto più alto di quelli effettuati e falsando il numero delle persone trasportate». A Bergamo il meccanismo scoperto era analogo, con un’aggiunta: «anziché furgoncini, le società attestavano di utilizzare l’ambulanza e così aumentavano ulteriormente l’entità dei rimborsi». La Finanza di Sulmona ha denunciato i dipendenti della Asl che dopo aver timbrato il cartellino «tornavano a casa oppure andavano a fare compere o la spesa». Alcuni loro colleghi non perdevano neanche il tempo di andare a strisciare il badge : «Non andavano in ufficio e poi presentavano comunicazione sostitutiva dichiarando di aver perso il cartellino». Per episodi analoghi dieci dipendenti della Asl di Benevento in servizio in ospedale sono stati sospesi dal servizio per ordine del giudice: avevano infatti creato un sistema di turni in modo che gli «assenti» venivano coperti dagli altri. Tra le numerose truffe scoperte dagli specialisti delle Fiamme Gialle ci sono quelle compiute grazie alla falsificazione dell’Isee, l’indicatore della situazione economica di ogni cittadino. Nel maggio scorso a Siracusa sono state segnalate alla magistratura «162 persone che hanno presentato dichiarazioni false e in questo modo hanno ottenuto l’esenzione dal pagamento del ticket». Non sono gli unici, visto che in tutta Italia sono migliaia gli illeciti scoperti. Emblematico il caso di una signora di Genova, moglie di un ricco imprenditore, che era riuscita a risultare totalmente indigente e così non pagava nemmeno un centesimo per cure e medicine. A Piacenza è stata scoperta una clinica convenzionata che faceva risultare ricoverati pazienti in realtà curati in ambulatorio. Danno accertato: 1 milione e 200 mila euro. In Piemonte erano state allestite cliniche in un ex albergo di mon-tagna e nell’abitazione del rappresentante di una delle società che aveva ottenuto la convenzione per il trattamento sociosanitario. Esborso previsto: 3 mila euro a paziente. A Cosenza centinaia di cittadini «beneficiari della “indennità di accompagnamento” negli anni tra il 2010 e il 2014, erano stati ricoverati presso strutture ospedaliere pubbliche o private per periodi superiori a 30 giorni, con retta a totale carico del Servizio sanitario nazionale, senza effettuare le prescritte comunicazioni all’Inps ed evitando che l’erogazione del beneficio venisse sospesa».
ROMA ED IL MOSTRO MARINO.
8 ottobre 2015. Ignazio Marino si dimette da Sindaco.
Marino e la tentazione di Tunina. Un bianco friulano sta facendo molto parlare di sè. Ma non solo per questioni enologiche. Ecco il vino che a Marino è costato molto caro, scrive E.C. su “L’espresso”. Che l’abbia bevuta con la moglie o con il rappresentante del World Health Organization, che sia stata una cena istituzionale o un tête-à-tête coniugale, non può sfuggire che Ignazio Marino, ormai ex sindaco di Roma, i vini li sa scegliere. E, paradossalmente, è il motivo per cui il ristoratore può puntare il dito contro di lui. “Come può ricordarsi a distanza di due anni da quella sera del vino bevuto da due clienti?” ha chiesto il giornalista di Repubblica a uno dei titolari della Taverna degli Amici, luogo del presunto delitto. “Perché quella non è una bottiglia da tutti” ha risposto. Il Vintage Tunina di Jermann, un armonico uvaggio bianco di Sauvignon, Chardonnay, Ribolla Gialla, Malvasia Istriana e Picolit, tra i fiori all’occhiello della produzione vitivinicola friulana, è davvero un vino per buongustai. La vendemmia 2013 ha appena ottenuto un buon punteggio (16,5/20) nella guida dei vini dell’Espresso 2016 e gli ambiti tre bicchieri dalla guida del Gambero Rosso. Al successo di critica fa eco quello del pubblico. Infatti, come dice il direttore delle guide dell’Espresso Enzo Vizzari, “non solo si tratta di unvino di qualità, ma è tra i più famosi all’estero. Se a un appassionato americano si chiede di elencare tre bianchi italiani, nella terna delle risposte non mancherà mai il Vintage Tunina”. Questo vino, che nasce nel cuore del Collio Friulano, ha un colore brillante, riflessi dorati e naso elegante e ampio. Il massimo per chi ama i sentori di miele e fiori di campo nel calice. Asciutto ma morbido, mai spigoloso, ha corpo sostenuto ed è molto persistente. Se Marino è davvero un buon palato avrebbe dovuto mangiar pesce, che si sposa alla grande con questa tipologia. Ma il ristoratore non si ricorda i piatti ordinati. Anche il nome ha un che di affascinante perché Tunina (Antonina) era una delle amanti (la meno danarosa a dire il vero) di Casanova, una governante veneziana. Ma sono poche le probabilità che Marino abbia scelto l’etichetta per omaggiare la memoria della povera sedotta e abbandonata. "Fa sempre piacere sentir parlare bene del nostro vino – commenta l’amministratore delegato di Jermann, Edi Clementin– anche se in questo caso Ignazio Marino è testimonial della nostra etichetta in modo involontario". Comunque come estimatore ha una folta compagnia, spesso internazionale: su 60 mila bottiglie di Vintage Tunina, la metà viene bevuta all’e stero, in particolare Usa, Uk, Russia, Germania. Il sindaco ha pagato la bottiglia 55 euro, il Tunina esce dalla cantina a 37. Un ricarico onesto.
Marino sepolto sotto le macerie di Roma. Il suicidio politico del sindaco si abbatte su una città ormai disastrata. Non ci sono poteri forti, partiti radicati, leadership rampanti. E' solo guerra per bande in un panorama di distruzione. Tocca a Renzi esercitare il suo ruolo-guida. Se c'è ancora tempo per evitare che il virus della Capitale contagi il resto del Paese, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Le macerie di Beirut, la marcia funebre di Beethoven, i paesaggi dei fori romani... La forza delle rovine: si intitola così la bellissima mostra inaugurata a Roma a Palazzo Altemps. Mai esposizione è stata così tempestiva e attuale. Le rovine parlano, le rovine raccontano di una città, di un destino individuale o collettivo ben più di un edificio perfettamente in funzione che può sembrare in piedi e invece è solo l'anticipo di un disastro. Come dimostra la parabola di Ignazio Marino, una lezione universale, qualcosa di più della semplice crisi di una giunta comunale o del triste destino di un sindaco sprovveduto (o forse fin troppo furbo), ben intenzionato a sfidare i poteri forti della città ma evidentemente troppo debole per non finire travolto. "Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. I come to bury Caesar, not to praise him", sono venuto a seppellire Cesare, non a lodarlo, dice Marcantonio nel "Julius Caesar" di William Shakespeare. A pochi metri dagli antichi fori, teatro della congiura delle idi di marzo, sul colle del Campidoglio si consuma la sepoltura politica di Ignazio Marino. In una drammatica giornata di vertici, riunioni, dimissioni, urla in piazza di fascisti e nuovi arrivati, il Pd che si auto-affonda e arriva a sfiduciare il suo sindaco. Dopo l'ultimo autogol del marziano, il videomessaggio in cui prometteva di "regalare" a Roma 20mila euro di spese non giustificate dalla sua carta di credito, seguito a un'incredibile, sconcertante fila di smentite, dalla comunità di Sant'Egidio all'ambasciata vietnamita. Non si può difendere, e meno che mai lodare, Marino per una vicenda che esce dal perimetro della politica per invadere quello dello psicopolitica, l'effetto dello stress e della vanità, dell'accerchiamento e della presunzione. L'impossibilità di amministrare di chi, evidentemente, non era adeguato a reggere il compito. Eppure, una volta che Marino se ne sarà andato nel plauso generale, si dovrà ragionare a mente fredda su cosa sta succedendo da molti anni a Roma, la Capitale d'Italia. Nel giro di un lustro un presidente di regione del centro-sinistra si è dovuto dimettere per una squallida questione di trans, droga e ricatti. Un'altra presidente di centro-destra se n'è andata dopo solo due anni di governo per l'uso disinvolto dei fondi regionali da parte dei consiglieri di maggioranza e opposizione. L'ex sindaco Gianni Alemanno è stato indagato per mafia (una settimana fa è stato prosciolto da questa ipotesi di reato). E il suo successore Marino se ne va: hanno provato a cacciarlo in tutti i modi e ci sono riusciti. E poi l'inchiesta Mafia Capitale e gli arresti eccellenti equamente distribuiti, il Mondo di Mezzo. Più altri misteri: perché, ad esempio, Nicola Zingaretti decise di non correre per il Campidoglio? Si sarebbero evitati tanti guai, forse, compresa la giunta Marino. A Roma sono nati i due progetti politici più importanti degli ultimi vent'anni. Il centrodestra di Berlusconi, che nacque il 23 novembre 1993 quando il Cavaliere affermò ai giornalisti nell'Eurormercato di Casalecchio di Reno che se fosse stato elettore romano avrebbe votato per Gianfranco Fini (in quel momento ancora segretario del Msi) contro Francesco Rutelli. E il Partito democratico, germogliato in Campidoglio prima che nel resto d'Italia: il tanto magnificato modello Roma di Rutelli e soprattutto di Walter Veltroni, regia di Goffredo Bettini. Roma è stata la culla del centro-destra e del centro-sinistra, ora ne è la tomba. Ci si può accanire con un certo sadismo (e con qualche punta di viltà) contro il sindaco Marino e le sue ricevute pasticciate, tutta la città e tutta l'Italia ne sghignazzano in queste ore, domani la risata supererà i confini nazionali. Marino è indifendibile, non ha nessuno che lo difende, infatti. Marino è l'uomo da bruciare e non ha fatto quasi nulla per evitare questa condizione: le vacanze interminabili, il giallo del viaggio americano, il disconoscimento del papa (è forse l'unico essere vivente su cui Bergoglio ha evitato di esercitare la sua misericordia), la tragicommedia dei ristoratori che elencano a memoria il prezzo delle bottiglie di vino alla tavola del sindaco due anni fa. Marino è un suicida politico che è riuscito nel suo intento. Ma sepolto lui resta la politica romana, la più corrotta e la più sputtanata d'Italia. Nella Capitale, attorno agli altri palazzi del potere: Palazzo Chigi, il Quirinale. Travolto è il partito del sindaco, il Pd, e il suo commissario Matteo Orfini, il giovane turco che nei mesi scorsi aveva puntato a tenere in vita Marino per costruirsi un maggiore potere nel partito. Ma anche Matteo Renzi non può dirsi indenne. Ha rifiutato di occuparsi di Roma, ha sempre ostentato la sua estraneità alla città, ai suoi vizi e alle sue mollezze, e la Ricottona si prende la sua rivincita. La catastrofe romana, alla vigilia del Giubileo, oscura la riforma renziana della Costituzione in votazione al Senato, la legge di stabilità in dirittura di arrivo, perfino i venti di guerra nel Mediterraneo. Chiama in campo direttamente Renzi nella sua qualità meglio custodita: la capacità di leadership. Per mesi il premier-segretario del Pd ha rifiutato di toccare anche con un dito il groviglio capitolino, si è limitato a lavorare ai fianchi il sindaco, a togliergli l'aria, a delegittimarlo sui giornali e in tv. E intanto coltivava il suo vero punto di riferimento nella Capitale, il prefetto Franco Gabrielli. Anche in queste ore la tentazione di Palazzo Chigi è trasformare il male in bene. Una volta liberati da Marino, si ragiona, il governo potrà lavorare d'amore e d'accordo con il commissario Gabrielli e al momento del ritorno alla urne gli elettori si saranno dimenticati di questa pagina nera. Un calcolo cinico, forse, ma razionale. Se non fosse che a Roma, da tempo, la situazione è fuori controllo. La città è allo sbando, irriconoscibile per i romani che la amano, infrequentabile per chi si avventura per le sue vie anche soltanto per poche ore. Strade allagate, autobus imbizzarriti, taxi introvabili. Crollo dell'offerta culturale. Periferie mostrificate. Di fronte a questa situazione indegna per una capitale, per soffocare Marino si è continuato a togliere ossigeno alla città. Nell'asfissia politica il sindaco è diventato la vittima designata da eliminare. Ma si sono spenti anche quei residui di partecipazione garantiti dai vecchi partiti. Il Pd è in mano a un pugno di notabili, sempre gli stessi da un ventennio, traslocati dal modello Roma all'incubo Marino, non credono da tempo a nulla e vogliono sopravvivere a tutto. La destra è polverizzata. E se si andasse a votare subito i romani si dividerebbero in due schieramenti a sorpresa, un inedito bipolarismo. I civici di Alfio Marchini (che già grida: "Roma ai romani. Noi ci siamo"), pronti a coprire il vuoto lasciato dai berlusconiani e post-fascisti nell'elettorato moderato, contro il Movimento 5 Stelle di Alessandro Di Battista, a caccia di consensi a sinistra e nelle borgate. Alle elezioni europee del 2014 nei quartieri fuori dal raccordo anulare il Pd ha preso il 36,2 per cento, undici punti in meno rispetto al 47,5 per cento dei quartieri del centro. M5S ha raggiunto il 32,7 per cento (contro il 16,1 dei quartieri centrali) ed erano le elezioni del massimo successo di Renzi, quelle del 40,8 per cento nazionale del Pd. I renziani a Roma non esistono. Sono un happy hour permanente, un salottino allocato tra i quartieri della Rai e le piazzette del centro, senza cultura, senza soggettività politica. Il renzismo a Roma non è partito, è l'apparato statale rappresentato dal prefetto Gabrielli che fa da supplente all'assenza di una squadra e di un gruppo dirigente. Perfino le antiche lobby sono spezzettate, frantumate: la razza padrona del mattone, i palazzinari, hanno brillato fino all’ultimo piano regolatore della giunta Veltroni, ma ora anche il potere immobiliare è in difficoltà. L'Atac presenta 140 milioni di euro di buco previsti nel 2015, un debito che oscilla tra 1,4 e 1,6 miliardi, 11.800 dipendenti iscritti quasi tutti a tredici sigle sindacali, una flotta di 2.200 autobus, di cui il 40 per cento fuori uso, e 22 milioni di euro di danno per assunzioni illegittime, secondo la Corte dei conti. Non ci sono poteri forti, partiti radicati, leadership rampanti, solo la guerra per bande in un panorama di macerie. Uno scenario libico, nel cuore dell'Italia, lasciato incancrenire. E ora tocca a Renzi esercitare il suo ruolo-guida. Se c'è ancora tempo, se si può evitare che il virus della Capitale contagi il resto del Paese.
Roma, ira del sindaco Marino dopo le dimissioni: «Basta, ora farò i nomi». Lo psicodramma del sindaco di Roma che avverte il partito, scrive Ernesto Menicucci su “Il Corriere della Sera”. Ci ha provato fino all’ultimo a rimanere, a resistere, a non abdicare. Passando, nel corso della sua giornata più drammatica, dalla rabbia alla depressione, dalle rivendicazioni al senso di solitudine più nera. Alla fine, dopo il colloquio con gli assessori Marco Sabella (l’uomo su cui Marino si era appoggiato) e Marco Causi, il chirurgo dem ha capito che non c’era più nulla da fare: «Perché mi fate questo? Io sto cambiando Roma». Sabella e Causi gli riferiscono «l’ambasciata» di Orfini e gli danno il colpo di grazia: «Ignazio basta, è finita. La tua maggioranza non esiste più. In dieci assessori (su dodici, ndr) siamo pronti alle dimissioni». Il primo a dirlo, in giunta, era stato Stefano Esposito, senatore dem spedito a governare i Trasporti. Poi la slavina: lo stesso Causi, Luigina Di Liegro e giù giù tutti gli altri. Marino, lì, ha capito che era davvero al capolinea. Del resto, glielo aveva detto già di buon mattino Orfini, al telefono: «Abbiamo deciso. Ti devi dimettere». Il sindaco, però, l’ha presa malissimo. E, con l’animo scosso, il cuore in tumulto, ha reagito di stizza, come gli capita solo nei momenti molto privati: «Cacciarmi? Se lo fate farò tutti i nomi: chi del Pd mi ha proposto Mirko Coratti e Luca Odevaine (due degli arrestati di Mafia Capitale, ndr) come vicesindaco e come comandante dei vigili. Vi tiro giù tutti». Marino ha ricordato di «avere tutto scritto nei miei quaderni» e di «avere anche degli sms di dirigenti nazionali del Pd». Una minaccia, come quella di scrivere un libro «esplosivo», che gli starebbe curando l’ex caposegreteria Mattia Stella, dimessosi quest’estate dopo la relazione di Franco Gabrielli. Marino si difende: «Non sono un ladro, non ho fatto niente, posso giustificare tutte le spese sostenute». Versione alla quale neppure i suoi credono più: scartabellando le ricevute, in Campidoglio erano terrorizzati anche per quelle all’albergo vicino al Colosseo. Cene dove però era anche indicato un numero di stanza, «ma solo per il sistema di fatturazione dell’hotel», hanno poi ricostruito i suoi collaboratori. Marino, dopo la telefonata con Orfini, è rimasto chiuso nella sua casa vicino al Pantheon. Con lui, solo la «fedelissima» Alessandra Cattoi, la collaboratrice di sempre che Marino ha nominato assessora. Una mattinata da psicodramma, col sindaco che è passato dalla voglia di mollare a quella di resistere: «Hanno citofonato a casa di mia madre, hanno cercato mia moglie al telefono. Ti rendi conto? È davvero troppo», il suo sfogo. Si è sentito «braccato», in gabbia, accerchiato. Ma lei, a poco a poco, l’ha convinto a mettersi in trincea: «Convochiamo i tuoi sostenitori in Campidoglio, non puoi andar via così», il consiglio. Marino ha cominciato a pensare alla «resistenza a oltranza», a un «videomessaggio struggente». Arriva in Campidoglio evitando cronisti e contestatori, riunisce la Giunta, i consiglieri comunali (con i quali si commuove anche), i presidenti di Municipio, chiede a tutti «se siete ancora con me». Alle tre del pomeriggio pensa ancora di poter «spaccare il Pd: se qualcuno si dimette lo sostituirò». In Comune lo vedono vagare da solo, nei corridoi e nel suo studio. Alterna momenti di riflessione a incontri con lo staff, aspetta le risultanze dei vertici al Nazareno, spera in una dichiarazione di Renzi che gli conceda «l’onore delle armi». Quando Causi e Sabella (anche a lui, in Giunta, era scappata una lacrima) gli comunicano il responso, facendogli balenare l’ipotesi di un «salvacondotto», molla. Poi prepara il video di addio e ragiona sul futuro: «I romani sono con me. Potrei anche presentarmi con una mia lista contro il Pd». Un’altra minaccia, forse l’ultima.
Dimissioni Ignazio Marino, il sindaco: “Ogni nome un favore, ora tiro giù tutti. Per farmi fuori mancava solo la coca in tasca”. Il primo cittadino dimissionario: "Dieci consiglieri su 19 piangevano. Renzi? Mai sentito". Celebra un matrimonio e smentisce tutti i retroscena: "Mai detto che farò i nomi". Salvini lancia la Meloni, il premier non vuole le primarie del Pd. Orfini: "Ho tentato di salvarlo ma ha fatto troppi errori", scrive “Il Fatto Quotidiano”. Ignazio Marino si prepara a guadagnare l’uscita del Campidoglio, ma annuncia fuoco e fiamme fino all’ultimo minuto e anche dopo. Mette nel mirino, in particolare, il suo stesso partito e chi “non avrebbe dovuto sostenerlo e non l’ha fatto”. E, almeno a parole, non ha più freni. Dice di non aver mai sentito, in queste ore, il segretario Matteo Renzi. Ma che, pur di cacciarlo, quelli che lo volevano fuori dal Campidoglio gli “avrebbero messo della cocaina in tasca”, dice in un’intervista alla Stampa. E i retroscena vanno oltre. Raccontano di un sindaco che “l’ha presa malissimo” quando si è trovato contro anche mezza giunta e mezza maggioranza in consiglio comunale. “Cacciarmi? Se lo fate farò tutti i nomi – ha detto il sindaco uscente secondo un retroscena del Corriere della Sera – Chi del Pd mi ha proposto Mirko Coratti e Luca Odevaine (due arrestati di Mafia Capitale, ndr) come vicesindaco e come comandante dei vigili. Vi tiro giù tutti”. Sullo sfondo, tra l’altro, la pubblicazione di un libro scritto insieme a Mattia Stella, il suo ex caposegreteria, che ha lasciato l’incarico durante l’estate dopo la relazione del prefetto Franco Gabrielli sull’inchiesta Mafia Capitale. Marino ha ricordato di “avere tutto scritto nei miei quaderni” e di “avere anche degli sms di dirigenti nazionali del Pd”. Uno scenario confermato anche da un altro retroscena, di Repubblica: “Se io affondo – avrebbe detto il sindaco – li porto tutti giù con me. Nessuno si illuda: farò nomi e cognomi di chi mi ha chiesto favori, raccomandato assessori poi indagati e gente di Mafia Capitale. Ho le prove, le porterò in tv”. Ma è stato l’ultimo tentativo, subito prima di essere invitato a lasciare anche dai suoi assessori più vicini, come quello alla Legalità Alfonso Sabella. E però ora annuncia un tour in tv, dice che Odevaine gliel’ha raccomandato Walter Veltroni, che ha le schede con tutti i favori che in due anni mi hanno chiesto consiglieri e esponenti politici. Marino smentisce tutto: “Leggo su alcuni quotidiani frasi che mi vengono attribuite – dice – Le smentisco. Non ho mai detto ‘ora farò i nomi': tutto ciò è falso e sono costretto ancora una volta a procedere con le querele oltre alle richieste di danni in sede civile”. Il sindaco ha celebrato al Campidoglio il matrimonio di una coppia di amici. Ha letto una poesia di Neruda per suggellare l’amore tra Jamie e Matteo, mantenendo la promessa fatta tempo fa ai suoi due amici, ignaro di cosa fosse avvenuto. Nel giorno delle dimissioni, tra l’altro, Marino ha firmato l’assegno per riconsegnare i soldi spesi con la carta di credito in assegnazione al primo cittadino: si tratta di circa 20mila euro. Marino: “Scontrini? Non escluso imprecisioni degli uffici”. “Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca”. Il sindaco dimissionario si sfoga così in un’intervista alla Stampa nel giorno del suo addio al Campidoglio. Torna alle ricevute e precisa: “Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi”, e ribadisce di essere “disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio”. “Dieci consiglieri su 19 piangevano. Renzi? Mai sentito”. Marino rivendica di aver “rotto le uova nel paniere del consociativismo politico”, ricorda che “Roma sarà parte civile nel processo di Mafia Capitale. Noi abbiamo tagliato le unghie a chi voleva mettere le mani sugli affari” e ora si augura che “chi verrà dopo di me non riporti Roma indietro”. Afferma poi che in questa vicenda nel Pd “mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Delrio e Giovanni Legnini, entrambi molto avviliti per quanto accaduto”. E in Comune “10 consiglieri del Pd su 19″ piangevano. Così come Sabella che “mi ha detto di non aver mai pianto così in 35 anni”. Su Renzi dice: “Non avendo avuto l’opportunità di parlare col presidente del consiglio, non ho potuto conoscere qual è il suo giudizio”. Nessuna minaccia – aggiunge – dietro la puntualizzazione di avere 20 giorni per ritirare le dimissioni: “Prendo atto che Pd e Sel, due partiti della maggioranza, hanno chiesto le mie dimissioni. E un chirurgo non può restare in sala operatoria senza il suo team”. Ora “la decisione non è più nelle mie mani. E io sono l’ultima persona al mondo che vuole occupare una poltrona”. In realtà Marino è caduto perché anche l’ultimo pezzo del Pd lo ha lasciato. Ai vertici del partito nazionale, per esempio, il suo garante in questi mesi è stato il presidente Matteo Orfini. Che però ora dice: “Anche alla luce di quanto emerso in questi giorni, il capitolo è chiuso. Avevamo il dovere di voltare pagina” e “lo dice chi più di tutti ha cercato di rilanciare l’azione dell’amministrazione”. Intervistato da Repubblica, Orfini sbarra la strada ad ogni ripensamento sulle dimissioni del sindaco di Roma Marino: “Tra venti giorni ci sarà il commissario”. E precisa: “Nessuno ha voluto la sua testa. È finita perché si è rotto il rapporto con la città”. “Prima di interrompere un’esperienza votata dagli elettori – afferma – si doveva tentare di tutto. Ma di fronte agli errori commessi, emersi anche in queste ore, non si poteva più andare avanti”. Orfini rimarca che, al di là della vicenda degli scontrini sui quali “le valutazioni le farà la magistratura, il suo errore è tutto in quello slogan elettorale: ‘Non è politica, è Roma‘. Questo è mancato, un progetto di città. È mancata la politica”. “Il Pd – dice – ha fatto il possibile, ora risolverà rapidamente i problemi della città. In tempo per il Giubileo. Roma si trova nella stessa situazione di Milano prima dell’Expo: replicheremo quel miracolo. Di questo si parlerà tra sei mesi”. Quindi afferma che per le elezioni “non abbiamo timori. Cambieremo i sondaggi. E il giorno dopo il voto la destra e i grillini commenteranno la loro sconfitta”. La delusione e l’amarezza sono anche dell’assessore alla Legalità del Comune Alfonso Sabella, uno di coloro che è rimasto al fianco di Marino e che però viene dato nella rosa di chi potrebbe fare il commissario, ma serve essere “o un prefetto in servizio o un magistrato in quiescenza: io, da quando sono in Campidoglio, sono invecchiato di una decina d’anni ma non sono ancora in quiescenza”. “Stavamo facendo qualcosa di importante in questa città – dice il magistrato in un’intervista al Corriere della Sera – stavamo riportando il rispetto delle regole e la legalità, e tutto rischia di andare in malora per una bottiglia di vino da 55 euro”. “Di fronte all’assalto mediatico – spiega – l’unica possibilità sarebbe stata rispondere e dimostrare al millesimo la correttezza di ogni spesa. Stiamo parlando di circa 9mila euro di ricevute contestabili in teoria, su un totale di 19.704,36 euro; cifre esigue, anche perché, con tutto il rispetto, di quanto hanno speso gli altri sindaci non sappiamo nulla. Ma non sarò io a nascondere la gravità dei reati ipotizzabili. Purtroppo, per fatti da cui sono trascorsi anche due anni, questa dimostrazione al millesimo non era possibile”. “Questo – aggiunge – imputo a Ignazio: la leggerezza sua o del suo staff nel creare una situazione simile. Io non credo che il sindaco abbia rubato o mentito intenzionalmente; credo che abbia fatto un po’ di confusione, anche perché la scelta di mettere a disposizione gli scontrini è stata sua, e purtroppo ora la stiamo pagando a caro prezzo”.
“Querelo i giornali”, minaccia Marino, eppure…
Nei quaderni del sindaco date e nomi cerchiati in verde. L’ultima sfida di Ignazio Marino: con la fascia tricolore al processo di Mafia capitale, scrivono Ernesto Menicucci e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Ci sono quelli sistemati in ordine alfabetico e dedicati ad ogni assessore e quelli dove ha annotato incontri e telefonate. Sono tutti rigorosamente con la copertina nera e rigida, hanno date e nomi scritti o cerchiati con la penna verde. Ogni tanto c’è anche un post it giallo, forse ad evidenziare meglio le informazioni importanti. Eccoli i tanto temuti quaderni del sindaco Ignazio Marino, le pagine utilizzate negli ultimi mesi per annotare ogni appuntamento, segnalazione, proposta, raccomandazione. Alcuni li conserva a casa, altri in ufficio, ma c’è chi è sicuro che abbia anche un posto più segreto dove custodirli. Materiale prezioso per il libro che avrebbe quasi finito di scrivere o forse per quella resa dei conti alla quale prima ha minacciato e poi smentito di voler arrivare. Del resto in queste settimane vissute sotto assedio li ha portati con sé anche in televisione, forse a voler dimostrare che di ogni momento ha memoria scritta. È un’abitudine che con il trascorrere del tempo si è trasformata in una sorta di mania. Nel corso dei colloqui il sindaco prende appunti e poi li trascrive sui suoi quaderni, fa veri e propri schemini, evidenzia i punti che ritiene fondamentali. E forse su una di queste pagine ha sottolineato quella che per lui sembra essere diventata l’ultima sfida: presentarsi in Tribunale il 5 novembre, con la fascia tricolore ancora al collo, per l’inizio del processo su Mafia Capitale, nel quale il Comune si è costituito parte civile. Sarebbe, per Marino, quella «resa onorevole» che tante volte, in queste ore, ha provato ad ottenere dal Nazareno. Un atto pubblico - da parte di Renzi o dei vertici del Pd - per riconoscerli almeno l’«onestà», il fatto di essere stato magari un sindaco un po’ pasticcione con le note spese ma che si è battuto contro il malaffare romano. Una via stretta, però. E anche molto complicata. Palazzo Chigi preme per avviare la procedura di commissariamento, gli stessi collaboratori più fidati lo sconsigliano, spiegando che avrebbe dovuto porla come condizione al momento di annunciare le dimissioni, non dopo. Nulla ancora si può escludere, neanche una forzatura per protocollare le dimissioni il 16 ottobre in modo che i venti giorni cadano proprio all’avvio del dibattimento. Senza escludere che prima di allora Marino potrebbe essere convocato in Procura per l’indagine sui suoi scontrini. La prima bozza di difesa è quanto dichiarato in questi giorni: «Non faccio io le note spese». Ci pensano gli uffici, oppure Silvia Pelliccia, la segretaria che ha la delega sul conto intestato al sindaco, dove è «appoggiata» la carta di credito comunale. Lui dovrà comunque ricostruire date e circostanze, facendo ricorso proprio ai quaderni. L’utilizzo dei soldi pubblici a fini privati fa scattare automaticamente l’accusa di peculato. Una via d’uscita potrebbe essere quella della tenuità del reato, ma su questo c’è ancora molto da lavorare.
Marino: “Pur di cacciarmi mi avrebbero messo la cocaina in tasca”. “Renzi? Non ho avuto l’opportunità di conoscere il pensiero del presidente del Consiglio. Ma metà dei consiglieri Pd piangeva”, scrive Massimo Gramellini su “la Stampa”. Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo».
Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?
«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca».
Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.
«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada».
Vox populi: si dava arie da integerrimo e invece sotto sotto era uno spendaccione come gli altri.
«Infatti una volta in cui mi trovavo in albergo a Londra per un convegno con i sindaci europei, ho rinunciato al buffet da 40 sterline perché mi sembrava uno schiaffo alla miseria. Ho attraversato la strada e sono andato da Starbucks».
Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.
«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».
Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no?
«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».
Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?
«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».
Da Renzi si sarebbe aspettato un atteggiamento diverso?
«Diciamo che Renzi non ha avuto la possibilità di apprezzare i cambiamenti epocali che abbiamo fatto in questa città».
Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.
«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».
E Renzi?
«Non avendo avuto l’opportunità di parlare col presidente del consiglio, non ho potuto conoscere qual è il suo giudizio».
Brr, che freddo. Lei ha presentato le dimissioni dicendo che in base alla legge ha venti giorni di tempo per ritirarle. Cos’è, una minaccia?
«Ma si figuri. Prendo atto che Pd e Sel, due partiti della maggioranza, hanno chiesto le mie dimissioni. E un chirurgo non può restare in sala operatoria senza il suo team».
Pensa che qualcuno starà festeggiando?
«Sicuramente. Eppure oggi ho visto tanti volti rigati dalle lacrime… Alfonso Sabella, assessore e magistrato, mi ha detto che non piangeva così da 35 anni. E dieci consiglieri del Pd su diciannove mi hanno assicurato con le lacrime agli occhi che erano contrari alle mie dimissioni».
Dieci su diciannove è la maggioranza… Se erano sinceri, il partito è spaccato in due. Tornerà indietro?
«La decisione non è più nelle mie mani. E io sono l’ultima persona al mondo che vuole occupare una poltrona. Questo incarico meraviglioso mi ha procurato problemi familiari enormi, proiettili in busta e perdita della libertà personale».
Sta scrivendo un libro sull’esperienza di sindaco e queste dimissioni vi aggiungeranno ancora più pepe. Pensa di avere pagato a caro prezzo la sua natura di marziano a Roma, anzi di marziano della politica, troppo ingenuo nei rapporti e poco avvezzo ai compromessi?
«Se sono accuse, le considero medaglie. Non sono mai andato nei salotti e alle cene della Roma che conta. Non ho mai frequentato il mondo che in passato era abituato a decidere assieme alla politica le strategie economiche della città. Io alla terrazza ho sempre preferito la piazza. E vorrei ricordare che il 5 novembre avverrà un fatto storico: Roma sarà parte civile nel processo di Mafia Capitale. Noi abbiamo tagliato le unghie a chi voleva mettere le mani sugli affari».
Ma le mani hanno finito per tagliarle a lei. E proprio alla vigilia di un evento come il Giubileo. Come mai?
«Non lo so. Certo nei prossimi giorni bisognerà decidere quando e come investire sul Giubileo… La mia giunta ha segnato una discontinuità. Mi auguro che chi verrà dopo di me non riporti Roma indietro».
Sembrano le parole di un uomo nauseato dalla politica.
«Diciamo che il comportamento di una parte della classe dirigente non mi ha entusiasmato. Ho provato a interrompere il consociativismo degli affari che fa sedere maggioranza e opposizione intorno allo stesso tavolo, senza scontrini… E ho pagato per questo».
Le dimissioni di Ignazio Marino viste dai giornali stranieri, scrive “Internazionale”. Ieri 8 ottobre 2015 il sindaco di Roma Ignazio Marino si è dimesso. L’annuncio è arrivato verso le 19.30 in un videomessaggio, in cui Marino ha ammesso che esiste “un problema di condizioni politiche” per andare avanti. Il sindaco però ha ricordato che può ritirare le dimissioni entro venti giorni. Marino è da tempo al centro di polemiche e critiche, sia da parte dell’opposizione sia del suo stesso partito. La sua giunta inoltre è rimasta coinvolta nello scandalo Mafia capitale, che ha svelato collusioni tra criminalità organizzata e istituzioni.
Il sindaco di Roma si dimette per lo scandalo sulle spese. The Guardian (Regno Unito). “Lo scandalo sui rimborsi spesa è stata solo la punta dell’iceberg per Marino. Per mesi sono stati sollevati dubbi sulle competenze del sindaco, mentre la città sembrava sgretolarsi sotto gli occhi dei cittadini”, scrive la corrispondente Stephanie Kirchgaessner, “la spazzatura era lasciata in mezzo alla strada, l’erba dei parchi pubblici non veniva curata e lo scandalo di Mafia capitale sulla corruzione negli appalti pubblici - che non ha riguardato personalmente Ignazio Marino - aveva portato all’arresto di decine di funzionari pubblici”.
La caduta di Ignazio Marino, sindaco dimissionario di Roma. Le Monde (Francia). “Sospettato di aver usato la carta di credito del comune per cene private, il sindaco di Roma, eletto nel 2013, ha rassegnato le dimissioni l’8 ottobre. Fino ad allora, il mandato dell’ex chirurgo era già stato segnato da molti fallimenti”, commenta Philippe Ridet.
Il sindaco di Roma si dimette. Frankfurter Allgemeine (Germania). “Ora il presidente del consiglio Matteo Renzi deve impedire che la capitale d’Italia sfugga al suo partito. Secondo i sondaggi, oggi Roma cadrebbe nelle mani del Movimento 5 stelle, il partito che finora in Italia si è fatto un nome più come voce critica di ogni politica che come soggetto in grado di costruire qualcosa”, scrive Joerg Bremer.
Il sindaco di Roma si dimette per lo scandalo sui rimborsi. The New York Times (Stati Uniti). “Ignazio Marino ha cercato di assumere uno stile alla mano e informale, mentre cercava di fare riforme difficili e di sfidare interessi radicati. A differenza dei suoi predecessori e di altri politici italiani, girava la città in bicicletta. Alla fine però è diventato la vittima di accuse di altri tempi”, commenta Gaia Pianigiani.
Il sindaco di Roma si dimette dopo una polemica per scontrini falsi. El País (Spagna). Il corrispondente del quotidiano spagnolo Pablo Ordaz, scrive: “Alla fine, il più grande nemico politico di Ignazio Marino si è rivelato essere lui stesso. In un paio di settimane, quello che fino a ieri pomeriggio era il sindaco di Roma, un chirurgo di prestigio trapiantato in politica nelle file del Partito Democratico, ha fatto a brandelli l’unica virtù che gli riconoscevano anche i suoi molti avversari: l’onestà. Due bugie quasi infantili, soprattutto in confronto al grado di infiltrazioni mafiose che Roma soffre da anni, lo hanno costretto a dimettersi, messo alle strette dalla pressione dei dirigenti del suo stesso partito, tra cui il primo ministro Matteo Renzi”.
Assediato su vari fronti, il sindaco di Roma rinuncia. La Nación (Argentina). “Dopo mesi di scandali, articoloni sui giornali e svariate gaffe, il sindaco di Roma Ignazio marino del Partito democratico ha abbandonato il suo incarico ieri”, commenta Elisabetta Piqué, “Coinvolto in questi ultimi giorni nell’ennesima tempesta, questa volta per spese che ha sostenuto con la carta di credito del comune, il sindaco si è visto obbligato a mollare, sotto la pressione non solo dell’opposizione, ma anche del suo stesso partito”.
Marino, scandali e gaffe: multe cancellate, viaggi e scontrini. La parabola del «moralizzatore». Eletto tra lo scetticismo del suo stesso partito il sindaco in bicicletta è coinvolto in tante cadute. Fino alla smentita di papa Francesco e il caso delle cene sospette, scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera. Ignazio Marino si è dimesso cinque minuti fa e ne viene subito fuori un’altra: non è vero che girasse in bicicletta. Ti volti e dici: no, macché, questa non può essere. E invece sì: lui girava bello comodo in macchina e poi, cinquecento metri prima di arrivare all’appuntamento, arrivava un furgone e dal furgone gli scaricavano la bici. La racconta così Alessandro Onorato, il capogruppo della Lista Marchini. «Uno di noi lo beccò a Villa Torlonia, fece le foto con il cellulare: avremmo voluto montarci su un casino, il sindaco ecologista faceva il furbetto, ma il giorno dopo esplose la storia della Panda rossa e allora...». Scendiamo dal Campidoglio tutti insieme, nella penombra gialla dei lampioni un piccolo corteo di politici e fotografi, cameraman e manifestanti (fino all’ultimo sono rimasti solo quelli che contestavano il sindaco: i suoi fan hanno eroicamente resistito per un po’, al tramonto hanno mollato). Comunque, a ripensarci, prima della Panda rossa ci fu la storia delle nozze gay: con Marino che nella Sala della Protomoteca organizza una cerimonia ufficiale, s’infila la fascia tricolore e trascrive gli atti di matrimonio che sedici coppie avevano stipulato all’estero. Il giorno dopo esplode un putiferio, il prefetto dell’epoca s’infuria e gli intima di cancellare tutto «in tempi rapidi». Sembra la battaglia di un sindaco moderno; ma nel volgere di poche settimane i romani scoprono altro: è pure un sindaco che non paga le multe. Anzi, di più: prima lascia la sua Panda Rossa negli spazi riservati ai senatori davanti a Palazzo Madama senza averne più l’autorizzazione; poi qualche anima pia del centrodestra spiffera: le telecamere di controllo ai varchi d’accesso del centro storico hanno rilevato, per otto volte, l’ingresso di una Panda rossa con la stessa targa di quella del sindaco. La Panda non aveva il permesso, le otto multe non sono state pagate. La città, intanto, agonizza. Sporca, insicura, strangolata dal traffico. La decisione di pedonalizzare via dei Fori Imperiali — il provvedimento con cui Marino si era presentato ai romani — peggiora la viabilità di interi quartieri. Altri quartieri insorgono per motivi diversi: a Tor Sapienza si scatena la caccia all’immigrato e Marino arriva in ritardo, dimostrando di non conoscere il territorio, la struggente rabbia di certe periferie. Abita nel cuore del centro storico, un vicolo dietro piazza del Pantheon. Un giorno apre il portone e trova i cronisti: «Oh, volete farmi festa già di buon mattino?». Quindi prova il solito numero, mettendo su un sorrisone e alzando il dito medio e l’indice aperti in segno di «V», vittoria. Niente feste, signor sindaco, è appena esplosa l’inchiesta Mafia Capitale. Marino l’attraversa, per tragiche settimane, ripetendo sempre una frase, qualcosa tra un mantra e un esorcismo: «Io non mi sono accorto di nulla». In Campidoglio, il suo soprannome diventa «Bambi» (copyright Walt Disney). Il chirurgo di fama che a 59 anni arriva da Genova passando per la fondazione di Massimo D’Alema «Italianieuropei» e per Palazzo Madama con un curriculum di oltre 650 trapianti d’organo (compreso il primo nella storia dal babbuino all’uomo) e il poster di Che Guevara piegato nel trolley, eletto sindaco tra lo scetticismo del suo partito, il Pd, e grazie ad un colpo di mano del potente Goffredo Bettini, non si accorge di ciò che accade nel Palazzo Senatorio. Zero, niente, mai neppure mezzo sospetto. Eppure è circondato da persone che fanno affari con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, «er cecato»: così gli arrestano assessori e consiglieri, il suo partito sprofonda nel fango, arrivano Matteo Orfini, che del Pd è presidente, a fare il commissario straordinario e un ex cacciatore di mafiosi come Alfonso Sabella, a fare il super assessore alla Legalità. Il governo della città traballa, ma la macchina amministrativa — già traumatizzata dalla terrificante cura che gli aveva riservato Gianni Alemanno — lentamente si riaccende. I camion bar della famiglia Tredicine, che erano davanti al Colosseo, vengono spostati. Chiusa la discarica di Malagrotta. Introdotte norme ferree per i cartelloni pubblicitari. Scatenata un’offensiva ai tavolini abusivi in piazza Navona. Abbattuti i muri abusivi sul lungomare di Ostia. Poi Ignazio Marino parte. Va in vacanza, al mare. Ma non va a Fregene o a Sabaudia, a un’ora di macchina dalla città, come facevano altri sindaci (Francesco Rutelli e Walter Veltroni). No, va a tuffarsi nelle acque dei Caraibi. Una mattina (fuso orario) quelli del suo staff gli telefonano: «L’altro ieri ci sono stati i funerali di un Casamonica... hai presente quella famiglia mezza nomade e mezza malavitosa? Beh, era il loro capo... si sono allargati un po’». Petali di rosa da un elicottero che sorvolava la chiesa di Cinecittà, musiche dalla colonna sonora del «Padrino», vigili urbani di scorta al feretro. Poteva bastare per farlo tornare. E invece no. Finisce le vacanze con comodo, poi torna e riparte. Destinazione Filadelfia. Al seguito di papa Francesco. Ma da imbucato. «Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato», precisa — gelido — il Pontefice. La vicenda degli scontrini è di questa settimana. Con la Procura che indaga per peculato: uso spregiudicato della carta di credito del Campidoglio, cene e pranzi offerti e ospiti (tra cui l’ambasciata del Vietnam e la Comunità di Sant’Egidio) che però negano di essere stati ospiti. I fatti sono questi. Cioè, no: c’è un ultimo sms. Entra sul cellulare a tarda sera. «Ma lo sai che Marino oggi, ad un certo punto, s’è chiuso a chiave nel suo ufficio e non voleva più uscire?».
Marino: gaffe, scandali e polemiche. Dall’irritazione del Papa che smentisce l’invito al sindaco, alle offese del primo cittadino a chi lo contesta; dalle caso delle multe alla Panda rossa al prefetto chiamato «badante»: ecco i casi che hanno fatto discutere di più, scrive “Il Corriere della Sera”.
1. Gli scontrini e le cene «sospette». Dopo una resistenza durata alcune settimane, su insistenti richieste del Movimento 5 Stelle a inizio ottobre 2015 vengono resi noti gli scontrini con le spese di rappresentanza del sindaco Ignazio Marino sostenute con la carta di credito del Comune. E subito saltano fuori alcune cene «sospette».
2. E il prefetto diventa la «badante» del sindaco. 1° ottobre 2015, il sindaco prende la parola all’assemblea dell’Acer, i costruttori romani: «Ringrazio la mia badante, il prefetto Gabrielli». Gelo in aula, nessuno ride. Dallo staff di Marino si affrettano a precisare che non era una battuta.
3. Il viaggio negli Usa e la smentita del Papa. Marino vola a Filadelfia per seguire il Papa e annuncia che la trasferta al Campidoglio non costerà un euro. Prima Francesco lo smentisce: «Non l’ho invitato io». Poi si scopre che la trasferta era legata a una conferenza all’università di Princeton. E che il Comune, per Marino e i suoi tre accompagnatori, ha speso diverse migliaia di euro. Scoppia l’ennesima polemica.
4. Il funerale Casamonica e la lunga vacanza. Il 20 agosto a piazza don Bosco, al Tuscolano, si celebrano i funerali di Vittorio Casamonica, capo dell’omonima famiglia spesso coinvolta in episodi di criminalità organizzata. La cerimonia si svolge con riferimenti evidente alla ritualità mafiosa. In Calabria e Sicilia cerimonie simili sono vietate: a Roma nessuno interviene.Il sindaco Marino è in vacanza ai Caraibi. E ci resta anche quando si riunisce il governo per decidere le misure da adottare dopo Mafia Capitale: scongiurato lo scioglimento del Comune, l’esecutivo affianca comunque il prefetto Franco Gabrielli a Marino.
5. Le offese alla contestatrice: connetta i neuroni. «Signora, provi a far funziona quei due neuroni che ha»: con queste parole il 19 luglio il sindaco Marino si rivolge a una donna che lo contesta a margine della cerimonia per ricordare il bombardamento del quartiere romano di San Lorenzo. Infuria la polemica dopo la pubblicazione del video esclusivo su corriere.it. Il sindaco si scusa due giorni dopo: «Non avrei dovuto perdere la calma».
6. Festa dell’Unità: «La destra torni nelle fogne». Il 21 giugno alla Festa dell’Unità il sindaco Marino sale sul palco e si difende dalle polemiche per Mafia Capitale attaccando il suo predecessore Gianni Alemanno e la giunta dell’epoca. «Alemanno voleva raccomandarmi due nomi», annuncia (ma l’ex sindaco smentirà), e poi attacca la destra: «Tornate nelle fogne». Le scuse quattro giorni dopo in consiglio comunale.
7. «I giornali? Ci incartiamo le uova e il pesce». Il 13 maggio il sindaco Marino, irritato per le indiscrezioni di stampa sul possibile affidamento di poteri speciali al prefetto Gabrielli dopo le vicende di Mafia Capitale, commenta: «Non leggo i giornali, a casa li usiamo per incartare uova e pesce».
8. Acea e la retromarcia sul numero di consiglieri. Prima ancora di essere eletto, Marino partecipa all’assemblea di Acea e chiede con forza di ridurre il numero dei consiglieri di amministrazione. Richiesta respinta dal cda targato Alemanno. Insediato come sindaco, Marino lancia la campagna su Acea: dopo un lungo braccio di ferro fa dimettere il board e impone la riduzione del cda da 9 a 7 membri. Ad aprile 2015 la retromarcia: il cda torna a 9 membri. «Questioni di competenza dell’azienda» liquida la questione Marino, dimenticando la battaglia fatta per la riduzione appena un anno prima.
9. «Mai parlato con Buzzi». Ma una foto lo smentisce. Nel pieno della bufera per gli sviluppi dell’inchiesta su Mafia Capitale, il 14 dicembre 2014Marino si affretta a precisare: «Buzzi? Mai parlato con lui». E subito da Internet emergono le foto di un incontro in campagna elettorale fra il sindaco e Buzzi nella sede della coop 29 giugno: niente di illegale, per carità, ma una gaffe in piena regola.
10. Il caso delle multe alla Panda rossa. Il caso scoppia a novembre: si scopre che la Panda rossa del sindaco ha varcato varie volte la Ztl senza il permesso. Dopo i primi silenzi imbarazzati, Marino passa al contrattacco, evoca misteriose manovre sui sistemi informatici del Comune da parte di hacker, si contraddice, poi ammette che c’è stato un ritardo nel pagamento del permesso. La vicenda ha anche un risvolto grottesco: sulla Panda rossa la biografia di Marino su wikipedia viene corretta in corsa. Da chi? Mistero anche questo.
Ignazio Marino, retroscena sulle dimissioni: anche il Vaticano in campo, scrive “Libero Quotidiano”. Roma libera. Ignazio Marino si è dimesso, con riserva ma pur sempre dimesso. Ha detto che ha 20 giorni per ripensarci, ma pare più un capriccio, una "baracconata", piuttosto che una reale possibilità. Accerchiato, umiliato, sputtanato dai rimborsi spese (ultimo capitolo di una lunga, anzi lunghissima, serie di "marachelle" e gaffe) non ha retto al peso di chi voleva farlo fuori, ovvero tutti quanti, in primis i romani, poi la destra, la sinistra, Matteo Renzi, i grillini e chi più ne ha più ne metta. E pure il Vaticano. Già, perché, forse, non è stata tanto la pressione del premier - esasperato da Marino ed esasperato dal fatto di non riuscire a cacciarlo -, ma piuttosto quella della Santa Sede ad aver convintol'allegro chirurgo a prendere la più ovvia e corretta delle decisioni: andarsene. Santa Sede in campo - L'ipotesi-vaticana viene affacciata da Dagospia. Tutto nasce dall'ormai celeberrimo caso del "sindaco imbucato", la già mitologica smentita del Papa (una roba mai vista prima, il Pontefice che disintegra le supposte verità di un sindaco, per giunta del sindaco di Roma). Un "incidente" che - come si è appreso anche dallo scherzo de La Zanzara a monsignor Paglia - ha fatto letteralmente infuriare Francesco e i vertici del Vaticano, già parecchio preoccupati in vista del Giubileo e della sua (arrancante) organizzazione. Ed è stato dopo quell'episodio che, secondo Dago, sarebbe sceso in campo il cardinale Pietro Parolin, in persona, ovvero il segretario di Stato vaticano, che si sarebbe rivolto a Graziano Delrio, il ministro del governo Renzi più cattolico di tutti: "Provvedete a mandare via il sindaco". Questo, in estrema sintesi, il messaggio di Parolin. Il colpo finale - Parole che pesano, e tantissimo, quelle riferite da Dago e che sarebbero piovute dagli apici del Vaticano. Dopo il disastroso viaggio negli "Uessei", per Ignazio, è cambiato tutto: non solo Renzi, ma anche la Santa Sede non lo voleva più nemmeno sentir nominare. Delrio, da par suo, avrebbe risposto l'ovvio: "Eminenza, noi non lo possiamo dimettere". Insomma, non potevano mica cacciarlo, rimuoverlo forzatamente da quella poltrona. Sindaco accerchiato, ma disperatamente aggrappato alla suo prestigioso scranno. Ma poi il colpo di grazia, quello assestato dalla procura, che sulle sue "cene di lavoro" con bottiglie di vino da "50 euro a botta" pagate - pare - con la carta di credito del Comune ha aperto un fascicolo. Troppo, davvero troppo. Marino viene mollato anche dagli assessori e del suo vice. E a quel punto, solo, asserragliato al Campidoglio, dopo aver pensato che oltre a Renzi, alla destra, alla sinistra, ai grillini ai romani e a chi più ne ha più ne metta, a non volerlo più vedere c'era anche il Vaticano, ecco, a quel punto, ha capito che gli restavano soltanto le (ovvie) dimissioni.
Biografie, compromessi e faldoni, scrive Alessandro Gilioli su “L’Espresso”. Oggi Repubblica, il Corriere e altri quotidiani scrivono che Ignazio Marino conserva gelosamente alcuni scottanti faldoni di raccomandazioni indicibili, favori privati e altre porcherie provenienti dal Pd e dintorni. Carte con cui nei prossimi mesi potrebbe fare il giro dei talk show per sputtanare chi l'ha silurato. È possibile - e da cittadino mi auguro che ciò avvenga, se questi faldoni esistono e se contengono comportamenti indegni da parte di politici o altri potenti. Quando ho letto della cosa, tuttavia, mi è inevitabilmente venuta in mente un'altra vicenda recente e abbastanza simile, cioè lo scambio di tweet velenosi tra il verdiniano Saverio Romano e il forzista Gasparri, in cui i due si consigliavano reciprocamente di stare buoni e non alzare i toni, in quanto "conosciamo le vostre biografie". Un livello di scontro basato sul ricatto quasi di tipo mafioso, ma soprattutto sulla rivelazione di un'omertà pregressa che forse è il problema maggiore. Ecco, tornando a Marino, è dell'omertà pregressa che vorrei parlare. Perché a un naif come me viene da chiedersi come mai, se è da tempo in possesso di informazioni non encomiabili sul suo partito e/o sui suoi alleati, il buon Marino se le sia tenute nei faldoni, anziché farne partecipe la cittadinanza. E la risposta è, certo, per convenienza, per mediazione, per non guastare i rapporti con i poteri politici ed economici della capitale che doveva amministrare. E qui forse viene il punto. Perché il paradosso è che oggi, in molti commenti, leggo la tesi secondo la quale la fine prematura di Marino è dovuta al fatto che lui ha preso tutti troppo di petto, con un piglio moralisteggiante che mal si adatta a una capitale strutturalmente clientelare e più in generale a una pratica - la politica - che avrebbe bisogno di cinismo, furbizie, ipocrisie, compromessi e silenzi. Beh, la questione dei faldoni chiusi negli armadi mi porta a chiedermi se non sia vero, invece, esattamente il contrario. E cioè che il flop di Marino è (anche) il risultato di un approccio incerto, troppo incerto, tra quello rivoluzionario e quello compromissorio. Intendo dire: divenuto sindaco, Marino partiva da una straordinaria posizione di forza nei confronti del Pd e più in generale degli apparati della politica e della sottopolitica. Avrebbe avuto gli strumenti, forse, per non farsi imbrigliare nei manuali Cencelli della spartizione di assessorati e posti nelle partecipate, avrebbe avuto il potere di sputtanare chi dal vecchio establishment gli chiedeva favori e prebende. Invece non è che non l'abbia fatto, ma l'ha fatto a metà. Forse anche un po' meno di metà, come del resto l'inchiesta Mafia Capitale ha rivelato, andando a cogliere il marcio dentro la stessa amministrazione del sindaco. E la questione parte oggi da Marino, ma è di carattere più generale: riguarda cioè il livello di compromesso moralmente accettabile, ma anche pragmaticamente conveniente, quando hai che fare con il marciume. Forse accettarne una parte - salvo memorizzarla nei faldoni - non è strategia che paga. Forse Marino ha incocciato non perché è stato troppo radicale in questo, ma perché lo è stato troppo poco. Il contrario esatto di quanto oggi viene detto, dai più sgamati scriventi di politica, in giro per la carta e il web. Almeno questo è ciò che penso io. Che in ogni caso al prossimo giro, qui in città, voterò solo se sarà candidato qualcuno ancora più deciso di Marino a far fuori camarille e amicizie, e non certo uno che lo è di meno.
Quando già “L’Espresso” il 15 giugno 2015 gli consigliò di lasciare. Per il bene di Roma Marino si deve dimettere, scriveva Luigi Vicinanza. Il sindaco è del tutto estraneo al malaffare. Ma ormai solo uno choc come il commissariamento può salvare la città. Una decisione non più rinviabile. Meglio dimettersi. Meglio il commissariamento. Meglio una soluzione choc rispetto al progressivo deteriorarsi di quel che resta di un’istituzione democratica. Roma va salvata, è nell’interesse nazionale. Urgente. Non c’è tattica elettorale che tenga di fronte allo sfascio della capitale. Non c’è calcolo politico accettabile per rimandare una decisione tanto traumatica quanto necessaria. La soluzione peggiore è lasciar marcire nel discredito diffuso anche chi non ha responsabilità, né penali né amministrative. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, è persona perbene; estraneo al malaffare ereditato con la vittoria nelle elezioni del 2013. L’inchiesta giudiziaria, nei suoi vari filoni, ci racconta un Marino solo contro i cattivi. Lui li chiama proprio così, cattivi, con un’espressione fanciullesca in contrasto con la spregiudicatezza e il cinismo degli attori di Mafia Capitale. Mentre l’ostilità e l’impopolarità registrate nel suo stesso partito, il Pd, si possono meglio comprendere ora, in quanto è stato considerato un fastidioso ostacolo dal comitato d’affari trasversale insediatosi in Campidoglio. Le mani sulla città eterna non lasciano le impronte digitali del sindaco in carica. Questa verità va sempre ripetuta. Salviamo Roma, dunque. Il titolo di copertina del numero di questa settimana segnala la patologia e prova a indicare terapie praticabili. È il seguito di altre copertine e di altri servizi giornalistici con cui “l’Espresso”, sin dal dicembre 2012, per primo ha svelato il perverso intreccio politico-mafioso. Salviamola, finché siamo ancora in tempo, dai barbari che l’hanno invasa e spolpata pezzo a pezzo. In questo numero Lirio Abbate, Marco Damilano, Bruno Manfellotto documentano gli snodi di questa storia destinata a protrarsi nel tempo. Nonostante la solidarietà manifestatagli dagli esponenti del governo nazionale, fino a quando può durare in un contesto totalmente fuori dall’ordinario l’ordinaria amministrazione dell’onesto Marino? Un mese ancora? Fin dopo l’estate? Quanti altri avvisi di garanzia, quanti altri arresti, quante altre rivelazioni bisognerà aspettare per prendere atto che l’assemblea capitolina - così si chiama per legge il consiglio comunale di Roma - è ingovernabile. L'interesse collettivo vien prima dell’orgoglio personale. Dimettendosi dalla carica il sindaco confermerebbe la sua totale estraneità rispetto agli affari criminali di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, la coppia rosso-nera che ha asservito amministratori locali senza qualità, funzionari disponibili, imprenditori di scarsa fortuna. Inoltre anticipando le proprie dimissioni, in piena autonomia, Marino può metter fine al logoramento cui sta andando incontro. Inevitabile la contestazione subita martedì 9 giugno dai militanti del movimento 5 Stelle nell’aula Giulio Cesare (su cui pure gli ultimi cinque arrestati pare abbiano fatto la cresta), quando i quattro consiglieri comunali arrestati per mafia sono stati sostituiti dai primi quattro non eletti; ma i cittadini non meritano neppure un sindaco in quotidiana difficoltà costretto a replicare agli sberleffi mandando baci ironici e facendo con le mani il segno della vittoria. Ad uscirne sconfitto è il buon senso. Roma appare una città fuori controllo. In tutti i sensi. Non c’è capitale in Europa così sporca, sciatta, prigioniera dell’incuria. Metropoli cosmopolita e arretrata. La cui Grande Bellezza - potenza evocativa di un Oscar - è assediata da una corona di spine di quartieri periferici, lontani dai palazzi del potere, dove cova un profondo malessere popolare. I barbari di mafia capitale hanno lucrato, come si è visto, sulla raccolta differenziata dell’immondizia come sull’assistenza agli immigrati e ai rom. E il degrado si estende colpevole. Per Roma insomma va cercata una soluzione straordinaria. Se la politica ne avesse l’autorità, il sindaco in carica dovrebbe essere investito di poteri straordinari e affiancato da un comitato di salute pubblica - composto dalle migliori intelligenze e competenze romane e nazionali - in grado di gestire questa difficile transizione. Ma non accadrà e la normativa attuale non lo consente. Se Marino si dimette, invece, apre la strada al commissariamento della città. La persona giusta per ricoprire quel ruolo c’è già. È un funzionario dello Stato schivo e determinato, Franco Gabrielli, da due mesi prefetto dopo aver guidato con successo la Protezione Civile con il recupero della nave Concordia. È il plenipotenziario del premier Renzi a Roma ("Chi è il nuovo Prefetto Franco Gabrielli"). A lui il compito di riportare ordine e regole nell’amministrazione capitolina. L’Italia guarda sgomenta.
Ignazio Marino, il sindaco che voleva fare l'Americano. Il suo modello sono gli Usa. Ma lì un primo cittadino si sarebbe dimesso subito. E invece ha continuato, inconsapevole, nel pieno distacco dai romani, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Fantastici i video di Ignazio Marino postati sulla sua pagina Facebook. Mi danno l’impressione di unainvoluzione del tutto autoreferenziale del Primo Cittadino, inconsapevole del distacco che si è venuto a creare tra lui e i romani. Mi colpiscono i momenti in cui Marino abbandona la retorica da sedicente paladino anti-corruzione (ma non sono stati i magistrati a scoperchiare la melma di Mafia Capitale, mentre fosse stato nel Sindaco il sistema avrebbe continuato a operare senza ostacoli?) e d’un tratto si indigna, ma (come dire?) senza vera indignazione. Più come scatto di rabbia. E dice basta, non voglio più parlare di questo. Cioè degli scontrini, delle spese di rappresentanza dietro le quali si celano tutte le bugie emerse dalle smentite delle persone che (non) hanno cenato con lui. Giornali e tv hanno messo in fila tutte le incongruenze delle sue dichiarazioni rispetto ai fatti. A me colpisce un dettaglio non sottolineato da altri: lo scontrino di una limousine, semplicemente perché la domanda gli è stata posta in Tv e lui ha negato. Marino si vanta d’essere americano, anche se parla di Roma come della “mia città” (no che non lo è). Ma in America per molto meno esponenti politici relativamente di minor peso si sono dimessi prima di lui. E senza accompagnare l’annuncio di dimissioni con l’avvertimento che ha tutto il tempo di ripensarci, quindi non si tratta di dimissioni “irrevocabili”. La faccio breve. Nel 2009 ci fu una polemica relativa a una vicenda del 2002, quando Marino si dimise dalle cariche che rivestiva nell’Università di Pittsburgh. Anche allora c’erano sul piatto alcuni “doppi rimborsi”, e anche allora Marino disse che era stato lui a segnalare le “imprecisioni”. E ne uscì pulito. A distanza di 13 anni, Ignazio Marino ancora si trova a doversi difendere da attacchi che riguardano i rimborsi spese. Ancora deve precisare che è stato lui a mettere gli scontrini online (ma le indiscrezioni premevano dalle pagine di alcuni giornali, relativamente all’uso delle carte di credito del Comune). E ancora Marino si difende contrattaccando, sostenendo che è stato infangato da chi resiste alla sua volontà di fare pulizia. In un politico la credibilità è tutto. E un politico che mente, in America, va a casa. C’è tuttora chi è disposto a concedere a Marino il beneficio del dubbio, come se nei suoi confronti si potesse chiudere un occhio perché è una persona “perbene”. Una persona perbene, a mio modesto parere, è anzitutto una persona, specialmente un politico, che non dice bugie su quello che spende con i nostri soldi. Per il resto, mi stupisce che sia stato votato il chirurgo dimissionario di Pittsburgh a capo di una città come Roma. Mi stupisce che non risalti in tutta la sua frustrante evidenza la totale frattura tra lui e i cittadini della “sua città”. Questi video sono esercitazioni acrobatiche di un politico screditato aggrappato alla sua poltrona, che in realtà non si rivolge più a una platea di cittadini. I suoi appelli, le dichiarazioni registrate, le performance sui social, fotografano l’esibizione di un uomo che ha perso il contatto con la realtà. Ma il fatto che Roma abbia (e abbia avuto per due anni e mezzo) un Primo Cittadino come Ignazio Marino, un professionista che dall’estero è tornato in Italia accreditandosi (seppur dimissionario da Pittsburgh) come campione dell’eccellenza italiana, è la prova che questo Paese ha parecchia strada da fare prima di riavere una classe dirigente che si rispetti. Piccolo Post Scriptum: quelli di Sel che si dicono quasi pronti a riprendere a lavorare con Marino Sindaco nonostante tutto, non diano più lezioni di specchiato rigore etico a chicchessia.
Nell'ospedale dove iniziò il chirurgo Marino: "Così chiudemmo ogni rapporto". Parlano i medici del centro universitario di Pittsburgh in cui lavorò il sindaco: "Ha cominciato a operare con noi, gli abbiamo affidato il centro di Palermo. Poi abbiamo scoperto le doppie note spese e i suoi rapporti con altri ospedali americani". Tra le fatture, la ricarica per una stilografica: otto euro, chiesti due volte, scrive “La Repubblica”. Al 600 di Grant street dicono che quel nome - Ignazio Marino - vogliono solo dimenticarlo. "Era un chirurgo, trapiantava organi. Non era indispensabile, ci ha creato tanti problemi". Davanti alla fontana che spruzza acqua rosa, sotto la sede distribuita su venti piani, parlano due dirigenti del Medical center universitario di Pittsburgh, l'Upmc che gestisce venti ospedali nella Pennsylvania dell'Ovest e trentotto centri oncologici negli Stati Uniti: "Il dottor Marino si è formato da noi, ha iniziato a operare con noi, gli abbiamo affidato il centro di Palermo, una frontiera in Europa. Poi abbiamo scoperto le doppie note spese, i suoi rapporti con altri ospedali americani. Gli abbiamo imposto le dimissioni dall'Ismett di Palermo e non avremmo voluto più occuparci di quella storia, né del medico italiano. Avremmo solo sperato nel silenzio". Invece quel medico italiano, 650 trapianti in carriera, 213 pubblicazioni, ambizioso non solo come clinico, a 51 anni è stato fatto senatore, a 54 si è candidato alla guida del Partito democratico (perdendo) e a 58 si è lanciato nella campagna per diventare sindaco di Roma, mayor come dicono qui. E ha vinto. "Eravamo sorpresi che della storia degli ottomila dollari contestati non si fosse detto più nulla, ma noi non avevamo alcun interesse a sollevare un caso", dicono ancora gli amministrativi subito dopo aver chiesto di non essere citati. L'Upmc aveva chiuso ogni rapporto con il dottor Marino come tante volte succede, e invece a tredici anni di distanza "siamo di nuovo qui". A riprendere in mano vecchi dossier, rileggere audit interni che rimandano a scontrini fiscali. "Sì, dopo tredici anni confermiamo: il dottor Marino aveva creato una doppia contabilità per le spese di trasferta. Una richiesta di rimborso la consegnava al suo centro di Palermo, l'Ismett appunto, e una alla nostra sede. Avevamo prove evidenti che la cosa fosse andata avanti per mesi e che fosse una scelta consapevole, non un caso, tantomeno un errore. Abbiamo agito subito, allora. Il 6 settembre 2002 inviammo un fax all'ospedale di Palermo e il dottor Marino nell'arco di mezza giornata controfirmò tutte le nostre condizioni. Aveva chiesto lui di dimettersi alcune settimane prima, il sei settembre abbiamo accettato senza esitazioni. Abbiamo chiuso lì ogni rapporto: uno dei nostri quattromila medici aveva perso la nostra fiducia, ma la carriera politica del dottor Marino non ci ha mai permesso di abbandonare quel dossier". E' qui, dove la confluenza di Allegheny e Monongahela forma il fiume Ohio, non lontano dal Canada, che Ignazio Marino ha conosciuto i primi guai con le ricevute per le cene, qui che ha subito un oltraggio alla sua carriera e al consolidato orgoglio. Cresciuto sfiorando un nume tutelare della trapiantologia moderna, Thomas Starzl, che nel 1963 innestò il primo fegato su un bimbo di tre anni, nel 1997 Marino riuscì a farsi affidare da Jeffrey A. Romoff la direzione dell'Istituto Mediterraneo per trapianti e terapie ad alta specializzazione, ottanta posti letto voluti a Palermo dal governatore Cuffaro e inaugurati due anni dopo. In quelle stagioni siciliane, oltre ad operare in sala, il dottor Marino iniziò a sperimentare l'arte dell'amministrazione pubblica, palestra per una futura politica già avvistata. "Gestivo venti milioni l'anno", ha raccontato. Ma è sulle minuzie che arrivano le contestazioni. Un precedente che tornerà negli anni da sindaco, una coazione a ripetere che taglierà le gambe prima a un chirurgo scalatore e poi a un intraprendente politico. Ottomila dollari contestati in nove mesi (in attesa di controllare a ritroso i cinque anni precedenti). Una piccola cresta. Messa così, nero su bianco il 6 settembre 2002, dal superpresidente Romoff: "Riteniamo di aver scoperto una serie di irregolarità intenzionali e deliberate con note scritte da lei a mano e sebbene le ricevute siano per gli stessi enti, i nomi delle persone indicate sulle ricevute presentate a Pittsburgh non sono gli stessi di quelli presentati all'Upmc di Palermo". Dozzine di ricevute duplicate, scrisse il presidente. Irregolarità intenzionali e deliberate, sottolineò. Dimissioni immediate, da controfirmare seduta stante. "Come restituzione dei rimborsi spese doppi da lei ricevuti accetta di rinunciare a qualsiasi pagamento erogato dall'Upmc ai quali avrebbe altrimenti diritto, compreso lo stipendio per il mese di settembre 2002". Ci sono anche le ferie pagate, eventuali malattie accumulate. Nulla da pretendere per il futuro da parte del direttore Ismett per rientrare degli 8.000 dollari. A Marino fu concessa una settimana per liberare l'ufficio di Palermo, gli venne indicato nome e cognome della persona a cui lasciare auto, chiavi dell'auto e dell'appartamento, telefonino, cercapersone, computer portatili, carte di credito aziendali, gli fu anche intimato di non fare ritorno a Pittsburgh. "Tutti i libri e i giornali acquistati da noi dovranno restare nell'ufficio di Palermo", scrisse Romoff, "e se lei deciderà di trattenerne qualcuno potrà acquistarli a un prezzo ragionevole". Oltre alle cene, si scopre oggi, il dottor Marino chirurgo di trapianti aveva l'abitudine - secondo gli accertamenti dell'audit dell'Upmc - di mettere in doppia contabilità tutte le spese personali. "C'è una fattura, rimborsata sia a Pittsburgh che a Palermo, sulla ricarica d'inchiostro per la penna stilografica del medico". Otto euro e quaranta, richiesti due volte. Ignazio Marino successivamente avrebbe detto che, in realtà, quei fogli erano solo un fax di presa visione, che l'università di Pittsburgh gli era diventata ostile perché lui si era accordato per un nuovo incarico direttivo con l'ospedale Thomas Jefferson di Philadelphia, che era stata una sua scelta quella di dimettersi da Palermo quando aveva scoperto che in una gara d'appalto c'era un'azienda in odor di mafia e in corsia le pressioni per favorire alcuni clinici erano diventate opprimenti. Oggi i dirigenti dell'Upmc, qui a Pittsburgh, ribadiscono: "Nel 2002 il dottor Marino controfirmò una lettera di dimissioni immediate e quelle dimissioni dipesero soltanto dalla sua condotta contabile, non c'entrano Palermo né Philadelphia. Non è neppure vero che i controlli erano partiti dopo una segnalazione del medico, fu un'iniziativa del nostro audit di fronte a conti che non tornavano. Dopo quella lettera, sottolineiamo, non c'è stata alcuna transazione e, d'altro canto, il dottor Marino non ci hai mai querelato né per falso né per danni subiti". Querela che, pure, il medico aveva promesso. Il chirurgo romano riottenne, con la mediazione dell'avvocato Vittorio Angiolini, il pc utilizzato all'Ismett, alcune pubblicazioni e studi in archivio a Palermo. Tre anni dopo il senatore sarebbe riuscito a prendere 90 mila euro di risarcimento da parte di quattro giornali italiani e tredici giornalisti. Il Tribunale civile di Milano aveva riconosciuto un danno alla sua carriera nei modi in cui l'offesa di Pittsburgh era stata raccontata.
Ignazio Marino rischia accusa di peculato. Del Bono e gli altri, ecco come sono finiti i precedenti delle “carte facili”. Prima di lui l'ex sindaco di Bologna, il collega di Brescia Paroli, l'"impresentabile" campano Gambino e altri hanno fatto i conti con storiacce di rimborsi. Ma diversi processi sono finiti con assoluzioni. Così alcuni sono riusciti a risalire sulle sedie da cui erano caduti, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Ignazio Marino ha dato le dimissioni ma la vicenda che lo ha portato a gettare la spugna non è finita. Intorno a lui resta l’alone delle spese e degli scontrini sui quali, in ultimo, è caduto. Quella pioggia di ricevute dubbie che la Procura di Roma dovrà esaminare lo espone all’accusa di peculato, un reato punito con la reclusione da quattro a dieci anni, e secondo alcune indiscrezioni anche di falso. Non è il primo caso di un sindaco che finisce in guai giudiziari per un uso contestato della carta di credito di rappresentanza, anche per importi modesti (non più di 9mila euro su circa 24mila nel caso del sindaco di Roma). E spesso quei precedenti si sono chiusi in tribunale con un nulla di fatto e chi era scivolato strisciando la carta di credito con disinvoltura, alla fine è caduto in piedi e si è rialzato. Esempi? Non ha scontato un solo giorno di carcere l’ex sindaco di Bologna Flavio Delbono, che nel 2010 si dimise perché indagato di peculato, truffa e abuso d’ufficio. Tra le accuse, l’uso della carta di credito per pagare spese personali e viaggi fatti con l’allora segretaria ed ex fidanzata Cinzia Cracchi, quand’era vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. Per quelle vicende Delbono ha chiuso due patteggiamenti e restituito 46mila euro alla regione Emilia-Romagna a titolo di risarcimento per danno erariale, di immagine oltre interessi. La vicenda non gli ha impedito di tornare in cattedra alla facoltà di Scienze economiche dell’Alma Mater. Spesso succede che gli indagati non arrivino neppure a giudizio, pur tra le censure dei magistrati. Un esempio? E’ stata aperta e subito chiusa l’indagine che quattro anni fa aveva investito il sindaco di Brescia, Adriano Paroli e nove membri della giunta. Erano tutti accusati di peculato per il presunto utilizzo indebito delle carte di credito. Ma che cosa scriveva il magistrato Silvia Bonardi, depositando la richiesta di archiviazione? “Indubbiamente, si tratta di condotte che avevano rilevanza sotto il profilo del danno erariale, ma che comunque anche se con motivazioni alquanto sprovvedute per provenire da soggetti che governano una delle città non metropolitane più importanti dell’intero Paese, non sono sussumibili nell’alveo dell’articolo 314 del Codice penale (il peculato, ndr), in quanto non realizzate al deliberato scopo di appropriarsi delle risorse finanziarie pubbliche”. Cade in piedi anche Alberico Gambino, politico campano annoverato tra gli “impresentabili” delle ultime elezioni regionali. Ex sindaco di Pagani (Salerno) e già consigliere regionale, fu arrestato e poi condannato a due anni e 10 mesi per concussione e violenza privata. Assolto dalle più gravi accuse di collusione con la camorra, è tornato in consiglio regionale quest’anno con oltre 10.500 voti nella lista di Fratelli d’Italia. Anche da sindaco scese e risalì dalla poltrona in seguito a una vicenda giudiziaria: nel 2010 fu sospeso per effetto di una condanna a un anno e cinque mesi per peculato continuato dovuta all’uso della carta di credito del Comune. L’accusa era d’aver utilizzato 118 volte la carta senza riuscire a dimostrare le finalità istituzionali di quasi 22mila eurodi spese sostenute. Un anno dopo la Corte di Cassazione ha accolto però il difetto di motivazione sollevato dagli avvocati Michele Tedesco e Franco Coppi (lo stesso del processo Ruby). In particolare sul requisito della “coeva esibizione” dei giustificativi. Il peculato, ragiona la Suprema Corte facendo proprie le istanze dell’appellante, si consuma al momento del pagamento e non dell’esibizione dei giustificativi che diventano secondari, tanto che “quello che figura come illecito potrebbe essere ascritto a mera dimenticanza o trascuratezza, confondendo di fatto momento consumativo del reato coi comportamenti post-delicutm cioè la tardiva/improbabile/falsa/erronea giustificazione validi per la serie indiziaria e la ricerca della verità”. A questo principio potrebbero appellarsi forse anche i legali di Marino, visto che le incongruenze sui rimborsi che gli vengono contestate vengono da più parti derubricate a “leggerezza” (così oggi il magistrato e assessore alla legalità, Alfonso Sabella). L’importante è riuscire a dimostrare che non era finalizzata “al deliberato scopo di appropriarsi delle risorse finanziarie pubbliche”. Nel caso di Marino, la Procura non potrà che convocare l’ex sindaco per farsi precisare nomi e cognomi di quegli “ospiti” delle cene che nei giustificativi di spesa indicava con diciture generiche: “celebri chirurghi”, “atleti”, “giornalisti” etc. Come si sa, sono stati proprio alcuni dei “presunti commensali” a smentirle. L’amministrazione capitolina, va detto, non aveva mai contestato alcunché.
Renzi, Marino & co: la banda PD, uno spettacolo trash, scrive Emanuele Ricucci su "Il Giornale". A Roma, almeno, cambia il significato di liberazione. 8 Ottobre. Dopo estenuanti ore di trattative, nervi tesi e cori da stadio sotto le sue finestre, le teste di cuoio riescono a convincere Ignazio Marino ad uscire dal Campidoglio con le mani in alto, le dimissioni in tasca e l’attestato del Guinnes World Record di smentite internazionali. Con una tattica di sfondamento, le forze speciali del PD lo hanno costretto a dimettersi, facendo esplodere la ‘carica’. Eppure, fino all’ultimo, asserragliato con tecniche d’assalto, al grido “resistenza, resistenza, resistenza”, il subcomandante Marino, non voleva cedere. Era molto più dignitoso farsi prendere all’epoca dell’esplosione di Mafia Capitale o quando la città era sommersa da acqua e vergogna, piuttosto che per qualche scontrino. Ma come in Rambo, questa volta il capo si è rotto e ne ha prontamente dato notizia al colonnello di zona: la sua fine è stata decisa. Pubblicamente, brutalmente, sfacciatamente. Giustamente! Renzi, che pure lo ha cavato fuori dagli impicci non poche volte tentando di difendere il feudo anche con l’avvicinamento di Causi, pensato come longa manus di Palazzo Chigi, questa volta ne ha decretato la fine per mano di Orfini, tenente della colonna romana del PD. Con solo una cartucciera di penne intorno alla vita ed il basco con la stella rosa (trattasi di PD del resto) in testa, il sub sindaco Marino ha resistito stoicamente per ore, finché ha potuto, sorretto nell’animo dalle compagne Estella Marino ed Alessandra Cattoi, le due (ex) assessore (assessoresse o assesoratrici, ora non mi sovviene, dovrei consultare il gruppo di esperti per il linguaggio di genere) della sua giunta. Marino a casa, Renzi in difficoltà, Orfini boia – nel senso di esecutore, ci mancherebbe -. Ed una sola, palpabile certezza: che infinita tristezza la banda PD(democristiano). Incredibile. Da movimento per il rinnovamento della sinistra democratica, d’ispirazione socialista, ad una SpA con le quote degli italiani. Si è creato gli spazi di legge per governare a regime e non levarsi più di torno, dal paesello al Paesone, ha difficoltà a reperire i numeri per governare, talvolta; ha letteralmente interrotto il regolare processo democratico, sospendendolo a data da cestinarsi, cestinando, poi, il subcomandante Marino, abbandonandolo letteralmente al suo destino che, nonostante tutto, nonostante Roma sia tristemente involuta da Caput Mundi a Cloaca Maxima, nonostante Mafia Capitale, nonostante l’estremo degrado e tutto ciò che ha affossato, anche agli occhi del mondo, la Città Eterna, avrebbe voluto resistere, rimanere, attaccato con le unghie sanguinanti e i denti alle poltrone dell’Aula consigliare del Campidoglio. Che uomini, quelli del PD! Che esempio e che classe. Quanta elegante cavalleria civile, che raccapricciante modello politico da seguire. Invischiati tra la restaurazione sul trono della Democrazia Cristiana, ne ripercuotono in ogni macroavvenimento, in ogni interscambio politico, le fattezze, le gesta, gli echi, anche meglio dei maestri democristiani. Una struttura totalitaria disegnata intorno ad un feudatario, ad uno one man show come Matteo Renzi ed al suo ego smisurato: “Nel corso dei mesi, man mano che aumentava il suo potere ma anche gli impegni governativi anche internazionali, Renzi s’è allontanato precocemente dal Pd e dalla tenuta del territorio che, in termini calcistici, è lo spogliatoio“, scriveva Marco Damilano de L’Espresso, “ha immaginato di poter coprire tutto con la sua leadership, con la sua velocità, con la potenza di fuoco mediatica, col cronoprogramma delle riforme. Invece si è dimenticato che, se non c’è partito, cultura politica, organizzazione, un cosa del genere non si regge. Che la gente, al voto regionale, si trova Raffaella Paita, la Moretti, De Luca, non lui. Per questi, lo storytelling non bastava. Non sarebbe stato credibile”. Marino come De Luca e l’Italia di Renzi come quella del PD: senza serietà, in crisi umana ed economica lacerante, tra casi di corruzione, opere incompiute, perdita della residua dignità it, riforme crono programmate, aumento della povertà, ‘pacifica invasione’ di ‘qualche povero migrante’, linguaggio di genere da garantire, sessismo, razzismo, omofobia e tenuta della politica poltrona ovunque. Caotica come la Roma ottocentesca. Una città sfinita, stremata, proveniente da anni di mala gestione, fossero solo due, che oggi, però intravede la rinascita, lenta e ponderata. Una città crepata dall’umiliazione e dalla violenza eppure, mancano ancora venti giorni. Venti lentissimi e fatidici giorni in cui il subchirurgo statunitense potrebbe ripensarci, potrebbe fare marcia indietro annullando le sue dimissioni e restaurando, anche in questo caso, il trono. L’unico uomo politico ad essere fatto palesemente cazziare da un Papa. Neanche ai tempi di Bonifacio VIII. Ancora venti giorni. Il 28 ottobre, potrebbe essere un giorno decisivo. Novantatre anni fa furono i fascisti a marciare su Roma, speriamo, novantatre anni dopo, non sia Marino a marcirci su, facendo ancora le veci della banda PDemocristiana.
Marino e la doppia morale renziana del Pd, scrive Pasquale De Cristofaro. “ ‘Ndo’ vede e ‘ndo’ ceca”, questo il detto napoletano che sta ad indicare il proposito di qualcuno che vede solo ciò che gli fa comodo, girando di proposito la faccia davanti a quel che preferisce non vedere. Due pesi e due misure, insomma. Questo modo di dire, ben si addice a Renzi e al partito democratico. Mi spiego. Ignazio Marino, è vero, s’è dimostrato completamente inefficace e inadatto a guidare una grande città come Roma. E anche se la capitale veniva da un’amministrazione Alemanno disastrosa sotto ogni punto di vista, i suoi due anni di amministrazione non sono riusciti ad arginare il malaffare che nel frattempo s’era impossessato del Campidoglio. In ultimo le bacchettate di papa Francesco e la storia davvero incresciosa degli scontrini attestanti false spese istituzionali, hanno fatto il resto. Indifendibile, Marino è stato scaricato da tutti; in primis dal primo ministro nonché segretario dei democratici che già da tempo aveva mostrato di non gradirlo in quel ruolo. Tutto secondo programma, quindi? Non proprio. Innanzitutto, fa specie che un non eletto andato alla guida del Paese attraverso una manovra di Palazzo scarica così impunemente un sindaco che le elezioni le ha vinte per davvero. Inoltre, come non concordare, a tale proposito, con le cose dette da Marco Travaglio a Nardella, sindaco di Firenze e uomo di fiducia di Renzi, in una trasmissione televisiva dove si cercava di fare il punto sulla situazione romana. Il direttore del “Fatto quotidiano”, ha messo in evidenza come il partito democratico fosse abituato da tempo ad avere giudizi e comportamenti diversi per situazioni simili, a seconda si trattasse di amici o nemici. Lo stesso discorso delle dimissioni subito, infatti faceva notare, non è valso per ben quattro sottosegretari variamente imputati e con procedimenti giudiziari in corso che sono stati lasciati tranquillamente al loro posto, forse, per non mettere in crisi l’azione governativa. E anche per lo stesso De Luca, vincitore alle elezioni regionali della Campania nonostante una condanna in primo grado di giudizio per abuso d’ufficio e sottoposto al vaglio della legge Severino, si era preferito girare la faccia dall’altra parte; troppo importante la vittoria politica in una regione in mano alla destra per fare gli schizzinosi e i moralisti. A queste obiezioni, Nardella ha balbettato malamente, cercando, con la coda tra le gambe, di ribadire che il comportamento di Renzi e del partito è stato sempre coerente coi principi del codice etico da loro adottato. In realtà, intransigenti con coloro che non godono della simpatia del capo, e molto più disponibili verso quelli che sono nelle sue grazie. Bel modo di procedere. Credo che così facendo il partito democratico rischi di perdere quel poco di credibilità che ancora gli resta. La gente sta cominciando ad aprire gli occhi; sta capendo di che panni veste Renzi. Un bullo, faccia da schiaffi, petto in fuori e mandibola alta che sa ben nascondere dietro un giovanile sorrisetto, una voglia matta di smisurato potere.
La doppia morale di Sel. In Campania sono contro "l'impresentabile" De Luca ma a Roma difendono Marino. Fratoianni: "È estraneo alla vicenda di Mafia Capitale", scrive Francesco Curridori su “Il Giornale”. Sel fa quadrato attorno a Ignazio Marino. Il partito di Nichi Vendola che, in Campania ha corso in solitaria contro l'"impresentabile" Vincenzo De Luca, nel corso di una conferenza stampa, ha rinnovato il sostegno al sindaco di Roma alla luce degli ultimi sviluppi dell'inchiesta di Mafia Capitale. Una contraddizione che per Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, evidentemente non esiste:"In Campania non ci siamo alleati con De Luca prima di tutto per ragioni politiche e abbiamo giudicato un errore da parte del Pd candidare una figura che rischia, per motivi di legge, di non poter governare la Regione. Non vedo francamente nessuna relazione con la vicenda romana". Poco importa che due membri della giunta come Daniele Ozzimo, ex assessore alla casa, e Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale, siano finiti agli arresti. Due personaggi che, secondo le recenti categorie politiche, potrebbero essere definiti "impresentabili" e con cui i vendoliani hanno governato insieme per quasi due anni. No, per Sel, che a Roma esprime il vicesindaco, è giusto proseguire con l'attuale sindaco. "Abbiamo scelto a suo tempo, - conclude Fratoianni - primi nella coalizione che ha poi vinto, di sostenere Ignazio Marino alle primarie mentre gran parte del Pd sosteneva altri candidati, e lo facemmo sulla base di una scelta politica e culturale che noi oggi gli rinnoviamo a partire non solo dalla sua completa estraneità nella vicenda ma anche sulla condivisione che su molte questioni resta forte".
LA GRANDE CERTEZZA.
Dopo Mafia Capitale continua la grande abbuffata. Ignazio Marino si è dimesso, ma negli uffici comunali restano i funzionari che hanno alimentato la corruzione. Cento nomi, elencati nella relazione segreta del prefetto Magno. Liberi di proseguire nei loro intrallazzi, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso” del 15 ottobre 2015. Dopo le dimissioni di Ignazio Marino negli uffici comunali restano dipendenti e funzionari infedeli che hanno alimentato la corruzione. Sono cento nomi, elencati nella relazione segreta della commissione di accesso guidata dal prefetto Marilisa Magno in cui è analizzato un triplice fronte: il capitale istituzionale, il capitale politico e quello amministrativo. L'analisi e i retroscena amministrativi fatti dalla commissione prefettizia sono raccontati da l'Espresso nel numero in edicola. L'inchiesta riporta alcuni punti della relazione Magno, in particolare quelli illustrati sul capitale politico e amministrativo che rappresenta il tesoro di Massimo Carminati: «Il milieu di amministratori e funzionari pubblici che sono stati funzionali ai disegni di infiltrazione di “mafia Capitale”». Ci sono i nomi di impiegati, dirigenti, capi dei dipartimenti, molti dei quali pilotati da mafiosi e criminali, che si muovono compiaciuti dell'uscita della giunta Marino. La commissione fotografa una palude amministrativa e rileva «come la costruzione di questo “capitale” sia il frutto di un lavoro condotto in sinergia da Carminati e Buzzi». Un investimento prezioso, che si comprende meglio nel capitolo dedicato a «Il capitale amministrativo». Sembra la tela del ragno. In trentatré pagine il documento «enumera i dipendenti di Roma Capitale che attraverso azioni o omissioni hanno contribuito a piegare la gestione amministrativa dell’ente agli interessi di mafia Capitale». I commissari riportano una schiera di nomi, «riconducibili al capitale amministrativo», non tutti ancora indagati. Nel “Libro Magno” c’è l’analisi geologica del marcio. Gli episodi di malaffare, le procedure poco corrette nelle gare pubbliche, la gestione degli affidamenti diretti di lavori per decine di milioni di euro. Episodi su cui al momento nessuno indaga, anche se la rilevanza amministrativa potrebbe sfiorare reati penali, perché, come scrive la commissione, si tratta di «una serie di vicende contrattuali connotate da palesi illegittimità e risultate in un’oggettiva agevolazione degli interessi criminali di mafia Capitale». Se il dossier del prefetto Magno dovesse finire sui tavoli dei pm si trasformerebbe in una nuova spinta per le indagini della procura. Ma anche limitandosi all’aspetto amministrativo, il quadro è devastante. Perché, come spiega l'Espresso, è già difficile adesso far ruotare i capi dei dipartimenti, spostare le persone da un ufficio all’altro o allontanare i dirigenti sui quali gli amministratori nutrono dubbi di affidabilità. In molti casi, come hanno già spiegato esponenti della giunta Marino, intervenire «diventa un’impresa titanica, se non impossibile». Non si riesce neppure a far partire i procedimenti disciplinari per punire gli impiegati citati nelle intercettazioni. Anche per questo, il metodo della commissione, come si legge su l'Espresso che si rifà alla relazione Magno, è andato oltre le singole anomalie, puntando a definire i confini di un sistema perverso: «La verifica non è stata volta alla ricerca fine a se stessa di profili di irregolarità o illegittimità amministrativa, bensì a comprendere il rapporto esistente fra l’influenza di mafia Capitale sulla macchina amministrativa capitolina e le lesioni dei principi di buon andamento della cosa pubblica, onde stabilire l’estensione del condizionamento criminale e in quale misura ciò sia stato reso possibile da una più ampia e preesistente situazione di anomalia amministrativa». Il male quindi è più antico di Carminati e Buzzi. E la relazione Magno si conclude in modo netto formulando «la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare di Roma»: andavano cacciati dal Campidoglio. Certo, ma il provvedimento avrebbe licenziato i consiglieri comunali, i politici, senza toccare i burocrati.
Campidoglio, dopo Mafia Capitale continua la grande abbuffata. Ignazio Marino si è dimesso, ma negli uffici comunali restano i funzionari che hanno alimentato la corruzione. Cento nomi, elencati nella relazione segreta del prefetto Magno. Liberi di proseguire nei loro intrallazzi, scrive Lirio Abbate su "L'Espresso" del 14 ottobre 2015. Ignazio Marino lascia il Campidoglio, ma i gladiatori dell’intrallazzo restano ai loro posti, pronti a banchettare ancora. Gladiatori non come i figuranti pacchiani che assillano i turisti davanti al Colosseo, ma come quegli insidiosi sabotatori stay behind che restavano in silenzio dietro le linee pronti a colpire al momento migliore. Il sindaco ha firmato le dimissioni, messo ko dalla faciloneria nel giustificare un pugno di cene di rappresentanza e dallo schianto definitivo del rapporto con il Pd renziano. Loro invece festeggiano, ancorati alle loro scrivanie negli uffici capitolini, e sognano altre mangiatoie. Sono tanti, una vera centuria. I loro nomi sono elencati nella relazione finale, ancora sotto segreto, firmata dal prefetto Marilisa Magno: 101 persone fra politici e dipendenti, non tutti ancora indagati, che rappresentano il marcio interno dell’amministrazione capitolina. Sono gli ingranaggi che muovono gli interessi illeciti, quelli che hanno incentivato la corruzione e fatto scivolare la cosa pubblica nelle mani delle organizzazioni criminali. Perché la palude fotografata dalla commissione d’accesso guidata dal prefetto Magno, rinforzata dalla relazione del prefetto Franco Gabrielli, è una distesa di sabbie mobili che avvolgono i dipartimenti comunali e la politica romana in un gorgo vischioso di malaffare. Ci sono impiegati, dirigenti, capi dei dipartimenti, molti dei quali pilotati da mafiosi e criminali, che si muovono compiaciuti nel fango. Insomma, è il “Libro Magno” del malaffare sui sette colli. Certo, esistono professionisti bravi e capaci nell’amministrazione romana, ma vengono però sistemati in seconda fila e schiacciati da quei dirigenti che «si sono dimostrati corrotti o semplicemente inadatti». Alfonso Sabella, il magistrato nominato nello scorso gennaio assessore alla legalità, ha fatto ruotare capi dipartimento, trasferito funzionari, avviato procedimenti disciplinari, ma per bonificare la palude serve molto di più. Il lavoro è solo all’inizio. E l’uscita di scena della giunta Marino potrebbe interrompere il risanamento, permettendo alla centuria dell’intrallazzo di tirare il fiato. Sabella con la sua esperienza di magistrato si è subito reso conto che la macchina del Campidoglio non funziona: gli atti amministrativi erano carenti nella forma o nei contenuti. Ma soprattutto c’erano da anni appalti assegnati senza gara e senza controllo per oltre cinque miliardi di euro. Perché? L’assessore-magistrato ha detto pubblicamente, riferendosi ai dirigenti: «o sono corrotti, oppure sono incapaci». La collega di giunta Alessandra Cattoi, fedelissima di Marino, ha subito replicato contestando: «Non è vero». Le parole del responsabile della legalità però hanno trovato riscontro nel dossier del prefetto Magno. Non è solo una questione di nomi. La relazione consegnata a Gabrielli affronta i diversi epicentri del malaffare romano, a partire dagli appalti, per poi passare alle vicende che riguardano il dipartimento tutela ambientale e protezione civile, quelle delle politiche sociali, sussidiarietà e salute, quelle delle politiche abitative e infine il caso Ama (l’azienda per la raccolta dei rifiuti ndr), che ha costituito uno dei pilastri dell’inchiesta antimafia di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino. La chiave è nel capitolo “dieci” del rapporto: quale potere è rimasto nelle mani delle cricche capitoline. Viene analizzato su un triplice fronte: il capitale istituzionale, il capitale politico e quello amministrativo. Questo è il tesoro di Massimo Carminati: «Il milieu di amministratori e funzionari pubblici che sono stati funzionali ai disegni di infiltrazione di “mafia Capitale”». Il capo dell’organizzazione criminale mantiene i rapporti con il mondo politico, istituzionale e finanziario e si interfaccia con le altre mafie tradizionali: il “Cecato” impartisce direttive a Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali, a Carlo Pucci, ex dirigente Eur spa, a Franco Panzironi, ex presidente Ama o Riccardo Mancini, ex amministratore delegato Ente Eur. L’elenco degli uomini di partito che hanno un filo diretto con Carminati stilato dai commissari è lungo. Va da Luca Gramazio e Giordano Tredicine di Forza Italia a Mirko Coratti, Andrea Tassone e Daniele Ozzimo del Pd. Poi ci sono i dirigenti comunali: fra gli altri, Angelo Scozzafava, Franco Figurelli, Mirella Di Giovane e Patrizia Cologgi. Ma questi sono solo i nomi noti, molti altri sono coperti dal segreto. La commissione rileva «come la costruzione di questo “capitale” sia il frutto di un lavoro condotto in sinergia da Carminati e Buzzi». Un investimento prezioso, che si comprende nelle pagine del capitolo “undici” dedicato a «Il capitale amministrativo». Sembra la tela del ragno. In trentatré pagine «enumera i dipendenti di Roma Capitale che attraverso azioni o omissioni hanno contribuito a piegare la gestione amministrativa dell’ente agli interessi di mafia Capitale». I commissari riportano una schiera di nomi, «riconducibili al capitale amministrativo», non tutti ancora indagati. Ci sono dirigenti e funzionari coinvolti a vario titolo nell’inchiesta della procura di Roma, accusati di aver pilotato appalti. Accanto agli indagati ci sono pure dipendenti comunali sfiorati dall’inchiesta, ma ritenuti dalla commissione parte di questa rete. Fra questi l’allora direttore del Dipartimento ambiente. Mentre l’ex responsabile del servizio di programmazione e gestione verde pubblico, Claudio Turella, è stato arrestato lo scorso dicembre e nella sua casa i carabinieri del Ros hanno trovato banconote per 550 mila euro, custodite nelle buste con il logo di Roma Capitale. Una somma che dimostra il potere contrattuale dei dirigenti: hanno in mano le leve per spingere o frenare contratti e concessioni. L’ultimo caso di corruzione è quello di Ercole Lalli, funzionario del dipartimento Infrastrutture arrestato mercoledì mattina con una mazzetta in tasca. Contano e quindi “costano” più dei politici, perché gli assessori cambiano, i sindaci prima o poi vanno via mentre loro resistono sulla poltrona. Nel “Libro Magno” c’è l’analisi geologica del marcio. Gli episodi di malaffare, le procedure poco corrette nelle gare pubbliche, la gestione degli affidamenti diretti di lavori per decine di milioni di euro. Episodi su cui al momento nessuno indaga, anche se la rilevanza amministrativa potrebbe sfiorare reati penali, perché come scrive la commissione si tratta di «una serie di vicende contrattuali connotate da palesi illegittimità e risultate in un’oggettiva agevolazione degli interessi criminali di mafia Capitale». Viene sottolineata una differenza di approccio fra l’amministrazione guidata da Gianni Alemanno e quella di Ignazio Marino. Con l’ex ministro il clan usava come «strumento principe l’intimidazione mafiosa». Con l’ex chirurgo Dem il metodo utilizzato è «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici acquisiti con la corruzione agevolata in specifici casi dalla vicinanza di alcuni ambienti politici a Buzzi (la sinistra ndr) in virtù del suo ruolo di rilievo nel mondo della cooperazione sociale». Se il dossier del prefetto Magno dovesse venire desecretato, si trasformerebbe in una nuova spinta per le indagini della procura. Ma anche limitandosi all’aspetto amministrativo, il quadro è devastante. Perché è già difficile adesso far ruotare i capi dei dipartimenti, spostare le persone da un ufficio all’altro o allontanare i dirigenti sui quali gli amministratori nutrono dubbi di affidabilità. In molti casi, come hanno già spiegato esponenti della giunta Marino, intervenire «diventa un’impresa titanica, se non impossibile». Non si riesce neppure a far partire i procedimenti disciplinari per punire gli impiegati citati nelle intercettazioni. Anche per questo, il metodo della commissione è andato oltre le singole anomalie, puntando a definire i confini di un sistema perverso: «La verifica non è stata volta alla ricerca fine a se stessa di profili di irregolarità o illegittimità amministrativa, bensì a comprendere il rapporto esistente fra l’influenza di mafia Capitale sulla macchina amministrativa capitolina e le lesioni dei principi di buon andamento della cosa pubblica, onde stabilire l’estensione del condizionamento criminale e in quale misura ciò sia stato reso possibile da una più ampia e preesistente situazione di anomalia amministrativa». Il male quindi è più antico di Carminati e Buzzi. E la relazione Magno si conclude in modo netto formulando «la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare di Roma»: andavano cacciati dal Campidoglio. Certo, ma la misura avrebbe licenziato i consiglieri comunali, i politici, senza toccare i burocrati. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, invece ha preferito salvare Roma e commissariare solo il municipio di Ostia, pur riconoscendo come «il lavoro svolto dalla commissione di accesso abbia evidenziato una situazione amministrativa caratterizzata da gravi vizi procedurali». Quando si comincerà a cambiare rotta? Quando verrà affrontata la centuria del malaffare, che dietro lo scudo del segreto difende le sue posizioni? Ormai il Giubileo è alle porte. E nemmeno Raffaele Cantone si fa illusioni: «Sarà dura ottenere gli stessi risultati di Expo, è una sfida ai limiti dell’impossibile. Roma è la città più difficile del mondo, dove ci sono tantissimi conducenti e alcune ruote vanno a destra, altre a sinistra».
“Ora la Capitale, a meno di due mesi dall’inizio del Giubileo, ha la certezza solo delle proprie macerie”. In un articolo intitolato “La grande certezza”, che riprende il nome del film Premio Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, Marco Bellizi scrive su L’Osservatore che “nelle analisi compiute dagli organi di informazione italiani, si nota la pressoché inedita unanimità nel considerare come inevitabile l’epilogo al quale si è giunti. Marino è caduto sotto i colpi di un’inesorabile serie di episodi che, a seconda dei casi, sono stati quanto meno qualificati come gaffes, gesti francamente inopportuni o superficialità. Lo stesso Renzi era intervenuto nei mesi scorsi per sollecitare un cambio di passo e cominciare a ricostruire”. “Di certo, – si legge ancora su L’Osservatore Romano – c’erano le infiltrazioni mafiose anche nel sistema degli appalti, forti dell’appoggio di funzionari amministrativi fino a qualche mese fa intoccabili. Di sicuro c’è stato un velo oscuro sopra la gestione e la raccolta dei rifiuti e delle discariche mentre è evidente quanto i monumenti di Roma siano stati deturpati dai chioschi dei venditori ambulanti. A Roma non si riescono a liberalizzare e a rendere efficienti alcuni servizi essenziali, a partire dai trasporti pubblici. E la manutenzione delle strade fa sospettare che ci sia molto da indagare anche lì. Ma, sopra a tutto, c’è una sola grande certezza: Roma davvero non merita tutto questo”.
«In Campidoglio c’è un sistema incancrenito, ho un dossier per i pm». L’ex assessore Esposito: c’è chi scrive male le delibere perché il Tar le bocci, scrive Alessandro Capponi “Il Corriere della Sera”. «La struttura amministrativa vive di vita propria, non segue le indicazioni, cambia autonomamente il contenuto delle delibere, a volte le scrive male proprio per farle bocciare al Tar...». Stefano Esposito, scusi: sta dicendo che a Roma, in Campidoglio, gli uffici non rispondono agli assessori ma ad altri interessi? «Gli uffici se ne strafottono di ciò che chiede la politica... quelli viaggiano con stipendi superiori ai centoventi-centosessanta mila euro e fanno solamente finta di farti decidere, è chiaro?». Il senatore Pd che giovedì si è dimesso dalla giunta romana è stato per settanta giorni l’assessore ai Trasporti: abituato a un eloquio a volte parecchio colorito, Esposito oggi dice «ciò che non avevo mai reso pubblico». E che, almeno in parte, è raccolto in un faldone «che porterò a Giuseppe Pignatone. Non so se contenga comportamenti penalmente rilevanti ma è bene che tutto sia valutato». E così racconta episodi che sarebbero quasi comici, se non finissero per impattare senza pietà sulla vita dei cittadini. Esposito è cresciuto a Torino: negli ultimi mesi deve aver guardato Roma con occhi poco abituati alla sua luce, alle sue ombre.
Accusare la macchina amministrativa non è un alibi per la politica?
«Faccio degli esempi così ci chiariamo, va bene? Cosa ci fa un segnale di inversione a “u” in una strada pedonalizzata? Lo spiego: siamo in via di Porta San Sebastiano, tra Circo Massimo e Appia Antica, una strada importante, con ville di personaggi famosi. Chiedo spiegazioni: i funzionari balbettano, poi dicono che c’è una scuola all’inizio della via e le mamme hanno bisogno di fare inversione per portare i figli. Chissà di quale famiglia sono quei figli? Così mi metto a urlare! E con quale risultato? Le automobili là passano ancora».
Quando ha capito che la situazione era questa?
«Subito. Appena insediato ho chiesto agli uffici di scrivere una delibera per vietare ai bus turistici di entrare in centro storico. Percepisco resistenze e cerco un compromesso: rinuncio al divieto totale ma ordino di aumentare notevolmente i prezzi per i pass d’ingresso. Scrivono l’atto con i nuovi prezzi ma inseriscono una serie di deroghe con sconti notevoli praticamente per tutti. Quindi hanno scritte le mie regole e il loro modo per aggirarle... chiaro come funziona? Un funzionario ha spiegato al mio capo segreteria: “Gli assessori passano, noi rimaniamo”».
Lei parla anche di «gare opache» in Atac. «Anche là c’è un’opacità spaventosa. Le ferrovie da mesi propongono il biglietto integrato per il Giubileo, per farlo però hanno bisogno di accedere al sistema elettronico di Atac con una chiave numerica, un codice. Non glielo danno, io indago e capisco: Atac gestisce anche Metrebus, un altro biglietto integrato, con Cotral, trasporti regionali, e ferrovie, e per questo dovrebbe redistribuire gli incassi. Ma non lo fa, e deve decine di milioni sia a Cotral sia alle ferrovie. Così ho scritto tre lettere per sollecitare l’invio del codice alle ferrovie per il biglietto del Giubileo: mi hanno risposto che la delega su Atac è di Marino, non mia... Sto parlando di un problema ben più diffuso di quanto si pensi. Quando sono arrivato una serie di provvedimenti del Comune, come quello sulle strisce blu, erano stati bocciati dal Tar. Erano scritti così male che ho pensato: li avranno scritti degli incompetenti. Invece no, professionisti strapagati».
Potevate fare di più?
«L’inchiesta Mafia Capitale, per la quale Pignatone va ringraziato in eterno, portava con sé la missione di bonificare la macchina amministrativa, e farlo, decapitare i cattivi, sarebbe stato importante. Ma parlare di questo a Roma non ti rende popolare nel ceto politico, perché questo metodo clientelare e consociativo è radicato da almeno venticinque anni... chiaro? È un sistema incancrenito».
Roma, Anticorruzione: "Oltre 90% degli appalti Atac senza gara". Esposito consegna dossier in Procura. Nel report di Anac al Comune emerge "l'anomalia che ha portato al collasso il trasporto capitolino". E chiede "di trasmettere una relazione sulle procedure di acquisto poste in essere nel periodo 2011-2015, da inviare entro 30 giorni". L'azienda: "Fatte gare telematiche". L'assessore: "Decapitare i vertici. Stamattina mi veniva da piangere", riferendosi all'ennesimo incidente sulla metro A, scrive "la Repubblica" il 15 ottobre 2015. La Procura di Roma indagherà sulle inefficienze del sistema del trasporto pubblico capitolino. Lo farà sulla scorta di un dossier di cento pagine, "che diventerà un esposto", che oggi l'agguerrito assessore ai trasporti Stefano Esposito ha portato al Procuratore Pignatone. Dopo l'ennesimo incidente di stamani con la Metro A bloccata, Esposito ha rotto gli indugi. "Mi viene da piangere, qui ci vuole un commissario e i vertici di Atac vanno decapitati", dice senza mezzi termini. E anche l'Anticorruzione ha le idee molto chiare sull'Atac: "oltre il 90% dei lavori e dei servizi degli ultimi cinque anni sono stati affidati senza gara", dice in un report inviato al Comune. Insomma l'anomalia elevata a sistema. Un'anomalia che ha portato al collasso il sistema di trasporto pubblico capitolino con centinaia di bus inutilizzati per assenza di pezzi di ricambio, mancata manutenzione, pochi autisti costretti ai doppi turni ma tantissimi amministrativi. Lo stesso per la metro. Oggi quindi è arrivata la risposta dell'Anac di Raffaele Cantone alla lettera inviata alcuni giorni fa dall'assessore ai Trasporti di Roma Capitale, Stefano Esposito, che aveva chiesto di avviare una procedura di verifica sulla regolarità della gestione degli appalti in Atac negli ultimi cinque anni. Dai dati in possesso dell'Autorità è emerso che nel periodo in questione (2011-2015) vi è stata un ricorso frequente alla procedura negoziata, con e senza pubblicazione di bando, per un importo complessivo per forniture, servizi e lavori di oltre un miliardo di euro. Per quanto riguarda l'anno 2011, l'entità dell'utilizzo della procedura negoziata nella scelta del contraente ha fatto registrare valori pari al 99,94% del numero degli appalti di forniture (99,60 in termini di importo), al 92,98% del numero degli appalti di lavori (41,55% in termini di importo) e il 98,84% del numero degli appalti di servizi (69,76% in termini di importo). Ecco, anno per anno, la situazione. Anno 2012: 99,35% appalti di forniture (43,90 in termini di importo), 68,63% appalti di lavori (45,05% in termini di importo) e l'87,37% appalti di servizi (66,86% in termini di importo). Anno 2013: 97,71% appalti di forniture (86,46% importo), 72,22% appalti di lavori (84,57% importo), 63,52% appalti di servizi (61,05% importo). Anno 2014: 87,58% appalti di forniture (9,22% importo), 86,36% appalti di lavori (49,82% importo), 65% appalti di servizi (50,65% importo). Anno 2015: 84,27% appalti di forniture (3,26% importo), 82,35% appalti di lavori (31,24% importo), 76,79% appalti di servizi (32,91% importo). Ma l'Atac risponde e informa di aver ricevuto in data odierna dall'Anac "la richiesta di trasmettere una relazione dettagliata sulle procedure di acquisto poste in essere nel periodo 2011-2015, da inviare entro 30 giorni - si legge in un comunicato dell'azienda municipalizzata romana dei trasporti - In particolare, nella lettera pervenuta dall'Anac, che non contiene rilievi su specifici procedimenti di gara, si chiede un focus sulle ragioni del ricorso alle procedure negoziate senza pubblicazione di bando, avuto riguardo a quanto previsto dal Codice dei Contratti Pubblici". "Atac segnala che le procedure negoziate senza pubblicazione di bando sono previste dal Codice dei Contratti Pubblici e vengono di norma effettuate per importi al di sotto della soglia di rilievo comunitario - ancora nella nota -, attraverso l'utilizzo dell'Albo Fornitori aziendale, periodicamente pubblicato con avviso nazionale, che presenta 1800 categorie merceologiche con 2930 operatori iscritti". "Oltre il 90% del valore degli acquisti aziendali viene svolto tramite gare di appalto telematiche, come del resto rilevato dalla stessa Autorità nella Nota oggi pervenuta. Atac, come di consueto, fornirà all'Autorità tutte le informazioni richieste nei tempi stabiliti, certa di poter rappresentare la coerenza dei comportamenti aziendali alle vigenti disposizioni di legge". Ma per Esposito "si sono dimenticati di fare manutenzione negli ultimi dieci anni, ma la manutenzione va fatta altrimenti succede quello che è successo oggi". Del resto ricorda "avevo già detto che ci voleva fortuna e una preghiera ogni mattina, stamattina sinceramente mi viene da piangere. Sono due mesi che ripeto, senza particolare attenzione e anche con qualche sfottò, che la situazione della metro è molto delicata, che il livello di manutenzione che ho trovato è inesistente e che rischia di produrre una grave situazione, in assenza di risorse". Tutti dati poco confortanti soprattutto con un Giubileo alle porte. Per Esposito "serve urgentemente la nomina di un commissario straordinario per i trasporti a Roma dotato di risorse e di deroghe specialissime che gli consentano di affidare lavori urgentemente. Perché il problema dei trasporti a Roma è un problema nazionale". Il nome che circola più insistentemente di altri è quello di Marco Rettighieri, il supermanager Italferr chiamato in soccorso di Expo. "In Atac - aggiunge - è necessario un repulisti e una rivalorizzazione di chi opera tutti i giorni, dai macchinisti ai capi servizio, la cui voglia di lavorare bene è stata frustrata da un gruppo dirigente che ha pensato a se stesso e non all'azienda. Intanto in questi 60 giorni credo che potremmo dare il via a interventi manutentivi che ci faranno stare più sereni per il Giubileo". In Atac, insomma, per Esposito deve cambiare tutto, come va ripetendo ormai da tempo: "L'utente non è una bestia che si trasporta, è il nostro core business. Basta scrivere inconveniente tecnico nei comunicati, va detta la verità. E la verità, in questa azienda, non piace". Intanto l'assessore ha parlato con il prefetto Gabrielli, col vicesindaco Causi e col commissario del Pd romano Orfini. "So che il presidente del Consiglio - aggiunge - segue con preoccupazione e attenzione il tema dei trasporti a Roma". La parola d'ordine ora è: "Rivoltare Atac come un calzino". E la Procura darà più che una mano.
Valerio Mastandrea: "Voglio raccontare la vita vera di Roma". Non solo i turisti o gli scandali di Mafia Capitale. L'attore romano produce film (da Oscar) che mettono in scena la vita quotidiana nei quartieri ignorati dalle cronache, scrive Emanuela Genovese su “L’Espresso”. Roma, quartiereTestaccio. Un ragazzo di colore vende calzini. Sono mesi che lo fa. Si avvicina ad un uomo, fermo in una piazza, che lo guarda e gli dice: «Ah bello! Ancora con questi calzini?» Il giovane annuisce. E l’altro sbotta: «Basta con questi calzini. Devi “delinque”. Devi fare carriera». Ecco, per Valerio Mastandrea «anche questa è Roma, un’altra Roma rispetto alla capitale che si studia sui libri di scuola. Quella è per i turisti, la città che invece noi romani percepiamo è un’altra». Una metropoli vissuta dal basso, di cui è impregnato il cinema di Claudio Caligari, il regista scomparso a fine maggio, poco dopo aver terminato il montaggio di “Non essere cattivo”. Un film che Mastandrea ha voluto produrre e che ora, dopo tante vicissitudini, è nelle sale ed è stato scelto per rappresentare il cinema italiano agli Oscar. Notti in discoteca, macchine potenti, alcool, droghe sintetiche e spaccio di cocaina: la vita di eccessi di due amici nella Ostia degli anni Novanta nella pellicola prodotta da Valerio Mastandrea presentata Fuori Concorso a Venezia. Piena di Ostia e di personaggi scomodi presi dalla strada, la visione di Caligari ha sempre affascinato Mastandrea, sin da quando il regista, nel lontano 1998, lo scelse come protagonista de “L’odore della notte”, ispirato alla banda dell’Arancia meccanica che negli anni ’80 terrorizzava i quartieri bene, con rapine e furti. Mastandrea interpretava un poliziotto in congedo, freddo e razionale, che cercava nell’illegalità un mestiere. Diciassette anni dopo, l’attore si è fatto produttore dell’ultimo progetto di Caligari, che definiva «la fotografia dell’esito finale del mondo pasoliniano»: uno sguardo sul mondo livido della droga e della sopravvivenza. La storia di Vittorio (Alessandro Borghi) e Cesare (Luca Marinelli), due fratelli di vita che cercano un riscatto che non avviene, in un’Ostia di metà anni Novanta non ancora occupata dalla Mafia Capitale. A Mastandrea più dei romanzi criminali interessa la fragilità degli ultimi, la purezza, spesso soffocata e sconfitta dal precariato.
La Roma dei film che lei produce è la metropoli di oggi, divisa tra degrado, mafie e connivenza con la politica.
«Luigi Magni, un grande conoscitore di Roma, mi disse: “Di cosa ti stupisci Valerio? Qui si vendono pure i morti...”. Credo che il senso più profondo di questa città sia la capacità di incarnare il simbolo del potere: muta continuamente e non cambia mai. Conosco la Roma che mi piace vivere e conosco quella che non sopporto più per tantissimi aspetti, che non sono rintracciabili nelle inchieste televisive sugli scandali ad uso e consumo del grande pubblico. Questo non significa accettare il male e arrendersi».
Come produttore lei ha cercato storie che raccontassero la periferia o gli immigrati, quasi sempre girate a Roma. Come “La mia classe” di Daniele Gaglianone che, a metà strada tra cinema e documentario, descrive le lezioni di italiano dei ragazzi stranieri e il tentativo di integrarsi nella nostra società.
«Non so cosa vuol dire produrre dal punto di vista tecnico. Mi sono limitato a intendere questo mestiere come l’investimento del mio tempo e dei miei soldi per far vivere una realtà con la quale mi trovavo in sintonia. Credo nei film che hanno una valenza critica e culturale. Come è avvenuto con “ Pezzi ” di Luca Ferrari (il documentario su Laurentino 38, quartiere della capitale ad alto tasso di criminalità, ndr), uno dei film che mi ha fatto più male. A fine riprese, sono subentrato nella produzione perché credevo nella capacità del regista di narrare un mondo che nessuno racconta. Ed è per questo che con Ferrari abbiamo appena realizzato “Showbiz” sul lato B de “La Grande Bellezza”: gli epigoni capitolini di Jep Gambardella, quelli veri, presi dalle trasmissioni delle tv locali».
Il turista a Roma cerca solo questa bellezza. E lei cosa cerca?
«Lo sguardo dei romani va verso la vita vera, scandita dai tanti disagi quotidiani e da problemi ben più seri. Se si vuole capire qualcosa si va nei quartieri, come Tor Pignattara. Ed è questo in fondo la gioia di un vero romano, conoscere queste realtà trascurate. È un discorso molto complicato, per me il modo migliore di guardare Roma è affrontarla con un senso di responsabilità nello svolgere il mio lavoro. I film permettono di indagare la realtà in modo trasversale. Puoi raccontare tutto e tutti. Anzi. Più racconti quei “tutti” che non ti aspetti, più onori la potenzialità del cinema. Ad esempio penso alle cooperative, protagoniste delle cronache degli ultimi tempi: per descriverne il potere, invece di partire dalla storia di un “capo”, da come si forma a come lo diventa, è più forte scegliere la storia di un dipendente, di un “pischello” che a quel lavoro, a quel riscatto ci crede e si batte».
È un cinema che ruba il mestiere del giornalismo.
«Esatto. Cercando una priorità delle notizie. È più importante discutere di un tweet del presidente del Consiglio sugli eventi legati alla chiusura del Colosseo per l’assemblea dei sindacati o è più importante parlare tutti i giorni dell’emergenza abitativa che ha, invece, questa città?»
Sono quei mondi che caratterizzano proprio i film di Claudio Caligari.
«Quello infatti è un cinema che resta dentro, che non si dimentica uscendo dalla sala. Tocca tutti, anche le persone più lontane che non hanno mai vissuto in periferia, come quelle due signore di una certa età che, dopo avere visto “Non essere cattivo”, si sono chieste “Ma davvero esiste questa gente?”. Sapere che due persone vanno a dormire la sera più consapevoli di quello che succede nella realtà mi rende contento. Ecco perché mi manca e mancherà il cinema di Caligari». In 32 anni Caligari è riuscito a realizzare soltanto tre film. Nel 1983 “Amore tossico” fu un caso, un nuovo modello di neorealismo: descrivere il tunnel dell’eroina usando attori che si bucavano o si erano drogati. Una pellicola durissima, poetica e spietata. E da allora i suoi progetti sono sempre stati ostacolati. «Il nemico dei film di Claudio è stato la percezione del lavoro culturale in questo Paese da parte di chi lo gestiva e di chi ne usufruiva. Quando diceva che in Italia gli avevano sbattuto tante porte in faccia, lui voleva farne una questione politica. Il cinema di Caligari, poco rassicurante, non era un omologato e non prometteva un ritorno economico facile».
E gli altri film che ha scritto: rimarranno incompiuti?
«Ci sono ancora tre o quattro sceneggiature. Produrre “Non essere cattivo” è stata una vera impresa, ci sono stati parecchi momenti in cui pensavano che non saremmo arrivati sul set. Abbiamo persino scritto a Martin Scorsese per chiedergli fondi, senza risposta. Ma siamo riusciti a girarlo. E chi lo ha reso possibile, non avrà paura a tentare di realizzare anche gli altri progetti di Claudio. Lui ci ha insegnato a cercare un senso profondo del cinema, anche quando l’ambizione non va di pari passo con le opportunità che ti vengono offerte».
La scomoda verità su Roma, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Gli ultimi due sindaci di Roma sono stati forse i peggiori che la città abbia avuto. Per motivi differenti: il primo, Alemanno, per la sua contiguità con gli ambienti più torbidi del sottobosco squadristico-malavitoso dell’antico neofascismo cittadino nonché per la gestione spudoratamente clientelare delle aziende comunali affidata a personaggi dello stesso ambiente; il secondo, Marino, per la stolida insensibilità autoreferenziale dell’uomo, per la sua totale incapacità di pensare e fare le cose più necessarie. Ma ora che questa lunga pagina sembra sul punto di chiudersi è giunto il momento di aprire il discorso più importante: quello sulla città, su che cosa è oggi Roma. Perché è da qui che il male comincia. È da ciò che la città è diventata negli ultimi due, tre decenni, che nasce il suo sfascio amministrativo ma prima ancora il degrado civile che lo ha generato. Una città disarticolata spazialmente da un’informe crescita speculativa. Senza più un’élite riconosciuta e senza la sua plebe antica: perciò ormai senza più tradizioni e senz’anima. Dagli anni Settanta priva del fermento di vita e di idee assicuratole un tempo da quel numeroso ceto di artisti, di intellettuali, di giornalisti colti, di uomini e donne del cinema e del teatro che s’incontravano nelle sue trattorie, nelle gallerie d’arte, nelle librerie (luoghi ormai letteralmente inesistenti). Una città dove perfino i salotti delle signore della prima Repubblica, che ambivano a un certo tono, hanno chiuso i battenti. Al loro posto una galassia di centri d’influenza e di coalizioni d’interessi: i quattro o cinque circoli del generone, le associazioni dei commercianti, le cooperative dei taxi, i costruttori, i gestori degli alberghi e dei ristoranti, i padroni dei bus turistici. Con il loro corredo di professionisti di fiducia, con i loro «presidenti»: gli uni e gli altri con i loro molti «amici» e «clienti», e quindi sempre con folti pacchetti di voti da distribuire alla politica di cui vivono a ridosso. Sono loro che ormai esprimono lo spirito maneggione, lo stile volgarmente confidenziale e un po’ sbracato della città, della quale sono ormai i veri padroni sociali. Sono loro che al pari di tante altre caste cittadine italiane da Milano a Firenze hanno deciso - svanita ogni illusione di sviluppo urbano diverso da una terziarizzazione selvaggia - che oltre la politica e i suoi favori, l’unico altro modo per fare soldi è sfruttare la città storica come una mucca da mungere. E dunque avanti, a Roma, con l’obiettivo di accrescere l’orda del turismo devastatore tra il Pantheon, il Colosseo e Trinità dei Monti. Gare di appalti, contratti di consulenze, pratiche per licenze di ogni tipo, legano questa oligarchia all’amministrazione comunale: la più elefantiaca e la più fannullona d’Italia, blindata da una marea di sigle sindacali più o meno fasulle, abituate spudoratamente a fare il bello e il cattivo tempo ricattando sindaci e cittadini. Un’amministrazione comunale il cui vero simbolo è la «polizia di Roma Capitale», come si chiama ora, secondo la ridicola dizione voluta dal sindaco Alemanno. Il modo stesso d’indossare la divisa, il taglio dei capelli, l’approccio verbale malmostoso e sempre privo di garbo di vigili e vigilesse romane sono la raffigurazione esatta di una città insieme aggressiva e svogliata, sempre inappropriata e fuori dalle regole. Anche la politica - è questa la vera, decisiva, novità dell’ultimo decennio - fa ormai parte a pieno titolo di questo degrado civile di Roma. Forse anzi, come farebbero pensare certe inchieste giudiziarie e non, ne è divenuto un oscuro motore nascosto. Assai più delle periferie è da tempo il centro della città la roccaforte del Pd, divenuto ormai il partito che piace alla gente che piace; e che conta. Perduta l’anima torinese-napoletana della sua lontana origine comunista, il Pd, come ha scritto esattamente Marco Damilano sull’Espresso, in forza dell’incontro Veltroni-Rutelli è nato romano, ed è stato al governo della città per un tempo lunghissimo. Appare quindi quasi una nemesi, che proprio Roma assista alla conferma più evidente della perdita da parte sua di ogni «diversità» d’antichissima memoria, con Marino che cade ignominiosamente per uno di quegli scandali a cui in un epoca remota sembravano destinati solo i «forchettoni» dc o, più vicino a noi, i bru-bru della variegata corte berlusconiana. La vicenda dell’ormai ex sindaco, insomma, non si libra isolata nel nulla: va letta come apologo della parabola di un intero partito, spesso - qui come in tanti altri luoghi - perdutosi nell’ingaglioffimento di quadri di nessuna educazione politica e di ancor minore tenuta morale, mossi solo dall’arrivismo e dalla sete di potere.
Ma attenzione a non fare del Pd e della politica un capro espiatorio. Proprio la vastità delle disfunzioni, delle inadeguatezze, dei mali di ogni tipo venute alla luce così clamorosamente negli ultimi due anni mostrano, lo ripeto, che a Roma c’è una realtà sociale diffusa che è guasta, che troppi gruppi sociali, troppi organismi, troppi ambienti, sono intimamente corrotti. In troppi sono abituati a non avere alcun senso civico, a non rispettare nessuna regola, a evadere tutto ciò che è possibile evadere, ad abusare di ogni possibilità di abuso. In un tale panorama sconsolante la politica trova un suo limite oggettivo: non si possono raddrizzare le gambe ai cani. Se non si vuole essere faziosi, il caso Marino mostra anche questo. Precisamente perciò potrebbe essere proprio la politica a cercare di riguadagnare l’onore perduto dando essa, una volta tanto, una lezione alla cosiddetta società civile. Facendo, per esempio, una cosa di cui in Italia si sta ormai perdendo quasi la nozione: si chiama esame di coscienza.
"Capitale Corrotta, nazione infetta": l'inchiesta scandalo di Manlio Cancogni su "L'Espresso". Questo articolo di Manlio Cancogni è uscito sull'Espresso dell'11 dicembre 1955, a pagina 3, con il titolo “Quattrocento miliardi”. Il titolo in copertina era "Capitale corrotta=nazione infetta". Rimase celebre per la sua denuncia del dilagare della speculazione edilizia a Roma. Scrive Manlio Cancogni. "Presto il sindaco Rebecchini ci lascerà. Andrà a Madrid, ambasciatore presso il governo di Franco. Al suo posto si presenterà una personalità politica di maggiore prestigio, forse un ministro. Questi sono progetti dei democristiani di Roma, preoccupati per l’avvicinarsi delle elezioni comunali che si annunciano così pericolose per la giunta che amministra la capitale. Durante l’amministrazione Rebecchini il Comune ha fatto centoventi miliardi di debiti che costano dieci miliardi d’interessi l’anno, per pagare i quali non è sufficiente l’intero gettito annuale delle imposte dirette. Il deficit annuo si aggira intorno ai dieci miliardi. Tutte le aziende autonome, come l’Atac, ad esempio, sono diventate passive. In compenso, quelle private, come la Pia Acqua Marcia, hanno continuato a realizzare utili enormi e le aree fabbricabili hanno avuto incrementi di valore di sessanta, settanta miliardi l’anno. Gli abusi, le manchevolezze dell’amministrazione Rebecchini avrebbero portato in qualsiasi altro comune alla nomina di un commissario prefettizio. A Roma non è avvenuto oltre che per il volere del partito di maggioranza, perché i principali gruppi speculatori della capitale desiderano la permanenza dell’attuale consiglio in Campidoglio. Nessuno potrebbe garantir loro vita più facile di quella che hanno avuto fino ad oggi. Nell’attuale inchiesta non si vuole parlare tuttavia né del sindaco né del disservizio del Campidoglio. Vogliamo invece fare un quadro delle speculazioni che il sindaco e il Campidoglio hanno permesso e incoraggiato. La più grave di tutte, chiave di volta dell’intero sistema, è quella sulle aree fabbricabili. La vita dell’intera popolazione ne è compromessa. Se Roma non ha sviluppo industriale la colpa è di chi specula sulle aree; se ventottomila famiglie vivono nelle baracche della Tuscolana, della Prenestina o del Campo Parioli, la colpa è degli speculatori sulle aree; ma se trecentomila famiglie di professionisti, commercianti, impiegati, operai pagano affitti sproporzionati alle loro possibilità o vivono in case vecchie, sovraffollate, sprovviste di conforts moderni, la colpa è degli speculatori delle aree. Otto anni fa, quando l’ingegnere Rebecchini fu nominato (per scherzo dissero alcuni maligni del suo partito) sindaco di Roma, Vigna Clara non esisteva. Quattrocento metri a nordovest dal punto in cui la nuova Cassia e la vecchia Flaminia si incrociano, c’erano prati e poggi da cui si poteva vedere la vallata del Tevere, e dall’altra parte le colline di Villa Glori o dei Parioli. Vigna Clara, oggi, è un quartiere di lusso. Per il momento è un nucleo di abitazioni raccolto su una breve collina, circondato dalla campagna. Come un villaggio americano possiede tutte le attrezzature più moderne: i negozi, dal droghiere al parrucchiere per signora, sono sistemati ai diversi piani di un unico edificio che occupa l’intero lato della piazza centrale. Le palazzine, fresche, pulite, pitturate a nuovo, sono rifinite alla perfezione. Non esistono cortili ma praticelli con l’erba all’inglese: nel mezzo, la piscina. Un vano a Vigna Clara si vende a 1.300.000 lire. Il costo, si valuta 650.000 lire. Il margine va per metà alla Società edilizia Vigna Clara che ha costruito il quartiere, e per metà alla Società Generale Immobiliare, proprietaria dei terreni e che ha fatto il piano regolatore, subentrando al Comune, e ha dato alla zona il suo carattere di residenza di lusso. Oggi, grazie a questo nucleo così spiccatamente signorile, e naturalmente grazie ai lavori del Comune che oltre ad avere fatto la grande arteria di raccordo con la vecchia Cassia, ha portato sul luogo tutti i servizi, l’Immobiliare vende i terreni intorno a Vigna Clara a 40.000 lire al metro quadrato. Li aveva comprati a prezzo agricolo, intorno alle quattrocento lire. A questo punto facciamo una parentesi e citiamo le parole che Pio XII rivolse ai presidenti degli Istituti delle Case Popolari convenuti a Roma per celebrare il cinquantesimo anniversario di quell’Istituto. Disse il Pontefice: “Le competenti autorità, senza dubbio non debbono né possono sottrarre direttamente o indirettamente alla proprietà ogni accrescimento di valore derivante unicamente dalla evoluzione delle circostanze locali; ma la funzione sociale della proprietà esige che tale guadagno non impedisca agli altri di soddisfare convenientemente e a prezzo equo un bisogno così essenziale come quello di un’abitazione. Combattete dunque con tutti i mezzi che il bene comune giustifica l’usura fondiaria ed ogni speculazione finanziaria economicamente improduttiva con un bene così fondamentale qual è il suolo”. Il suolo della zona di Vigna Clara era ed è in gran parte ancora della Società Generale Immobiliare, le cui azioni sono per la metà almeno nelle mani della Santa Sede. Uno dei principali consiglieri della Società è il principe Marcantonio Pacelli, nipote del papa. Il discorso di Pio XII risale al 21 novembre del ’53. In questi due anni, fra Vigna Clara, che allora non esisteva, e altre zone, l’Immobiliare ha realizzato utili di miliardi. Ma torniamo sulle colline fra la Cassia e la Flaminia. Presidente della Società Edilizia Vigna Clara è il dottor Samaritano. Si consulti un annuario delle grandi società per azioni e si vedrà che il dottor Samaritano è anche il direttore generale dell’Immobiliare. In realtà Vigna Clara e Immobiliare sono la stessa cosa. Come sono la stessa cosa Immobiliare e Edilizia Due Pini, Immobiliare e Edilizia Tor Carbone, Immobiliare e Società Edilizia Piazza Clara, Immobiliare e un numero infinito di società che hanno come fine sociale la compravendita di terreni, la costruzione di case, il fitto, la vendita d’immobili ecc. ecc. Fine reale di queste società è alleggerire fiscalmente la società madre e coprire le sue manovre speculative sulle aree fabbricabili. I terreni dell’Immobiliare sono disposti intorno a Roma in maniera strategica. Ne ha per 470.000 metri sulla via Tuscolana, per 530.000 a Tor Carbone, per 90.000 sulla Prenestina, per 215.000 sulla Trionfale, per 50.000 sulla Salaria, per 1.336.000 sulla Nomentana, per 1800.000 sulla Casilina, ecc. ecc. In questo modo essa può decidere volta a volta in che direzione le conviene che la città avanzi. Scelto il campo di operazioni viene affidata a una società di comodo la sistemazione di un certo tratto stabilendo se debba essere edificato a intensivo, a palazzine, a villini, se debba essere di carattere medio borghese o signorile. In genere l’Immobiliare preferisce quest’ultimo tipo, che dà i margini più alti. Tutte le altre società fondiarie e edilizie hanno seguito il suo esempio. La società edilizia alla cui testa viene messo uno dei consiglieri o dei funzionari dell’Immobiliare costruisce un primo gruppo di abitazioni. Il Comune è obbligato a portare servizi, dall’acqua all’autobus, e il prezzo dei terreni sale. Tutti adesso vogliono costruire nella zona e piccole e medie società edilizie chiedono di comprare il terreno. Naturalmente questi costruttori si adegueranno in seguito ai prezzi base dettati dalla prima società. Fra di loro si trovano, non di rado, impiegati o funzionari del Comune, che, Dio sa perché, si sono trovati a un tratto proprietari di una strisciolina di terra. Ecco come si svolge la manovra. Riguardo alla zona, l’Immobiliare ha soltanto l’imbarazzo della scelta. Essa possiede infatti, nel solo comune di Roma, circa otto milioni di metri quadrati, di cui due già compresi nel piano regolatore, e gli altri in zone dove la città si sta estendendo grazie all’interessamento delle società proprietarie di aree. Intanto l’Immobiliare è passata a coltivare un’altra zona. Adesso, per esempio, ha messo gli occhi su una fetta di 800.000 metri quadrati fra la via Appia nuova e quella antica, in località Villa dei Quintili. I proprietari, fra cui anche gente modesta, non sono in grado di valorizzarli. L’Immobiliare in questi casi crea una società in cui entrano a far parte quei proprietari incapaci e con questi alleati procede all’esecuzione dei suoi piani. Essa ha una lunga pratica, e anche quando una zona come quella fra le due Appie è al centro di aspre polemiche, sa come farsi valere presso gli uffici del Comune. Fra l’altro uno dei più importanti consiglieri in Campidoglio, Bardanzellu, è uno dei suoi avvocati. Certo non è facile in Campidoglio resistere a una potenza come l’immobiliare. I funzionari comunali, i tecnici, i membri delle commissioni ricevono stipendi assai bassi. I tre più importanti azionisti della società sono: la Santa Sede, la Fiat, l’Italcementi, rappresentati rispettivamente da Eugenio Gualdi, Vittorio Valletta, e Carlo Pesenti. È interessante scorrere i nomi delle altre persone che reggono i destini dell’Immobiliare. Il vicepresidente, Guido Traves, è uno dei principali azionisti della Bastogi, della Centrale e della Meridionale di Elettricità; l’amministratore, ingegnere Enrico Galeazzi, è membro del consiglio della Pia Acqua Marcia e della Società Romana di Elettricità; il consigliere, Bernardino Nogara, che cura gli affari finanziari del Vaticano è consigliere della Beni Stabili (l’altra grande società che regola la sorte delle aree e dell’edilizia romane), consigliere della Società Molini e Pastifici Pantanella, delle Strade Ferrate Meridionali, della Montecatini, della Adriatica di Elettricità, dell’Elettrochimica del Caffaro, delle Cartiere Burgo, dell’Istituto Italiano di credito Fondiario, della Società Anonima Condotte d’Acqua, ecc ecc.; il consigliere principe Marcantonio Pacelli è amministratore della Pantanella, della Sogene (filiale dell’Immobiliare), della Lai; il consigliere avvocato Osio è consigliere dell’Italgas che è la stessa cosa della Romana Gas. Non occorre parlare degli altri. Il quadro è sufficiente a mostrare che le grandi potenze della capitale, e cioè l’Immobiliare, la Beni Stabili, la Pia Acqua Marcia, la Roma Gas e la Romana di Elettricità, sono collegate fra loro (e tutte hanno legami col Vaticano) con un unico scopo (che negli statuti viene chiamato fine sociale): il controllo economico di Roma. Abbiamo finora accennato soltanto all’attività dell’Immobiliare perché il suo esempio è classico e perché essa non fa mistero dei suoi programmi. In una recente seduta dell’assemblea dei soci fu fatta una dichiarazione sufficiente a chiarire i rapporti fra questa società privata e la legge. Fu detto: “Il comune di Roma dovrà in avvenire mostrarsi più comprensivo nei riguardi dell’Immobiliare lasciandola libera di applicare il piano regolatore secondo le sue vedute. L’Immobiliare possiede tutti i mezzi, architetti, tecnici, urbanisti, ecc. ecc. per dare a Roma lo sviluppo che compete a una città delle sue tradizioni”. Gli altri grossi proprietari non hanno altrettanto potere, ma sanno anche essi agire con sufficiente abilità. I più ragguardevoli sono: il marchese Alessandro Gerini con sei milioni di metri quadrati, la sorella del marchese, Isabella, con due milioni e mezzo, i principi Lancellotti con sette milioni. Per dare un esempio di qualcuna delle speculazioni compiute da queste famiglie citiamo le parole pronunciate nell’aula del consiglio comunale, in una seduta del febbraio ’54, da Aldo Natoli, il consigliere che con Leone Cattani si è dedicato al compito di denunciare le grosse speculazioni edilizie del comune di Roma. Né il sindaco, né altri consiglieri osarono ribattere. Disse Natoli: “Parlerò di ciò che è avvenuto in una ristretta zona del Quadraro, lungo via Tuscolana. Nel 1950, l’Ina-Case comprò dal marchese Gerini a 1200 lire a metro quadrato e iniziò la costruzione di un importante centro di abitazioni. Il Comune naturalmente impiantò i servizi pubblici. In tre anni i prezzi dei terreni di proprietà del marchese Gerini compresi nei piani particolareggiati sono arrivati a cifre che variano dalle 15 alle 20.000 lire sul fronte della Tuscolana, fino alle 10.000 lire nell’interno. Si tratta in complesso di 57 ettari del marchese Gerini, di 117 ettari di sua sorella Isabella: un calcolo non arduo dimostrerebbe che il valore è aumentato di alcuni miliardi: 5 o 6 per il marchese Alessandro, un decina per la signora Isabella. Nel 1951 il Comune decise di costruire Villa Gordiani (un blocco di case popolari sulla Prenestina). Il Comune possiede ancor oggi, per quanto il suo patrimonio si trovi in uno stato deprecabile, circa cinque milioni di metri quadrati di aree. Noi sostenevamo allora che il Comune avrebbe dovuto costruire su aree proprie perché così avrebbe risparmiato la spesa per l’acquisto di nuovi terreni e avrebbe inoltre valorizzato il patrimonio proprio, non quello altrui. Il Comune invece comprò dieci ettari di terreno… dopodiché cominciò a costruire, a impiantare servizi pubblici valorizzando così tutta quella zona. Il risultato a tre anni di distanza è che i prezzi dei terreni sono aumentati di una diecina di volte lungo la Prenestina. La proprietà dei principi Lancellotti è in questa località di 96 ettari”. Accanto agli immobiliari, di cui abbiamo citato i maggiori, ci sono poi i costruttori. Ma qui bisogna fare una distinzione. I grossi, come Antonio Scalera, Romolo Vaselli, Tudini e Talenti, Federici ecc. ecc., sono nello stesso tempo proprietari di aree (due milioni e mezzo di metri quadrati Vaselli, nove milioni Scalera lungo la via Cristoforo Colombo fatta naturalmente a spese del Comune); gli altri, medi o piccoli, comprano invece il terreno volta a volta, rifacendosi dei costi maggiorati della vendita o nell’affitto degli appartamenti. La procedura è sempre la stessa. Una ditta affiliata a Vaselli, per esempio mettiamo alla Società Palazzine Valadier, costruisce un piccolo blocco di abitazioni all’estremo di un terreno di cui il conte è proprietario; un’altra società, non meno fittizia, fa analogo lavoro all’altra estremità. Di colpo l’area che si trova in mezzo alle due zone costruite sale di valore. La città si estende da quella parte. Le grandi ditte costruttrici allora vendono e lasciano costruire alle piccole. Con questi metodi, sollecitati dalla speculazione sulle aree, l’edilizia romana non ha cessato di svilupparsi. Dai 26.673 vani costruiti nel ’50 si è passati ai 41.881 del ’52 e ai 75.127 del ’54. La media annua in questo periodo è stata di 46.762. la più alta in tutta Italia. Sono alloggi i cui fitti vanno da un minimo di 30-35.000 lire per appartamenti di tre vani dove la fabbricazione ha carattere intensivo, a massimi che toccano le 100.000 nelle palazzine o nei villini delle zone favorite. Abbiamo detto l’edilizia romana, ma avremmo dovuto precisare: l’edilizia romana privata. La situazione di quella pubblica infatti è molto meno brillante. In sette anni l’Ina-Case che dovrebbe assicurare ai meno abbienti fitti economici mai superiori alle 10.000 lire al mese ha allestito soltanto 6300 alloggi pari a 31.110 vani. L’Istituto Case Popolari non ha nemmeno raggiunto queste cifre. E tuttavia è proprio in questo campo che la richiesta è enorme. Vi sono nella città 66.467 alloggi con un indice di affollamento superiore alle due persone per vano. Vi vive il trenta per cento della popolazione. In 25.000 alloggi l’affollamento supera le tre persone per vano. Poi ci sono le 28.000 famiglie che vivono nelle baracche, spesso in vista, come accade per il campo Parioli, delle zone di lusso dove più sfrenata è stata la speculazione sulle aree che li condanna a quella vita miserabile. Volendo risolvere in dieci anni il problema della casa per i romani (oltre all’eliminazione delle baracche e alla riduzione dell’affollamento è necessario sostituire le case logore e provvedere alle 35.000 persone che ogni anno affluiscono nella capitale) l’ufficio statistica del Comune ha calcolato che bisognerebbe costruire 80.000 vani all’anno. L’edilizia privata è quasi arrivata, nel ’54, a questa cifra. Ma essa offre un prodotto che si rivolge a tutt’altro mercato. E, monopolizzando a suo profitto le aree, impedisce che un’edilizia economica abbia il suo naturale sviluppo. Utilizzando certi articoli del Testo Unico dell’Edilizia popolare il Comune avrebbe potuto porre la questione dell’esproprio. Ma anziché espropriare il Comune preferisce vendere ai privati anche quel poco che ha. È di questi giorni la vendita all’asta delle terre comunali del Campo Parioli, andata deserta perché le grosse società hanno preferito attendere per acquistarla al prezzo più basso. Vi è un’altra legge fatta espressamente per Roma nel 1931 che, se applicata, avrebbe dato un enorme vantaggio al Comune e alla cittadinanza. Essa autorizza a imporre ai proprietari dei beni che siano avvantaggiati dalla esecuzione delle opere previste dal piano regolatore un contributo pari alla metà dell’aumento effettivo del valore. Gli incrementi di valore delle aree, tra il ’48 e il ’53 sono valutati a non meno di 300 miliardi. Se il Comune avesse applicato la legge avrebbe avuto un beneficio di 150 miliardi con i quali avrebbe potuto pagare tutti i suoi debiti. Ebbene in questo periodo la ripartizione Tributi dell’amministrazione capitolina ha fatto accertamenti solo per un miliardo e 178 milioni. Proprietari di aree ed edili sono dunque gli incontrastati padroni della città e ne regolano la sorte e l’avvenire a loro arbitrio. Il comune di Roma è stato dal ’50 ad oggi zona di speculazione fondiaria e edilizia e tale deve restare. Questo è in sintesi il quadro di ciò che è avvenuto nei sette anni dell’amministrazione Rebecchini. Durante questo tempo il sindaco non ha cessato di sorridere. Egli pare non avverta nemmeno il pericolo che gli si sta scavando, e non retoricamente, il terreno sotto i piedi. Le perdite d’acqua dovute all’invecchiamento delle condutture, la rottura di molte fognature dovuta all’incuria dell’amministrazione hanno formato nel sottosuolo fra il Pantheon e il Campidoglio una palude che un giorno potrebbe inghiottire gli edifici di quei quartieri e le persone che vi abitano".
Il pezzo fu pubblicato sull'Espresso dell'11 dicembre 1955 come servizio di copertina.
Si è spento a 99 anni in Versilia, a Pietrasanta l’1 settembre 2015. Nella sua lunga carriera di reporter, autore e docente di letteratura aveva ottenuto i più importanti riconoscimenti letterari italiani, dallo Strega al Campiello, scrive R.I su L'Espresso". Giornalista e scrittore, autore di alcune inchieste fondamentali per il giornalismo italiano del Dopoguerra, si è spento a 99 anni Manlio Cancogni. Era nato a Bologna, da genitori versiliesi, nel 1916, e nella sua Versilia – a Marina di Pietrasanta – aveva trascorso la vecchiaia. Nel mezzo, una vita intensa: tra le tappe salienti della carriera di giornalista la sua firma per il Corriere della Sera, La Stampa, Il Popolo, L'Europeo, L'Espresso. Da scrittore ha percorso tutte le tappe di un glorioso cursus honorum: il Premio Bagutta, il Premio Strega, il Premio Viareggio, il Premio Grinzane Cavour. Docente anche di letteratura italiana, insegnò alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, allo Smith College di Northampton. Per l'Espresso" fu corrispondente a Parigi e sopratutto autore di un'inchiesta tra le più incisivi e celebri dell'Espresso: il servizio del 1955 contro la corruzione nella cosa pubblica che divenne famosa per il titolo a tutta pagina Capitale corrotta = Nazione infetta.
Sostiene Cancogni: Il Vangelo è un testo contraddittorio. Il '68 e il terrorismo furono colpa della tv. Il malaffare è al governo. Sciascia mi stava antipatico... A 94 anni lo scrittore che nel 1955 firmò l'inchiesta "Capitale corrotta nazione infetta" racconta il nostro Paese, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Si è spento a Marina di Pietrasanta, a 99 anni, Manlio Cancogni , storica firma di questo giornale e autore della celebre inchiesta "Capitale corrotta, nazione infetta". Ecco l'ultima intervista che rilascio all'Espresso nel luglio del 2010. Che l'Italia sia "infetta" per la corruzione Manlio Cancogni lo aveva scritto 55 anni fa sulle pagine dell'"Espresso" (anno 1, numero 11, 11 dicembre 1955) nella madre di tutte le inchieste, quella sul sindaco di Roma Salvatore Rebecchini, il sacco della capitale, gli affari all'ombra del Campidoglio e del Cupolone. Un articolo memorabile, sempre citato come caso di scuola. Dagli altri. Lui, l'autore, 94 anni, scrittore continuamente ripubblicato e anticonformista a cui non si può far indossare alcuna casacca, nella sua casa affacciata sul mare di Marina di Pietrasanta, Versilia, guarda, con la benevolenza di chi molto ha sondato l'essenza peccatrice dell'animo umano, i vizi pubblici di una classe dirigente travolta dagli scandali: le case pagate da altri, le collusioni con la malavita, le leggi ad personam, le cricche, i ministri del proprio portafoglio. Non gli piace l'andazzo, sia chiaro, e vorrebbe che il governo della cosa pubblica fosse affidato a quattro persone, le sole di cui si fida (vedremo chi). Però non vuole giudicare. E prova quasi un rimorso postumo per quelle persone che mise sotto accusa tanto tempo fa: "Anche allora non mi sentivo a mio agio con la coscienza. Chi ero io per indicare alla vergogna quella gente?".
Manlio Cancogni, lei era un cronista e svolgeva il suo lavoro di denuncia.
"Sì, ma ne traevo il profitto di avvantaggiarmi nella professione".
Il giornalismo deve pur fare inchieste, no?
"Sì certo. Ma non può pascersi per gli scandali. Deve renderli noti e basta".
E a chi tocca il compito di giudicare?
"Toccherebbe agli eletti della nazione... ma poi sono quelli che ci sguazzano a meraviglia negli scandali".
Non ai giudici?
"È arduo essere giudici. Si suppone che nel Paese ci sia un'esigenza di verità, si sappia come vanno le cose e si condanni. Ma con l'aria che tira da noi, il partito del giudici non è che sia poi così simpatico".
È necessario che gli scandali vengano alla luce, dice il Vangelo.
"Il Vangelo è un testo contraddittorio. Se gli scandali vengono alla luce la gente se ne compiace e condanna. Gode a veder condannato il peccatore ma non gliene importa tanto del peccato".
Sta sostenendo che gli scandali non si devono conoscere?
"No, è un bene. Ma non illudiamoci troppo sugli effetti positivi. La gente in fondo è contenta perché più scandali ci sono più le colpe personali scompaiono e si sente assolta. Diventa una sorta di festival dello scandalo".
Chi amministra dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto.
"Perché si presume che della cosa pubblica si occupino i migliori, mentre in realtà la politica dispiace alla maggioranza".
È sempre stato così? In fondo questo Paese ha vissuto anche forti passioni politiche.
"Ci fu un buon periodo durato dieci anni, dopo la guerra, in cui gli italiani si sono dati molto da fare e c'era grande moralità perché ai vertici si trovavano persone che erano state in carcere, avevano fatto la Resistenza. Non è durato perché l'italiano non è naturalmente portato ad occuparsi del bene comune".
La sua inchiesta è di quell'epoca.
"Fu per caso. Non ero un inchiestista e per me il giornalismo era una parentesi. Volevo insegnare e scrivere. Andai due volte per un appuntamento col sindaco Rebecchini che non si fece trovare. Dissi al suo segretario che allora avrei scritto quello che si diceva in città. E lo feci".
Stando alla sua ricostruzione, nel 1955 finì la moralità. Però non finì la passione politica.
"Già, dopo ci fu il '68. Che non sarebbe esistito, però, senza la tv che rendeva quei ragazzi dei protagonisti, ancor meno sarebbe esistito il terrorismo. C'era di che contestare, intendiamoci: le ruberie, l'eccessivo arricchimento di certuni e la povertà degli altri. Però non si era repressi, quello no. Non ho mai capito quello slogan: vietato vietare. Non c'era una morale così rigorosa".
Se c'erano elementi per contestare allora, ancor più oggi. Perché non succede e si assiste agli scandali quasi senza reagire?
"C'è un forte ottundimento del senso morale, anzitutto. E poi la gente ha molti più motivi di distrazione e di godimento. È diffuso il benessere e un modo di vivere dissipato. Se la potrebbe mai immaginare, oggi, la rinascita di un partito comunista rigorista e con una morale così dura e spietata?".
Il filosofo Tzvetan Todorov dice che la rivoluzione è impossibile se ogni weekend ci sono le colonne in autostrada.
"Ci vorrebbe anche una grande crisi o una guerra. Speriamo non avvenga. Però le guerre hanno anche un risvolto positivo. L'immoralità e l'irresponsabilità che dominano nel costume sono legate al fatto che è impossibile fare le guerre".
È la tesi di Dostoevskij: troppi anni di pace nuocciono all'umanità.
"C'è qualcosa di vero. Le guerre riducono all'essenza i bisogni".
Oggi gli elettori votano Berlusconi perché non promette di essere migliore, ma di essere come loro...
"...Sì, siamo farabutti come voialtri".
Forse non era così nel dopoguerra quando si sceglieva chi sembrava meglio della media.
"Certamente. Anche se io non mi sono mai illuso. Quando ero antifascista e poi partigiano di Giustizia e libertà vedevo i miei compagni molto più convinti circa la trasformazione morale del Paese, ma io ho sempre creduto piuttosto poco che gli italiani sarebbero cambiati".
Pessimista sulla natura umana?
"Probabilmente sì. E probabilmente non avevo un forte desiderio che la natura umana cambiasse. Perché abbiamo il peccato originale, non dimentichiamolo".
Bisogna pur avere la tendenza a migliorare.
"Si deve peccare e ci si deve redimere e aspirare alla salvezza. Ma non si può prescindere dal peccato. La vita è tessuta di questo".
Oggi è impossibile trovare in politica uomini come i suoi compagni di allora?
"Non ci sono più. E non vanno nemmeno cercati. Ma questo peggioramento dell'uomo ha anche un'altra faccia. L'uomo oggi è meno cattivo. Noi odiavamo l'avversario, eravamo ribelli. Oggi i giovani sono più addomesticati ma meno cattivi".
Si dice spesso che mancano in Italia dei punti di riferimento morali. Quelli che furono un tempo un Pasolini, uno Sciascia.
"Ma Pasolini era piuttosto estetizzante. Nei "ragazzi di vita" non appariva questo aspetto morale. Faceva vivere un mondo di canagliole, di poveracci suscitando simpatia verso un universo derelitto. Con Pasolini c'era stima reciproca, giocavamo a calcio insieme, l'ho visto due giorni prima che fosse ammazzato in quella maniera. Certo se l'è cercata, ma era l'uomo più gentile che abbia mai conosciuto. Quanto a Sciascia, mi stava antipatico. Ha scritto un paio di bei libri e poi si è messo a fare il moralista. Forse una scelta letteraria: non credo a un siciliano così indipendente e così giudicante".
Perché ce l'ha così tanto coi moralisti?
"Se c'è un accusatore pubblico mi sento coinvolto come colpevole. Si è sempre colpevoli di qualcosa. Non ci sono innocenti, ma colpevoli fino a prova contraria".
Cosa legge sui giornali oggi?
"La cultura, la cronaca, la politica. Di cui mi piace l'aspetto teatrale, la psicologia dello scontro tra le persone".
Che idea si è fatto dello scontro tra Berlusconi e Fini?
"Fini vuol diventare presidente, è un grande arrivista. Crede che il ciclo di Berlusconi stia per finire (io non lo penso) e ha iniziato una marcia di avvicinamento al centro con qualche strizzatina d'occhio alla sinistra. È il vero candidato alternativo. Non possono esserlo Casini o Bersani".
Ci sarebbe Vendola.
"Uno con l'orecchino? Qui? Andiamo...".
Fini ha il problema della casa di Montecarlo in cui abita il cognato.
"Non ho nessuna simpatia per lui ma le colpe dei cognati non ricadano sui cognati, no davvero. Credo sia una persona perbene e questo affaire guarda caso esce proprio adesso che ha rotto col Cavaliere".
Di Berlusconi che idea si è fatto?
"Un furfante, un maneggione che però è riuscito a creare una certa solidarietà con personaggi come Putin, la Merkel. Naviga bene nella politica. È un uomo d'affari e un uomo d'affari spesso è un furfante cosa vuole che sia? Ha una ricchezza smodata e le ricchezze smodate è poco probabile che si facciamo con mezzi limpidi".
Dietro a ogni grande fortuna c'è un crimine, diceva Honoré de Balzac.
"Gli italiani lo votano perché verso un tale imbroglione e populista sentono solidarietà. Un uomo d'affari non dovrebbe fare politica però mentre lo dico mi sembra un'ipocrisia: cura gli interessi in prima persona invece di delegare ad altri".
Si è attorniato di gente travolta dagli scandali.
"Il malaffare è al governo ma ci sarebbe comunque, anche senza Berlusconi. La corruzione è il prezzo che paghiamo alla democrazia. Indubbiamente la sinistra, anche se non è più quella di 70 anni fa, conta su persone migliori rispetto all'attuale dirigenza. Anche tra di loro però ci sono giochi di potere e di interesse".
Berlusconi è stato anche al centro di certe vicende sessuali.
"Trovo indecoroso andare a rimestare nei letti. I politici dovrebbero essere protetti su questo punto. Non può esserci piena libertà di raccontare la loro vita privata".
Manlio Cancogni, ma le è rimasto qualcosa del suo idealismo giovanile?
"Non voglio essere frainteso. Non condanno l'uomo in toto. È capace di ideali e di sacrifici, di atti eroici, anche nel peggior lazzarone ci sono momenti di riscatto morale. In questo senso sono idealista".
Per chi vota?
"Non voto dal 1980. Vorrei che la nostra Repubblica fosse governata da quattro persone. Massimo Cacciari che non conosco ma per cui provo grande simpatia. Poi Piero Fassino, il presidente Giorgio Napolitano e Letizia Moratti".
Tre su quattro di sinistra.
"Sarà l'antica eredità che agisce ancora. Ma altri non ne vedo. Non sopporto Di Pietro questo poliziottone molisano che si crede l'accusatore pubblico Marat".
La sinistra ha ancora una funzione?
"No. Sono finite le ideologie che non avevano gran presa sulle masse però le inquadravano. Ci vorrebbero due schieramenti alternativi. Uno lo chiamerei partito popolare, dovrebbe rappresentare gli interessi della classe diffusa ed essere a favore di quel po' di intervento dello Stato che ci vuole. L'altro lo chiamerei partito liberale, a favore del libero mercato. Io voterei per il partito popolare". Pubblicato sull'Espresso del 18 agosto 2010.
L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.
Mafia Capitale, segreto violato: "Denunciati tutti i quotidiani". La Camera Penale di Roma denuncia alla Procura tutte le principali testate nazionali per aver diffuso atti coperti dalle indagini: 78 i giornalisti a rischio sanzioni. Una presa di posizione che non ha precedenti in Europa, scrive Martedì, 13 ottobre 2015 Valentina Renzopaoli su “Affari Italiani. Mafia Capitale: violato il segreto istruttorio. La Camera Penale di Roma denuncia alla Procura della Repubblica tutte le principali testate nazionali per aver diffuso atti coperti dalle indagini. Duecentosettantotto gli articoli finiti nel mirino, pubblicati all'indomani dello scandalo giudiziario che ha travolto Roma. E ora settantotto giornalisti e diciotto direttori rischiano di incorrere in azioni disciplinari. Una presa di posizione che non ha precedenti in Europa, come conferma ad affaritaliani.it l'avvocato Giovanni Pagliarulo co-estensore dell'atto insieme al presidente della Camera Penale di Roma Francesco Tagliaferri: “E' la prima volta in assoluto. Ora il Re è nudo: a quanto pare nessuno si era reso conto che esiste una norma non conosciuta o non applicata che vige da quanto è stato scritto il codice penale”. Con l'esposto, che porta la data del 24 settembre, si chiede al Procuratore Giuseppe Pignatone di segnalare l'illecito disciplinare ai competenti Ordini professionali. Secondo l'associazione di penalisti, i giornalisti di tutta Italia che compaiono nel lunghissimo elenco, avrebbero violato l'articolo 114 che vieta la pubblicazione testuale, anche parziale, degli atti del procedimento in fase di indagini e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, compresi quindi verbali di interrogatorio e conversazioni oggetto di intercettazione telefonica e ambientale. Atti che divengono pubblicabili solamente quando diventano oggetto di dibattimento. Gli articoli a cui l'esposto fa riferimento sono apparsi sui giornali cartacei tra il 3 e il 9 dicembre 2014, nei sette giorni successivi all'esecuzione della prima ordinanza che ha disposto le misure cautelari per il primo filone dell'inchiesta Mondo di Mezzo; e tra il 5 e il 6 giugno 2015, successivamente alla seconda ondata di arresti. “Sarebbe bastato monitorare un solo giorno: il nostro obiettivo è evidenziare un fenomeno di una portata enorme. In quasi tutti i processi si assiste a questa prassi deviante e illecita e qualunque avvocato o cittadino che se ne accorge dovrebbe segnalarla” spiega l'avvocato Pagliarulo.
Mafia Capitale. Cronisti nei guai. Sono 78 i giornalisti denunciati per aver pubblicato le carte dell’inchiesta, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. Anche i giornalisti adesso rischiano di entrare a far parte della maxi inchiesta «Mafia Capitale». Per la prima volta in Italia e in Europa sono stati denunciati in blocco tutti i giornalisti che si sono occupati dell’indagine che ha portato in cella decine e decine di persone in meno di un anno. Il motivo? Hanno raccontato ai lettori nel dettaglio il lavoro svolto dalla procura di Roma. Per alcuni, però, forse in maniera troppo dettagliata, tanto da convincerli ad andare in procura e depositare un esposto contro 78 giornalisti e 18 direttori di testate nazionali. A chiedere al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare il comportamento dei giornalisti sono stati gli avvocati della Camera penale di Roma, che da giorni stanno contestando, tra l’altro, le decisioni prese dal Tribunale in merito al processo che inizierà il prossimo 5 novembre: da una parte il calendario (quattro udienze a settimana fino a luglio), dall’altra invece la scelta di trasferire il dibattimento nell’aula bunker di Rebibbia e di utilizzare la videoconferenza dalle carceri dove sono detenuti gli indagati. Secondo i legali, dunque, c’è stata «la plurima violazione del divieto di pubblicazione degli atti di un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari». Un esposto del genere, dunque, non era mai stato presentato in nessuna procura. Al documento, depositato il 24 settembre scorso, sono stati allegati anche tutti gli articoli pubblicati tra il 3 e il 9 dicembre 2014 (appena scoppiato lo scandalo) e il 5 e 6 giugno (giorni in cui sui quotidiani sono stati riportati (nel dettaglio) gli ulteriori arresti nell’ambito dell’inchiesta «Mafia Capitale». «La procura non procederà contro i giornalisti, ma un freno va messo», ha detto l’avvocato Francesco Tagliaferri, presidente della Camera penale di Roma, che ha firmato l’atto insieme al collega Giovanni Pagliarulo. «Il giudice non può leggere gli atti prima sui giornali - continua il presidente - molti documenti infatti non entreranno neanche nel dibattimento. Il diritto di cronaca va bene, però va coniugato con le norme esistenti». Nel mirino dei legali, quindi, le intercettazioni, le ordinanze di custodia cautelare, i verbali di interrogatori pubblicati in quei giorni. «Trattasi di divieto che opera anche quando sia venuto meno i cosidetto "segreto interno" (la conoscenza dell’atto da parte dei destinatari dello stesso) - scrivono i penalisti - essendo previsto a tutela della corretta formazione della prova in dibattimento, dunque della neutralità cognitiva del giudice». Il 5 novembre, comunque, in aula insieme agli imputati ci saranno anche i giornalisti per raccontare minuziosamente il processo.
Invece c'è chi dà un altro taglio alla notizia: Mafia Capitale, e adesso gli avvocati danno la colpa ai giornalisti. La Camera penale di Roma accusa una folta schiera di giornalisti di aver violato il divieto di pubblicazione degli atti del procedimento che riguarda la banda di Massimo Carminati. Il procuratore Giuseppe Pignatone dovrà valutare se sia stato commesso reato e, eventualmente, informare gli organi titolari del potere disciplinare, scrivono Anna Dichiarante e Giovanni Tizian su "L’Espresso". «Il giornalista de “l'Espresso” meriterebbe il premio Pulitzer». Secondo Giosuè Naso, avvocato di Massimo Carminati, il “Cecato”, le inchieste sui Re di Roma sono da premiare con il prestigioso riconoscimento. Lo dice scherzando durante un'intervista radiofonica mentre commenta, tra le altre cose, il film in uscita “Suburra”. Ma queste dichiarazioni sono solo un assaggio di una ricetta che gli avvocati romani sembrano voler utilizzare contro quello che, secondo loro, è un abuso dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria: la pubblicazione integrale o parziale dei verbali e delle intercettazioni. L'inchiesta “Mafia Capitale”, evidentemente, sta molto a cuore alla Camera penale di Roma. Tanto che il presidente Francesco Tagliaferri, insieme al collega Giovanni Pagliarulo, ha presentato un esposto in procura contro un esercito di giornalisti, compresi direttori di testata, colpevoli di aver pubblicato integralmente o in parte documenti giudiziari. “L'Espresso”, “la Repubblica”, “Il Corriere della Sera”, “Il Tempo”, “Il Mattino”, “Il Messaggero” e tante altre testate sono così finite nel documento consegnato al procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. A lui è infatti rimessa la valutazione sull'eventuale violazione di norme penali, ma, soprattutto, a lui spetta il compito di informare i Consigli di disciplina territoriali, cioè gli organi competenti ad avviare procedimenti disciplinari e a irrogare sanzioni nei confronti dei giornalisti che abbiano commesso illeciti. Secondo i due avvocati, insomma, tutti i cronisti indicati nell'esposto e i rispettivi direttori avrebbero violato più volte il divieto di pubblicazione testuale, anche parziale, degli atti di un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari e di quelli contenuti nel fascicolo del pm, se si va a dibattimento. Un divieto sancito dall'articolo 114 del codice di procedura penale che opera anche quando questi atti siano venuti a conoscenza dei loro destinatari, perché mira a tutelare la corretta formazione della prova nel corso del processo. In altre parole, il giudice del dibattimento dev'essere neutrale e non deve essere influenzato dalla conoscenza pregressa degli atti d'indagine: da qualunque fonte questa conoscenza gli arrivi, stampa compresa. Per questo, nel loro documento, Tagliaferri e Pagliarulo hanno elencato una serie di articoli pubblicati tra il 3 e il 9 dicembre 2014 (settimana successiva alla prima ondata di arresti nell'ambito di “Mafia Capitale”) e altri usciti tra il 5 e il 6 giugno 2015, cioè i due giorni seguenti alla seconda ordinanza cautelare che portò in carcere, tra gli altri, i politici della Capitale Luca Gramazio, Mirko Coratti e Daniele Ozzimo. Una selezione di pubblicazioni fatta «per ovvie esigenze di sintesi» – scrivono i legali – perché, in realtà, «la divulgazione a mezzo stampa degli atti del procedimento» avrebbe «avuto luogo per un periodo considerevolmente più lungo». Sarebbe a dire, quindi, che nessuno stralcio di ordinanza cautelare, nessun virgolettato di intercettazione telefonica o ambientale e nessun passaggio tratto dai verbali di interrogatorio avrebbe potuto essere riprodotto sui giornali. Sulla base dell'esposto della Camera penale, quindi, Pignatone dovrà valutare se i giornalisti siano incorsi nel reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (che il codice penale punisce con ammenda o arresto fino a trenta giorni) e, nel caso riscontrasse violazioni, dovrà informare gli organi titolari del potere disciplinare. Ora due domande sono legittime. Perché questa crociata per la tutela degli imputati di "Mafia Capitale" e perché alla vigilia del processo contro Carminati & Co?
Giornalisti che come sciacalli si buttano anche sulle carogne dei loro colleghi: Bulgarella: nella stampa amici e nemici. Favori al direttore di Panorama, proteste contro la Gabanelli. Mulè smentisce tutto e fa un esposto contro i magistrati al ministero della Giustizia. Gli sviluppi dell'inchiesta che coinvolge il vice presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. Dalle intercettazioni emergono i legami e il network dell'imprenditore, scrive Francesco Viviano su "La Repubblica" del 9 ottobre 2015. Una parte dell’inchiesta della Dda di Firenze che ha coinvolto il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona e Andrea Bulgarella, entrambi indagati assieme ad altri 8 tra imprenditori e dirigenti della banca, è dedicata al successo economico dell’imprenditore Bulgarella e ai suoi legami con ambienti di “Cosa nostra”, ma anche con dirigenti di banca, funzionari e amministratori pubblici, oltre che con il mondo della politica, con la massoneria e con la stampa. Con i giornali, rapporti amichevoli o conflittuali come nel caso del direttore di Panorama, Giorgio Mulè e con Milena Gabanelli di Report. E “significativi”, scrivono i carabinieri del Ros i commenti di Bulgarella mentre conversa con il direttore di Panorama Giorgio Mulè. "Le conversazioni intercettate evidenziano anche uno scambio di favori tra il direttore di Panorama e Andrea Bulgarella". Bulgarella commenta la notizia che Mulè era stato condannato per diffamazione nei confronti del Procuratore di Palermo, Francesco Messineo e subito dopo gli invia un sms di solidarietà. Mulé, nella lettera che pubblichiamo in calce a questo articolo, smentisce la circostanza. In altre conversazioni intercettate Mulè chiede a Bulgarella di ospitare una coppia di suoi amici in uno degli alberghi di Trapani e di prenotare per lui una stanza preso l’hotel “Monasteri” di Siracusa dal 21 al 27 luglio. "Bulgarella si mette subito a disposizione di Mulè ospitando gratuitamente la coppia. Mulè ha soggiornato al “Monasteri Resort” per una settimana, pagando, dietro insistenze, la somma di 360 euro ricevendo una fattura pari a 720 euro. Mulè ringrazia e comunica a Bulgarella che nel successivo numero di Panorama un’intera pagina sarà dedicata all’ Hotel Monasteri "e gli chiede se preferisce che nell’articolo si faccia espresso riferimento anche al gruppo Bugarella, ricevendo risposta affermativa". Subito dopo Bulgarella telefona ad un suo amico Nello Bologna che è anche amico di Mulè e lo informa dell’imminente pubblicazione dell’articolo sul albergo "compiacendosi del fatto che se avesse dovuto pagare un’inserzione pubblicitaria avrebbe speso intorno ai 10.000 euro ed il risultato sarebbe stato sicuramente meno efficace". Il 12 giugno, quando Bulgarella apprende della procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale avviata dal Csm nei confronti del Procuratore di Palermo Francesco Messineo a causa della mancata cattura di Matteo Messina Denaro, si complimenta con Mulè inviandogli il seguente sms: “Sei il Messi dei giornalisti anche a Palermo avevi visto lungo, complimenti”. Poco dopo è Mulè a telefonare a Bulgarella ed entrambi esprimono soddisfazione e felicità per le disavventure di Messineo. Un altro episodio, stavolta conflittuale, riguarda la conduttrice di Report, Milena Gabanelli e la possibilità di Bulgarella di arrivare ai vertici della Rai per lamentarsi attraverso le sue conoscenze politiche. Nel gennaio del 2005 Report intervista Bulgarella intitolando il servizio “La mafia che non spara”. L’intervista è relativa al fatto che da quando la “Calcestruzzi ericina” era sotto sequestro Bulgarella ed altri imprenditori edili non compravano più calce e cemento. Bulgarella appare in difficoltà anche quando, rispondendo ad altre specifiche domande, dichiara di essere un imprenditore che sta dalla parte dello Stato che, a suo dire, però, non sempre era stato presente e di non aver mai avvertito il peso della mafia. Dopo l’intervista, per evitare che venisse mandata in onda Bulgarella scrive una lettera al direttore di Rai 3 Paolo Ruffini, lamentandosi della condotta delle due giornaliste che lo avevano intervistato (Milena Gabanelli e Maria Grazia Mazzola). Tale episodio sarà poi oggetto della riunione della Commissione di Vigilanza RAI del 25 gennaio 2005, nel corso della quale l’onorevole Pippo Gianni, componente della Commissione condividendo il contenuto delle lamentele del Bulgarella, stigmatizza le modalità con le quali l’intervista è stata condotta. "L’intervento in Commissione dell’onorevole Gianni – scrivono i carabinieri - non appare casuale, avuto riguardo al fatto, che il predetto, come emerge dalle conversazioni intercettate, in concomitanza con le elezioni amministrative siciliane del giugno 2013, aveva sollecitato l’assunzione di più soggetti presso l’albergo “Monasteri Resort” del gruppo Bulgarella. Sollecitazioni subito accolte dal Bulgarella che ha telefonato personalmente ai soggetti segnalati, invitandoli a presentarsi alla direzione dell’albergo per procedere all’assunzione, facendo riferimento espresso o implicito (“amici”) all’onorevole Gianni".
Dal direttore di Panorama riceviamo e pubblichiamo. Gentile Direttore, poche righe che ti chiedo cortesemente di pubblicare al più presto in merito all'articolo presente da questo pomeriggio sul sito di Repubblica con richiamo nella homepage dal titolo "Bulgarella: nella stampa amici e nemici. Favori al direttore di Panorama, proteste contro la Gabanelli. Gli sviluppi dell'inchiesta che coinvolge il vicepresidente Unicredit, Palenzona" a firma Francesco Viviano. Il sito di Repubblica scrive di "scambi di favori" tra me e Andrea Bulgarella rifacendosi apoditticamente a quanto affermato dalla Procura di Firenze nel decreto di perquisizione nei confronti degli indagati - tra i quali, sottolineo, io non figuro - e senza che il giornalista autore dell'articolo abbia avvertito la necessità di chiedere la mia versione. Ti scrivo dopo aver inviato un esposto-denuncia al ministro della Giustizia, al Procuratore generale della Cassazione (titolari dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati) e al vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura affinché intervengano tempestivamente dal momento che, per la parte che mi riguarda, il decreto della procura di Firenze contiene notizie documentalmente false, ricostruzioni arbitrarie e valutazioni errate e fuorvianti. Giorgio Mulè, direttore di Panorama.
L'antimafia dei professionisti e il contesto sputtanato. L'indagine su presunti contatti dell'imprenditore Bulgarella con Messina Denaro, strumento per aggredire lui e il direttore di Panorama. E La Repubblica..., scrive Giorgio Mulè su "Panorama". Nei giorni scorsi vi sarà capitato di ascoltare dai telegiornali la notizia di una serie di perquisizioni ordinate dalla Procura di Firenze nell’ambito di un’inchiesta che ruota intorno a un imprenditore di origini trapanesi,Andrea Bulgarella, e che coinvolge anche il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. I giornali hanno dedicato ampio spazio e rilievo alla vicenda. L’ipotesi di partenza è che Bulgarella abbia investito "ingenti capitali da lui accumulati grazie ai vantaggi ottenuti dai rapporti con l’associazione mafiosa trapanese facente capo al latitante Matteo Messina Denaro" per acquisire, ristrutturare e gestire alberghi in Toscana. Bulgarella è un imprenditore mai finito in carcere che da quasi un quarto di secolo lavora prevalentemente in Toscana. Secondo l’accusa avrebbe ottenuto "indebitamente svariati finanziamenti, agevolazioni e benefici vari, resi possibili in palese violazione della normativa bancaria con operazioni anomale e non trasparenti". Questa è l’accusa che ha fatto così titolare i giornali: Palenzona indagato: “Favori a un costruttore vicino a Cosa Nostra” (La Repubblica 9 ottobre) o "Unicredit, i favori dei vertici all’uomo di Messina Denaro" (Il Fatto quotidiano, 9 ottobre). Perché vi annoio con tutto questo? Perché questa vicenda racchiude in sé il peggio del peggio della malagiustizia e del malogiornalismo. Seguitemi con un po’ di pazienza. Bulgarella, ripetiamo incensurato, non è destinatario con tutti gli altri indagati di alcun provvedimento firmato da un giudice terzo: la perquisizione è un atto di parte, dell’accusa e cioè della Procura. Nessun giudice ha valutato, fino a questo momento, quanto sottoscritto dagli inquirenti. Eppure Bulgarella passa sui giornali oramai simili a ufficio fotocopia delle Procure come una persona già condannata in via definitiva e finisce per essere definito "l’uomo di Messina Denaro". La lettura delle 40 pagine firmate dal procuratore Giuseppe Creazzo è illuminante. Vi aspetterete di trovare un’attività di indagine certosina, fior di approfondimenti contabili. Nulla di tutto ciò. C’è molto di peggio, paradossalmente. Perché la Procura fa risalire al 1991, cioè 24 anni fa, l’odore della presunta mafiosità di Bulgarella citando una nota dei servizi segreti dell’epoca (il Sisde) dove si legge: "Si è appreso in via fiduciaria, da fonte di non valutabile attendibilità, che tale avvocato (ne omissiamo il nome, ndr) avrebbe contatti con tale Andrea Bulgarella appartenente con l’intera famiglia ad una cosca mafiosa del trapanese, per conto del quale tratterebbe l’acquisto di immobili di svariati miliardi… il Bulgarella è uno dei più noti e facoltosi imprenditori della provincia di Trapani ed ha esteso i propri interessi anche in Toscana". E la Procura, a distanza di 24 anni, annota che effettivamente Bulgarella ha sviluppato in Toscana "un’intensa attività nel settore alberghiero". Come ha appurato questo enorme segreto? "Da una sua (di Bulgarella, ndr) intervista pubblicata sul quotidiano Il Tirreno del 4 ottobre 2007". Vi prego, fermiamoci. Nel 1991 c’è una fonte del Sisde "di non valutabile attendibilità" che fa sapere come in Toscana ci sia un "barbaro" mafioso alle porte. Eppure non succede nulla. Per 24 anni la Procura di Firenze rimane in letargo, e Bulgarella nel frattempo avvia e chiude decine di cantieri. Non viene sfiorato da alcun sospetto. In Sicilia, dove Messina Denaro viene rivoltato come un calzino da tutte le Procure con sequestri di ogni bene anche lontanamente riconducibile al superboss, Bulgarella non viene coinvolto in alcuna inchiesta. Nel migliore dei casi la nostra struttura antimafia è un colabrodo, ma non è così. E allora c’è qualcosa a Firenze da capire più a fondo. Vediamo. I magistrati toscani insistono tantissimo nel loro provvedimento sulla parola "contesto". Con questo strumento linguistico e nell’intento di descrivere il "contesto" si finisce per sputtanare (o forse si tenta di "mascariare"?) persone estranee all’inchiesta. Compreso il sottoscritto, ovviamente non indagato ma sputtanato alla grande. Per la Procura sono "significativi in tale contesto" (tanto per cambiare) i commenti fatti da Bulgarella "mentre conversa con il direttore di Panorama". Vediamo quali: "Un sms di solidarietà" inviatomi nel maggio 2013 a seguito di una condanna in primo grado per una causa intentata dall’ex procuratore di Palermo "al quale poco dopo Mulè risponde con tono cordiale e spiritoso". E un sms di "complimenti" inviatomi il 12 giugno 2013 dopo l’apertura della procedura "per incompatibilità ambientale avviata dal Csm nei confronti del procuratore di Palermo a causa della mancata cattura di Messina Denaro" in cui Bulgarella mi scrive: "Sei il Messi dei giornalisti, anche a Palermo avevi visto lungo". Annota la Procura: "Poco dopo è Mulè a telefonare a Bulgarella ed entrambi esprimono soddisfazione e felicità per le disavventure di Messineo". Ora: se Bulgarella è "l’uomo di Messina Denaro" è certamente l’uomo più cretino al mondo che il boss poteva scegliersi: perché mai, infatti, Bulgarella – che secondo i segugi fiorentini è la proiezione economica del capomafia - dovrebbe esultare per quel provvedimento che rischia di punire e allontanare un magistrato che non avrebbe permesso la cattura del "suo" Messina Denaro, consentendogli di rimanere latitante? In quell’sms, casomai, c’è la prova dell’antimafiosità di Bulgarella e lo schifo (di cui sono testimone diretto) che prova per la mafia. Ma soprattutto: che cosa c’entra la storia degli sms con questa inchiesta che ruota intorno a finanziamenti bancari alle sue imprese? Che cosa dimostra? Perché inserire il direttore di Panorama nel "contesto"? Penalmente è tutto irrilevante, ma esternamente ha l’effetto di sputtanare un giornalista di una testata scomoda e non allineata. La Procura di Firenze descrive inoltre un presunto "scambio di favori" tra me e Bulgarella, mai avvenuto, di cui potete leggere i dettagli nell’articolo che segue. Si può ricondurre tutto a un semplice incidente? Per me dentro quelle 40 pagine c’è un inutile rischio di sputtanamento sul quale ho chiamato a intervenire con la massima celerità il ministro della Giustizia, il procuratore generale della Cassazione e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ai quali ho inviato il 9 ottobre un esposto-denuncia. Il decreto della Procura di Firenze rende ancora una volta solare la barbarie che consente (si spera in questo caso non impunemente) di sputtanare soggetti estranei alle indagini. Ma evidenzia ancora una volta l’enorme problema dell’affidabilità dell’Antimafia. È uno strumento delicatissimo in cui sono evidenti alcune falle di professionalità e che altrove (vedi lo scandalo di Palermo, con l’affidamento familistico dei beni confiscati alla mafia) evidenziano una gigantesca questione. Leonardo Sciascia denunciò nel 1988 i "professionisti dell’antimafia": oggi siamo al capovolgimento di quell’espressione. Nel nuovo secolo si è fatta strada e impera "l’antimafia dei professionisti", quella che facendosi spesso scudo dei martiri lorda e usa la sua funzione per interessi che con la lotta ai boss e ai picciotti di Cosa nostra non ha nulla a che vedere: si costruiscono carriere, si conquista visibilità, si consumano vendette. Bene, io continuerò a denunciare questa antimafia dei professionisti. Perché, detto senza ipocrisia, mi fa schifo.
QUEI COPIATORI DI REP CHE NON SANNO COPIARE. Una delle primissime cose che ci insegnavano alla scuola elementare era il "copiato". Alcuni giornalisti italiani che hanno deciso di non accendere il cervello nella stesura di un articolo, non facendosi sfiorare dal sacro fuoco del dubbio, di mestiere fanno questo: copiano atti giudiziari. Ma sono così sciatti da non riuscire a far bene questa operazione... elementare. Andiamo con ordine. Nel decreto di perquisizione della Procura di Firenze nei confronti di dieci persone per presunti reati finanziari c’è un passaggio che riguarda il direttore di Panorama, non indagato né mai ascoltato come testimone. Si tratta di una circostanza talmente irrilevante che c’entra con l’inchiesta come un broccolo a colazione da inzuppare nel latte. "Le conversazioni intercettate" si legge "evidenziano anche uno scambio di favori tra il giornalista, direttore del settimanale Panorama, e Andrea Bulgarella". Poi si afferma: "Nel corso di successive telefonate Mulè chiede a Bulgarella di ospitare una coppia di suoi amici in uno degli alberghi di Trapani e di prenotare per lui una stanza presso l’albergo “Monasteri” di Siracusa dal 21 al 27 di luglio. Bulgarella subito si mette a disposizione del Mulè, ospitando gratuitamente gli amici dello stesso e prenotando per lui nell’albergo “Monasteri Resort” di Floridia per una settimana di luglio (da successive telefonate risulta che Mulè ha soggiornato per sei giorni presso l’albergo pagando, dietro insistenze, la somma di 360 euro ricevendo una fattura pari a 720 euro). In data 8 giugno Mulè lo ringrazia e gli comunica che nel prossimo numero di Panorama un’intera pagina della rivista sarà dedicata all’hotel Monasteri e gli chiede se preferisce che nell’articolo si faccia espresso riferimento anche al gruppo Bulgarella, ricevendo risposta affermativa". Orbene: quanto all’ospitalità gratuita di miei amici mi limitai a chiedere un consiglio a Bulgarella per una famiglia che doveva recarsi in vacanza in Sicilia. Quanto al resto: ho soggiornato presso l’albergo "Monasteri Resort" di Floridia (Siracusa) dal 21 al 27 luglio 2013. È unfalso storico che pagai 360 euro a fronte di una fattura di 720 euro. Pagai infatti per intero l’importo del soggiorno: 360 euro con carta di credito mentre saldai ulteriori 360 euro in contanti e quindi per un totale di 720 euro come da fattura emessa dall’albergo. E d’altronde: che senso avrebbe avuto pagare 360 euro e rilasciarmi una fattura di 720 euro? Sarebbe bastato ascoltarmi per evitare la topica piuttosto che dare la fesseria in pasto alla stampa sciatta e ciclostilata. L’articolo di Panorama relativo ai "Monasteri Resort" viene pubblicato il 12 giugno 2013 e avviene unicamente sulla base di una valutazione giornalistica rispetto a una struttura di eccellenza (come testimoniato da numerosi altri articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore, Corriere della Sera, La Nazione, La Sicilia, il Giornale di Sicilia, Dove). Il mio soggiorno avviene dopo oltre un mese dalla pubblicazione su Panorama e la mia insistente pretesa di pagare il conto taglia in radice qualsiasi malevola e strumentale ipotesi di uno "scambio di favori". Andiamo ai copiatori-asini di Repubblica. Che in realtà, quando vogliono, sanno essere molto bravi. Prendete l’articolo del 6 ottobre in cui si dà notizia del rinvio a giudizio di Carlo De Benedetti per la morte da amianto di 13 lavoratori della Olivetti: a Repubblica sono stati così camerieri verso l’editore da omettere nell’articolo proprio il reato contestato, cioè l’omicidio colposo. Leggiamo adesso Alessandra Ziniti su Repubblica che all’ombra di un titolo sobrio ("Hotel a cinque stelle e favori/I business all’ombra dei boss") scrive: "È sempre ai Monasteri che Bulgarella ospita per una settimana a luglio dell’anno scorso (è il 2013, comunque, ndr) il direttore di Panorama Giorgio Mulè". Mi scuso preliminarmente per l’italiano che segue: "Dove per pagare un conto minimo di 360 euro ricevendo però una fattura dell’importo doppio, 720 euro. Mulè ringrazia e restituisce il favore promettendo di dedicare un’intera pagina del successivo numero di Panorama al Monasteri resort citando il gruppo Bulgarella". Che cosa si capisce, a parte la lotta titanica della signora Ziniti con la sintassi? Che vi è un "conto minimo" da pagare: falso. Che l’articolo di Panorama sui Monasteri esce dopo il soggiorno nell’hotel: falso. Anche Francesco Viviano, sempre su Repubblica, eccelle nell’arte della manipolazione e della falsità. Lui fa andare i miei amici al Monasteri resort (falso), poi fa soggiornare me e colloca dopo il mio soggiorno la pubblicazione dell’articolo su Panorama. Alla luce di tanto sacro fuoco su questo inesistente "scambio di favori" si impone un’operazione di autocoscienza. Alcuni giornalisti e collaboratori di Repubblica vengono invitati in resort di lusso o alberghi a cinque stelle in Italia e all’estero, viaggiano per il mondo in prima classe o business, partecipano a eventi fashion con spese totalmente a carico delle aziende. Sono cioè ospiti. Poi scrivono sul loro giornale articoli e recensioni anche entusiastiche sulla struttura o l’evento. Vista l’indignazione fuori luogo rivelino adesso, gli stessi giornalisti di Repubblica, i cento e cento "scambi di favore" che - loro sì - hanno accumulato in questi anni. Poi, magari, chiedano scusa.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.
Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.
«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.
Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?
Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".
La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:
a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?
b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.
c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.
d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!
e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".
«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».
Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?
«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».
Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.
«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».
Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?
«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».
È una manovra politica?
«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».
D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.
«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».
E il paragrafo su Libera?
«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».
Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?
«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».
Cosa chiedete nell’interpellanza?
«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».
Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?
«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».
Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?
«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».
I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».
Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".
Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».
Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.
Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.
Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».
A quale sistema fa riferimento?
«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».
Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».
Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara. - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.
Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi - neanche tanto velatamente - altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente - diceva all'amministratore - una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio - avverte il Csm - in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.
Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.
Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.
Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!
Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?
"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).
Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto e della sua banda. Pino Maniaci.
S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola. È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.
Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero? Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.
Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.
Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.
Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.
L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.
È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.
Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni. Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare. La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”, e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.
Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?
IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”. Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva. Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:
La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale. Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.” La Italcementi con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore. Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento, sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.
L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di giudici delle misure di prevenzione Saguto, Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti, l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.
LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.
UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.
Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede. Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio. Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare. Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare. Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".
QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.
Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.
Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.
“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.
Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell' anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un' Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l' effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l' aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l' azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l' affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell' esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell' elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.
E poi danno lezioni di legalità!
SENZA CONCORSO PUBBLICO. LA PARENTOPOLI DELL’ANTIMAFIA E GLI INCARICHI FIDUCIARI NEI TRIBUNALI.
“LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.
Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre. Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!
Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto. “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.
Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto. “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto. Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle. “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta. Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.
Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni. E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero. Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto - che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.
“No a parentopoli in Tribunale. Incarichi solo a chi è capace”. Palermo, circolare del nuovo presidente della sezione che amministra i beni confiscati. La Procura di Caltanissetta sta indagando sull’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo dove oggi è previsto l’arrivo della prima commissione del Csm, scrive Riccardo Arena su “La Stampa” il 25 settembre 2015. La parentopoli non è solo nelle Università o nelle aziende pubbliche ma pure nei Tribunali: il nuovo presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo è così costretto a mettere per iscritto che, «allo scopo di garantire la assoluta trasparenza», gli amministratori giudiziari dei beni di mafia sequestrati e confiscati saranno invitati a «selezionare i collaboratori solo in base alla competenza e alla affidabilità, anche etica, escludendo persone che abbiamo legami di parentela o di intima amicizia con i magistrati o con il personale della cancelleria della sezione». La circolare è appesa da ieri nella cancelleria della sezione nell’occhio del ciclone, messa a soqquadro, un paio di settimane fa, da finanzieri alla ricerca di prove delle «combine» tra giudici e amministratori, sfociate in un’inchiesta della Procura di Caltanissetta e nell’azzeramento del pool coordinato dalla ormai ex presidente Silvana Saguto, indagata per corruzione, concussione per induzione e abuso d’ufficio. Oggi a Palermo sbarcherà la prima commissione del Csm, che con ogni probabilità disporrà i trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. In attesa del repulisti definitivo, il nuovo presidente della sezione, Mario Fontana, ha dovuto ricordare a coloro che vengono chiamati ad amministrare patrimoni di centinaia di milioni che certe scelte, sebbene non vietate dalla legge, sono da evitare comunque. Cosa tra l’altro emersa e conclamata da tempo: Silvana Saguto, ad esempio, è moglie di Lorenzo Caramma, ingegnere, già collaboratore dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara (tutti e tre sono oggi indagati), nella gestione di cinque cave confiscate, affidate alla sezione del Tribunale presieduta dalla moglie: e anche se Caramma era stato nominato prima del 2010, quando la moglie non era ancora presidente, aveva mantenuto gli incarichi anche dopo. Qualche mese fa il presidente della Corte d’appello, Gioacchino Natoli, aveva chiesto che l’anomalia venisse eliminata e l’ingegnere si era dimesso: un gesto che forse gli ha salvato la vita, perché la settimana scorsa un operaio che aveva perso il lavoro si è presentato nella cava confiscata Buttitta, a Trabia, una ventina di chilometri da Palermo, e ha ucciso due persone. Una, il direttore tecnico, era Gianluca Grimaldi. E il duplice delitto aveva fatto emergere che il geologo era figlio di Elio Grimaldi, cancelliere della sezione misure di prevenzione: anche lui era stato nominato da Cappellano Seminara, recordman degli incarichi di amministrazione giudiziaria, accusato di avere «gratificato» la Saguto con incarichi dati a Caramma in mezza Sicilia, per compensi da 750 mila euro, ma anche con regali e denaro che avrebbe ricevuto Vittorio Saguto, padre della giudice, indagato con l’ipotesi di riciclaggio. Un altro caso riguarda Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d’ufficio per avere nominato un avvocato al quale era molto legato. E ancora nel mirino c’è la scelta di Walter Virga, figlio di un ex consigliere del Csm, Tommaso, entrambi indagati perché il padre - sostiene l’accusa - avrebbe rallentato esposti contro la Saguto. Virga junior, classe 1980, aveva ricevuto l’incarico di gestire un patrimonio da 800 milioni, con un maxistipendio per sé. Doveva amministrare pure una concessionaria Bmw, Land Rover e Mini. Il direttore commerciale scelto da Virga, Giuseppe Rizzo, avrebbe preso per sé una Audi A4 e una Mini Cooper; uno dei consiglieri di amministrazione, Alessio Cordova, le avrebbe prese per la mamma e per la suocera, un altro, Dario Majuri, per la moglie. Un collaboratore di Virga, Alessandro Kallinen Garipoli, avrebbe pensato anche lui alla consorte. Andrea Vincenti, figlio di un ex presidente della sezione misure di prevenzione, prese una Land Rover: carte alla mano, ha però spiegato che lo sconto ottenuto era quello ordinario.
Si scoperchia un altro pentolone. Giro di incarichi alla "Fallimentare", scrive Giovedì 01 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Il "sistema" delle nomine fiduciarie, che ha fatto crac alle Misure di prevenzione, diventa oggetto di una circolare dei giudici di un'altra sezione del Tribunale di Palermo. Nel mirino le incompatibilità e le consulenze "anomale". La circolare della Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo arriva, scrivono i giudici, “a conclusione dei plurimi incontri avviatisi nell'ultimo semestre”, ma non si può non tenere conto che sia datata 18 settembre 2015, e cioè nel pieno dello scandalo che ha travolto un'altra sezione, quella delle Misure di prevenzione che nomina gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. L'oggetto della circolare della sezione guidata dal presidente facente funzioni Fabio Marino - “monitoraggio periodico degli incarichi” - fa capire sin d'ora che un altro pentolone potrebbe essere scoperchiato nella giustizia palermitana che ha nei rapporti fiduciari il suo pilastro. I giudici delegati Monica Montante, Raffaella Vacca, Flavia Coppola, Mauro Terranova, Clelia Maltese e Giuseppe Sidoti hanno avvertito la necessità, “al fine di rendere più efficiente l'attività di controllo nel settore delle nomine”, di fissare dei paletti, in alcuni casi di ribadire delle regole già operative con l'obiettivo, “ferma restando la discrezionalità del giudice” di nominare un curatore fallimentare, di garantire “un fisiologico turn over”. Ma è negli incroci di nomine e consulenze che i giudici delegati fissano le “condizioni limitative” più stringenti.
Come funziona la procedura fallimentare? Quando un'azienda o una società sono in crisi o in stato di insolvenza i libri contabili finiscono in Tribunale. A volte, raramente, è il titolare ad avviare le procedure. Altre volte è il pubblico ministero a chiedere il fallimento nel corso di un procedimento penale. Normalmente, però, è un creditore che presenta un ricorso per dichiarazioni di fallimento. Si apre, dunque, una fase prefallimentare per valutare la situazione economica. Solo dopo, il Tribunale dichiara il fallimento e nomina il giudice delegato che a sua volta, nella piena discrezionalità che gli è garantita dalla legge, sceglie il curatore fra gli iscritti all'ordine degli avvocati e dei commercialisti. Il curatore ha il compito di garantire l'interesse della massa dei creditori. Come? Mettendo in vendita il patrimonio del fallito. Ed è in base al rapporto attivo-passivo che viene poi stabilita la sua parcella che parte da un minimo di 800 euro circa. I fallimenti “vuoti” finiscono per essere un onere per chi se ne occupa, ma ci sono casi in cui bisogna disfarsi dei gioielli di famiglia. Va all'asta tutto ciò che ti attivo esiste nel fallimento: dalle case alle macchine, dai mobili agli oggetti più insignificanti. Nella sua attività il curatore si avvale di consulenti. Sono altri avvocati per seguire le cause legali innescate dal fallimento, tecnici per le perizie sugli immobili e sul patrimonio in generale, esperti contabili. La scelta spetta esclusivamente al curatore che l'ultima riforma del settore ha investito di pieni poteri. Il Tribunale di fatto interviene per autorizzare la liquidazione finale delle parcelle, ma ha pur sempre l'obbligo di vigilanza sull'attività del curatore. La circolare dei giudici delegati (indirizzata ai curatori fallimentari e trasmessa a Salvatore Di Vitale, il presidente del Tribunale che sta cercando di mettere ordine nella sezione Misure di prevenzione), ribadisce che per la nomina dei coadiutori e dei consulenti del curatore deve essere garantita, tra le altre cose, “l'inesistenza di subordinazione o vincoli coniugali”. Poi, oltre a stabilire il tetto di venti incarichi in un anno per lo stesso avvocato e fissare che un giudice delegato possa nominare lo stesso curatore per non più di tre volte all'anno, c'è un paragrafo della nota che prevede l'esclusione dei “professionisti protagonisti di reiterati scambi incrociati”. Ecco il passaggio più delicato, spia di una situazione su cui fare chiarezza: “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o di coniugio”. Ed ancora: “Qualora lo stesso curatore sia un avvocato dovrà evitare e comunque contenere le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate (sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista). In generale, il curatore dovrà astenersi dall'effettuare nomine che possono fare ritenere operanti accordi per lo scambio di incarichi”. Sembrerebbe, invece - e la circolare ne sarebbe la spia - che degli scambi ci sia traccia in tante procedure fallimentari già avviate. Ecco perché non è escluso che la verifica già avviata alle Misure di prevenzione dal presidente Di Vitale non finirà per spostarsi anche nel settore fallimentare dove alcuni professionisti, senza che ciò rappresenti irregolarità, hanno raccolto molti più incarichi di altri. In alcuni casi, si parla di decine e decine di nomine che potrebbero avere provocato gli “scambi” stigmatizzati ora dai giudici, sia sul fronte degli incarichi legali che in quello delle perizie. La nota dei giudici si conclude con la necessità di ampliare la platea di alcuni professionisti. In particolare “si segnala il numero esiguo di dottori commercialisti e consulenti del lavoro che hanno maturato esperienza specifica in materia concorsuale” che rende “allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”.
Cappellano: "Ovunque incarichi a parenti di toghe", scrive “La Repubblica”. «Sin dal mio insediamento, quattro mesi fa, ho iniziato a svolgere accurati accertamenti sull'attività della sezione misure di prevenzione, richiedendo al presidente della sezione i necessari dati conoscitivi, ma i dati non sono ancora pervenuti». Dopo la procura di Caltanissetta, anche il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, vuol vederci chiaro sugli incarichi conferiti dalla sezione Misure di prevenzione presieduta da Silvana Saguto. Ieri, come primo atto, ha firmato un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. E ha annunciato che quanto fin qui emerso è già stato comunicato al Csm e al ministero di Grazia e giustizia per eventuali provvedimenti. Per il momento Silvana Saguto resta al suo posto. «Sono estranea a qualsiasi accusa e chiederò di essere sentita subito per poter fugare ogni ombra dalla mia reputazione», ha detto ieri, mentre l'avvocato Cappellano Seminara respingeva al mittente tutte le accuse. «Gli incarichi all'ingegnere Caramma — ha spiegato — in qualità di coadiutore o consulente in alcune procedure di amministrazione giudiziaria sono stati decisi dai giudici delegati dei rispettivi tribunali, gli unici preposti a dette nomine e alla liquidazione dei relativi compensi. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent'anni, collabora quale consulente fiduciario con le procure della Repubblica e i tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il tribunale di Caltanissetta». Cappellano Seminara ricorda che «Caramma non è mai stato da me proposto nell'ambito di misure di prevenzione del tribunale di Palermo presieduto da Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell'incarico del giudice Silvana Saguto alla presidenza della sezione». Per avallare la sua tesi, l'avvocato osserva che «in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo a ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d'appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che invece avviene costantemente e senza rilievo alcuno ».
Sulla vicenda interviene anche la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, che l'anno scorso, dopo la denuncia del prefetto Giuseppe Caruso, convocò in commissione sia l'ex direttore dei Beni confiscati che il presidente Saguto, finendo con il censurare la denuncia di Caruso. «Non spetta alla commissione accertare eventuali responsabilità penali personali, che sono rimesse invece all'esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria, a cui deve rivolgersi chiunque venga a conoscenza di reati. Per questo motivo nel corso delle audizioni non sono mai state consentite generiche accuse che avrebbero potuto delegittimare un sistema giudiziario nel suo complesso, che ha prodotto significativi risultati in particolare in Sicilia, dove è stata finora sequestrata e confiscata la maggior parte dei beni».
Il termine concorso pubblico o gara di appalto pubblico sono specchietti per le allodole per fregare i partecipanti onesti, ingenui e sprovveduti. Non c'è giorno che i tg non parlano di un concorso o di un appalto truccato. Grande eco hanno i grandi scandali sulle mazzette pagate per le grandi opere. Ma il meglio (o il peggio) lo danno i piccoli appalti dove il trucco è legale.
Concorso pubblico. Scuola pubblica: professionisti di che? Scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Bisogna correre a sfatare un mito, un’idea errata, o meglio la presunzione che gli insegnanti della scuola pubblica italiana possano definirsi, sentirsi “professionisti” del mondo del lavoro vero. Non è così. Bisogna dire chiaramente che sono elemosinati degli italiani, parassiti elemosinati dai nostri soldi, quegli stessi soldi estorti a noi con la tassazione erosissima che, difatti, non esiste in nessuna parte del mondo. Un professionista è un libero professionista cioè colui (colei) che risponde di ciò che fa. Se sbaglia paga di suo. Come succede a tutti i professionisti, liberi professionisti italiani, dal corniciaio al fabbro, dall’avvocato all’imprenditore. Il tempo indeterminato, ovvero a vita dell’impiego pubblico, specificamente nella scuola pubblica, insieme alla inamovibilità pratica, effettiva, dallo stesso, insegnante pubblico, professore universitario statale o maestro di scuola pubblica che sia, magistrato o giudice pubblico, politico o avvocato dello Stato cioè pubblico, rendono il posto cosiddetto “pubblico” vale a dire stipendiato con i soldi di tutti noi italiani, ma guarda caso, ha come ulteriore requisito l’irresponsabilità verso tutti, verso tutti noi, i reali, effettivi datori di lavoro. Pertanto credere o sentirsi “professionisti” nell’apparato pubblico difetta gravemente del requisito essenziale, la responsabilità. Che porta con sé la “amovibilità” ovvero il cambio di lavoro quando non si ha funzionato nella scuola così come da giudice, e porta con sé così anche la determinatezza dell’occupazione e del lavoro, a maggior ragione quando incapaci di farlo. In Italia da una settantina d’anni si sono immesse masse di pecoroni irresponsabili pubblici, per carità persone tra cui, soprattutto nei primi trenta anni, si distingueva una loro maggioranza, financo la quasi totalità, di soggetti che hanno ritenuto “sacra” la propria funzione nel settore pubblico, ritenendo la responsabilità un optional, andava cioè da sé ritenere di risponderne non solo lavorativamente ma anche e soprattutto personalmente, si pensi solo al disdoro sociale dato dalla incapacità cui difatti era la stessa società, più stretta nelle sue maglie e moralmente pochissimo lasciva, a richiamare e fare rispondere delle conseguenze; nei successivi quaranta anni le maglie sociali si sono allargate e con la libertà sociale il posto pubblico è diventato il “lavoro” degli italiani, dai ministeri alle corti, dalle province ai comuni alle regioni, dalle pubbliche amministrazioni e così via fino ad avere più o meno in ogni famiglia un soggetto almeno a carico delle finanze pubbliche. E’ diventato cioè, per quanto potesse essere stato l’”agguanto” al concorso pubblico truccato, convenientissimo occupare il posto pubblico, perché in cambio di poche ore “lavorate”, ovvero di sola presenza fisica nell’odiato ufficio tra gli odiati colleghi uguali a sé, si è ricavato l’obolo pubblico con cui si è, come dicono al sud, “campata” la famiglia. Ecco quindi il posticino a Ferdinando Esposito in magistratura, con concorsino “pubblico” a hoc stante papà e zio Esposito (quello della Cassazione e della sentenza annunciata contro Berlusconi, altro che professionista della giustizia! la giustizia piuttosto come arma per “regolare i conti” e le acrimonie di un’intera classe, quella giudiziaria pubblica contro l’imprenditore privato resosi ricco e con l’arlìa di essere sceso in politica). O ecco il posticino a papà di Giulio Napolitano nell’università pubblica, come tutti gli altri nessuno escluso. Ecco il posticino pubblico al ministero: un esercito di italiani e di italiane acrimoniosi e insoddisfatti “da sistema”, lagnanti e mal mostosi negli improduttivi ministeri pubblici italiani. Ed ecco il folto popolo della scuola pubblica, tra cui svetta, arrivata vicino casetta sua, la moglie dell’imbroglione al governo rubato Renzi: una folla di rosiconi della scuola pubblica in grado di insegnare spesso la sola propria ignoranza condita della supposizione di sapere qualcosa ai poveri ragazzi italiani che, inseriti in un sistema nefasto siffatto, di fatto, non solo non imparano o si “arricchiscono” di quasi nulla, ma sono il bersaglio e lo sfogatoio della depressione e del disagio che mostrano i loro insegnanti. Ma ecco ancora i raccomandati ai “concorsi” pubblici nelle Regioni che vivono oggi, per la scemenza e l’insipienza di Renzi illegittimo al governo, un nuovo revival, dato che il beota con il suo governo di non eletti cerca di dare più rappresentanza e potere escludendo noi italiani. Ecco l’impiego pubblico degli italiani nell’intero apparato pubblico, vale a dire il regno dell’improduttività. Del parassitismo a nostre spese. E, ancora, gli impiegati pubblici dell’Agenzia delle entrate che tuttora immette altri mille a controllare chi non si sa, dato che chi ha potuto e che produceva qualcosa autonomamente è fuggito all’estero. Ecco i giudici e la giustizia pubblica, una mannaia ad orologeria prona e indifesa di fronte alle lerce ambizioni personali dell’ultimo venuto., e da ultimo sono venuti difatti Di Pietro, o Ingroia, De Magistris, i quali forti della inamovibilità e soprattutto dello stipendio a vita hanno dettato legge in un Paese letteralmente violentato dalla loro stolta cupidigia. Quando si vede un lavoro pubblico in Italia, in definitiva, bisogna dire ed avere ben presente che sono gli italiani ad esserne i datori di lavoro, si pensi alla Camera e al Senato, al Parlamento e a tutto l’apparato politico, e oggi è finalmente necessario chiamare tutto a risponderne, alla responsabilità. A cominciare con Napolitano il quale da presidente della Repubblica ha violato la nostra regola democratica di avere quali rappresentanti gli eletti, cosa che non è avvenuta né con Monti né con Letta e che non sta avvenendo neanche tuttora con Renzi. Monti, Letta o Renzi non sono mai stati eletti per rappresentare l’Italia da nessun italiano, è Napolitano ad avere, contrariamente ad ogni regola della nostra democrazia, “scelto” ed eseguito, dandoci i pensi incapaci di cui è necessario liberarsi. Rappresenta chi legittimato con voto a rappresentarci. Solo rappresentanti eletti spingeranno infatti il Paese a razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche, non altri. Renzi getta fumo negli occhi, come pare abbia fatto tutta la vita, e i più c cascano, vedi Berlusconi o il popolo di destra che lo ha creduto suo erede, quando sarebbe bastato osservare bene da dove Renzi venisse, cioè dal verterocomunista Napolitano, per capire da subito chi è e sotto lo schiaffo di chi è, qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri. Si ripete, “qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri”. Questo Paese si deve dare una svegliata! Il non lavoro pubblico va trasferito e fatto diventare lavoro produttivo privato nel mercato globale vero. Ci vuole produzione, investimenti produttivi, nuove industrie per il lavoro produttivo degli italiani improduttivi.
“LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.
Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre. Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!
Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto. “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.
Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori,assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto. “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su unlegame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto. Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle. “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta.Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segretoperché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.
Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni. E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero. Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto - che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.
La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia. L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei. Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia. Cosa più falsa non c’è. Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.
Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano. Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.
Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.
Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione. Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è. Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .
Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione. Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione. Da sempre il popolo forense si divide in due parti.
I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;
i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.
Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano
Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.
I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:
a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;
b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;
c) Contributo di maternità: € 151,00.
Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste. La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.
Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.
Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.
E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.
Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.
La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?
Quando? Mai! Perchè gli anni passano. le leggi si riformano, ma tutto rimane fermo ed immobile.
E' stata definitivamente approvata, giovedì 17 luglio 2003, la legge di conversione del Dl 112/2003 relativa agli esami per l'accesso alla professione di avvocato. Il Senato ha stabilito che le nuove regole troveranno applicazione dalla prossima sessione di dicembre 2003. Nel provvedimento è stata individuata una nuova causa di incompatibilità per la designazione dei componenti. L'avvocatura infatti, nell'espressione dei nominativi dovrà tener presente l'articolo 1-bis comma 6 di tale Legge che stabilisce che non possono essere designati come commissari di esame, gli avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Il principio affermato tende a impedire che i commissari di esame facenti parte di tali organismi, possano maturare crediti verso i candidati, sfruttando la benevolenza in occasione di nuove elezioni al Consiglio dell'Ordine o alla Cassa di previdenza. E' stato inoltre precisato che per le stesse ragioni gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni, una volta espletati gli esami, non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell'Ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto. La nuova legge precisa inoltre che rimangono in vigore le altre incompatibilità previste per la nomina di commissari, come ad esempio l'astensione per chi ha un parente (o coniuge) tra i concorrenti o per chi versa in stato di forte contrapposizione di interessi o, viceversa, chi è stato collega (come praticante) di studio. In questo ultimo caso, il limite alla possibilità di esaminare i propri ex praticanti, è circoscritto unicamente all'obbligo, per il commissario, di astenersi dal prendere parte alle prove orali, in quanto l'anonimato delle prove scritte è sufficiente garanzia di imparzialità nella correzione. Anonimato per la legge, di fatto conosciutissimi gli autori dell'elaborato.
In caso di naturale violazione penale delle norme concorsuali, tra cui l'abuso di ufficio o o la legge del 1925, il nuovo codice deontologico della professione forense presenta l’innovativo carattere della (tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e delle sanzioni correlativamente applicabili. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 72, la condotta dell’avvocato che, prima o durante la prova d’esame per l’abilitazione, faccia pervenire ad uno o più candidati testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un periodo compreso tra due e sei mesi. (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza n. 3023/15; depositata il 16 febbraio).
Questo è quello esistente sulla carta, ma di fatto l'indicibile avviene perennemente ed impunemente.
Esami di avvocato con il trucco. Commissario scriveva compito a candidato: scatta l'inchiesta, scrive “Il Mattino di Napoli”. La scena è più o meno questa: scriveva il compito sul foglio di un candidato, poi quando è stato scoperto non si è perso d’animo. Ha strappato il compito, lo ha ridotto in mille pezzi, poi ha pensato bene di ficcarsi in tasca l’elaborato. Poi è scappato. È fuggito via, in un altro padiglione, provando a mimetizzarsi nel caos di quegli stand dove erano in corso le prove scritte. Brutta scena avvenuta lo scorso dicembre nel corso delle prove scritte dell’esame per diventare avvocato, tanto da rendere necessario un accertamento di natura penale. La Procura ha infatti deciso di aprire un fascicolo sugli esami di avvocati, a partire da una dettagliata relazione indirizzata da uno degli esponenti della commissione di esame. Mesi dopo l’episodio denunciato, c’è anche una sorta di svolta di natura investigativa: l’avvocato-commissario protagonista dell’impresa è stato infatti individuato, interrogato e indagato. Ora deve rispondere di falso per soppressione, in una storia che potrebbe riservare non poche sorprese. Ma andiamo con ordine, a partire da lontano, da quel giorno di metà dicembre in cui migliaia di praticanti avvocati si riversano negli stand della Mostra d’Oltremare per sostenere la prova della vita. Lo scritto poi è l’incubo di sempre. Si parte dalla trascrizione delle tracce, poi inizia il countdown. Tra i commissari però ce n’è uno che non passa inosservato: al telefono è riuscito ad avere il contenuto della traccia dopo aver contattato qualcuno in un altro distretto e non si è perso d’animo. Si è avvicinato ai banchi degli alunni e ha iniziato a scrivere sul foglio che recava il timbro del ministero e la firma delle commissioni di vigilanza. Una scena che non passa inosservata. Scrive, riempie almeno una facciata, quando un collega commissario se ne accorge e decide di vederci chiaro. A muoversi è un pm della Procura di Napoli, prestata per comporre la commissione di esame. Si avvicina e chiede spiegazioni: che cos’è questo industriarsi con quel foglio in mano? E cos’è quel foglio? Basta un’occhiata e appare chiaro che non si tratta di un appunto manoscritto, ma del documento con il timbro del Ministero, quindi si tratta di un elaborato originale destinato ad essere imbustato e presentato con la firma di un candidato alla commissione di esame. Colto sul fatto l’avvocato-commissario però non si perde d’animo e fa una cosa elementare: strappa il lembo del figlio con la firma del ministero, poi ci pensa su e fa a pezzi tutto il documento e se lo ficca in tasca. Momenti di caos. Mentre gli altri colleghi gli chiedono spiegazioni, lui arretra, volta le spalle e scappa. Fugge, se ne va in un altro padiglione, si cala nell’anonimato. Un episodio destinato a rimanere inesplorato, se non fosse per la decisione di un commissario-magistrato di mettere tutto nero su bianco, di denunciare quanto assistito. È l'inizio di una inchiesta condotta dal pool reati contro la pubblica amministrazione del procuratore aggiunto Francesco Greco, fascicolo affidato al pm Valter Brunetti. C’è un’ipotesi di reato abbastanza chiara: falso per soppressione, in relazione alla capacità del commissario di far sparire l’elaborato, nel tentativo di cancellare le tracce. Qualche mese di indagine e l’avvocato viene identificato e interrogato. Vicenda per molti versi amara, che ripropone il tema della correttezza delle prove di esame, mentre il presidente del Consiglio degli avvocati Francesco Caia assicura: «Speriamo sia un fatto isolato, appena avremo notizie ufficiali, interverremo in modo deciso».
Ed ancora.
Esame avvocato a Bari, la nipote candidata e lo zio commissario, scrive Giovanni Longo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 settembre 2015. La nipote candidata. Lo zio in commissione. Nulla di penalmente rilevante. Ma quella che appare una evidente incompatibilità, sancita dallo stesso bando, rappresenta, almeno in termini d’immagine, un’altra tegola sull’esame d’avvocato edizione 2014-2015. La candidata era tra i banchi della Fiera del Levante, insieme a centinaia di aspiranti avvocati, mentre suo zio (un magistrato in pensione), fratello di suo padre, faceva parte della Commissione. Già l’anno prima si era verificata la stessa situazione, nonostante l’incompatibilità per i parenti sino al quarto grado. Ma non finisce qui. Perché dagli atti interni alla Commissione d’esame che la «Gazzetta» ha potuto consultare, risulta che per entrambe le prove, il commissario ha fornito per le comunicazioni interne, un indirizzo di posta elettronica con il nome e cognome della nipote candidata. Questo non vuole dire che le comunicazioni interne fossero lette dalla candidata, sia chiaro, ma, all’interno della Commissione, la circostanza non è sfuggita. Tutte vicende che non sarebbero finite nel fascicolo aperto dalla Procura di Bari per fare luce sui presunti aiuti che alcuni candidati (tra loro non figura la candidata che aveva suo zio in commissione) avrebbero ricevuto. Sul fronte penale (ribadiamo zio commissario e nipote candidata non risultano coinvolti), l’estate che volge al termine, è stata di grande lavoro per i Carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Bari. I telefonini del cancelliere della Corte di appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell’Università di Bari Tina Laquale, indagati dalla Procura di Bari, iniziano a «parlare». Tracce delle prove scritte inviate via WhatsApp. Elaborati redatti in uno studio legale e poi consegnati a mano. Tecnologia e tradizione vanno a braccetto. L’inchiesta sui presunti «aiutini» che almeno una decina di candidati all’ultimo esame d’avvocato avrebbero ricevuto, si arricchisce di nuovi particolari. Santamaria e Laquale, ricordiamo, erano stati sorpresi durante la terza prova d’esame mentre nel quartiere fieristico si passavano di mano un plico contenente lo svolgimento del tema assegnato: la redazione di un atto giudiziario. Nella busta, pure un biglietto con nomi e destinatari. Dall’accertamento tecnico irripetibile disposto dal pm Luciana Silvestris, che coordina le indagini, sono giunte altre indicazioni utili per capire quali sarebbero state le modalità utilizzate per truccare la prova. Nel padiglione della Fiera del Levante ci sarebbe stato chi ha fotografato le tracce per poi inviare le foto all’esterno. Tramite WhatsApp. In uno studio legale, almeno Laquale, una sua stretta parente e un professionista avrebbero avuto il compito, codici alla mano, di scrivere gli elaborati. Da consegnare poi a domicilio. Nel mirino il ruolo che l’avvocato avrebbe avuto nella vicenda. Laquale si sarebbe messa in ferie proprio in concomitanza con la tre giorni di metà dicembre. Le ipotesi di reato, a vario titolo, sono: tentato abuso d’ufficio, violazione di una vecchia legge del 1925 sullo svolgimento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, e corruzione. Gli inquirenti sono al lavoro per capire se la presunta «collaborazione» rientrasse «solo» in un sistema più ampio di scambi di favori o se, come sospettano, fosse stata retribuita. Ovvero soldi in cambio di una prova impeccabile per superare l’esame.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Appalto pubblico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Negli ordinamenti degli stati aderenti all'Unione europea l'appalto pubblico è un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici avente per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004. Tale definizione, contenuta nell'art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2004/18/CE, è stata recepita nell'ordinamento italiano dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) che all'art. 3, comma 6, definisce gli appalti pubblici come "contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una stazione appaltante o un ente aggiudicatore e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi come definiti dal presente codice". Gli appalti pubblici possono essere di lavori, forniture o servizi. Le definizioni sono contenute nell'art. 3, commi 7, 9 e 10, del D.Lgs. 163/2006 che recepisce le corrispondenti definizioni contenute nell'art. 1, comma 2, lettere b), c) e d) della direttiva 2004/18/CE. Gli appalti pubblici di lavori sono appalti pubblici aventi per oggetto l'esecuzione o, congiuntamente, la progettazione esecutiva e l'esecuzione, relativamente a lavori o opere rientranti nell'allegato I del D.lgs. 163/2006, di un'opera rispondente alle esigenze specificate dalla stazione appaltante o dall'ente aggiudicatore. I lavori indicati nell'allegato I del D.Lgs. 163/2006 comprendono le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere. Per opera si intende il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, sia quelle di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica (art. 3, comma 8, D.Lgs. 163/2006). Quando il contratto ha per oggetto congiuntamente la progettazione e l'esecuzione si parla di appalto integrato, di cui ve ne sono due specie:
l'appalto integrato tradizionale, nel quale l'appaltatore predispone il progetto esecutivo sulla base del progetto definitivo predisposto dalla stazione appaltante (o ente aggiudicatore);
l'appalto integrato complesso, nel quale la stazione appaltante (o ente aggiudicatore) si limita a predisporre il progetto preliminare, ciascun concorrente propone un progetto definitivo e l'appaltatore, selezionato anche sulla base del progetto proposto, predispone il progetto esecutivo.
Qualora, per l’esecuzione di lavori o forniture che presentino particolari caratteristiche tecniche, la pubblica amministrazione non avesse predisposto un progetto può ricorrere all'appalto concorso con il quale, sulla base delle indicazioni fornite dall'ente appaltante, il concorrente dovrà presentare non soltanto le offerte economiche ma anche i relativi progetti tecnici. Con questa procedura l'aggiudicazione prescinde dalla mera convenienza dell'offerta economica ma verte anche sulla validità delle soluzioni e della perfezione tecnica dei progetti proposti.
Gli appalti pubblici di forniture sono appalti pubblici aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti.
Gli appalti pubblici di servizi sono appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o di forniture, aventi per oggetto la prestazione dei servizi di cui all'allegato II del D.Lgs. 163/2006.
Appalto delle opere pubbliche. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Con il contratto d'appalto l'ente appaltante assegna le opere da realizzare ad un'impresa costruttrice, che si indica col termine di appaltatore, o ad un raggruppamento di imprese (RTI o ATI) o, ancora, ad un Consorzio. La legge di riferimento in materia di appalto di opere pubbliche è il Decreto Legislativo 163/2006, il cosiddetto "Codice dei contratti pubblici" nonché il regolamento Dpr 207/2010 che ha sostituito il precedente regolamento d'attuazione, Dpr 554 del 1999 (Regolamento Merloni).
Tipologie di appalti. Una prima classificazione degli appalti può essere basata sul modo di condurre la contabilità dei lavori e, quindi, del calcolo del corrispettivo:
Appalti a corpo;
Appalti a misura;
Appalti misti a corpo e misura;
Appalto in economia.
Appalto a corpo. In questa tipologia l'importo da riconoscere all'appaltatore è una somma invariabile, riferita al totale dell'opera, che non può assolutamente subire variazioni, poiché in caso di imprevisti dovuti al prolungamento lavori o di sbaglio dei calcoli quantitativi, la ditta rischia di avere un bilancio totale dell'opera negativo. Questa tipologia è quella più diffusa poiché elimina i rischi per l'ente appaltante.
Appalto a misura. Qui il corrispettivo viene determinato secondo le unità di misura del lavoro finito. Ad ogni lavorazione vengono applicati i prezzi unitari. In questa tipologia i rischi li assume l'ente appaltante. Il tempo, la manodopera e i materiali sono compresi nell'offerta del prezzo per unità di lavoro realizzato. Invece, nel caso dell'appalto di lavori in economia, queste voci sono separate. Il tempo di realizzazione perciò, diventa un aspetto fondamentale per l'eventuale guadagno dell'appaltatore.
Appalto misto a corpo e misura. In questo tipo di appalto alcuni lavori sono espressi a corpo, mentre altri sono contabilizzati a misura.
Appalto in economia. I lavori si dicono contabilizzati in economia quando il corrispettivo è calcolato sulla base dei materiali impiegati e delle ore di manodopera degli operai. All'interno di un contratto d'appalto, i lavori contabilizzati in economia sono ammessi solo per alcuni tipi di interventi (p.e. manutenzioni), oppure per certe singole lavorazioni, o ancora in certe situazioni particolari. Al di sotto di certi importi, i lavori, sempre contabilizzati in economia, possono essere eseguiti con gestione diretta da parte dell'ente. In questo caso l'ente si sostituisce all'impresa facendosi carico di tutte le attività di gestione necessarie per la realizzazione dell'opera.
Assegnazione degli appalti. D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. L'affidamento degli appalti viene definito in base a diversi fattori, tra cui la tipologia dell'opera da realizzare, le sue dimensioni e altre motivazioni che vengono prese in considerazione dal responsabile del procedimento amministrativo.
Per la scelta della ditta che eseguirà i lavori, gli enti pubblici tendono a favorire quella che offre il prezzo più basso, oppure l'offerta economicamente più vantaggiosa. Normalmente quando si decide di appaltare un'opera si crea anche una tabella di punteggi nella quale si inseriscono i criteri di assegnazione dell'opera. Le metodologie sono:
La procedura aperta (definita "pubblico incanto" dalla precedente legge n. 109 del 1994);
La procedura ristretta (definita "licitazione privata" dalla precedente legge n. 109 del 1994);
La procedura negoziata (definita "trattativa privata" dalla precedente legge n. 109 del 1994);
L'appalto concorso.
La procedura aperta (o pubblico incanto). Detta anche gara d'appalto o procedura a evidenza pubblica. Qui possono partecipare tutte le ditte che facciano richiesta, purché abbiano i requisiti richiesti dalla tipologia del lavoro o all'importo. Il prezzo più basso si determina in base al tipo di appalto, per i lavori a misura si tiene conto dei prezzi unitari, per quelli a corpo si tiene conto dell'offerta generale in base d'asta e per quelli misti si tiene conto dei prezzi unitari.
La procedura ristretta (o licitazione privata). Possono partecipare alla gara per l'affidamento dei lavori tutte le ditte invitate dalla P.A. procedente. Le ditte sono invitate alla fase di pubblicazione del bando di gara e alla presentazione delle offerte, in linea con i requisiti fissati dalla Amministrazione.
La procedura negoziata (o trattativa privata). I concorrenti vengono scelti e invitati alla gara di appalto, dalla stazione appaltante. Anche in questo caso le imprese devono essere in possesso dei requisiti necessari. 1-Per questa tipologia l'opera non deve superare l'importo di € 500.000,00. In caso di un'opera di urgenza l'importo può essere anche superiore. A questo tipo di gare devono essere invitate almeno 5 aziende («se sussistono aspiranti idonei in tale numero»). Tale procedura è utilizzata (senza previa pubblicazione del bando di gara) in base all'art 57 D.Lgs. n. 163/2006 qualora in esito all'esperimento di una procedura aperta o ristretta non sia stata presentata nessuna offerta, o nessuna offerta appropriata, o nessuna candidatura.
Offerta Economicamente Vantaggiosa. Si prende in considerazione solo per le opere il cui aspetto architettonico sia di notevole rilevanza. L'offerta migliore viene decisa in base ai seguenti elementi:
Prezzo più basso;
Valore tecnico dell'opera;
Valore estetico dell'opera;
Tempo previsto;
Costi di gestione;
Costi di manutenzione;
Altre caratteristiche dell'opera.
Questo è quanto le norme dettano. Nella realtà, invece, ci sono inviti costruiti «su misura» per far vincere le gare alle solite ditte, ricorso alla somma urgenza per giustificare interventi ben più ampi di quelli necessari in tempi brevi, e, soprattutto, procedure negoziate per cifre inferiori a un milione senza bando pubblico e senza motivazione di quella procedura.
Appalti senza gara e trucchi: il bluff delle municipalizzate. È con le società in house, longa manus degli enti locali, che si realizzano i maggiori artifizi: servizi pubblici milionari agli amici e bilanci fantasma. Un mondo sommerso senza regole, scrivono Paolo Bracalini Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Trucchi, favori agli amici, servizi pubblici milionari come la raccolta dei rifiuti o la gestione dell'acqua affidati senza gara d'appalto, a società amiche o a coop, a tutto danno delle tariffe che poi vengono applicate ai cittadini. C'è tutto un mondo sommerso del quale si tiene poco conto quando si parla delle partecipate. Le paroline magiche, che trasformano una normale società in una sorta di intermediario che opera con affidamenti diretti, in barba alla concorrenza, le abbiamo prese in prestito dall'inglese. Ed è con le società «in house», longa manus degli Enti, che si realizzano i maggiori artifizi. L'ex commissario alla spending review , Carlo Cottarelli, nella sua relazione ha evidenziato l'anomalia Italia che vede nel nostro Paese un boom di queste società. E anche la Corte dei conti bacchetta le Regioni, bocciando questa pratica: «L'affidamento a società in house - rimarcano i giudici contabili - resta previsto soltanto come ipotesi eccezionale». Ma invece succede il contrario. Ancora la Corte dei conti, con le cifre: «Si evidenzia il ricorso generalizzato a tale modalità di affidamento (in house, ndr ), in quanto le gare con impresa terza risultano essere soltanto 31 (su un totale di 24.578)». Una prassi generalizzata, dunque. Che ha un indubbio vantaggio: permette di calpestare le regole. E dunque: niente gare d'appalto, affidamento alle coop di commesse milionarie (i limiti fissati dalla legge si bypassano frazionando l'appalto, in modo che resti sempre sotto la soglia entro cui la gara diventerebbe obbligatoria), assunzioni di massa, fuori dai limiti imposti alle pubbliche amministrazioni. Come in Friuli Venezia Giulia, dove la Corte dei conti evidenzia come ci siano 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione grazie a «un sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società ed enti funzionali». Insomma, tutti escamotage tecnico per sfuggire al fastidiose norme, come le gare d'appalto o i limiti alle assunzioni. Uno dei casi più eclatanti è quello della Veritas spa, la società che si occupa di acqua e rifiuti, partecipata dai Comuni della Provincia di Venezia e Treviso. A sollevare il caso, con un esposto appena presentato alla Corte dei conti, è il consigliere regionale veneto Diego Bottacin. La stessa coop, nel 2013, ha ricevuto da Veritas Spa la bellezza di undici affidamenti, per quasi un milione e mezzo di euro. Tutti senza gara perché tutti - appositamente - sotto i 200mila euro (anche solo di 50 euro, come un lavoro da 199.950 euro), la soglia comunitaria oltre la quale è obbligatorio fare la gara. «Le grandi municipalizzate - spiega - non svolgono più direttamente il servizio pubblico che i comuni affidano loro, ma lo sub-affidano ad una miriade di cooperative e società con assoluta discrezionalità e senza alcuna gara, anche quando si tratta di commesse milionarie, magari attraverso l'artificio del frazionamento dell'appalto». C'è di tutto, nell'esposto che Bottacin girerà anche all'Autorità anticorruzione: affidamento a terzi dei servizi, coop rosse ma non solo; zero controllo da parte dei comuni. E un'enorme potere su un'enorme massa di denaro pubblico, che si può usare anche molto male. Mafia capitale docet. Gli esempi, qua e là per l'Italia, sono diversi. Meno debiti scaricandoli sulle partecipate, o vendendo a società in house le proprie reti. È il caso della Ravenna holding spa, su cui il Comune ha scaricato, dice l'opposizione, debiti per circa 33 milioni. Dall'Emilia alla Puglia. La Corte dei conti, sulla base dei bilanci 2012, ha puntato l'indice contro «la tendenza da parte degli amministratori locali a scaricare le perdite d'esercizio delle società partecipate sugli enti locali, gravando quindi sui contribuenti». Prendiamo la Santa Teresa spa di Brindisi, società multiservizi della Provincia con un valore di produzione nel 2012 di 5.467.322 euro e un utile netto di esercizio di 211.980 euro. La Provincia ha trasferito alla partecipata, per far fronte ai contratti di servizio, 6.804.835 euro. Una galassia con molti buchi neri, quella delle partecipate degli enti locali. A rilevarlo è anche il Cerved, il centro studi che periodicamente analizza la pubblica amministrazione italiana. Molte società partecipate non depositano neppure il bilancio, una zona d'ombra che può far comodo se si vuol nascondere la polvere sotto il tappeto. «Un numero non trascurabile di società ancora operative, 656 (il 12%), non ha mai depositato il bilancio del 2012 (o riporta un attivo pari a zero) - si legge nell'ultimo rapporto del Cerved - Il mancato deposito di bilancio spesso denota una situazione di difficoltà dell'azienda, che non riesce a chiudere i libri contabili. Nella maggior parte dei casi, il 72%, si tratta di società per cui il problema è ricorrente nel tempo (anche nel 2011 non è stato depositato un bilancio). Non mancano però casi di partecipate di dimensioni medio-grandi che non hanno adempiuto all'obbligo di deposito del bilancio (25 con un totale dell'attivo compreso tra 10 e 50 milioni nel 2011 e 13 con un totale dell'attivo superiore a 50 milioni)». Una giungla con troppe ombre.
«Senza controlli e poco trasparenti» Il rapporto sugli appalti a Roma. Dossier su Alemanno e Marino. Il confronto tra le giunte: boom con l’ex sindaco, l’attuale primo cittadino inserito in un sistema già costituito. Sotto esame gli ultimi quattro anni di amministrazione. Niente gara pubblica per l’87% dei lavori: affidati, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Il giudizio finale è netto, e non fa distinzioni tra le due amministrazioni che si sono succedute in Campidoglio negli ultimi quattro anni, tra il 2011 e il 2014: l’analisi dei dati condotta dagli ispettori dell’Anticorruzione «ha reso di palese evidenza il massiccio e indiscriminato ricorso a procedura non a evidenza pubblica in grado di assorbire di fatto, in termini quantitativi, quasi il 90 per cento delle procedure espletate». Per un valore complessivo pari al 43 per cento degli appalti affidati: ciò significa che poco meno della metà dei lavori e dei servizi assegnati a Roma e pagati con denaro pubblico sono stati attribuiti attraverso trattative private, scegliendo di fatto i beneficiari. Poco dopo gli ispettori rincarano la dose: quel «generalizzato e indiscriminato» utilizzo delle procedure negoziate in alternativa alle gare pubbliche è «in palese difformità e contrasto con le regole, rivelando spesso un’applicazione o elusione delle norme disinvolta e in alcuni casi addirittura spregiudicata». Di più: «Ciò induce a ritenere che la prassi rilevata abbia una genesi lontana nel tempo e rappresenti in molti casi più un lucido escamotage che ha orientato l’attività contrattuale degli uffici verso un percorso semplificato foriero, come confermato dai recenti fatti di cronaca, di distorsioni anche di carattere corruttivo piuttosto che dalle condizioni di straordinarietà che hanno caratterizzato l’attività politico-amministrativa di Roma Capitale negli ultimi anni». Dietro i circa tre miliardi di euro assegnati in quattro anni a trattativa privata, insomma, si nasconde più il malaffare che la soluzione a situazioni d’emergenza, e l’indagine su Mafia Capitale non ha fatto altro che confermare questa ipotesi. Sono le conclusioni della relazione per l’Autorità nazionale anticorruzione sugli appalti a Roma consegnata lo scorso 7 agosto al presidente Raffaele Cantone, e ora inviate al sindaco Marino e al prefetto Gabrielli, perché valutino le iniziative di rispettiva competenza, alla Procura della Repubblica (Direzione distrettuale antimafia) e alla Procura della Corte dei conti per gli eventuali, ulteriori accertamenti che vorranno svolgere. La denuncia dell’Anac si estende a un’altra considerazione: il sospetto di interessi corruttivi o criminali di altro genere dietro agli appalti a trattativa privata è «confermato dalla constatazione di generalizzata carenza e omissione anche della verifica dei requisiti di partecipazione alle procedure negoziate degli operatori economici invitati, offerenti e aggiudicatari». Questo particolare, insieme «all’improprio e spesso illegittimo» utilizzo della procedura negoziale per «difetto di motivazione», alla «non trasparente scelta dell’affidatario» e al «carente controllo e verifica della prestazione», rende il sistema di assegnazione dei lavori «un “porto franco” scevro dal rispetto delle regole e funzionale esclusivamente al raggiungimento di obiettivi estranei agli interessi della collettività». La fotografia della situazione è asettica, fatta solo di numeri, e si ferma al dicembre 2014 quando, con i primi arresti ordinati nell’inchiesta sul «Mondo di Mezzo», è stata scoperchiata la pentola della corruzione e del mercato politico-affaristico che si celava dietro gli appalti; soprattutto quelli vinti dalle cooperative. Oggi sappiamo perché c’è stato quel massiccio ricorso alla trattativa privata, esploso durante l’amministrazione di centrodestra guidata da Gianni Alemanno e proseguito, sebbene per cifre minori, con quella di centrosinistra guidata da Ignazio Marino. Ma una differenza tra le due Giunte viene evidenziata, soprattutto per ciò che riguarda le motivazioni del ricorso alle procedure negoziali. Sul periodo di governo Alemanno, che in due anni e mezzo ha speso più di cinque miliardi di euro, la relazione si limita a illustrare il dato del forte ricorso alle procedure negoziate: quasi due miliardi, il 36 per cento del totale, senza che vengano fornite giustificazioni. Per quanto riguarda la Giunta Marino invece (1 miliardo e 364 milioni in un anno e mezzo) le procedure negoziate sono salite all’87 per cento del totale, anche se per un importo complessivo dimezzato o poco più. In primo luogo per via della «forte riduzione degli stanziamenti di bilancio» per investimenti che richiedono il ricorso a gara pubblica per via del loro valore; inoltre «la mancata approvazione del bilancio nei termini di legge», con il conseguente ricorso all’esercizio provvisorio, «ha contribuito in modo sostanziale alla riduzione delle gare a evidenza pubblica». Infine, «si è osservato il costante ricorso a procedure negoziate per gli interventi di approvvigionamento di servizi e forniture essenziali, ovvero per lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria che dovevano comunque essere assicurati alla collettività». È come se - nell’analisi degli ispettori - il nuovo sindaco si fosse trovato ad agire in stato di necessità, ma senza rendersi conto del sistema che era stato costruito e agiva intorno a lui. Dal quale emergevano comunque delle anomalie, come si evince anche dai rilievi contenuti nella relazione dell’Anac che ha esaminato un campione di 1.850 procedure negoziate con le quali è stato distribuito circa mezzo miliardo di euro. Tra queste ci sono i lavori appaltati «in economia» e alle cooperative sociali, che «spesso non tengono in alcun conto le soglie massime di importo consentite». Tra i cinque gruppi segnalati per aver acquisito «affidamenti in numero rilevante e con importo consistente» ce ne sono tre coinvolte nelle indagini su Mafia Capitale: la Eriches 29 giugno di Salvatore Buzzi (40 appalti per 16 milioni e 698.000 euro), la Domus Caritatis (111 appalti per oltre 37 milioni) e la Casa della solidarietà (76 appalti per 18 milioni e mezzo) che rientrano nella holding de «La Cascina», legata a Comunione e liberazione. «Negli affidamenti negoziati non si rileva una adeguata rotazione tra i soggetti affidatari», denuncia l’Autorità anticorruzione. Che aggiunge: «Nelle delibere di affidamento o di autorizzazione emerge la frequente carenza di una esplicita motivazione della scelta effettuata, il mancato richiamo alla tipologia di affidamento applicata, nonché assenza di presupposto di imprevedibilità non imputabile alla stazione appaltante». C’è poi un rilievo che pare indirizzato alla giunta Marino: «Le numerose proroghe effettuate per assicurare la prosecuzione del servizio, anche di importo rilevante, hanno spesso avuto durata bimestrale o trimestrale, motivata dalla mancata approvazione del bilancio, che ha costretto l’Amministrazione al frazionamento degli investimenti. Nonostante i servizi da svolgere fossero in gran parte ritenuti vitali e improcrastinabili, si è rilevata la totale assenza di programmazione, seppur limitata agli importi a disposizione». L’elenco delle «anomalie» e delle «criticità» è lungo, e sempre con riferimento alle cooperative «operanti nel settore sociale» gli ispettori denunciano che «possono vantare, nell’ultimo triennio, un esorbitante numero significativo di affidamenti corrispondenti a valori economici rilevanti avvenuti in gran parte in forma diretta, a conferma del mancato rispetto anche dei basilari principi di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità». Infine la relazione sottolinea che «nell’ambito dei Dipartimenti, Municipi e degli altri centri di costo di Roma Capitale, l’attività relativa agli affidamenti con procedure negoziate sia spesso sfuggita ai controlli preventivi dei vertici della struttura, essendo delegata ai singoli responsabili del procedimento operanti in pressoché totale autonomia».
Il prefetto: «Criminogeno il 5% degli appalti alle cooperative». Gabrielli: principio giusto, ma purtroppo diventato anche il grimaldello per scardinare la porta e spalancarla ad assegnazioni discutibili e/o fuori controllo, continua Bianconi. È il cuore del problema emerso dall’indagine su Mafia Capitale – relativamente al capitolo corruzione e attribuzione degli appalti alle cooperative guidate o comunque «governate» da Salvatore Buzzi – quello toccato dal prefetto Franco Gabrielli. Che riguarda sicuramente Roma, ma probabilmente altre città. La legge che attribuisce una quota di lavori da assegnare alle imprese collettive che hanno «lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini» è il presupposto sulla base del quale gli Enti locali hanno assegnato e continuano ad assegnare la realizzazione di opere e servizi alle cooperative, in favore dei cosiddetti «soggetti svantaggiati». Detenuti o ex detenuti, ma non solo. È un principio giusto e nobile, come riconosce lo stesso Gabrielli, ma come spesso capita è diventato anche il grimaldello per scardinare la porta e spalancarla ad assegnazioni discutibili e/o fuori controllo, dietro le quali si possono nascondere accordi sottobanco, spartizioni della torta, corruzione. Più facili da celare perché in un settore che riguarda situazioni particolari tutelate dalla legge proprio per la loro peculiarità, si è forse naturalmente portati, da parte delle amministrazioni, ad essere di «manica larga» e a svolgere verifiche meno efficaci e penetranti. È quello che s’è scoperto con l’inchiesta della Procura di Roma ed è ciò che denuncia la relazione degli ispettori dell’Autorità anticorruzione. Agli Enti locali spetta il compito di correre ai ripari e trovare le contromisure adeguate, anche attraverso qualche proposta di riforma. Con l’auspicio che accada senza penalizzare chi, nel cosiddetto settore sociale, si è mosso dentro i confini della legalità, nel rispetto delle regole e delle «buone intenzioni» all’origine delle norme oggi additate come «criminogene».
Squali degli appalti pubblici con gli amici giusti a Palazzo. Fanno affari con la politica, hanno corsie preferenziali per ottenere incarichi e consulenze. E se tanta grazia è ottenuta pagando tangenti nessuno se ne stupisce, scrive Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Gli altri si lamentano delle tasse, loro accendono un cero a San Fisco. I concorrenti maledicono la burocrazia, loro se ne nutrono come linfa vitale. Sono quei fortunati imprenditori nel cui curriculum spicca un'abilità su tutte: avere nella rubrica del cellulare il numero di telefono giusto, dall'usciere al sottosegretario. Il resto degli imprenditori, i Tartassati, combatte su due fronti, concorrenza e malaburocrazia, loro, i Privilegiati, veleggiano nel porto sicuro degli appalti facili. Attenzione: Stato ed enti locali sono spesso pessimi clienti (tuttora rimangono non pagati un terzo dei loro debiti verso le imprese) ma non per tutti. Le intercettazioni dell'inchiesta Mafia Capitale ci hanno rivelato il volto estremo di questo mondo, quello che vede Salvatore Buzzi dire di un consigliere comunale del Pd «me lo so' comprato, ormai gioca con me» e il 23 gennaio 2014 raccontare di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale», scrivono gli inquirenti. Ma non c'è solo il sottobosco perverso delle mazzette. Anche senza le manovre di Buzzi, ora detenuto, la contiguità di un certo mondo imprenditoriale con la cosa pubblica è una garanzia di successo. Proprio ieri l'Espresso ha pubblicato l'interrogazione al ministro Alfano con cui Massimo Artini, parlamentare ex 5 Stelle, elenca 52 appalti dati ad aziende e cooperative coinvolte in Mafia Capitale, come la «29 giugno» o «La Cascina», dopo che Buzzi era già in galera. Si tratta di incarichi di ogni tipo, dall'accoglienza ai migranti ai servizi per anziani e bambini, assegnati in tutta Italia, a Roma, ma anche a Bari, Cagliari, Sassari e Lecco. A scandalo già esploso nella Capitale. Ci sono settori in cui i buoni rapporti con la politica hanno consentito a certi imprenditori di costruire immense fortune: immobili in locazione, rifiuti, sanità, formazione, manutenzioni. A Roma è noto il caso di Sergio Scarpellini, re dei palazzi affittati alle istituzioni. Dal 1997 fino a qualche mese fa ha incassato canoni d'oro anche dalla Camera per i suoi uffici: «Se volevano -ha detto al Fatto l'anziano imprenditore dopo essere caduto in disgrazia - con questo denaro che mi hanno dato, circa 369 milioni di euro, un paio li potevano acquistare». Scarpellini non comprende il perché di tanto astio visto che, racconta, «durante la campagna elettorale vengono qui bianchi, rossi e verdi e noi un contributo lo diamo sempre. A tutti. Gli imprenditori romani fanno così». Non è un caso isolato: lo Stato, pur avendo un patrimonio immobiliare da 281 miliardi, prende in affitto il 40% dei suoi uffici, regalando ad alcuni fortunati padroni di casa un miliardo l'anno. E non è un'esclusiva romana. In Abruzzo ha fatto scalpore la storia di Rodolfo Di Zio, per anni monopolista della raccolta dei rifiuti nella regione, attività che gli ha consentito di accumulare una fortuna prima di finire nei guai con la giustizia. In un'intercettazione spiegava il suo metodo: «Sono apolitico, nel senso che noi non facciamo politica» e ancora: «Non ho rapporti soltanto con la destra, io ce li ho anche con la sinistra». Proprio come gli enti di formazione, spesso legati a sindacati e associazioni di categoria, con la loro industria dei corsi, spesso inutili. L'intero settore è sotto inchiesta ad esempio in Sicilia, ma al netto degli scandali, in Italia in cinque anni si sono tenuti 504mila corsi costati 7 miliardi, dice uno studio del professor Roberto Perotti su Lavoce.info. I risultati? In Italia sarebbero serviti a trovar posto a 233 persone contro 31mila in Germania e 49mila in Francia. In realtà, dice Perotti, non c'è uno studio serio dell'impatto avuto. A parte ingrassare i fortunati enti di formazione e sperperare fondi europei. Che, spiega Perotti, all'Italia costano due euro per ognuno ricevuto: un euro pagato come adesione all'Ue, l'altro aggiunto dallo Stato, tenuto a cofinanziare i corsi. Bell'affare, ma solo per qualcuno.
Le accuse di Buzzi “Da Zingaretti a Marino soldi a tutti i politici”. Da "La Repubblica". Dopo sei mesi di detenzione in quel di Nuoro, a Badu e Carros, il 23 e 24 giugno, nel carcere di Cagliari, Salvatore Buzzi, signore della coop “29 giugno” e uomo chiave di “Mafia Capitale”, ha risposto alle domande del Procuratore aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Paolo Ielo. Nella trascrizione originale depositata dalla Procura, oltre trecentoventi pagine di verbali. Per un interrogatorio che Buzzi ha sollecitato per mesi e che, nelle sue intenzioni e in quelle del suo avvocato, Alessandro Diddi, dovrebbe capovolgerne la posizione processuale. Da carnefice in vittima. Da corruttore, in concusso dalla Politica e i suoi appetiti. Buzzi — come documentano i verbali — ammette tutto ciò cui lo inchiodano le intercettazioni telefoniche, risparmia l’ex sindaco Alemanno («Non sapeva delle tangenti»), definisce la geografia della corruzione nel gruppo consiliare Pd che ha sostenuto la giunta Marino, muove accuse al governatore della Regione Nicola Zingaretti e al suo entourage («Hanno preso soldi»). Anche se spesso non è in grado di distinguere tra fatti e circostanze apprese in prima persona e voci raccolte da terzi o semplici deduzioni. Fa un preambolo, Buzzi. «Io ero convintissimo che il mio fine giustificasse i mezzi e, quindi, diciamo, per un fine nobile ho usato mezzi, diciamo, ignobili. Ho avuto un processo di revisione critica del mio percorso aiutato anche dal cappellano, dal vescovo di Nuoro, e quindi, alla fine, ho ritenuto opportuno aderire all’appello del Papa sulla lotta alla corruzione. E quindi farò chiarezza su tutte le forme di corruzione che io conosco e che ho praticato e che ho subito». Il pm Paolo Ielo, incenerisce l’enfasi: «Guardi, il fine nobile appartiene in qualche maniera alla sfera dell’etica, i mezzi ignobili appartengono alla competenza del mio ufficio. Se vuole cominciare da quelli… ». Ci sono due sindaci (Alemanno e Marino) e un Presidente di Regione (Zingaretti) di cui Buzzi ha intenzione di parlare. Ed è sul governatore che muove con maggior decisione. A cominciare dalla gara da poco meno di 1 miliardo di euro bandita nel 2014 per il centro unico di prenotazioni ospedaliere, di cui Buzzi vincerà un lotto (prima che la gara venga annullata). «La gara era in quattro lotti. Tre andavano alla maggioranza e una all’opposizione. Era l’accordo che Storace aveva fatto con Zingaretti. Poi, al posto di Storace, noi mettiamo in pista Gramazio (Luca, arrestato lo scorso giugno, ndr ). E Zingaretti dice: “Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro (ex capo di gabinetto del governatore, ora indagato, ndr ), ci penso io con lui”. Da quel momento in poi, si parla solo con Venafro. Fatto l’accordo politico a monte con il Presidente, poi parli con il capo di gabinetto. Il capo di gabinetto fa l’accordo con Gramazio, il quale, per essere sicuro che venga rispettato, chiede un membro in commissione aggiudicatrice di gara». C’è dell’altro. Buzzi indica un uomo chiave nell’entourage di Nicola Zingaretti. Peppe Cionci. «Gravita intorno a Zingaretti, è il suo uomo, tiene le sue cose economiche. È l’uomo dei soldi. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui,siamo andati da Cionci. Non ha un ruolo politico. Ha un ufficio vicino alla sede della redazione di Repubblica, in Largo Fochetti. È un imprenditore. Se uno deve fare una campagna elettorale e deve dare dei soldi al comitato di Zingaretti, ti rivolgi a Cionci. Se devi dare i soldi a Marino, ti rivolgi a Cionci. Tutti a Cionci». E c’è un motivo, a quanto pare. Buzzi sostiene di aver saputo da Luca Odevaine (come lui detenuto dal dicembre scorso, ndr ) in quale occasione Zingaretti e il suo entourage sarebbero stati corrotti. «Odevaine mi raccontò che in Provincia (dove era capo della polizia provinciale, ndr ) le operazioni sporche le facevano Cionci, Cavicchia (Antonio, direttore generale della Provincia, ndr ) e Venafro e mi raccontò ‘sta cosa dell’acquisto della sede della Provincia. Il palazzo fu comprato da Parnasi con un pre-contratto di acquisto, praticamente prima ancora che Parnasi costruisse l’immobile. Uno dei due grattacieli dell’Eur (quartiere a Ovest di Roma, ndr ) è diventato la sede della Provincia quando si sapeva già che la Provincia sarebbe stata soppressa. Quindi, viene bandita la gara per cercare la sede della Provincia, vince Parnasi e si incazza tanto Caltagirone, tant’è che il Messaggero fa campagna per giorni su questa storia. Anche perché Parnasi, con questa operazione che vale 180 milioni di euro, si salva dal fallimento. Ovviamente con un contratto in mano di acquisto da parte della Provincia, tutte le banche finanziarono Parnasi. Che da allora si è rimesso in pista e ora farà lo stadio nuovo della Roma». Buzzi riferisce ai pm le parole esatte che avrebbe pronunciato Odevaine: «Luca mi disse: “Che pensi, che ‘sta operazione l’hanno fatta gratis, lì? I soldi che ci hanno fatto Cavicchia e compagnia ci possono andare avanti per generazioni». Il pm Ielo lo interrompe: «Odevaine le disse i nomi di chi avrebbe preso i soldi?». E Buzzi: «Sì. Cavicchia, Cionci, Venafro e Zingaretti. Cionci per Zingaretti, ovviamente». Se dalla Regione ci si sposta al consiglio Comunale, sostiene Buzzi che con la giunta Marino fossero cambiate le regole. «Con Alemanno — spiega — comandavano gli assessori. Con Marino, i dirigenti dei dipartimenti». Mentre l’aula consiliare Giulio Cesare era diventata un suk dove la facevano da padrone i due capi- bastone del Pd, l’allora presidente dell’Assemblea Mirko Coratti e l’allora capogruppo Francesco D’Ausilio (a quest’ultimo, Buzzi sostiene di aver fatto arrivare, attraverso il suo capo segreteria Salvatore Nucera, una tangente da 6.500 euro per una gara per la pulizia delle spiagge di Ostia). «La regola era che si pagava la tangente sul valore del 50 per cento dei lotti di gara. E che, un lotto era indicato dalla politica. Era la politica che decideva a chi doveva essere assegnato». «Pagavate quanto? », chiede Ielo. «Il 3, 4, 5 per cento», risponde Buzzi. Che aggiunge: «Con D’Ausilio ci venne imposta per la prima volta una tassazione sulle gare per il servizio giardini e il V dipartimento (assistenza immigrati ndr.). Diceva D’Auisilio: “Dovete pagare tutto”. Avemmo una discussione. Gli dissi: “Non puoi entrare a gamba tesa sulle coop sociali”. Anche perché non potevo andare da una piccola coop sociale e dirgli “paga D’Ausilio”. Per questo ci accordammo con Nucera che si pagava solo sul 50 per cento dei lotti». Diversa la storia che Buzzi racconta di Alemanno. Sostiene con i pm che, anche in quel caso, fu «costretto a pagare» per non perdere le gare con Ama. «Alla fine, a Panzironi (allora ad della municipalizzata, ndr ) gli ho dato tra 900 mila e 1 milione di euro». Una sanguisuga, «che se lo incontravo pe’ strada, je mettevo le mani addosso». E, tuttavia, di questo fiume di denaro preteso da Panzironi, anche in qualità di segretario della Fondazione Nuova Italia dell’allora sindaco, Alemanno nulla avrebbe saputo. «Io ho la prova indiretta — dice Buzzi — che Alemanno non sapesse che questo acchiappava i soldi in nero. Mi fu data un giorno che venne in visita al Bioparco con il cardinale Vallini l’allora assessore Visconti, Discutemmo di quanto dovevo dare per una gara. E lui mi disse: “Non voglio che Alemanno sappia”».
Le accuse di Buzzi: "Da Zingaretti a Marino soldi a tutti i politici". I nuovi verbali del capo dell'organizzazione: "Tangenti su metà del valore delle gare". "Il patto di spartizione era stato fatto da Storace con Zingaretti, poi noi abbiamo messo in campo Gramazio". "A Panzironi diedi un milione ma Alemanno non sapeva", scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica”. Dopo sei mesi di detenzione in quel di Nuoro, a Badu e Carros, il 23 e 24 giugno, nel carcere di Cagliari, Salvatore Buzzi, signore della coop "29 giugno" e uomo chiave di "Mafia Capitale", ha risposto alle domande del Procuratore aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Paolo Ielo. Per un interrogatorio che Buzzi ha sollecitato per mesi e che, nelle sue intenzioni e in quelle del suo avvocato, Alessandro Diddi, dovrebbe capovolgerne la posizione processuale. Da carnefice in vittima. Da corruttore, in concusso dalla Politica e i suoi appetiti. Buzzi - come documentano i verbali - ammette tutto ciò cui lo inchiodano le intercettazioni telefoniche, risparmia l'ex sindaco Alemanno ("Non sapeva delle tangenti"), definisce la geografia della corruzione nel gruppo consiliare Pd che ha sostenuto la giunta Marino, muove accuse al governatore della Regione Nicola Zingaretti e al suo entourage ("Hanno preso soldi"). Anche se spesso non è in grado di distinguere tra fatti e circostanze apprese in prima persona e voci raccolte da terzi o semplici deduzioni. Ci sono due sindaci (Alemanno e Marino) e un Presidente di Regione (Zingaretti) di cui Buzzi ha intenzione di parlare. Ed è sul governatore che muove con maggior decisione. A cominciare dalla gara da poco meno di 1 miliardo di euro bandita nel 2014 per il centro unico di prenotazioni ospedaliere, di cui Buzzi vincerà un lotto (prima che la gara venga annullata). "La gara era in quattro lotti. Tre andavano alla maggioranza e una all'opposizione. Era l'accordo che Storace aveva fatto con Zingaretti. Poi, al posto di Storace, noi mettiamo in pista Gramazio (Luca, arrestato lo scorso giugno, ndr ). E Zingaretti dice: "Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro (ex capo di gabinetto del governatore, ora indagato, ndr ), ci penso io con lui". Da quel momento in poi, si parla solo con Venafro. Fatto l'accordo politico a monte con il Presidente, poi parli con il capo di gabinetto. Il capo di gabinetto fa l'accordo con Gramazio, il quale, per essere sicuro che venga rispettato, chiede un membro in commissione aggiudicatrice di gara". C'è dell'altro. Buzzi indica un uomo chiave nell'entourage di Nicola Zingaretti. Peppe Cionci. "Gravita intorno a Zingaretti. È l'uomo dei soldi. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui, siamo andati da Cionci". Se dalla Regione ci si sposta al consiglio Comunale, sostiene Buzzi che con la giunta Marino fossero cambiate le regole. "Con Alemanno - spiega - comandavano gli assessori. Con Marino, i dirigenti dei dipartimenti". Mentre l'aula consiliare Giulio Cesare era diventata un suk dove la facevano da padrone i due capi-bastone del Pd, l'allora presidente dell'Assemblea Mirko Coratti e l'allora capogruppo Francesco D'Ausilio (a quest'ultimo, Buzzi sostiene di aver fatto arrivare, attraverso il suo capo segreteria Salvatore Nucera, una tangente da 6.500 euro per una gara per la pulizia delle spiagge di Ostia). "La regola era che si pagava la tangente sul valore del 50 per cento dei lotti di gara. E che, un lotto era indicato dalla politica. Era la politica che decideva a chi doveva essere assegnato". "Pagavate quanto?", chiede Ielo. "Il 3, 4, 5 per cento", risponde Buzzi.
Mafia Capitale, le accuse di Buzzi a Regione e Campidoglio. L’interrogatorio del leader delle cooperative: «Così facevamo le operazioni sporche. Noi costretti a pagare», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lui la descrive così: «Andavo in consiglio comunale e lei non può immaginare la scena qual era. A parte che entravo, ero conosciutissimo, arriva uno “mi assume questo”, ne arriva un altro “mi assumi quest’altro”, “mi sponsorizzi la festa”, cioè una cosa incredibile, non gliela facevo più». Parla Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative accusato con l’ex estremista dei Nar Massimo Carminati di aver guidato l’associazione mafiosa infiltrata nel Campidoglio e nella Regione Lazio. Giura di voler collaborare perché, come specifica il suo avvocato Alessandro Diddi, «vogliamo dimostrare di essere stati costretti a pagare tangenti per lavorare». Insomma «concussi e non mafiosi». Elenca fatti, nomi, circostanze che adesso andranno verificate perché lui stesso ammette che «molte cose me le ha raccontate Luca Odevaine, comprese le operazioni sporche quando era alla Provincia di Roma» ma altre le ha gestite direttamente e i pubblici ministeri di Roma stanno effettuando riscontri anche tenendo conto che su alcuni indagati, in particolare l’ex sindaco Gianni Alemanno, nega episodi già accertati dalle indagini. E lo fanno in vista della richiesta di giudizio immediato, che sarà depositata la prossima settimana. Il 23 giugno il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il sostituto Paolo Ielo entrano nel carcere di Cagliari. Lo interrogano per ore. Affrontano ogni capitolo dell’inchiesta, si soffermano sul ruolo dei politici e dei funzionari. Dichiara Buzzi: «Adesso con Marino i dirigenti decidono di più, prima non decidevano niente. Perché prima era l’assessore che diceva: “Fai questo, fai questo, fai quest’ altro...”. Con la giunta Alemanno decideva l’assessore ovviamente. I consiglieri comunali facevano la mediazione direttamente con l’assessore... Nell’anomalia del Comune di Roma i 78 milioni di euro con Marino li decisero in maniera vaga addirittura senza appalto, quindi c’abbiamo questi meccanismi, capito? Cioè io le vorrei dire una cosa che sembra banale, i vuoti si riempiono, quindi se io non mi occupo delle cose il mio posto viene preso sicuramente da qualcun altro, quindi qual era il nostro problema quotidiano tutti i giorni? Era sbattersi tra la politica e tra i dirigenti, passa’ sui corridoi, assumere persone». Che ci fosse un accordo politico tra il governatore Nicola Zingaretti e il capo dell’opposizione Luca Gramazio (tuttora in carcere per corruzione e favoreggiamento dell’associazione mafiosa) per spartirsi l’appalto regionale del Recup, il numero unico della Sanità, era già emerso poco dopo gli arresti di funzionari e politici. E nell’elenco degli indagati è stato iscritto Maurizio Venafro, il capo di gabinetto di Zingaretti.
Buzzi: «Gramazio va da Zingaretti e gli dice: “guarda, l’opposizione sono io non è Storace, che c’ha un solo consigliere” e quindi l’accordo diventa Zingaretti-Gramazio. Praticamente Zingaretti dice: “Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro, ci penso io con Venafro”. Da quel momento in poi si parla solo con Venafro. Fatto l’accordo politico a monte col presidente poi parli col capo di gabinetto. Gramazio per essere sicuro che l’accordo fosse rispettato chiede che gli venga inserito un membro in commissione... perché era una gara da 90 milioni di euro».
Ielo: «60 + 30, giusto?».
Buzzi: «Sicuramente diventerà da 120, perché con le proroghe... Ora Gramazio si rivolge a Venafro, Venafro gli dice: “Va bene, mi ha trasmesso la cosa il presidente, quindi stai tranquillo uno (lotto ndr ) è il tuo. Quale vuoi?”. E noi gli diciamo: “Vogliamo il 4”, invece poi ci danno il 3, insomma uno dei due più piccolini».
«L’uomo dei soldi» Quando parla di soldi da versare ai politici Buzzi indica «Peppe Cionci, l’uomo di Zingaretti».
Buzzi: «Tiene le cose economiche di Zingaretti».
Ielo: «Cosa intende per “l’uomo dei soldi”?».
Buzzi: «Perché se uno deve fare una campagna elettorale e se deve dare i soldi al comitato di Zingaretti si rivolge a Cionci, se devi dare i soldi a Marino, ti rivolgi a Cionci, tutti a Cionci. È un uomo abbastanza conosciuto a Roma».
Ielo: «Per i finanziamenti per Zingaretti?».
Buzzi: «Esatto».
Non solo. Aggiunge Buzzi: Quando abbiamo dato i famosi 30 mila euro a Marino abbiamo fatto un bonifico tracciabile, attraverso Cionci». E giura di aver parlato direttamente con lui. Lo cita anche quando ricorda che «nel 2008 Zingaretti vince le elezioni provinciali e Odevaine viene nominato capo della polizia provinciale. Lui c’ha questa conoscenza con Zingaretti, con Venafro e con Cavicchia, Cavicchia era il segretario generale della Provincia. E mi raccontò che le operazioni sporche lì le facevano Cionci, Cavicchia e Venafro e mi raccontò ‘sta cosa dell’acquisto della sede della Provincia». Buzzi specifica di non avere conoscenza diretta della vicenda «non gli so dire tutti i passaggi, glieli dico così», però dichiara a verbale: «La sede della Provincia fu comprata da Parnasi con contratto di acquisto praticamente prima ancora di costrui’ l’immobile... Quindi viene bandita la gara, vince Parnasi, si incazza tanto con Caltagirone, tant’è vero che il Messaggero fa campagna per giorni e giorni su questa storia, perché ovviamente Caltagirone se perde un metro cubo si arrabbia e anche perché Parnasi facendo questa operazione si salva dal fallimento. Operazione che vale 180 milioni di euro». Prestipino è lapidario: «Lei ci deve dire quello che sa lei non quello che ha letto sul Messaggero ».
Buzzi inguaia il governo: Alfano e Lupi sapevano. Il re delle coop accusa: "Quelli della Cascina in contatto con l'ex ministro, gli pagavano le campagne elettorali". E sul leader Ncd: "Avevano creato il sistema del Cara in Sicilia", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. La sua frase «sul Cara di Mineo casca il governo» ha creato a Salvatore Buzzi qualche problema nel carcere sardo dove è rinchiuso per Mafia Capitale. È lui stesso a raccontarlo in uno dei cinque interrogatori resi tra giugno e luglio al pm Paolo Ielo e al procuratore aggiunto Michele Prestipino nei quali ha svelato il diffuso «sistema» della corruzione della politica romana in cambio di appalti. Ai magistrati racconta che in carcere si è creata una vera e propria «psicosi» e che il suo compagno di cella, dentro per traffico di droga, è preoccupatissimo: «Ah, mo tu rientri qui i servizi segreti, Alfano, ci ammazzano a tutti e due, perché non te ne vai?». E il comandante che al suo ritorno dall'interrogatorio gli chiede se è sicuro di voler rientrare in sezione. I magistrati ascoltano lo sfogo di Buzzi e gli consigliano di parlare il meno possibile. Poi l'interrogatorio, che era partito dagli appalti del Comune di Roma, punta alla gara di Mineo, per la quale è indagato il sottosegretario Giuseppe Castiglione. Anche di lui parla Buzzi, seppur le sue dichiarazioni debbano essere ancora verificate dalla Procura. Molte delle cose che il ras delle cooperative racconta su Mineo sostiene di averle sapute da Luca Odevaine. E racconta del «famoso pranzo» con la sedia vuota in cui Castiglione avrebbe detto che era per «quello che deve vincere la gara». Una sedia che poi, dice, sarebbe stata riempita. Buzzi racconta di Odevaine, che prendeva 10mila euro al mese dalla cooperativa «La Cascina» che gestisce il Cara perché gli faceva vincere le gare e dei 100mila euro che gli doveva dare la coop bianca, in ritardo a suo dire di dieci mesi nei pagamenti. Ma il vicepresidente della coop, Ferrara, si arrabbia. E dice: «Sta sempre a chiedé, gli abbiamo pure ristrutturato un appartamento in via Sicilia». E proprio Ferrara avrebbe raccontato a Buzzi che, anche se Odevaine era nella commissione che aggiudicava gli appalti, loro non ne avrebbero avuto bisogno perché avevano rapporti con Maurizio Lupi, «al quale finanziavano le campagne elettorali, perché lui il ministro Lupi è vicino a Comunione e Liberazione quindi aveva messo in contatto...». Ma il ras delle coop dice di non sapere se i finanziamenti fossero in bianco o in nero. Lupi, dice, li aveva messi in contatto con Pizzarotti, il proprietario del residence individuato dal governo per ospitare alcune migliaia di migranti. Ma Buzzi va oltre: «Poi c'avevano un rapporto diretto addirittura con il ministro Alfano». Il pm gli chiede di spiegare meglio. «Significa - spiega Buzzi - che lo conosceva, c'aveva rapporti diretti con Alfano, avevano creato un sistema giù in Sicilia, intorno a Mineo, che è un sistema perfetto perché la gara che consegna ad Odevaine consente di distribuì i soldi a pioggia sul territorio. Nel senso che i comuni venivano premiati con circa due, tre milioni di euro, non lo so, però è tutto in chiaro, da lì.... Centro di accoglienza di quelle dimensioni in un territorio così piccolo». I pm insistono sul ruolo di Lupi: «Lupi li mette in contatto con Pizzarotti, loro se c'avevano problemi potevano rivolgersi addirittura al ministro, il presidente de La Cascina conosceva il ministro, “quindi a noi che ce frega”». Ai magistrati interessa il ruolo del ministro Alfano e quello dell'ex ministro Lupi e vogliono sapere se per questa gara sono arrivati per loro benefici economici. Ma Buzzi frena: «Assolutamente no». A Castiglione, invece, Buzzi attribuisce un «ruolo di mediatore politico»: «Mette insieme nove comuni, destina 400 assunzioni a 9 comuni, lì so 400 persone che lavorano». Alla fine torna la frase sul governo che cade per Mineo. Il procuratore aggiunto Prestipino chiede a Buzzi di spiegarla. E lui: «Bè, il fatto che il ministro Lupi mette in contatto La Cascina con Pizzarotti, che Castiglione è coinvolto così pesantemente nella cosa qualche fibrillazione.... Poi è una frase ad effetto, io ne dico tante, quindi... È una questione politica...». Ma Lupi prendeva soldi dalla Cascina per metterla in contatto con Pizzarotti, vuole sapere il pm? «Questo me lo dice Odevaine che il gruppo La Cascina finanziava, mo saranno stati in chiaro, Comunione e Liberazione e Ncd che erano organici all'Ncd».
Mafia Capitale, "Alfano risponda sugli appalti". Accoglienza, trasporto, mense scolastiche, centri interculturali. A Roma, ma anche a Bari, Cagliari, Sassari, Lecco. Affidate alle coop coinvolte nel caso. Un'interrogazione parlamentare chiede spiegazioni al ministro, scrive Francesca Sironi su "L'Espresso". Undici strutture per migranti. Più servizi di mensa, accoglienza, trasporto di anziani e bambini. E progetti culturali. E appalti nelle scuole medie o elementari. Ci sono ancora molti contratti nelle mani delle coop coinvolte nell'indagine " Mafia Capitale " della procura di Roma, ora commissariati dal prefetto Franco Gabrielli. Troppi, secondo Massimo Artini, parlamentare del gruppo "Alternativa Libera" (composto da fuoriusciti del Movimento 5 Stelle), che ha presentato un'interrogazione al ministro dell'Interno Angelino Alfano per chiedere spiegazioni in merito. Il presupposto è che molti degli appalti ora affidati a Gabrielli siano stati assegnati ai gruppi "Casa della Solidarietà", "La Cascina", " Domus Caritatis " e "Osa Mayor" dal comune di Roma nel corso del 2015, quando i dettagli dell'inchiesta circolavano da tempo. Certo, senza imputazioni (arrivate per questa seconda tranche il 4 giugno), ma con informazioni rilevanti già accessibili a tutti. In particolare il dipartimento politiche sociali di Roma ha continuato ad assegnare servizi di accoglienza per gli immigrati o i nomadi a società delle reti La Cascina fino al 29 maggio del 2015, con appalti - molti dei quali nel rifornimento mensa delle scuole di diversi municipi - destinati a durare fino al 2017. Oltre alle gestioni romane, ci sono poi altri pezzi che vanno a comporre 52 appalti in tutto il territorio. Le prefetture infatti hanno assegnato a società dei gruppi coinvolti posti da gestire per i richiedenti asilo a Bari, Cagliari, Sassari e Lecco. Possibile che non fosse sorto alcun dubbio?
Ecco la mappa della corruzione disegnata dagli studenti. Il progetto coinvolge mille ragazzi: per mesi hanno raccolto dati e testimonianze sulla corruzione in Lazio, Campania e Lombardia. Produrranno un "Atlante" che la fotografa nei loro quartieri, scrive Manuel Massimo su “La Repubblica”. Da discenti a docenti: gli studenti del progetto per la legalità "Piccolo Atlante della corruzione", dopo aver indagato il fenomeno sul campo e raccolto in forma anonima le testimonianze dei soggetti a rischio, si stanno preparando alla lezione conclusiva di fine maggio che li vedrà protagonisti. Saranno proprio loro a salire in cattedra per "insegnare" quello che hanno imparato dai tutor e agli esperti che li hanno seguiti nel corso del laboratorio - ideato e promosso da Beatrice Ravaglioli del circolo "Libertà e Giustizia" di Roma, finanziato dal Miur, sostenuto attivamente dall'Autorità nazionale anticorruzione, dall'Associazione nazionale magistrati e in collaborazione con l'Università di Pisa e con Repubblica.it. I materiali prodotti dalle 15 scuole aderenti al progetto confluiranno nel "Piccolo Atlante della corruzione": una pubblicazione scaricabile gratuitamente online che potrà essere utilizzata anche dagli addetti ai lavori che ogni giorno combattono per la legalità. Questa seconda edizione del progetto (2015) - partito lo scorso anno in via sperimentale solo a Roma e nel Lazio e allargato quest'anno anche alla Campania e alla Lombardia - ha visto la partecipazione di oltre mille ragazzi, studenti delle scuole superiori, che hanno mappato la percezione del fenomeno "corruzione" nei territori accanto ai loro istituti grazie a questionari (somministrati anonimamente a una varietà di soggetti potenzialmente interessati dal problema, ndr) messi a punto seguendo le indicazioni del professor Alberto Vannucci, politologo e direttore del Master anticorruzione presso l'Università di Pisa. Non si è trattato di un modello di didattica calata dall'alto, ma piuttosto di un processo attivo di raccolta ed elaborazione dei dati, come spiega Vannucci: "Nelle fasi iniziali noi docenti ed esperti abbiamo fornito ai ragazzi gli strumenti d'indagine: poi sono stati loro a elaborare da soli il questionario mappando i settori più a rischio e diventando protagonisti". Dopo aver ascoltato dal vivo le testimonianze di giornalisti sotto scorta come Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria per Repubblica, gli studenti hanno intrapreso un percorso di studio sul campo, indagando nei meandri del sommerso e diventando giovani "sentinelle della legalità" anche in contesti difficili dove la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa sentire. Ogni scuola ha elaborato autonomamente un questionario specifico, partendo da una base comune ma modellandolo sulle peculiarità del proprio territorio. Un'operazione che fornirà una mappa diversificata e territoriale della corruzione, partendo anche da casi concreti. L'elemento della comparazione è fondamentale in questo tipo di studi, ne è convinto il professor Vannucci che auspica un ulteriore allargamento del progetto: "Dopo l'esperienza-pilota dello scorso anno e questa seconda edizione che ha coinvolto anche altre due Regioni, da studioso del fenomeno spero che il progetto possa crescere ancora. I ragazzi coinvolti hanno sviluppato gli anticorpi per la legalità e maturato una fiducia critica nelle Istituzioni, perché troppo spesso la sfiducia radicale nasce dall'ignoranza ed è lì che bisogna andare a stimolare la presa di coscienza su determinati temi". Il "Piccolo Atlante della corruzione" sarà composto da 15 parti - una per ciascuna delle scuole coinvolte nel progetto itinerante per la legalità - e scatterà un'istantanea del fenomeno che potrà essere utilizzata come base di ulteriori indagini e approfondimenti della magistratura. Uno strumento utile, soprattutto oggi che la corruzione si è "smolecolarizzata" e troppo spesso riesce a passare inosservata, come sottolinea Vannucci con tre aggettivi: "Sotterranea, invisibile, impercettibile". Portare a galla il sommerso rappresenta dunque il primo passo per guardare dritto negli occhi il problema, prenderne coscienza e impegnarsi in prima persona per cercare di risolverlo. I tre incontri finali - uno in Lombardia, uno nel Lazio e uno in Campania - si stanno avvicinando e gli studenti sono pronti a salire in cattedra: l'appuntamento di Napoli è fissato per mercoledì 20 maggio a partire dalle ore 10 presso l'Istituto di Istruzione Superiore "Sannino-Petriccione"; già calendarizzato anche l'incontro di Roma, che si terrà la mattina di venerdì 29 maggio nell'aula magna dell'Università Sapienza, alla presenza tra gli altri del presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e con la partecipazione dell'attore Elio Germano. I ragazzi, sentinelle di legalità, hanno studiato la corruzione nelle strade che percorrono tutti i giorni per andare a scuola e ora sono pronti a salire in cattedra per parlarne in pubblico: un piccolo passo individuale per ciascuno, ma un grande esempio collettivo per tutti nella lotta alla corruzione.
Corruzione? Tutto il mondo è paese, scrive Alessandro Bertirotti su “Il Giornale”. È tutta questione di… disonestà. Abbiamo letto in molte classifiche che la nostra meravigliosa nazione è fra gli ultimi posti rispetto alla capacità di combattere la corruzione, e dunque ai primi per il numero di casi in cui tale reato è presente. E questo, ovviamente, assieme a molte altre cose non positive rappresenta per noi tutti un disonore, specialmente quando i rappresentanti di questo reato sono persone che vengono definite “onorevoli”. Scritto questo, è interessante sapere che anche nel mondo islamico esiste un divieto a procurare corruzione, come ad accettare di essere corrotti, e lo si legge nella seconda Sura. I corrotti sono coloro che non rispettano le leggi che Allah ha fornito agli uomini per vivere in pace fra loro; sono coloro che al posto di conciliare spargono divisioni e male per il prossimo; coloro che rubano, non sono leali e sfruttano la fiducia degli altri per il proprio personale tornaconto. Insomma, anche per il Corano questo comportamento viene profondamente sanzionato ed è considerato un vero e proprio oltraggio ad Allah, il quale giungerà a vendicarsi con questi suoi figli fedifraghi. Ebbene, qualche giorno fa, ho incontrato una persona che mi raccontava di essersi recato a Roma in una ambasciata di un Paese arabo, imbattendosi in un funzionario che per un documento ha rilasciato una ricevuta di Euro 25,00, chiedendone però 50,00. La motivazione è stata che, avendo la richiesta le caratteristiche dell’urgenza, vi era il costo aggiuntivo di 25,00 euro, fuori ricevuta, ovviamente. Bere oppure affogare, proprio come accade da noi quando andiamo da un professionista che non ci rilascia la ricevuta con il giusto prezzo pagato. Ho l’impressione che le classifiche che vengono stilate su questo tipo di comportamento umano, non tengano conto di quanto il concetto di corruzione sia diventato pervasivo, anche all’interno di quei paesi che ci sembrano tanto diversi da noi. E sono anche convinto che tale situazione sia rinvenibile in altri paesi, ad esempio in quelli del Nord Europa, perché la questione non è legata solo alla morale religiosa, ma anche a quello che ogni individuo pensa di se stesso. In sostanza, non lamentiamoci dei nostri ladri perché i ladri abitano l’intero mondo e non dipende dalla religione professata se una persona si comporta male con il mondo intero, quanto dall’asservimento che la mente umana, di qualsiasi cultura essa appartenga, accorda al dio denaro. È il dio denaro che governa come un Principe questo mondo, e servirlo significa dedicare molti atti della propria vita a comportamenti come questi, dimenticando che il libero arbitrio lo possiamo esercitare in tutte le cose della vita quotidiana, anche nelle più piccole.
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali.
Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».
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Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.
Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.
Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009 aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.
61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.
Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.
Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.
L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).
E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.
Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.
I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane. Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.
Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)
In Europa:
Italia 33.200.000
Francia 350.000
Svizzera 200.000
Austria 650.000
Corsica 300.000
Altre parti d'Europa 300.000
Totale 35.000.000
Altrove:
Brasile 1.000.000
Rep. Argentina 620.000
Altre parti del Sudamerica 140.000
Stati Uniti 1.200.000
Africa 60.000
Totale 3.020.000
Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000
A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910 negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani). Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita, come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani ha raggiunto proporzioni ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.
Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:
Settentrionali
New York 94.458
Pennsylvania 59.627
California 50.156
Illinois 33.525
Massachusetts 22.062
Connecticut 13.391
Michigan 13.355
New Jersey 12.013
Colorado 9.254
Meridionali
New York 898.655
Pennsylvania 369.573
Massachusetts 132.820
New Jersey 106.667
Illinois 77.724
Connecticut 64.530
Ohio 53.012
Louisiana 31.394
Rhode Island 30.182
West Virginia 23.865
Michigan 15.570
California 15.018
Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.
L’ARTISTA DE SINISTRA
Il razzismo, se sa, è brutta robba.
È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.
Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta
è l’intellettuale quanno rutta.
Quanno se erge cor dito moralista
e come er Padreterno,
dei buoni e dei cattivi fa la lista.
Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,
è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente
de chi se crede sempre er più sapiente.
Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’
e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno
de chi è convinto che deve lascià un segno.
L’artista de sinistra in tracotanza,
dall’alto del suo ego trasformato,
diventa un drogato de arroganza.
Lui se convince de esse come un Faro,
invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.
Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...
Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.
Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».
Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia. L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri? Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.
I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.
L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").
Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.
Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.
Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.
La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!
Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.
Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.
Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.
Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia".
Ritorsioni se dici la verità: sì, ma come si fa a tacere queste mascalzonate?
Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano.
La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”.
"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”.
Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.
Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?
E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.
Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.
Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.
Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.
Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.
Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".
"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.
Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”
Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.
Da quale pulpito vien la predica?
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.
Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.
Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.
La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.
Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo 22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata». Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».
Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato adottava un atto o un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".
Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.
1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989. Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.
2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.
3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.
4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.
5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf. A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.
6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.
7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.
8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».
9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.
10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset. Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.
11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».
12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.
13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».
10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.
Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata, facesse arrivare il “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.
Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.
Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.
Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».
Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…
«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».
Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?
«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».
Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?
«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»
Perché?
«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».
Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?
«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»
Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?
«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».
Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?
«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».
A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?
«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».
Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.
«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa frequenza».
Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?
«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».
Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?
«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».
Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?
«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».
Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti? E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici, imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti. La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?
Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.
50% circa di astensione al voto; 5% circa di schede bianche o nulle; 25% di voti di protesta e non di proposta ai 5Stelle. Solo il 20% di voti validi (forse voti di scambio). Chi governa ha solo un elettore su 10 che lo ha scelto e si vanta pure di aver vinto. Che cazzo di democrazia è?
Elezioni 2015. Il partito invisibile, scrive Alberto Puliafito, direttore responsabile di "Blogo.it" e Carlo Gubitosa su “Polis Blog”. Un viaggio nel mondo di tutti coloro che non vengono raccontati dalla comunicazione politica, che non vengono rappresentati, che non votano. Dopo il voto regionale, la comunicazione politica si è concentrata, come al solito, su "chi vince". E hanno vinto tutti, chi per un motivo chi per l'altro. Noi, per un primo commento, ci siamo concentrati su chi ha perso. E fra i motivi della sconfitta annoveravamo l'impressionante tasso di astensionismo. I dati che proponiamo qui, grazie al lavoro di Carlo Gubitosa, dovrebbero, secondo chi scrive, essere pubblicati ovunque. Il giornalismo dovrebbe, una volta per tutte, dedicare i propri titoli alle rappresentazioni numeriche realistiche della situazione della rappresentanza politica in Italia, invece di rincorrere le dichiarazioni di Renzi, Grillo, Salvini o altri. Invece di pubblicare i tweet con il presidente del consiglio che gioca ai videogiochi, sapientemente diffusi da chi si occupa di comunicazione per conto di Palazzo Chigi, le gallery per fare click potrebbero essere, senza alcun problema – lo sappiamo che i click vanno fatti – gallery di grafici come questi. Guardare quelle fette grigie di non rappresentati fa rabbrividire ma è necessario per impostare una narrazione giornalistica corretta. Ecco perché, quando Carlo mi ha proposto questo lavoro, ho accettato con entusiasmo. Per offrire un servizio ai nostri lettori e per imparare io stesso. Questo è vero data journalism. Per i partiti contano i propri voti, per la politica contano solo i voti validi, per il ministero dell'interno contano solo gli elettori. E se invece provassimo a contare le persone? I grafici che nessuna formazione politica vorrà mai mostrarvi rivelano il peso numerico della "maggioranza invisibile", quella che non può, non vuole o non sa indicare una rappresentanza nelle urne. Sono gli astensionisti, i delusi dalla politica, ma anche gli stranieri e i minori, una fetta di popolazione che diventa “invisibile” nei sondaggi, nel dibattito politico e nelle analisi post-voto. Abbiamo provato ad analizzare i dati ufficiali del voto alle regionali incrociandoli con i numeri dell’ISTAT e aggiungendoci una semplice curiosità di partenza: scoprire cosa succede se oltre ai SEGGI ASSEGNATI e ai VOTI VALIDI misurati dalle percentuali iniziamo a contare anche i VOTI TOTALI (includendo anche chi ha votato scheda bianca, nulla o annullata), il NUMERO TOTALE DI ELETTORI (includendo anche chi è stato a casa), e anche il NUMERO TOTALE DI RESIDENTI, stranieri inclusi (per contare anche chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche senza esercitare il diritto di voto). Per semplificare l’analisi del voto, operare una indispensabile sintesi sulla varietà di liste e di coalizioni presenti nelle varie regioni, abbiamo individuato sette macroblocchi politici per il conteggio dei voti validi: Renzisti - Berlusconiani - Salviniani - Grillisti - Sinistra - Destra - Altri. Sono state introdotte delle approssimazioni per eccesso che sovrastimano l’affluenza alle urne, ad esempio contando come due elettori anche il “voto doppio” espresso da una stessa persona per una lista e per il candidato presidente. Anche con queste approssimazioni, tuttavia, la consistenza numerica dei “non rappresentati” resta notevole. Trattandosi di nostre elaborazioni su dati ufficiali (con la fatica di dover trasporre numeri strappati a fatica da PDF, pagine web e ogni tipo di dato in formati non aperti che la pubblica amministrazione e’ stata in grado di produrre) non possiamo escludere refusi ed errori, e ringraziamo in anticipo tutti quelli che vorranno segnalarci eventuali imprecisioni.
La Campania e il partito della scheda bianca. Nel disinteresse generale (tanto le poltrone si sono già spartite) a ben quattro giorni dal voto arrivano i dati definitivi della Campania, dove chi conta le persone e non le poltrone registra 170mila tra schede bianche e nulle, un partito che vale il 7% dei voti validi, ben più del valore previsto dal sistema elettorale campano come soglia di sbarramento per le liste. Potremmo chiederci se questo 7% di Campani è composto da quella gente egoista, pigra e disinteressata alla cosa pubblica descritta dai partiti che fomentano l'astensionismo per poi demonizzare chi lo pratica, o più semplicemente si tratta di persone a cui è negata rappresentanza politica e quel minimo di alfabetizzazione necessaria a non farsi annullare la scheda. Un dettaglio interessante per la Campania è quello della lista "SINISTRA AL LAVORO", l'unica lista tra quelle esaminate finora ad avere un numero di preferenze inferiore a quelle ricevute dal candidato governatore, presumibilmente frutto di un voto disgiunto che ha indicato come candidato presidente quello di un grande partito di massa con maggiori probabilità di vittoria, ma ha voluto comunque esprimere un voto "ideologico" con preferenze di lista collocate nettamente a sinistra. A quanto pare, quando si tratta di scegliere un candidato col voto "utile" l'elettorato si sposta verso il centro e verso i partiti acchiappavoti, ma il nostro panorama politico potrebbe essere ben più variegato se si potesse esprimere un "voto di orientamento" per chi ci convince, in abbinamento al "voto utile" per chi ci dà maggiori probabilità di vincere. E' quello che nell'era pre-italicum e pre-porcellum avveniva col voto proporzionale di lista, che nel vecchio sistema elettorale si affiancava al voto maggioritario come "correttivo".
Il Veneto e il suo invisibile "partito migrante". In Veneto il dato di rilievo è il "partito dei senza voto", quel 21,9% di persone che pur vivendo in quella regione non può votare perché non ne ha ancora il diritto o perché essendo straniero quel diritto non ce l'ha mai avuto. Un blocco di elettori pressoché equivalente al 22,9% di astensionisti, a sua volta speculare al 22,9% di Salviniani, dove la componente migrante pesa per il 12,4% della popolazione residente, più del consenso raccolto dal PD che in questa regione si ferma al 12,1%. Il dibattito politico ci mostra a seconda degli schieramenti il ritratto di una regione Leghista, o di una regione dove trionfa il disimpegno e l'astensionismo, ma nessuna delle "fotografie politiche" mostrate dai mezzi di comunicazione di massa si allarga ai dati sull'intero insieme della popolazione, per mostrare la fotografia di una regione dove un veneto su cinque non può esprimere rappresentanza politica, e il 12,4% della popolazione residente con tutta probabilità sarebbe ben contento di prendere le distanze sia dal blocco leghista che da quello astensionista, esprimendo un "voto migrante" che molti temono, qualcuno auspica, ma nessuno si decide a garantire. Nel frattempo un qualunque italiano che si trasferisce in uno dei paesi dell'eurozona può istantaneamente godere di tutti i diritti civili e politici del paese che lo ospita, anche se non vi aveva messo piede fino al giorno prima, diritti che invece sono negati ai "veneti col passaporto sbagliato", anche se vivono e lavorano in Italia da anni.
Elezioni comunali 2015, l’Italia senza quorum: ecco i paesi allergici alle urne, scrive “Il fatto Quotidiano”. A Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. A Platì e San Luca, due centri reggini sciolti per mafia vince l'astensione: non si presentano candidati, figurarsi gli elettori. Nel Vibonese, a Spilinga, solo uno su dieci va a votare. E il sindaco non viene eletto. C’è un’Italia senza quorum. Mentre si affastellano analisi e reazioni sul dopo voto un piccolo pezzo di Paese ha preso il largo dalla politica. Sono i cittadini di piccoli e medi comuni che nel dieniego dell’urna hanno ingrossato il dato dell’astensione, fino a produrre risultati emblematici e paradossali. Tra i tanti spicca Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, dove si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. Cinque voti in tutto. Quorum, non pervenuto. Accade anche questo alle amministrative in Abruzzo: colui che, peraltro, era l’unico candidato, Roberto Di Pietrantonio della lista civica “Tricolore”, ha incassato un solo voto valido, a fronte di 2 schede bianche e 2 nulle. Il piccolo centro montano dell’Aquilano dovrebbe quindi essere retto da un commissario prefettizio reggente fino a nuove elezioni. Non è l’unico caso. Questa tornata è stata un tripudio di candidati, con quasi mille aspiranti consiglieri solo in Puglia. Ci sono comuni con numerosi candidati a sindaco, ma anche tanti comuni dove i candidati si contano sulle dita di una mano e anche meno. In Sicilia, ad esempio, c’è ne sono addirittura due con un unico candidato per comune. Si tratta dei candidati di due comuni del palermitano: Domenico Giannopolo, a Caltavuturo, e Giuseppe Abbate, a Lascari. Per potere essere eletti andava superato il quorum dei due comuni. E il quorum è stato raggiunto in entrambi i comuni del palermitano. Passando alla Lombardia il caso più strano, forse, è quello dei quattro candidati unici nessuno dei quali ha raggiunto il quorum. Sembrava una vittoria facile invece Daniele Boldrini, l’unico candidato sindaco che si è presentato alle elezioni a Brezzo di Bedero, comune con circa 1.200 abitanti della provincia di Varese, non è stato eletto per mancanza del quorum. E lo stesso è accaduto a Claudio Terzi che era l’unico in lizza a Filago nel Bergamasco, a Mario Locatelli, che correva da solo a Locatello (Bergamo) e a Massimiliano Sacchi a Giussago (Pavia). Vai a sapere il perché. Sono invece note le ragioni che hanno portato in Calabria a un risultato pari a zero: nessun sindaco è stato eletto in due comuni sciolti per mafia. Il turno elettorale del 31 maggio non ha portato all’elezione di un’amministrazione comunale a Platì e San Luca, due dei diversi centri reggini dove si tornava alle urne dopo un periodo di commissariamento a seguito dello scioglimento per infiltrazioni mafiose. A Platì non sono state presentate liste, mentre a San Luca ne era stata presentata una ma non ha raggiunto il quorum. Il 43,09 per cento dei cittadini che si è recato alle urne non è stato sufficiente a decretare sindaco Giuseppe Trimboli, a capo di una lista civica. Nell’unico comune capoluogo al voto, Vibo Valentia, a poche sezioni da scrutinare alla fine, Elio Costa si impone con oltre il 50 per cento sugli altri candidati, distaccando di oltre dodici punti il candidato de Pd Antonio Lo Schiavo. Tra i comuni con oltre quindicimila abitanti, a essere eletto con l’82,04 per cento è Pietro Fuda a Siderno (Reggio Calabria). Politico di lungo corso, era sostenuto dal centrosinistra. Primo partito nella cittadina jonica è il Centro Democratico che supera di poco il Pd. Vince l’Italia senza quorum anche a Spilinga, secondo quanto riporta il sito del Ministero dell’Interno, non si è raggiunto il quorum del votanti e le elezioni comunali non sono valide. L’unico candidato sindaco era Francesco Dotro, con la lista civica Insieme per Spilinga. Gli elettori complessivi sono 1.884 ed i votanti sono stati 576, pari al 30,57%. Dotro ha ottenuto 552 voti. Dieci le schede bianche e 14 le nulle. I cittadini, nonostante i movimenti estemporanei come i 5 Stelle che attraggono i voti di protesta, non vanno a votare e molti di quelli che ai seggi ci vanno presentano scheda bianca o, addirittura, annullano la scheda con segni di disapprovazione e scherno. Il messaggio è chiaro. Perché schifati dagli impresentabili presentati e/o da una democrazia ”virtuale” costruita nei salotti televisivi e dai TG in barba a qualsiasi forma di democraticità della comunicazione elettorale. Senza elettori non c’è democrazia e l’attuale offerta politica che c’è sul campo non riesce ad attrarre e a convincere gli elettori che non vanno più a votare. Altre offerte politiche sul campo sono ignorati, pur avendo una specifica proposta politica utile – se solo fosse possibile conoscerla e discuterla – a far uscire il Paese dalla sua ”flagranza criminale”. Vero è come «media di regime asserviti al governo» (ma io direi al regime della partitocrazia), hanno la gravissima responsabilità di negare – in modo sistematico – agli italiani di conoscere le proposte politiche di riforma e le visioni di nuovi leader. Tutto ciò porta il singolo, non avendo la forza dirompente, ad avere disgusto.
Il disgusto che porta a non andare più a votare. L'astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali. E colpisce anche le regioni rosse, ma sono sempre di più quelli che ritengono la politica italiana impotente e incapace di risolvere i problemi. Mentre i flussi elettorali spiegano che i travasi di voti tra i partiti sono limitati. Il vero vincitore delle elezioni regionali 2015 è stata l’astensione, scrive Alessandro D’Amato su Next Quotidiano”. Su quasi 19 milioni di elettori chiamati alle urne, appena il 45%, 8 milioni e mezzo, ha espresso un voto valido ad una lista; oltre 9 milioni, il 48%, si sono astenuti. E la tendenza al non voto diventa sempre più impressionante nella crescita dei numeri, e comincia a colpire anche le aree più affezionate al rito elettorale. In queste tabelle pubblicate oggi da Repubblica l’Istituto Cattaneo analizza storicamente la crescita dell’astensione al voto dalle Regionali del 2010 fino a quelle del 2015 nelle regioni chiamate al voto. I ricercatori dell’Istituto Cattaneo Dario Tuorti e Maria Regalia hanno messo insieme le serie storiche del voto regionale confrontandolo con quello per le politiche ed europee. E alla fine cifre e grafici rivelano che l’astensionismo alle Regionali è ormai di lunga durata. Ma soprattutto che domenica si è manifestato in maniera più forte nelle “regioni rosse”. Il primato è della Toscana, dove rispetto alle politiche del 2013 c’è un calo dell’affluenza del 30,9%. Il raffronto con le Europee dell’anno scorso dice meno 18%. Anche nelle Marche manca all’appello il 30% per cento dei votanti delle politiche e il 15,8% delle Europee. E in Umbria le due percentuali dicono meno 24,1% e meno 15,1%. E anche in Liguria la disaffezione si è fatta sentire con un meno 10 per cento rispetto alle due precedenti tornate elettorali. Tuorti spiega che «il fenomeno si spiega con il fatto che in queste regioni c’erano aspettative molto elevate che sono state tradite. Ovviamente incidono anche la crisi che va avanti dal 2008 e gli scandali che hanno colpito i consigli regionali, la delegittimazione complessiva dell’istituto regionale». E in effetti, dicono al Cattaneo, anche se potrebbe sembrare un paradosso, gli elettori oramai percepiscono più importanti le elezioni Europee che quelle regionali. Interessante anche il ragionamento dei ricercatori dell’Istituto a proposito delle regioni del sud: «Nel passato – spiega Tuorti . una certa astensione esprimeva una forma di protesta verso il partito di appartenenza, un messaggio di disapprovazione. C’era insomma una forma di partecipazione attiva anche nell’astensione e si poteva tranquillamente tornare a votare al turno successivo». Oggi, continua il ricercatore del Cattaneo «siamo di fronte ad una massa di elettori che scivolano dall’astensionismo “attivo” verso l’altra forma, quella dell’apatia che tende a tenerli costantemente lontano dai seggi. I cittadini cominciano ad essere sempre di più disillusi davanti alla mancanza di risposte».La cosa grave di questo fenomeno -continua il ricercatore del Cattaneo, «è che l’astensionismo non è distribuito equamente fra le diverse fasce degli elettori,ma rappresenta solo certe fasce sociali che coinvolge disoccupati, marginali non garantiti». Ancora più interessante è l’analisi dell’istituto Demopolis presentata ieri a Otto e Mezzo nel Punto di Paolo Pagliaro. Nella prima tabella si nota che anche nel computo dei votanti c’è chi ha scelto di votare solo per il governatore o ha espresso un voto non valido. Si tratta del 7% del computo totale dei voti, e anche qui si tratta di persone che hanno scientemente deciso di non votare per un partito pur presentandosi alle urne. Ancora più interessante è la tabella delle motivazioni che fa parte dell’analisi dell’istituto. Il 40% ha deciso di non andare a votare perché, a suo parere, la politica in Italia non incide più sulla vita reale dei cittadini. E qui sarebbe interessante chiedere a chi ha risposto in questo modo se invece ritiene che la politica europea sia più incisiva di quella italiana nella vita dei cittadini: la sintesi del ragionamento sarebbe stata più interessante. Il 27% invece dice che non si sente rappresentato dai partiti votati in precedenza, mentre il 25% ha scarsa fiducia nei candidati a livello locale. Rimane un buon 8% che dice che l’esito delle elezioni appariva scontato, e quindi probabilmente si presenterà alle urne in occasioni in cui ci sarà un maggiore equilibrio alle urne o si voterà per le elezioni politiche. Infine, l’istituto Demopolis analizza i flussi elettorali del Partito Democratico, del MoVimento 5 Stelle e della Lega di Salvini: Quasi tutte le liste sono risultate fortemente penalizzate dall’astensione in termini di voti assoluti. Secondo l’analisi dei flussi elettorali e sugli spostamenti del consenso, realizzata dall’Istituto Demopolis, su 100 elettori che avevano scelto il PD alle Europee del maggio scorso, 62 hanno rivotato nelle 7 Regioni il partito di Renzi o le liste dei candidati Presidenti; 8 hanno preferito altre liste, 3 elettori su 10 hanno optato per l’astensione. Quadro non dissimile quello del Movimento 5 Stelle: 6 su 10, tra quanti avevano votato Grillo alle Europee, hanno confermato il voto al Movimento alle Regionali, 11 su 100 hanno scelto altre opzioni; 29 su 100 sono rimasti a casa. L’Istituto diretto da Pietro Vento ha analizzato la composizione del consenso al partito di Salvini in base al voto espresso alle Europee: su 100 elettori odierni alle Regionali (quasi un milione e 300 mila incluse le liste Zaia), poco più di 500 mila avevano già scelto la Lega un anno fa. 8 su 100 avevano votato il M5S, 5 il PD, 14 altre liste o si erano astenuti. Secondo l’analisi post voto di Demopolis, 33 su 100 degli attuali elettori leghisti avevano scelto Forza Italia alle Europee. Un flusso che conferma, anche a livello regionale, i mutati equilibri nell’area di Centro Destra.
Vince l’astensione: siamo noi giovani a non votare più. Il partito dell'astensione cresce a ogni elezione di più. Ma è un problema che va affrontato, perché riguarda soprattutto i più giovani. Troppo lontani dalla politica, scrive Michele Azzu su "Fan Page". “Il vero vincitore è l’astensionismo”, anche a queste elezioni regionali ripeteremo questa solita frase fatta per chissà quanto tempo. Frase che, elezione dopo elezione, sembra sempre più veritiera. Alle elezioni regionali di Veneto, Campania, Marche, Umbria, Toscana, Puglia, Liguria ha votato solo il 51.4 per cento degli aventi diritto. Nel 2010 era il 64 per cento: si sono persi il 10 per cento di voti. Una persona su due non ha votato, e questa volta non è stato certo per colpa del bel tempo e delle gite di primavera: nel fine settimana ha piovuto in quasi tutto il paese. È un dato che fa spavento. Confrontiamolo coi dati delle più recenti votazioni del nostro paese. Lo scorso novembre si votava alle regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche in quel caso l’affluenza al voto fu bassissima: in Emilia Romagna votò il 37.7 per cento contro il 68 delle elezioni precedenti, e contro il 70 per cento delle europee di solo sei mesi prima. Sono 30 punti percentuali in meno. In Calabria a votare furono il 43.8 per cento degli aventi diritto contro il 59 per cento del 2010 (15 per cento in meno). Alle scorse elezioni europee, invece, l’affluenza fu più alta: circa il 60 per cento degli aventi diritto. E alle scorse elezioni politiche? Quelle del giugno 2013, in cui vinse per un soffio il PD guidato da Pierluigi Bersani che poi però non andò mai al governo. In quell’occasione, votò il 55 per cento degli elettori rispetto al 62.6 per cento di cinque anni prima, nel 2008. Le elezioni hanno ormai imparato a convivere con alti tassi di astensionismo. E allora, se va così dappertutto, forse è un segno dei tempi. Chi non vota rinuncia coscientemente a un proprio diritto – dirà qualcuno – e allora perché porsi il problema? L’astensionismo è un problema perché il dato della disaffezione al voto riguarda principalmente i più giovani. Certo, è ancora presto per avere i dati precisi da queste votazioni, ma sappiamo già che è a loro che riguarda questo 48 per cento di astensione. Ce lo dicono i dati delle elezioni più recenti. Alle recenti elezioni europee – quelle del tanto sbandierato 41% di consensi al PD – trionfò proprio l’astensione dei giovani. Mentre, come dicevamo, il dato di affluenza rimase discreto, con circa il 60% di votanti, in tutta Europa solo il 28% dei giovani europei andò a votare. “Le elezioni europee del 2014” hanno mostrato che esiste ancora un alto livello di astensione, con solo il 28% dei giovani fino ai 25 anni che si è recato a votare”, commentava Johanna Nyman, presidente dell’European Youth Forum. In Italia solo il 40% dei giovani è andato a votare alle europee. E alle politiche? Secondo il Centro Italiano di Studi Elettorali, alle ultime politiche del 2013 l’astensione ha riguardato principalmente i giovani. “Con l’eccezione di Torino, emerge che i neoelettori sono stati più propensi all’astensione”, scrive l’ente accademico. “In misura marginale nella capitale, più significativa a Milano e Firenze e ancor più spiccata a Palermo. Nel capoluogo siciliano, quasi la metà dei cittadini fra i 18 e 24 anni ha deciso di astenersi”. in foto: l'astensione dei giovani alle elezioni europee 2014 Anche il presidente del Senato Pietro Grasso si è rivolto in questi giorni ai più giovani, invitandoli a votare: "Alcuni di voi domenica saranno chiamati per la prima volta ad esprimere il proprio voto alle elezioni amministrative: fatelo, non lasciate che siano altri a decidere per voi". Ma non c’è niente da fare: ai più giovani votare non interessa. È davvero così difficile capire perché? Così come per la elezione del Presidente della Repubblica, il momento del voto non viene ritenuto capace di cambiare qualcosa di significativo nella vita di tutti i giorni, e viene vissuto come una cosa lontana e irrilevante. Una scocciatura. Ma cosa è ritenuto rilevante dai giovani d’oggi? Se è difficile capire perché i giovani si disinteressano della politica, e del voto, forse possiamo chiederci cosa interessa i giovani. Una recente ricerca del programma Erasmus – che da ormai 20 anni permette ai giovani universitari di studiare per un anno in un altro paese dell’Unione Europea – ha di recente pubblicato i risultati di un sondaggio esteso alla popolazione di ex e attuali studenti migranti. Giovani laureati e di respiro europeo, insomma, proprio quelli da cui ci si aspetterebbe un interesse alla politica. Secondo i risultati del sondaggio le priorità dei giovani Erasmus sono crescita e posti di lavoro, col 60 per cento di preferenze. Al secondo posto vengono le preoccupazioni sui cambiamenti climatici. Al terzo posto la lotta alla corruzione. Dati molto simili a quelli raccolti durante le ultime elezioni politiche italiane dalla campagna “Io voto”, realizzata dall’emittente televisiva Mtv. Secondo cui il 74 per cento dei giovani associa la politica alla corruzione, il 67 per cento a una sensazione di disgusto. Per il 60 per cento la classe dirigente italiana è considerata: “anacronistica e incapace di rinnovarsi”. L’astensione al voto cresce ogni elezione di più. E riguarda principalmente i giovani. Laureati, occupati, disoccupati, nelle grandi città come alla provincia del sud. Cambia poco. Perché ai giovani, oggi, interessa porre fine alla corruzione, interessa trovare lavoro, e migliorare le condizioni in cui si lavora. Ai giovani interessa porre riparo al riscaldamento globale che sta modificando la temperatura del pianeta, e quindi la fuoriuscita dai carburanti fossili, la ricerca di stili di vita più sani. Di tutte queste cose nei manifesti elettorali non si è trovata traccia: non alle europee, non alle politiche più recenti, non a queste regionali. Perché la politica non parla ai giovani, non è fatta dai giovani, e ai giovani non pensa proprio. Non a caso il Movimento 5 Stelle rimane il primo partito fra i giovani. Perché è un soggetto nuovo, che ha fatto della lotta alla corruzione la propria bandiera, così come le battaglie per l’ambiente, e per il reddito di cittadinanza – anche se sul lavoro latita. Ma questo dato di astensione, prima ancora dell’esito negativo della Liguria, Campania e Veneto, non è una grande sconfitta per Matteo Renzi, che ha solo 40 anni e che doveva rottamare la politica dei vecchi e dei poteri forti? E riportare i giovani alla politica? Dalle regioni, fino al governo, passando per le europee, insomma, dove diavolo è la politica che dovrebbe interessare i giovani?
Votano pochi anche in Germania. In Italia non si vota per disgusto, in Germania per noia, scrive Roberto Giardina su “Italia Oggi”. Perché preoccuparsi dell'astensione di domenica scorsa in Italia? Avviene così altrove, perfino in Germania. Metà dei votanti è rimasta a casa? Claudio Velardi cita la Baviera, ma, per la verità, qui in Germania, all'ultimo appuntamento elettorale, l'astensione si è fermata al 46%. Comunque è vero, a casa della Merkel gli elettori sono sempre più pigri, nelle elezioni dei Länder, le regioni, si continua a calare, sfiorando il 50%. Soltanto che qui ci si preoccupa della pigrizia elettorale. I nostri politici fanno finta di niente. Ma le cause sono diverse: i tedeschi disertano le urne per noia, gli italiani, temo, per disgusto e rassegnazione. Nel '72, al primo voto anticipato nella storia della Repubblica Federale, che era una sorta di referendum su Willy Brandt e la sua Ostpolitk, andò a votare oltre il 90%. Nel 2013, al terzo round per Frau Angela, fu il 71,5, un 1,3 in meno rispetto a quattro anni prima. Ma l'esito era scontato: una Grosse Koalition, una grossa coalizione. E se i due grandi partiti si alleano dopo il voto, perché devo andare alle urne? Inoltre, il programma della sinistra socialdemocratica e dei conservatori della Cdu-Csu è diverso soltanto per sfumature. Quanti sperano che se nel 2017 ci sarà un cancelliere socialdemocratico cambierà la politica europea di Berlino, avrà un'amara sorpresa. Un'altra considerazione: la Germania è uno stato federale basato sulla storia. In Italia, la riforma delle regioni è stata abborracciata per populismo e per accontentare Bossi. I Länder corrispondono agli antichi stati tedeschi prima che Bismarck riuscisse a creare il Reich. Alcune regioni come la Baviera sono immense, e il Land meridionale ha un pil superiore a quello di Olanda e Belgio messi insieme. Altre sono minuscole come di Amburgo o di Brema, le città dell'Ansa. Da noi, le Repubbliche marinare hanno forse una coscienza, come dire?, nazionale più antica di un Molise. Dovremmo avere una regione delle Due Sicilie, e anche il Granducato di Toscana, mentre la Padania non è mai esistita (quando lo scrisse mio fratello, lo storico, credendo di dire un'ovvietà, fu minacciato di morte). Infine, le preferenze. Io, come ex abitante di Roma, non ero chiamato alle urne domenica. Ma se avessi dovuto votare in Liguria, o nel Veneto, o in Campania, sarei rimasto a godermi il weekend di tarda primavera a Berlino. Non avrei mai potuto votare per la signora Moretti, né per i suoi avversari. Neanche per la signora Paita a Genova, o per De Luca, in Campania. Anch'io sarei entrato nel branco degli astensionisti, ma per costrizione e non per libera scelta, per noia, o pigrizia. In Germania, a livello nazionale, il sistema del doppio voto è geniale. Il primo, va al partito, e con questo si eleggono i candidati presentati dai partiti, con una lista chiusa come tanto piace ai nostri leader che non sopportano i gusti degli elettori. Ma il secondo voto è personale per un candidato di nostro gradimento, anche di un altro partito. Allora la Cdu o l'Spd devono stare molto attenti nel compilare la loro lista, ed evitare di essere punite alle urne. Infine, il nuovo Senato che Renzi sostiene sfacciatamente di aver copiato dal Bundesrat tedesco, la camera delle regioni. Da noi sarà formato da senatori designati dall'alto, scelti nelle regioni. In Germania vi partecipano i rappresentanti dei Länder, che già fanno parte dei parlamenti regionali, in proporzione ai risultati locali. Il Bundesrat ha diritto di veto su tutte le leggi del Bund, la federazione, che hanno importanza locale. Quindi su quasi tutte, dai trattati firmati a Bruxelles alla proroga o chiusura delle centrali atomiche. Votando nelle regioni in momenti diversi, al Bundesrat si forma, di solito, una maggioranza di segno opposto rispetto al Bundestag, il parlamento federale. Per ogni legge, o quasi, il governo è dunque costretto a sentire il parere dell'opposizione. Si crea una sorta di Grande coalizione non ufficiale. Un voto di Land è influenzato ovviamente dalla situazione locale, ma nessun politico a Berlino oserebbe commentare ciò che non riguarda il governo centrale. Quando Schröder avviò la radicale riforma dello Stato sociale, dovette trattare con i cristianodemocratici. E quando la Merkel lo battè e divenne cancelliera, non poté, e neanche volle, riformare le riforme del predecessore, perché realizzate con il consenso del suo partito. Un sistema che favorisce la continuità. In Germania chi ha la maggioranza non fa quel che vuole, come si sostiene a parole in Italia. Ma questo principio non può essere garantito dalla legge. Dipende dalla coscienza democratica.
I GRILLINI CANTANO VITTORIA. MA ANCHE LORO FAREBBERO BENE A CHIEDERSI PER CHI SUONA LA CAMPANA, scrive Antonio de Martini su “Il Corriere della Collera”. Un lettore mi ha scritto ripetutamente invitandomi a commentare la vittoria del movimento cinque stelle alle recenti elezioni. Turani nel suo giornale presenta questi numeri:
1) Alle elezioni politiche del 2013 , nelle stesse sette regioni in cui si è votato, il movimento cinque stelle raccolse 3.274.571 suffragi.
2) Alle elezioni Europee del 2014 , sempre nelle stesse regioni, gli elettori scesero a 2.211.384.
3) Alle regionali appena trascorse i votanti 5 stelle sono stati 1.320.885.
Sempre che la matematica non sia diventata di parte anch’essa, il movimento 5 stelle non ha avuto un successo, ma una perdita di votanti che si sono dimezzati rispetto alla prima apparizione sulla scena politica. Molti cittadini cercano di illudersi e vedere in “ogni villan che parteggiando viene ” il messia salvatore che rimetta le cose a posto senza che ci si scomodi più di tanto. Un voto, una richiesta di favori e via….Ebbene, non è così. Non è più così. La tendenza chiara ogni giorno di più è che dal 1976 in poi la sola cifra in crescita alle elezioni è quella dei cittadini che si rifiutano di essere presi in giro da questi ladri di Pisa che di giorno litigano e di notte rubano assieme. I cittadini che si astengono dal voto e di cui tutti fingono di non capirne le motivazioni. Il Cardinale Siri ( arcivescovo di Genova, città che si appresta a subire l’ennesima delusione) – mi dicono – ebbe un bon mot: ” esiste personale politico di due tipi: quelli che rubano per fare politica e quelli che fanno politica per rubare. Da un po' vedo in giro solo questi ultimi”. Appunto. Arrestarli? Inutile. Sono più numerosi dei carabinieri e in costante crescita. Per uscire da questo maleolente pantano è necessario che tutti i cittadini – dopo aver fatto il proprio dovere – decidano di esercitare i loro diritti costituzionali partecipando alla vita nazionale in forma attiva, propositiva e continuativa. Ad ogni livello. Fino a che aspetteremo il “deus ex machina”, la “rigenerazione” ed altre minchiate consimili resteremo dove siamo. Tra tutte le soluzioni miracolistiche proposte, quella di far governare l’Italia da un gruppo di giovani somari è la più stravagante. I dirigenti della Nuova Repubblica dovranno essere selezionati uno a uno in base al sapere, all‘esperienza e sopratutto al carattere. Oggi si scelgono in base alla fedeltà, l’ignoranza e alla disponibilità al compromesso. La politica delle etichette (delle camicie, dei distintivi ecc) si addice ai prodotti commerciali, non alle persone.
L'utopia dell'onestà e la demagogia della proposta politica irrealizzabile, presentata come panacea di tutti i mali, sono le prese per il culo che il cittadino non tollera più.
Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.
Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici - e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori - di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo. Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti - e in primo luogo, il principale partito di governo - non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.
Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all'insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta - ma evidentemente non lo farà - è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia. Ma cosa significa cambiare rotta? Significa forse non candidare “impresentabili”? Significa forse smetterla di assecondare le pulsioni più ancestrali come la difesa del proprio nido dallo straniero aggressivo ma soprattutto diverso? Significa smetterla di credere che determinate regole valgano per gli altri e non per noi? Significa pesare ogni parola, ogni esternazione pubblica, e farlo sul serio? Significa iniziare a dialogare con la società civile e farlo non mettendosi alla lavagna, gessetto in mano, a dare lezioni? Tutto questo, ma significa anche non dare per morta una forza politica quando non lo è: per 20 anni in Italia abbiamo visto vincere il berlusconismo senza davvero riuscire a spiegare al paese come potesse accadere. Il voto di scambio non può essere un alibi che la parte “buona” della società, dell’informazione e della politica trova ogni volta per giustificare le proprie incapacità. La vittoria di Giovanni Toti in Liguria dimostra quanto abbiamo visto ormai talmente tante volte da poterlo considerare in fondo un copione già scritto: una forza politica data per morta può farcela contro una forza politica data per viva, ma divisa. Ed ecco che Berlusconi è stato ancora una volta in grado di unire, assecondando utili convenienze come ai bei tempi. Tutti quanti a parole sono contro una fantomatica “Sinistra” che dal 1989 esiste solo nei discorsi e nelle fantasie del satrapo di Arcore. Ed ecco il PD, ancora una volta, ha consapevolmente perso in Veneto e la Liguria e ha vinto in Campania chiudendo tutti e due gli occhi sulla candidatura di De Luca. Ed ecco il M5S, che per la prima volta ha fatto campagna elettorale senza gli eccessi verbali di Beppe Grillo, ha recuperato parte del voto moderato e si è attestata come terza forza politica del Paese. A Napoli con un’unica lista ha sfidato due coalizioni ottenendo risultati encomiabili con 20 mila euro di campagna elettorale provenienti da donazioni private. Come accade che un movimento dato per defunto risorga dalle proprie ceneri, o meglio, dalle ceneri con cui lo avevano erroneamente ricoperto? Il M5S è nato come movimento di protesta e di cambiamento. Non essendo ancora mutato nulla, nonostante la rottamazione, resta un catalizzatore di consenso che si nutre di sfiducia verso tutto il resto. È l’unica forza politica ad aver mantenuto fermo un punto essenziale: candidare solo chi non abbia pendenze giudiziarie. Per un garantista come me non è ammissibile pensare che se sono sotto processo perché il mio cane avrebbe morso un passante e ancora non sono stato né assolto né condannato, questo possa rappresentare motivo di incandidabilità. Ma l’umore in Italia è questo: “Se hai problemi con la giustizia, senza entrare nel merito, noi non ti vogliamo a rappresentarci. Punto”. Alla fine si è diventati più realisti del re, a causa dell’incapacità che la politica italiana ha da sempre di fare pulizia prima che arrivino inchieste giudiziarie o Commissioni parlamentari antimafia. Perché alla fine non basta più il buon senso, ma occorre, per catalizzare fiducia, ricorrere a metodi estremi. E ormai anche io, da osservatore, non so davvero se temere di più la retorica dell’onestà o che si realizzi quanto disse Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».
La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi. Non è pietanza da Zuppa, ma nel Giornale se ne parla. Eccome. Mentre la Bindi e soci si incipriavano la parrucca, anzi il parruchino, pensando a chi potesse entrare nella lista degli impresentabili, a Roma si teneva l’assemblea dell’Enel. Una delle più importanti società italiane e tra i leader mondiali dell’energia elettrica. Cosa decidevano gli azionisti dell’Enel? I soliti conti e ricchi dividendi. Ma anche (brevina sui giornali) di allentare la cosiddetta clausola di onorabilità dei propri amministratori. In sostanza, fino a ieri, se un membro del cda dell’Enel fosse stato raggiunto da un avviso di garanzia e poi rinviato a giudizio, si sarebbe dovuto dimettere subito dalla società.. Ebbene ieri l’assemblea, quasi al 100 per cento, approvava l’allentamento della norma: non basta il semplice rinvio a giudizio, ma è necessaria almeno una condanna in primo grado. Tutto bene quel che finisce bene dunque. Mica tanto. E così ritorniamo alle parrucche. Questa assurda clausola societaria non è stata introdotta ai tempi del fascismo, ma l’anno scorso dal ministro del Tesoro di Renzi. Gli uomini di Padoan, in rappresentanza appunto delle quote detenute in Enel, Eni, Finmeccanica e Terna, si erano presentati nella primavera del 2014 nelle assemblee delle società partecipate proponendo l’introduzione negli statuti della tagliola. Tutte le più importanti società avevano poi bocciato la proposta del Tesoro in assemblea. All’Enel ciò non avvenne, anche perché in quell’assemblea c’era rappresentato solo il 52% del capitale e il Tesoro da solo ne deteneva più del 30. L’enel fu l’unica dunque a diventare il fenomeno della legalità. La baggianata era talmente grande che i fondi internazionali, quelli che una certa pubblicistica avrebbe voluto a favore di questa norma statutaria, votarono in maggioranza contro alle volonta etiche del Tesoro. Chiunque abbia parlato con questi investitori sa che sono più preoccupati del funzionamento della giustizia italiana (che non nega un rinvio a giudizio a nessuno) che dell’onorabilità dei manager delle grandi società quotate. L’Enel peraltro ha poi applicato questa norma ad un suo consigliere rinviato a giudizio (Salvatore Mancuso) che con il nuovo statuto approvato ieri non avrebbe dovuto fare alcun passo indietro. Ora infatti serve come minimo una condanna. Qual è la morale di questa storia? Da parrucconi. Perché il tesoro del governo Renzi l’anno scorso fa il giustizialista con le sue partecipate (colpo che gli riesce solo all’Enel dove i fondi internazionali non riescono ad opporsi) e dopo solo un anno fa marcia indietro? Non che la norma fosse meno assurda nel 2014: da Scaroni, all’epoca all’Eni, ai grandi gestori dei fondi, tutti avevano spiegato la pericolosità della norma a Renzi&co. Eppure gli uomini di Padoan continuarono per la loro strada, per poi cambiarla, alzando la manina in assemblea, un paio di giorni fa. Ritornando al principio. Viene da pensare che il Tesoro nel 2014 si sia comportato come la Commissione Bindi (quella che si dovrebbe occupare di mafia) si comporta oggi. La stessa commissione che dalla parti di Renzi oggi viene così fortemente criticata. E vai con il cambio di parrucche. Olè.
Il rapporto che fa tremare Angela Merkel: anche i tedeschi imbrogliano l'Europa, scrive Libero Quotidiano”. Non siamo i soli nella lista dei Paesi europei in cui si è registrato e perseguito il maggior numero di frodi a danno dei fondi europei. Con noi ci sono anche Bulgaria, Spagna, Belgio e, sorpresa, la Germania. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) presentato a Bruxelles, dal direttore, Giovanni Kessler. "Nel 2014 - si legge nel rapporto - si sono raggiunti risultati eccellenti nella lotta contro le frodi nell'Unione: un anno record con il numero di raccomandazioni più alto, ben 1417, dalla sua creazione. L'Olaf avvia, in media, il 60% di indagini in più rispetto al 2012. Solo nel 2014 ha raccomandato alle autorità nazionali della Ue il recupero di ben 901 milioni di euro, fondi che dovrebbero essere progressivamente restituiti al bilancio europeo, contribuendo a finanziare altri progetti". Complimenti da Kessler alla nostra Guardia di Finanza: "La nostra struttura ha con la GdF una cooperazione eccellente, ormai tradizionale, che ha portato ottimi risultati. Un rapporto molto forte e proficuo che spiega anche i tanti casi di indagini. Con loro s'è stabilito un circolo virtuoso di scambi di informazioni che purtroppo non troviamo in altri Paesi". Dall'Italia sono arrivate 42 segnalazioni di frode. Ma l'Oscar delle truffe spetta alla Romania, con 79 casi. In classifica Bulgaria (59), Spagna (56), Belgio e Polonia (52), Germania (35), Slovacchia (12). In Estonia e in Svezia non è stata invece riscontrata alcuna irregolarità è stata riscontrata.
"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.
Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!
Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e, distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.
Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
Chi è Giuseppe Pignatone, l'uomo che ha scoperto Mafia Capitale. "Scopritore di nuove mafie", il procuratore capo di Roma è conosciuto come un "mastino gentile". Sue le principali inchieste di lotta a mafia e 'ndrangheta, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Lo chiamano lo "scopritore di nuove mafie". L'ultima è quella "Capitale". Giuseppe Pignatone, siciliano, classe 1949, in meno di 3 anni ha dato una scossa al “porto delle nebbie”, come venivano chiamati gli uffici giudiziari della Procura di Roma fino al momento del suo arrivo, e svelato la presenza di un “mondo di mezzo” in affari con uno “di sopra” per conto di quello “di sotto”. Quando nel 2012 sbarcò a Roma da procuratore capo, sindaco era ancora Gianni Alemanno. L'accoglienza fu calorosa: “con lui – disse l'ex sindaco - la Capitale potrà giovarsi di un magistrato di indiscussa competenza che grazie alla sua lunga esperienza nella lotta contro la criminalità organizzata rappresenta un segnale importante per la sfida che questa città è chiamata a vincere per la sicurezza dei suoi cittadini”. Sentendosi chiamato in causa, Massimo Carminati non riuscì a nascondere la sua preoccupazione: “ha già buttato all'aria la Calabria, butterà all'aria anche Roma”. Magari “Cecato”, come viene soprannominato l'ex Nar della Banda della Magliana e presunto capo di "Mafia Capitale", ma con la vista lunga. Due anni dopo infatti, era il 4 dicembre scorso, i nomi di Alemanno e dello stesso Carminati finiranno nell'elenco degli arrestati e indagati per associazione mafiosa e altri innumerevoli reati insieme a quello del ras della cooperazione sociale capitolina Salvatore Buzzi e di decine di dirigenti pubblici, segretarie, ex amministratori delegati di municipalizzate, assessori, consiglieri, portaborse, faccendieri, intermediari, passacarte, palazzinari, esponenti politici di centrodestra e centrosinistra tutti membri di diritto del grande partito del malaffare che per anni ha governato Roma arricchendosi sulle spalle dei cittadini e sulla pelle dei più deboli tra i deboli: gli immigrati. Entrato in magistratura già nel 1974, Giuseppe Pignatone è tra i più esperti di lotta alla mafia senza aver mai voluto essere anche un professionista dell'antimafia. Schivo, riservato, allergico alla mondanità, la ribalta se l'è conquistata sempre e solo attraverso le sue inchieste. Dopo Caltanissetta e Palermo, dal 2008 al 2012 Pignatone è a Reggio Calabria. Poi Roma. Nel capoluogo siciliano collabora con Pietro Grasso, allora procuratore capo e poi procuratore nazionale antimafia. Qui fa condannare numerosi capi e gregari dei clan; segue l'indagine sulla Strage di Capaci che porterà all'arresto di Totò Riina, coordina quella su Bernardo Provenzano; fa incriminare, negli anni '80, l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi condannato per mafia e firma l'inchiesta che porterà alla condanna a 7 anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra dell'ex presidente della regione Totò Cuffaro. In Calabria ha dato talmente fastidio che il 3 gennaio del 2010 l'Ndrangheta gli ha fatto esplodere una bombola a gas collegata a un panetto di tritolo proprio davanti all'ingresso della Procura di Reggio Calabria. Anche lì, come poi nella Capitale, aveva trovato una situazione di immobilismo quasi totale. Poi, a costo di minacce, intimidazioni, proiettili, bazooka, è riuscito a fare luce sul nuovo volto e il modo di operare di una delle organizzazioni criminali più potenti, ricche e armate del mondo. Un'holding con sede centrale nel cuore della Calabria alla quale rispondono le numerosissime succursali sparse nel Nord Italia, in Germania, svizzera, Canada e fino in Australia svelata dalla famosa inchiesta “Crimine”, condotta insieme alla Procura di Milano e che ha portato all'arresto di oltre 300 persone. Rigorosissimo nella costruzione del quadro accusatorio, pignolo nella ricerca delle prove, Pignatone è un mastino gentile. Nessuno è più distante di lui dall'immagine dello “sceriffo” solo al comando. Gli piace e ritiene più proficuo lavorare in team. Nella sua squadra romana ci sono magistrati, investigatori, poliziotti, carabinieri e finanzieri che lo hanno affiancato anche in passato: da Michele Prestipino (suo braccio destro a Palermo) a Sara Ombra (sua l'inchiesta calabrese sull'ex governatore Giuseppe Scopelliti), da Renato Cortese (ex capo della mobile di Reggio, poi di quella romana, oggi capo dello Sco e già membro del gruppo che ha acciuffato Provenzano) a Stefano Russo (capo dei Ros di Reggio Calabria e poi del Lazio). Poche ore prima che il mondo intero sapesse che secondo la Procura di Roma a Roma c'è la mafia e che da anni i politici di ogni schieramento ci fanno affari insieme per farsi eleggere nelle amministrazioni e poi ripagare il favore con gli appalti del verde, dei rifiuti, delle strade, degli immigrati, Pignatone lo anticipò, tra le righe, al Pd riunito al Teatro Quirino per una conferenza programmatica alla quale era stato invitato. Non disse, ovviamente, che a breve la città sarebbe stata travolta da uno scandalo che avrebbe avuto risalto planetario e che metà del partito di cui era ospite quel giorno sarebbe stato spazzato via, ma descrisse così la situazione della criminalità in città. E quando la notizia piombò come un macigno, lui preferì frenare l'enfasi: “Mafia Capitale non è la Cupola di Roma”. Piuttosto continuò a lavorare. E infatti, come lui stesso aveva annunciato, “nuove operazioni” sono arrivate e ieri altri 44 sono finiti in carcere. Sbagliato però pensare che Pignatone sia un “manettaro”: piuttosto che sbattere un innocente in galera preferisce lasciare un colpevole fuori. Nemmeno pensa che il compito dei magistrati sia altro che quello di fare le inchieste. “Io faccio processi, non scrivo articoli sui giornali”, ha ripetuto spesso. Il vero marziano a Roma è lui: Giuseppe Pignatone.
Mafia Capitale, i rapporti oscuri di Massimo Carminati con i servizi segreti. Anche nell'ordinanza che ha portato agli ultimi arresti, il giudice sottolinea i rapporti tra l'ex Nar e gli 007. Però poi l'affermazione non viene chiarita. E' un modo per non pregiudicare il ramo più delicato delle indagini? Scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Il lato oscuro di Mafia Capitale, quel capitolo di cui continua a comparire traccia nei documenti investigativi, ma che resta sommerso con il suo carico di mistero: il ruolo degli 007. Anche nell'ordinanza dei 44 arresti il giudice Flavia Costantini scrive: «Massimo Carminati mantiene rapporti con appartenenti e ai servizi segreti». Un'affermazione, non un'ipotesi. Che eppure poi non viene circostanziata nelle centinaia di pagine che compongono l'atto d'accusa sul gruppo che aveva preso il controllo di settori decisivi dell'amministrazione comunale e regionale. Un tema sollevato anche da Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del Partito a Roma: «È curioso che una persona come Carminati abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità. Nei prossimi giorni chiederò al Copasir di occuparsi di questa vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota». Di sicuro, l'attività di prevenzione non ha funzionato. E il provvedimento del giudice ripropone il sospetto che il mancato allarme non sia stato casuale. Già nello scorso ottobre, in occasione della prima retata, i magistrati avevano sottolineato l'esistenza di un legame tra agenti dell'intelligence e l'ex pistolero dei Nar. Ma nelle decine di relazioni investigative e nelle centinaia di conversazioni intercettate depositate dopo quegli arresti, l'affermazione non è mai approfondita. C'erano nomi di poliziotti che fornivano dritte sulle inchieste in corso o offrivano i loro favori a Carminati, senza esplicitare in cosa consistessero le relazioni pericolose con i servizi. Lo stesso procuratore capo Giuseppe Pignatone, interpellato dalla Commissione antimafia e dal Copasir, il comitato parlamentare di controllo sull'intelligence, aveva negato che questi rapporti fossero provati. «Agli atti c’è – ha detto a dicembre il procuratore – c’è una lunga conversazione tra Carminati e una persona non identificata con certezza in cui lui si abbandona ai ricordi, risalenti agli anni ’70 e ’80 e racconta di un viaggio in Libano, dove fu mandato da qualcuno dei Servizi a fare attività di vario tipo e natura. Però questa è una traccia insignificante. Poi, nelle conversazioni di altri, emerge la convinzione diffusa che lui mantenga questo tipo di contatti, ma non vi è nulla di più». Sono elementi sufficienti per indicare senza condizionali in un atto giudiziario «rapporti con i servizi segreti»? Oppure si è trattato di una smentita tattica per non pregiudicare il settore più delicato delle indagini? Tutta la biografia di Carminati è segnata da accuse clamorose sempre seguite da assoluzioni, vicende che spesso si intrecciano con le più oscure trame italiane: dal terrorismo neofascista dei Nar alle esecuzioni per conto della Magliana, dall'omicidio di Mino Pecorelli alla raid del caveau all'interno del palazzo di giustizia, fino alla frequentazione con figure chiave di Finmeccanica, il colosso statale degli armamenti più sofisticati. Eppure era riuscito sempre a uscirne a testa alta, costruendo indisturbato la sua rete di potere nella capitale tra ricatti, corruzioni e minacce. La malavita romana lucra sulla pelle dei più poveri, e gli ultimi arresti dimostrano quanto il sistema fosse capillare. Per fortuna c'è anche chi si ribella all'omertà che dilaga a Roma. Il nostro inviato spiega come si evolve l'inchiesta "Mondo di mezzo". A dicembre due ex poliziotti della Squadra Mobile, Gaetano Pascale e Piero Fierro, hanno dichiarato a SkyTg24 che nel 2003 le loro indagini sulla nuova mafia di Roma erano state insabbiate. E questo – hanno sostenuto – grazie alle coperture dei servizi vantate da Carminati e da un altro boss del litorale laziale. Senza che però emergessero riscontri alle loro parole.
Questa volta ha ragione il Pd. Loro sono diversi: sono peggio. Nonostante Roma sia diventata una "cloaca massima, il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: "Non è vero che siamo tutti uguali". Almeno questa volta ha ragione: il Pd è peggio, scrive Salvatore Tramontano su "Il Giornale". Renzi doveva cambiare l'Italia, non ha cambiato nemmeno il suo partito. Mezzo Pd romano è coinvolto nello scandalo di Mafia capitale, ma per Orfini, presidente del Pd, la colpa è di Alemanno, Maroni e dei servizi segreti. Guerini, vice segretario del Pd, ritiene addirittura strampalate le richieste di dimissioni del sindaco: «Marino è considerato un nemico di chi vuole fare affari». Sarà strampalato, ma due settimane prima degli arresti di Salvatore Buzzi, Massimo Carminati & C., il capo della coop «29 giugno» replicava così ai collaboratori che parlavano delle richieste di dimissioni per il sindaco Marino, impelagato con la grana delle multe alla Panda rossa: «Ti dico una cosa - annotano gli uomini del Ros - lui (Marino) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma». Alla faccia di chi lo considera un nemico degli affaristi. Per Renzi, però, paladino a parole della legalità, il problema Marino non esiste. D'altra parte, come dimostra anche il caso Campania, meglio una poltrona in più che un impresentabile in meno. L'ordine, quindi, è blindare Marino, altrimenti addio sogni di gloria: ci penserebbero i romani a rottamare quel che resta dei Democratici. «Falso», urlano quelli del Pd. Dimenticate che a Roma abbiamo Zingaretti, il governatore della Regione Lazio. Forse sarebbe stato meglio dimenticarlo. Per evitare strumentalizzazioni, citiamo cosa ha scritto ieri Fiorenza Sarzanini su Il Corriere : «Un patto tra maggioranza e opposizione per spartirsi l'appalto più remunerativo della Regione Lazio, quello sul Recup, il centro unico di prenotazione. A siglarlo il consigliere del Pdl Luca Gramazio e Maurizio Venafro, il capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti. Il giudice lo definisce un “accordo corruttivo” che ha consentito “all'organizzazione riconducibile a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati di inserirsi, divenendo infine aggiudicataria del terzo lotto” in un affare da oltre 60 milioni». E dire che sei mesi fa Renzi aveva nominato Orfini commissario straordinario per ripulire Roma. Considerati i risultati, ha sbagliato mestiere: invece del commissario, Orfini avrebbe dovuto fare l'avvocato d'ufficio. Anche se la sua linea difensiva non brilla. Come si fa a dichiarare che: «Il Pd è il partito dell'antimafia» quando De Luca, il candidato del Pd appoggiato da Renzi, diventato governatore della Campania in barba alla legge Severino, denuncia il presidente della commissione Antimafia? Eppure, nonostante Roma sia diventata una «cloaca massima» (copywright Il manifesto ), il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: «Non è vero che siamo tutti uguali».
Mafia Capitale: quello che la sinistra non vuole capire, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Ridurre lo scandalo di Mafia Capitale ad un derby tra destra e sinistra su chi ha rubato di più, è francamente patetico; chi lo fa non si rende conto che la posta in gioco non è un titolo sui giornali o un secchiello d’acqua al proprio mulino arrugginito. In gioco c’è ben altro: la tenuta di una democrazia, la legittimità della politica come funzione sovrana, il ruolo dei partiti come strumento fondante di partecipazione alla res publica. Per questo, di fronte ad alcune dichiarazioni di esponenti del Pd, sorge il dubbio che la sinistra italiana sia attraversata da un timor panico di fronte alla consapevolezza di non poter più rivendicare la sua presunta superiorità morale. Prendete per esempio Matteo Orfini, il commissario straordinario del Pd romano ed esponente di spicco del partito nazionale; lui, baldo giovane renziano, ex figgiciotto del Mamiani (il liceo romano dei fighetti radical-chic) ed ex dalemiano, tra una dichiarazione alla stampa ed una partita alla Playstation con Renzi, ha operato una medioevale reductio ad unum della complessità dello scandalo: Mafia Capitale è “Carminati con un banda di destra”. Sarà come dice lui ma se uno scorre l’elenco degli arrestati scopre che la maggioranza dei politici coinvolti sono del suo partito: il Presidente del consiglio comunale di Roma (del Pd), l’assessore alle Politiche Abitative della giunta Marino (del Pd), il presidente della Commissione Patrimonio di Roma (del Pd), il Presidente di uno dei più importanti Municipi di Roma (del Pd) e il capogruppo di Scelta Democratica partito che appoggia la giunta Marino; senza contare l’ex potentissimo vice-capo di Gabinetto di Veltroni già arrestato nel giro precedente e un coinvolgimento totale di quel sistema delle cooperative rosse da sempre fonte finanziaria, elettorale e spesso clientelare della sinistra italiana. Sono questi i componenti della “banda di destra” di cui parla Orfini? E non abbiamo dubbi che il sindaco di Roma Marino sia sincero quando dice di voler eliminare monopoli che esistono da decenni; ma in questi decenni, chi ha governato Roma? Tranne la breve, incolore ed inquietante esperienza della destra romana, ad occhio e croce diremmo la sinistra; ergo, quella “politica antica gravemente colpevole” che Marino si vanta di allontanare è quella dei suoi compagni? La sinistra vive sotto una costante forma di rimozione della realtà; non so se i suoi esponenti facciano uso di funghi allucinogeni, certò è che sembrano vivere in un universo psichedelico. Forse sarebbe utile abbandonare il tentativo di mostrarsi sempre migliori e provare a riflettere insieme sulla crisi della politica e delle regole democratiche; sull’inadeguatezza di una parte della classe politica, sulla fine dei partiti, sulla scomparsa delle leadership, sull’eccesso di malaffare che nasce sicuramente da anime sporche ma anche da un sistema sballato dove l’oppressione dello Stato (sotto forma di dittatura burocratica) favorisce le pratiche illegali, secondo quell’assioma che dai tempi di Tacito lega la corruzione all’eccesso di leggi (“Corruptissima re publica plurimae leges”). Allora, cari amici e compagni del Pd, aprite gli occhi: la narrazione degli “antropologicamente superiori” con cui vi hanno bevuto il cervello i vostri intellettuali, è una balla, meno vera di una striscia di fumetto. Siete come gli altri: tra voi albergano persone oneste e farabutti, persone capaci e imbecilli, persone responsabili e miseri intrallazzatori. La politica (e con essa la democrazia) non si aiuta alzando il dito medio, come fa Grillo, ma neppure con il solito indice puntato da maestrini, come fate voi. È ora che la classe politica capisca che la crisi di legittimità democratica dei partiti è un punto di non ritorno che uccide la partecipazione consente a poteri illegittimi di sostituirsi alla sovranità popolare; e questo non è un problema di destra o di sinistra.
Onestà non significa neanche mancanza di libertà. "Vietato esprimere opinioni autonome sui social": il regolamento del Partito comunista. Il decalogo del partito di Marco Rizzo per il comportamento (di iscritti e dirigenti) da seguire su Twitter e Facebook è un condensato di divieti e doveri: dalle bandiere ai tag, scrive Matteo Pucciarelli su "La Repubblica". Bastava la promessa per capire l'antifona: "La natura dei social network spinge oggettivamente all'individualismo e alle peggiori performance di protagonismo. Serve quindi regolamentare il loro uso, seguendo le ispirazioni della dottrina leninista dell'organizzazione". Il Partito Comunista di Marco Rizzo (famoso per l'esaltazione dello stalinismo e di esperienze di "socialismo" come la Corea del Nord) ha varato una sorta di decalogo per l'utilizzo di Facebook, Twitter e affini da parte dei propri dirigenti e militanti. Il risultato è una serie di divieti e compiti che ricorda il settarismo comunista dei tempi andati, anche se fuori tempo massimo: "È fatto assoluto divieto a ogni iscritto al partito (tanto più se dirigente) a fare considerazioni e analisi politiche generali autonome", è la prima regola, approvata dal Comitato centrale dell'organizzazione fondata dall'ex europarlamentare di Rifondazione prima e del Pdci poi. Poi: "È vietato taggare altri membri del partito sempre su questioni politiche, storiche, filosofiche e culturali". Dopo: "È fatto assoluto divieto ad usare bandiere o simboli del Partito nell'immagine del proprio account personale. Le bandiere ed i simboli del partito sono esclusivamente rappresentate negli account di partito ad ogni livello (da quello centrale sino a quello di cellula)". Per fortuna non esistono solo divieti, ai quali vanno aggiunti i doveri: "È invece auspicabile che i membri del partito e del comitato centrale promuovano, condividano e tagghino i post degli organi nazionali". Detto questo, "tutti gli account di partito (da quelli regionali a quelli della singola cellula) devono comunicare riservatamente alla direzione centrale (nella persona del coordinatore) la password". Al tutto va aggiunta una considerazione: "La pubblicazione di fotografie e filmati di manifestazioni del partito devono esser improntate alla massima efficacia propagandistica e consapevolezza politica dell'evento". E una minaccia: "Qualunque violazione verrà da ora in poi deferita alla CCCG", con quest'ultima parola che probabilmente significherà commissione di garanzia. Nel preambolo della lettera pubblicata sul sito nazionale del movimento, c'è scritto che "i pareri e le elaborazioni dei singoli compagni andranno ad arricchire la linea elaborata collettivamente". L'importante è non esprimerli, perlomeno via social...
Bufala capitale n. 2, retate, arresti e foto, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Ecco il sequel: Mafia Capitale 2. In realtà l’inchiesta è la stessa, alcuni dei 44 nuovi provvedimenti cautelari sono notificati a soggetti già colpiti dal primo uragano, ed è il caso di Salvatore Buzzi. Ma questo secondo filone scoperto dalla Procura di Roma aggiunge al vecchio romanzo criminale qualche tratto nuovo. Resta il primo teorema: i consiglieri comunali ma anche regionali sono ordinariamente “in vendita”, pronti a concedere piaceri, a spianare appalti per la Coop regina, la 29 Giugno, e non solo. Secondo, che l’irresistibile e greve humor romanesco pervade ogni parola. Soprattutto quando i responsabili delle società, che gestiscono il business dei migranti come quello delle case popolari, si esprimono sui politici: trattati ora con disprezzo, altre volte con considerazione per la «serietà» e la «discrezione», in certi casi con rabbia. Gli inquirenti,e il gip di Roma Flavia Costantini che firma le ordinanze, ci mettono il carico da novanta, soprattutto per i personaggi più in vista. Il top della classifica spetta in questo senso a Luca Gramazio, consigliere regionale eletto con il Pdl dopo esserne stato capogruppo anche al Comune. Lui è tra i 19 che finiscono materialmente dietro le sbarre (ad altri 25 toccano i domiciliari, mentre la lista dei 48 indagati si completa con 4 nomi che non subiscono in questa tornata ulteriori provvedimenti restrittivi). Gramazio sarebbe l’uomo capace di mettere in comunicazione la rete di Carminati e Buzzi con le istituzioni. Tutte le istituzioni capitoline, evidentemente. Un’opera diplomatica condotta con una competenza non limitata a poche specializzazioni, dicono i pm. Secondo i quali l’esponente del centrodestra sarebbe persona di «straordinaria pericolosità». Gramazio è una delle icone di questa bufera, in effetti la più appariscente. Anche a lui vengono contestate l’associazione a delinquere di stampo mafioso, la corruzione e la turbativa d’asta. Altri reati che ricorrono nelle ordinanze eseguite ieri sono la turbativa d’asta, le false fatturazioni e il trasferimento fraudolento di valori, sempre con l’aggravante delle modalità mafiose. Ma se Gramazio è la star di questa seconda puntata, c’è un esempio ancora più calzante, per comprendere che considerazione avevano i capi delle coop dei loro interlocutori politici. Si tratta dell’ex presidente del Consiglio comunale Mirko Coratti, del Pd. Uno che insieme con il capo segreteria Franco Figurelli avrebbe ricevuto soprattutto una promessa, 150mila euro, in pratica un modesto anticipo, 10mila euro, e che soprattutto, secondo Buzzi, «non fa gioco di squadra». Da qui il soprannome: «Balotelli». Ecco, pare di vederlo, il ghigno irridente tipico della romanità un po’ triviale ma implacabile, geniale nel ritrarre le persone con un nomignolo. In tutto questo la mafia non c’è. Ma nessuno tra il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, si fa venire lo scrupolo di precisare che stavolta c’è sì tanta ”Capitale” ma di mafia davvero poca e collaterale. Peraltro resta ancora da capire quale fosse la tara mafiosa del troncone principale, quello che ripercorreva anche le gesta dell’eminenza grigia Massimo “ er cecato” Carminati. Qui si incrocia appena una conversazione telefonica tra l’instancabile Buzzi e un presunto ambasciatore della famiglia Mancuso, organizzazione ’ndranghetista. In ballo il sostegno alla campagna elettorale di Gianni Alemanno per le Europee di maggio 2014. Il capo della coop 29 Giugno dice a tale Giovanni Campennì: «Basta che non sia voto di scambio… tutto è legale… uno po’ votà gli amici?!». E quell’altro non si sottrae: «Va bene… allora… è qua la famiglia? La famiglia è grande… un voto gli si dà». E poi però, come fa notare lo stesso Alemanno, «nei due comuni controllati dalla famiglia Mancuso ho preso un numero ridicolo di preferenze». Più che mafia calabrese, una classica sòla romana. Però lo spettro del malaffare, della tangentopoli alla vaccinara, quello sì è amplissimo. Ci sono di mezzo pure le coop bianche, in particolare una piuttosto nota, ”La Cascina”, che si è vista arrivare ieri mattina i carabinieri per una perquisizione. Quattro manager dell’azienda sono stati arrestati: si tratta di Domenico Cammissa, Salvatore Menolascina, Carmelo Parabita e Francesco Ferrara. Solo quest’ultimo finisce in carcere, gli altri tre vanno ai domiciliari. Questo particolare segmento dell’inchiesta romana vede tornare in scena un altro nome forte della prima ondata, Luca Odevaine. Che avrebbe ricevuto anche lui una «promessa», così definita: «Una retribuzione di 10.000 euro mensili, aumentata a euro 20.000 mensili dopo l’aggiudicazione del bando di gara del 7 aprile 2014». La Cascina si occupa dell’accoglienza dei migranti. E si sarebbe messa d’accordo con le coop rosse di Salvatore Buzzi su una «gara per l’individuazione dei centri in cui accogliere 1278 migranti già presenti a Roma e altri 800 in arrivo». Odevaine però è tra quelli per i quali il gip non accoglie la nuova richiesta di custodia cautelare, per quanto l’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni sia comunque, da 6 mesi, in carcere a Torino. La vicenda sciocca i politici e c’è da crederlo. In ore non semplici per il Pd Matteo Renzi reagisce con uno stentoreo «in galera chi ruba». L’altro Matteo, Salvini, chiede la testa di Marino, il quale si fa spalleggiare dall’assessore magistrato Sabella per ricordare che da quando c’è lui è tutto diverso. Matteo Orfini dice che è solo una «banda di destra». Copione prevedibile, e non troppo appassionante. Sempre colorite sono invece le conversazioni tra Buzzi e Carminati, di cui le ordinanze offrono nuovi estratti (in una l’ex Nar adombra vaghe ipotetiche minacce, del tipo che se i politici non rispettano «gli accordi» lui proromperebbe in un «ahò», seguito dall’ovvio «te ricordi da dove vengo?». Ma stavolta la telefonata del giorno è tra Buzzi e Figurelli, quello che stava nella segreteria del Coratti-Balotelli. Si parte sempre con un «ahò», seguito da un haiku: «Ma la sai la metafora? La mucca deve mangiare». Buzzi rafforza: di’ al tuo capo (sempre quello che «non fa squadra» finché Buzzi nun s’o compra) che «qui la mucca l’amo munta tanto». Quell’altro abbozza e media: «Ahò, ma questa metafora io gliela dico sempre al mio amico, mi dice: non mi rompere il cazzo perché se questa è la metafora lui ha già fatto, per cui non mi rompere». Tradotto: Buzzi, che sarebbe grossomodo la mucca, aveva già avuto appalti, favori e così via. Alla fine è una trattativa come tutte, è consisteva nel tentativo di Coratti, per interposto Figurelli, di pagare un prezzo non eccessivo per far assumere alla 29 Giugno una ragazza. In un’altra telefonata Buzzi si sperticherebbe in complimenti non proprio da galantuomo per una «fica da paura» che avrebbe preso in cooperativa. Secondo i pm è la stessa della telefonata precedente. Di sicuro sono gli stessi il linguaggio e le scene della prima volta.
Le immagini dei blitz firmate dai Ros, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Il copia e incolla i giornalisti ormai non lo fanno solo rispetto alle ordinanze dei pm. È nata una nuova moda. Anche le immagini vengono dalle procure e dalle questure. Gli arresti per mafia capitale sono stati fatti a uso e consumo dei media e per evitare che qualche giornalista avesse un guizzo di autonomia e facesse riprese non consentite, hanno filmato tutto loro, i Carabinieri Ros. Le immagini che accompagnano le notizie erano rimaste, fino a qualche mese fa, l’ultimo baluardo in difesa dell’autonomia dei giornalisti. Sì, è vero quando ci sono rinvii a giudizio o ancora meglio arresti, gli articoli sono il copia e incolla delle ordinanze. Da tempo immemorabile ormai il lavoro dei giornalisti è diventato quello di riportare ciò che dicono i magistrati: gli operatori dell’informazione si sono dimenticati che il giornalismo nasce come contropotere non solo della politica e degli affari, ma anche delle procure e dei tribunali. Ma anche se la situazione era tragica, si poteva sperare in una rinascita legata alle immagini che coraggiosi videomaker andavano a fare sul luogo del “delitto”. Adesso anche questa piccola luce, questa flebile speranza si è dissolta. Non so se lo avete notato, ma adesso anche le immagini vengono “passate” direttamente dalla procura. Non sono fatte dai cameraman di Rai, Mediaset o La7 ma direttamente dai carabinieri o dalla polizia che compiono gli arresti per poi distribuirle insieme alle ordinanze. Copia e incolla anche per le immagini. Non vogliamo essere a tutti i costi innocentisti o garantisti. È invece una questione di metodo. Le accuse, non solo non sono una condanna come dice la Costituzione, ma vanno sempre verificate… andrebbero sempre verificate facendo un lavoro di inchiesta autonomo da quello dei pm e delle forze dell’ordine. Invece, anche nel caso di mafia capitale, tutto ciò che esce dalla Procura viene considerato oro colato, a tal punto da essere riportato senza nessuna distinzione o considerazione autonoma. Ora si è aggiunto un nuovo tassello. Gli arresti vengono fatti in diretta tv, filmati da coloro che dovrebbero avere un altro ruolo. Non è un passaggio qualsiasi. E un ulteriore deterioramento del ruolo che dovrebbe svolgere l’informazione. Ma non solo. In primo luogo testimoniano la gestione spettacolare di un’inchiesta, la cui valenza stabiliranno i diversi gradi di giudizio, ma che indubbiamente è stata condotta in modo da fare breccia nei media. In questi anni è stato usato dalle procure ogni mezzo: intercettazioni sbattute in prima pagina, vite private rovinate, avvisi di garanzia che arrivano prima ai giornali che ai diretti interessati. L’aggiunta delle immagini che sfociano direttamente da procure e forze dell’ordine incrina ancora di più la nostra capacità di comprensione. L’immagine gode di uno status di oggettività. Pur essendo un punto di vista sulla realtà ha un’immediatezza che tende a confondersi con la “verità”. Ho visto quindi è. Per questa ragione il lavoro sulle immagini è simile alle intercettazioni: lasciano poco spazio al dubbio, alla verifica, alla possibilitàdi ricostruire il contesto. Ma finché erano immagini che nascevano da un occhio terzo, quello dell’operatore dell’informazione, si creava un’alterità che dava la possibilità di ragionare, di usare il senso critico, di non fermarsi a una sola versione. Questo lavoro, che è non il succo del garantismo ma del giornalismo, sta diventando sempre più difficile, complicato per chi lo fa e per chi legge, sente o vede le notizie. Ieri le immagini degli arresti che avete visto non godevano di questa alterità, non provavano minimamente a essere un occhio terzo tra chi arresta e chi viene arrestato. È vero che negli ultimi anni l’uso delle immagini è diventato sempre più descrittivo rispetto al testo della voce fuori campo. Non un’aggiunta, non uno strumento in più, ma quasi una sorta di sottofondo privo di vita propria. Oggi è peggio. Anche quel poco di autonomia è perduta: ci dobbiamo accontentare delle immagini con sopra il timbro Carabinieri-Ros.
Coltello e tangente, la lingua della suburra. Dalle minacce alle battute sessiste, il romanesco criminale dei signori dell'arraffo. Nella intercettazioni diventano protagonisti tangenti, appalti e volgarità. E il rispetto che si deve a chi manovra denaro, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Non bastano le manette. Roma, "'a mucca che amo munto tanto", va espugnata e affidata allo Stato, come Berlino e come Washington. Ci vuole una legge speciale che dia a Palazzo Chigi i pieni poteri sul cuore della capitale, nel territorio dentro le mura aureliane per esempio, come Berlino appunto che è Stato nell'ansa della Sprea, dalla Porta di Brandeburgo alla Siegessäule, e come Washington, tra il Lincoln Memorial e il Congresso. Tocca insomma al governo strappare Roma non solo ai Carminati, ai Buzzi agli Odevaine, alle cooperative rosse come la "29 giugno" e a quelle simoniache di Cl che si chiamano piamente Cascina e Domus Caritatis, ma anche ai Consigli comunali che "devono stare ai nostri ordini perché li pago e vaffanculo ", e alle Giunte che sono "la mucca che se non mangia non può essere munta". Da decenni queste istituzioni di Roma sono corrotte o inadeguate, con i sindaci complici o ignavi: "Se Marino resta sindaco altri tre anni e mezzo, col mio amico capogruppo ce magnamo Roma". Il presidente del Consiglio come il papa re, dunque. Solo un'amministrazione statale, infatti, può ridimensionare, nella città-universo ormai degradata a suburra, i capibastone e i sovrastanti che marcano il territorio come il consigliere comunale Giordano Tredicine, che è stato arrestato ieri: "Se non t'arrestano - gli dice Buzzi - tu diventi primo ministro". E quello: "Perché? Me possono arresta'? ". E Buzzi ridendo: "Li mortacci tua, se te possono arrestà!". Fumantino e minaccioso Giordano Tredicine ha infatti portato nelle istituzioni la selvaggia illegalità degli ambulanti sparsi per Roma, il pittoresco delle roulotte che vendono cibo, con il loro minestrone di esseri umani: pakistani e armeni, cingalesi e tailandesi e filippini, tutti sotto il controllo di una sola grande famiglia, appunto. Dice di lui Carminati: "Quello viene dalla strada! Lui è serio, e poi è uno che è poco chiacchierato, nonostante faccia un milione di impicci ". Ed è degradato a mafia anche il tradizionale romanesco criminale di "Er più" che era un capo brigante, ma non un padrino. Il linguaggio d'amore e di coltello che Dumas racconta nel Conte di Montecristo diventa infatti linguaggio di appalto e di tangente con "zozzo e zozzone" al posto di "cornuto e sbirro". Mentre "l'elenco della mangiatoia" sostituisce "gli amici degli amici". E "o li cacci o li compri" a proposito dei consiglieri comunali è quel che dice don Mariano Arena a proposito dei carabinieri. La mucca poi è un'ossessione perché è la cresta, il pizzo, la ricotta, è keynesismo mafioso: "la mucca se non mangia non può essere munta", "se la vuoi mungere gli devi dare da magnà", e "quanto l'amo munta", "la mucca in tre mesi deve magnà...". Come si vede, più che una metafora è un'equazione, è il saggio di profitto, non l'arraffo bruto ma un arraffo che è già impresa. Qui è degradato a popolo di mafia anche il popolo dei quartieri. È stato per esempio arrestato Luca Gramazio che, secondo l'accusa, con una mano dà alla mafia quello che con l'altra prende dalla politica istituzionale "perché - dice Buzzi - una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso". E questa sarebbe una frase perfetta anche in bocca al padrino di Corleone. Buzzi racconta che "Gramazio ha dato un milione di euro al comune di Ostia... per il verde. E ora il verde ce deve tornà tutto a noi". E infatti "il presidente del Municipio, che io c'ero andato a parlà, sta facendo gli atti per darceli tutti a noi". Anche Luca Gramazio appartiene, come Tredicine, ai cani di razza che fiutano gli umori grassi del territorio romano. È figlio di Domenico Gramazio detto "er pinguino" che nel Msi era il popolano un po' goffo e intransigente, una specie di comparsa del Rugantino, un fascista sociale di quelli moralisti e spaccamondo che prendevano tantissimi voti. Partecipò al famoso lancio delle monetine contro Craxi davanti all'hotel Raphael, gridava "ladri ladri" al tempo di Tangentopoli, mostrava le manette in Parlamento. Ecco: la legge del contrappasso ha saltato una generazione. Papà Gramazio non è indagato anche se, si racconta nell'ordinanza, "andava con il figlio a trovate Carminati, er cecato". Chi ha trascritto le intercettazioni nota che il nome Carminati "viene pronunziato, per precauzione, a bassa voce", proprio come accade nella mafia siciliana con i nomi degli uomini d'onore, della gente di rispetto: Totò Contorno persino arrossiva quando, d'un fiato, diceva "don Masino". Ed è "il rispetto" che Carminati pretende dai consiglieri comunali, "quei pezzi di merda" che "non vogliono obbedire" anche se, dice Buzzi, "io li pago e dunque vaffanculo ". Ma cos'è il rispetto secondo Buzzi e Carminati? "Se tu non rispetti gli accordi, tu lo sai chi sò io. Te ricordi da dove vengo". Ed è la fedina penale che qui viene esibita come stemma nobiliare, cicatrici non di guerra ma di malavita che affascinano Gramazio junior a conferma che la destra missina, che pure aveva in testa un progetto di società e nel cuore sentimenti e ideali, a Roma è diventata mafia. Roba da far inorridire la buonanima di Almirante, che diceva: "Se qualcuno ruba va in carcere, ma se ruba uno dei nostri bisogna dargli l'ergastolo". E Teodoro Buontempo, er pecora, cercava un riscatto nell'educazione dei figli: dormiva in una Cinquecento ma li mandava a studiare nelle università inglesi. È un piccolo mondo antico che l'inchiesta Mafia Capitale archivia per sempre. In questo copione, Gianni Alemanno, pugliese sedotto dalla romanità, che posava a ideologo della destra sociale, è il primo responsabile politico del sistema criminale, una sorta di Ciancimino de Roma. Ma non è con le mille assunzioni clientelari che Alemanno ha seppellito il mondo dei camerati missini. No, l'ex sindaco era arrivato a chiedere all'organizzazione mafiosa un aiuto elettorale per le europee. E Buzzi si era rivolto alla 'ndrangheta perché, come abbiamo già sentito, "una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso". Gli chiede Alemanno: "Devo fare delle telefonate? Devo fare qualcosa?". E Buzzi: "No, no, no, tranquillo, tranquillo. Ora manderemo a... Milardi l'elenco di persone, nostri amici del sud, che stanno al sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Davvero solo una legge speciale e d'emergenza può riportare la criminalità romana a un livello fisiologico e costringere a rifugiarsi nei loro covi i pregiudicati e gli insospettabili come Luca Odevaine, quello - ricordate? - che si chiamava Odovaine e cambiò nome per non farsi riconoscere, l'ex capo di gabinetto di Veltroni formatosi in Legambiente. Dalla mafia romana percepiva uno stipendio di 20.000 euro mensili, regolarmente registrato nella contabilità da sottosuolo che la segretaria di Buzzi appuntava sul libro nero. Lo stesso Carminati, notando la copertina nera, disse: "Mamma mia, mi inquieta un po'". E non perché la disonestà gli turbava la coscienza, ma perché il nero lo depistava. I libri neri per il fascista Carminati sono quelli di Céline, di Guénon, di Evola e dei giapponesi che raccontano la morte dei guerrieri e non le pretese di Odevaine che voleva un euro per ogni rifugiato venduto: " Se me dai cento persone facciamo un euro a persona.. . Non lo so, per dire: hai capito? Ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina, 50 là, e le quantifichiamo ". Il traffico è odioso e il pervertimento è di ideali, questa volta, rossi. Ma c'è anche la fine della natura bonaria e cinica di Roma che è la città più grande d'Italia (20 volte Napoli) e con il centro storico più esteso del mondo, la più popolosa (più di tre milioni di abitanti censiti), la più bella ( ça va sans dire ), e ormai purtroppo la più degradata, la più corrotta e la più perduta tra le capitali dell'Occidente: un suk di illegalità, abusivismo, fogne a cielo aperto e sporcizia per le strade, sottosviluppo nei cortili, l'asfalto tutto buche e avvallamenti, il centro storico assediato dai mendicanti, le auto in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... Insomma la scenografia è perfetta per le ordinanze di Mafia capitale che come ha scritto il New York Times "sollevano nuove domande circa la capacità dell'Italia di riformarsi". Non si può infatti continuare a fingere, come fa il sindaco Marino, che Roma "città per bene" non somigli ogni giorno di più a Buzzi, a Carminati e a Odevaine e sia solo vittima e non anche complice, forse qualche volta persino peggiore di loro. Ecco perché questa seconda ordinanza della Procura non è solo un atto giudiziario, un supplemento di certificazione, l'aggiornamento della mappa dell'aporia e del sistema mafioso che controlla e plasma tutto, strade e uomini, traffico e sporcizia. Questa ordinanza è neorealismo ed è un trattato di linguistica moderna dove il codice più innocente è quello di sporcizia banale sulle "dù zinne" della "fica da paura che abbiamo preso a lavorà alla raccolta differenziata ". Questo in fondo è il Bagaglino, volgarità ordinaria, intermezzo comico da vecchia Roma: "Si chiama Ilenia". "Già si presenta bene" risponde Figurelli a Buzzi. "E se è un cesso la famo scopà da M", e qui l'iniziale del nome di battesimo del presunto bruto sessuale potrebbe aprire una faida da film di Tarantino. Con la M, per dire, comincia Massimo, che è il nome di Carminati. Questa ordinanza è infine un documento storico e le sue 428 pagine ci rimangono dentro come una preghiera. Non sarà infatti il processo, non saranno le condanne il Big Bang di una città che si prepara al Giubileo e aspira ad ospitare le Olimpiadi. Non basteranno i giudici a farla scendere dal taxi del sottosviluppo e della mafia perché, come dice Buzzi "bisogna stare attenti a scenne dal taxi: con noi sali, ma non scenni più".
Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.
Cooperative nere e cattoliche: il concordato di Carminati per il business della disperazione. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a spartirsi una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa Un servizio garantito grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni, scrive ancora Francesca Sironi su "L'Espresso". C'è un rapporto del gennaio 2014, firmato dagli ispettori della Ragioneria dello Stato, che dice già tutto. Che porta alla luce le irregolarità degli appalti garantiti dal comune di Roma a una maglia di tre cooperative: il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi, braccio destro dell' ex terrorista nero Massimo Carminati, entrambi finiti in carcere per l'indagine che ha colpito la mafia fascista della capitale; il “Consorzio casa della solidarietà” e “Domus Caritatis”. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a fare "stecca para" - per usare il lessico di Romanzo Criminale - trasformando la disperazione in un business d'oro. Insieme, queste tre associazioni si spartivano una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa. Ovvero per dare un letto temporaneo a chi perde la casa. Un servizio importante, garantito però grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni. «Va rilevato come l'affidamento sia avvenuto in via diretta, In assenza di qualsivoglia procedura concorrenziale», scrivono i funzionari dell'Ispettorato: «sebbene l'importo sia largamente superiore al limite previsto dalla legge secondo cui il fornitore dovrebbe essere individuato mediante una gara europea». Ma quali gare: nella capitale i problemi si risolvevano fra amici, hanno rivelato le indagini della procura di Roma. E anche quando c'erano dei bandi, loro riuscivano a pilotarli. Soldi sicuri, che intascavano sempre, nonostante le casse indebitate del Campidoglio. E non solo dal municipio: ma ottenevano finanziamenti pure dalla Prefettura e da Bruxelles. I patti lateranensi di Carminati hanno resistito fino a pochi giorni fa. Perché l'allarme della Ragioneria di Stato è stato ignorato? Nessun esponente della giunta Marino lo ha letto? Nessuno si è insospettito? Grazie alle procedure “straordinarie” dettate dalle “emergenze” (che potevano durare anche anni, come quella “abitativa”, o “migratoria” o “dei Rom”) una cooperativa quale quella di Salvatore Buzzi era riuscita a raggiungere il controllo di 2.965 posti letto: servizi per minori stranieri non accompagnati, adulti richiedenti asilo, nomadi, famiglie italiane travolte dalla crisi, uomini senza tetto e madri sole. È lo stesso “Gruppo 29 giugno” di Buzzi a vantare risultati straordinari, soprattutto in termini economici, nel bilancio del 2013. L'Italia era in crisi. Loro no: le intercettazioni dei magistrati svelano quanto fosse profittevole lucrare sulle disgrazie della gente. Perché queste sofferenze, garantiva Buzzi al telefono, «rendono più della droga». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Il sistema ha funzionato alla perfezione fino all'intervento dei magistrati. Nessuna denuncia ha fermato i nuovi padroni del business del sociale, capaci di arricchirsi anche con gli sbarchi di Mare Nostrum, la marea umana di profughi fuggiti dalle guerre in Siria e in Libia che ha raggiunto le coste italiane negli ultimi mesi. A maggio del 2014 la “Eriches” dell'ex detenuto modello Salvatore Buzzi gestiva solo a Roma 493 posti letto. Considerando una media di 40 euro di rimborso giornaliero a persona, gli stranieri portavano un introito assicurato di 20mila euro al giorno. Anche qui, dalle tabelle pubblicate proprio su Il Tempo, il quotidiano romano il cui direttore è stato intercettato dagli inquirenti a colloquio con “il Nero”, si trovano altre due sigle ricorrenti: Domus Caritatis e Casa della Solidarietà. Insieme controllano 1.436 ospiti. Un giro di denaro fra i 50 e i 57mila euro al giorno. Il fatto è che queste tre cooperative, Eriches, Domus Caritatis e Casa della Solidarietà, non sono esattamente concorrenti. Da una parte c'è Salvatore Buzzi, il braccio aziendale, secondo i pm, del fascista Massimo Carminati. Dall'altra c'è Tiziano Zuccolo (non indagato): presidente della Casa della Solidarietà e rappresentante dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, la rete di Domus Caritatis. Nelle intercettazioni riportate dai Pm, Buzzi e Zuccolo commenterebbero fra loro “un patto” di divisione degli affari “al 50-50", metà e metà. Ma non è solo dalle conversazioni telefoniche che emergono intrecci fra i due. C'è una società, la Maika Immobiliare. Fondata nel 2006 per essere messa in liquidazione nel 2008. Era controllata dalla Sarim immobiliare, srl appartenente all'organizzazione di Buzzi; da Sandro Coltellacci, anche lui arrestato per l'indagine sul “Mondo di mezzo”; da altri due soci. E da Tiziano Zuccolo in persona. Registrato come proprietario del 16 per cento del capitale. Nel 2007, quando Report mandò in onda una puntata in cui i due giornalisti autori del servizio interrogavano Buzzi su degli affidamenti inusuali ricevuti dall'Università di Roma Tre, la Maika esisteva ancora. E aveva sede legale in via Castrense 51. Dove fino al settembre del 2008 ha avuto domicilio anche un'altra cooperativa emersa alle cronache negli ultimi tempi: “Un Sorriso”, l'associazione che gestiva il centro per minori stranieri di viale Giorgio Morandi, Tor Sapienza (che ha spiegato in un' intervista a Repubblica la sua estraneità al consorzio, dal quale anzi avrebbe ricevuto ripetute e gravi minacce per anni). Il luogo degli scontri. Degli scandali. Delle polemiche. Da cui gli adolescenti sono stati portati via. Per finire in un'altra struttura. Di chi? Di Domus Caritatis. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», vanta il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi nel bilancio: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello Sprar, (la rete nazionale dei comuni per la gestione dell'emergenza) una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore». La “stabilizzazione” era garantita da rapporti stretti con le istituzioni: stando agli atti, per trasferire "un numero imprecisato" di minori stranieri non accompagnati, più di 100, da una comunità considerata inagibile, «Buzzi si interessava a un edificio disabitato, nella disponibilità del Comune di Roma, coinvolgendo un collaboratore nel progetto di occupazione abusiva dell’edificio». Lo stabile, localizzato in via del Frantoio, avrebbe ospitato, una volta "squattato", gli adolescenti. «In una conversazione intercettata, il 2 gennaio 2013, Buzzi riferiva, infatti, che avrebbe interessato “Caradonna”, identificato, poi, nel presidente del V Municipio - Ivano Caradonna - competente su via del Frantoio, affinché, dopo la loro occupazione, le autorità locali non avessero provveduto allo sgombero». Nel segno della legalità. Ci sono anche altri intrecci che aiutano la stabilità. E riguardano questa volta i servizi. Nella primavera del 2013 il catering di una grande struttura per minori stranieri gestita dal consorzio di Buzzi proprio in via del Frantoio 44 viene sostituito da un momento all'altro. Al posto del fornitore precedente arriva la Unibar di Giuseppe Ietto. Come mai questa decisione? «La scelta delle aziende veniva operata da parte di Carminati», scrivono i Pm: «gli imprenditori di volta in volta selezionati venivano messi a conoscenza degli interessi del sodalizio e delle modalità con le quali ci si prefiggeva di raggiungere gli obiettivi, sicché si veniva a generare un rapporto altamente fiduciario». Una gestione interna, insomma. Poi la Unibar assume la figlia di Carminati. Il “Nero” aiuta Giuseppe Ietto in un appalto. E il sodalizio si stringe. Anche grazie alla ricchezza del business. Nel pomeriggio dell'otto gennaio del 2013, parlando con un imprenditore, «Carminati espone le consistenti possibilità di guadagno derivanti dalla fornitura del servizio di catering presso i centri di accoglienza per famiglie», riportano i magistrati: «”Qua se guadagnà qualche soldino ... cioè ...capito?"», dice: «"Siccome che stiamo a parlà di 8/900 pasti. Tre euro ciascuno. E per ogni pasto, visto che pagano in ritardo, ti danno mezzo euro in più”». Continua il Guercio: «Praticamente se ritardano a nove mesi a limite non ti frega un cazzo, ogni giorno prendi una cosa in più, sai li parliamo di un migliaio di pasti al giorno, una cosa, una cosa … calcola che st'amico mio, ogni giorno più che passa si prenderà, credo 600 Euro in più al giorno, caricato sui pasti!» Gli operatori hanno provato a lamentarsi della qualità del cibo: gli è stato detto che andava bene così. Ora sia Buzzi, che Ietto che Carminati sono in carcere. E sì che avevano pronto un progetto solidale proprio per i detenuti: «Un punto cottura per una mensa da allestire all’interno del carcere femminile di Rebibbia», riportano i Pm: «Progetto ideato da Carminati, il quale lo ha indicato a Buzzi e a Carlo Guarany (vicepresidente della cooperativa “29 giugno”), come imprenditore di riferimento per l’attuazione».
Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su "Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.
Mafia Capitale atto secondo: "Veltroni bene, ma co' Alemanno se pija de più". Mafia Capitale nella città corrotta. La politica capitolina al servizio de "er Cecato" e del suo braccio destro Buzzi. E le mazzette come chiave per entrare nei business che contano, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Massimo Carminati e Riccardo Brugia Rutelli? «Noi abbiamo cominciato a cresce con lui». E Veltroni? «Diciamo con Veltroni siamo andati bene noi». Alemanno? «co Alemanno sotto certi aspetti se pija molti di più.. specialmente sul sociale». La consolidata infiltrazione di “mafia capitale” nell’amministrazione capitolina spiegata a un emissario della 'ndrangheta. Un'infiltrazione «essenziale ai fini dell’assegnazione dei lucrosi appalti pubblici indetti dal comune di Roma». L'atto secondo di Mafia Capitale è soprattutto la narrazione di un città in cui la corruzione è il concime che fa crescere piccoli o grandi fortune personali. Roma corrotta da capi bastone e da manutengoli del potere locale. Roma corrotta dall'ambizione di un uomo, Massimo Carminati “er Cecato”, che da delinquente della malavita romana con il mito del Duce è diventato modello, risorsa e valore aggiunto per molti imprenditori che grazie a lui hanno piegato pezzi importanti dell'amministrazione pubblica ottenendo così «un sacco di lavori», come ha ammesso, intercettato, il manager delle coop e braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Nell'ultima retata sono stati arrestate 44 persone (tra carcere e domiciliari) e altre 21 sono indagate dalla procura antimafia di Roma che coordina i carabinieri del Ros della Capitale in questa seconda tranche dell'indagine Mondo di mezzo. Un sistema governato dal clan di Massimo Carminati. «I fatti corruttivi spiegano e sono spiegati dal contesto in cui si muove l’organizzazione a seguito del mutamento della compagine politica di maggioranza nel consiglio comunale di Roma e la conseguente rimodulazione delle attività corruttive», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari, che aggiunge: «In effetti, a seguito del mutamento nella maggioranza del Comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, mafia capitale investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi, del seguente tenore: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh... capisci”». Il lessico dell'organizzazione di Carminati rappresenta l'essenza del clan dall'animo trasformista e dalle pelle camaleontica. «Poi ce pigliamo e misure con Marino», è ancora Buzzi che detta la linea politica da intraprendere una volta chiusa l'era di Alemanno al Comune. Ma sempre «nel solco della linea strategica tracciata da Carminati di una rimodulazione dell’attività corruttiva in relazione ai diversi decisori pubblici». Il primo obiettivo raggiunto dall'imprenditore del clan è il Pd Mirko Coratti, in quel periodo presidente del Consiglio comunale. C'è anche Franco Figurelli, ex capo segreteria dell'assemblea capitolina, a libro paga della cosca. «Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». Insomma, per usare le parole del re delle coop, «so’ tutti a stipendio...». I politici disposti al compromesso in fondo non sono altro che bovini da foraggiare: «La mucca che se non mangia non può essere munta», una metafora che Buzzi ricorda a Figurelli, il quale promettendo di ricordare il detto a Coratti, ne approffitta per chiedergli un favore: l'assunzione di un amica. Dell'assuzione si sarebbe interessato proprio Coratti, attivato a sua volta dal compagno della madre della ragazza, un consigliere dell'VIII municipio. Per sistemare due nipoti anche un dirigente del Comune, ha accettato di scendere a patti con Buzzi. Ma oltre ai favori e ai piaceri personali, questa vicenda è anche una storia di soldi. Gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo rintracciano alcuni versamenti effettuati dalla cooperativa 29 giugno di Buzzi all'associazione che faceva capo a Coratti. Una sorta di fondazione, di quelle che oggi vanno tanto di moda tra gli esponenti dei partiti, per canalizzare le donazioni. D'altronde »il finanziamento pubblico è destinato a finire», osservano due fedelissimi di Buzzi. L'ex presidente dell'assemblea in cambio del denaro ricevuto ha, secondo gli inquirenti, abbracciato la causa del clan. In che modo? Appalti per i rifiuti, fondi pubblici e certezza che il Comune pagherà i debiti verso la coop. Oltre a Coratti e Figurelli, tra gli indagati c'è anche Massimo Caprari consigliere comunale del Centro democratico. Per lui l'organizzazione di Carminati aveva previsto mille euro al mese più benefit: «la promessa di erogazioni continuative di denaro, tra le quali quella costante di una percentuale dei lavori ottenuti dal Comune da parte delle cooperative riconducibili al Buzzi». La corruzione è servita a Buzzi & Co per ingraziarsi oltre che uomini del Pd anche alcuni del centrodestra. Il nome che spicca in questo nuovo capitolo di Mafia Capitale è Giordano Tredicine, 33 anni, consigliere comunale e vice coordinatore di Forza Italia nel Lazio. Rampollo della famiglia di venditori ambulanti che gestisce la massima parte dei camion bar della città. «Buzzi lamenta, in una conversazione con Gammuto, che se avesse vinto la maggioranza di centrodestra la sua scuderia sarebbe stata pronta e in essa indicava un ruolo specifico di Tredicine, oggi consigliere di minoranza all’Assemblea Capitolina». Insomma, il giovane era uno della scuderia, uno dei cavalli pregiati a cui il clan poteva affidare alcuni compiti. Secondo il ras della coop 29 giugno a destra pescavano a piene mani: «se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati, partivamo a razzo,... c’amo l’assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta’ assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più». Buzzi e il clan avevano istaurato con Tredicine "un rapporto di remunerazione corruttiva". Buzzi a Carmninati: «A Giordà se non te arrestano diventerai primo Ministro» me fa’ dice: ...li mortacci tua...te possono arresta’ (ride). Però come sto sul pezzo a Giordano non c’ho mai visto nessuno ehh.. credimi, mai nessuno». Persino nel feudo dei clan del litorale romano, Fasciani e Spada in primis, Mafia capitale è riuscita a comprare politici. «Le indagini svolte hanno consentito di verificare l’esistenza, nel X dipartimento, di decisori pubblici remunerati dall’organizzazione riconducibile a Buzzi, Carminati e Testa. Le risorse economiche pubbliche erano originariamente stanziate dalla regione, attribuite al comune, che, in parte, li smistava ai municipi», scrive il gip. Nella lista degli inquirenti è così finito il mini sindaco di Ostia, Andrea Tassone del Partito democratico, che nei mesi precedenti agli arresti si era lanciato in campagne per la legalità e contro le cosche. Stando all'inchiesta, un'antimafia di facciata. «Significativa, circa la individuazione in Tassone del capo di Solvi (faccendiere del politico), è la circostanza che egli sia stato delegato dal medesimo al controllo di voti e preferenze per conto della lista civica Marino alle elezioni comunali, secondo quanto si desume da fonti aperte», annotano gli investigatori. E sempre Solvi a «raccordare Buzzi e Tassone in vista dei loro incontri». Ma è proprio Buzzi a confessare il rapporto con Tassone: «Tassone è nostro, eh…è solo nostro..non c’è maggioranza e opposizione, è Mio». E poco dopo aggiunge: «perché noi pagamo tutti come vedi”...noi nell’ambito de ste cose..nell’ambito di questa monnezza pe tenè (fonetico) i voti gia semo arrivati a 43 mila euro, eh...Tassone 30...10 Alemanno 40». Tassone stipendiato? Secondo l'imprenditore legato al boss Carminati sì, e non sembra, a suo dire, accontentarsi: «Remunerazioni che evidentemente non bastavano, posto che Buzzi, qualche giorno dopo, riceve da Tassone una ulteriore richiesta di denaro, pari al 10% del valore di un affidamento. Uno dei motivi della sua visita ad Ostia veniva svelato dallo stesso Buzzi che, si lamentava che il “Presidente” (del X Municipio, Andrea Tassone) gli avesse chiesto il “10% in nero”». Le richieste a Tassone, per il tramite del faccendiere Solvi, sono tutte finalizzate a ottenere favori e agevolazioni dal X municipio. Anche qui le «mucche» hanno bisogno di cibo per poi ottenere più latte. Secondo Buzzi l'accoglienza dei migranti è un business più remunerativo della droga. E anche meno rischioso. Tra gli espisodi di corruzione elencati negli atti della procura antimafia di Roma diversi riguardano proprio l'emergenza abitativa e l'accoglienza dei migranti. Uno degli episodi raccolti dagli inquirenti ruota attorno alla Società Cooperativa Deposito locomotive di Roma San Lorenzo, «oberata di debiti, assillata dalla necessità di dover pagare cambiali, con asset invenduti costituiti da 14 appartamenti in zona Case Rosse – Settecamini». Il politico di riferimento del clan è in questo caso Daniele Ozzimo, ex assessore comunale alla Casa, in quota Pd, mentre il dirigente comunale è Guido Magrini, Direttore del dipartimento delle Politiche Abitative. Il sospetto dei magistrati è che l'assessore abbia chiesto a Buzzi «150. mila euro per risollevare le sorti di una cooperativa, in cambio del mantenimento di una convenzione relativa all’emergenza alloggiativa assai remunerativa per Buzzi». «Tocca vede’, nei limiti del possibile, salva’ sta cooperativa. Stamo a parla’ di centocinquantamila euro entro venerdì», riferisce l'imprenditore a un sodale, che chiede chiarimenti: «Senti, ma in cambio di centocinquanta, qual è il beneficio o l’opzione per noi?». E Buzzi risponde: «che tu opzioni gli appartamenti, no? Loro c’hanno quattordici appartamenti invenduti». Luca Odevaine invece (già arrestato nel primo filone d'inchiesta), era l'esperto dell'affare immigrazione. «Aveva instaurato rapporti di natura corruttiva con esponenti del gruppo imprenditoriale “La Cascina” mettendo a disposizione di tale gruppo il suo ruolo istituzionale di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, nonché il suo ruolo di componente delle tre commissioni di gara per l’aggiudicazione dei servizi di gestione del C.a.r.a. di Mineo, ricevendo in cambio la promessa di una retribuzione fissa mensile determinata in una prima fase in 10 mila euro ed elevata a 20mila dopo l’aggiudicazione della gara del 7 aprile 2014». La cooperativa vicina a Comunione e Liberazione è una holindg con un fatturato enorme. Partita come mensa per gli studenti ora gestisce ospedali, hotel, pasticcerie, catering. Odevaine era dunque stipendiato da Buzzi e dalla Cascina. Interrogato dopo l'arresto ai pm ha dichiarato: «Quello che facevo io …. era di facilitare il Ministero da una parte nella ricerca degli immobili che potessero essere messi a disposizione per l'emergenza abitativa». E Le somme di denaro (anche nella forma di pagamento dell'affitto di immobili) che ha ammesso aver percepito da Buzzi? Semplice. Li riceveva per l'attività che svolgeva per conto della sua cooperativa, di «facilitatore dei rapporti con la pubblica amministrazione … in ragione delle mie conoscenze maturate nel tempo». Il centro per richiedenti asilo di Mineo è una gallina dalle uova d'oro per gli imprenditori dell'accoglienza. Hanno capito che speculare è possibile sul villaggio della solidarietà inventato dal governo Berlusconi e dall'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni. Odevaine nei dialoghi intercettati spiega ai suoi interlocutori il metodo per mascherare le tangenti. Attraverso i subappalti affidati a ditte amiche che poi avrebbero gonfiato le fatture oppure attraverso la sovrafatturazione sfruttando una società di import export dello stesso Odevaine: «Altra ipotesi può darsi, può essere con la ... con l'impresa questa mia di import export, loro comprano alcune cose all'estero, tipo il caffè per esempio...quei soldi rimangono fuori e lì non ce l'ho le rotture di coglioni che ci sono qua, nel senso che se i soldi stanno lì, stanno nella società e io li prendo personalmente non succede un cazzo». E' sempre l'esperto di immigrazione, poi, a spiegare come versare le mazzette: «fallo... in più tranche però lo puoi fare, dici questi ce l'avevo in cassa». Per avere successo servono le relazioni. Odevaine conosce a fondo gli equilibri politici. Sostiene di essere stato lui a mettere in contatto La Cascina con il sottosegretario Giuseppe Castiglione. «Per cui ho conosciuto loro gliel'ho presentati a Castiglione... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e Liberazione, insieme ad Alfano e adesso loro ... Comunione e Liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del Centro Destra ...Castiglione». Il suo interlocutore a questo punto gli chiede: «Comunione e Liberazione appoggia Alfano?». Odevaine ribatte: Sì, stanno proprio finanziando ... sono tra i principali finanziatori di tutta questa...questa roba si ... e Lupi è infatti è il Ministro delle Opere Pubbliche e Castiglione fa il sottosegretario ... all'Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia ... cioè quello che poi gli porta i voti ... perché poi i voti loro ce li hanno tutti in Sicilia». Per vincere le gare sull'accoglienza il gruppo di Carminati non badava a spese. E pagava chiunque potesse agevolare i propri interessi. Secondo gli inquirenti anche il sindaco Fabio Stefoni di Castelnuovo di Porto avrebbe ottenuto una lauta ricompensa. Il patto, secondo gli investigatori, consisteva nel pagamento di una somma « a titolo di contributo elettorale e dalla promessa di dazione di 0,50 Euro per immigrato al giorno, da parte di Buzzi per indurre Stefoni a consentire o, comunque, a non opporsi all’apertura di un centro di accoglienza a Borgo del Grillo, nel comune di Catelnuovo di Porto».
Capitale corrotta, nazione infetta. Il celebre titolo de “l'Espresso” ha compiuto 60 anni ma continua a essere di un'attualità sconcertante.
Per il Pd a rubare sono sempre gli altri. Renzi si erge a paladino della legalità: "Chi viola le regole, deve pagare tutto". Ma il Pd non fa mea culpa. Marino: "Vado avanti, ho fatto pulizia". E Orfini chiama in causa i servizi segreti, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Mafia Capitale, si sa, è cosa di tutti. Gli arresti riguardato l'intero spettro politico. Ci mangiavano tutti. Pochi erano gli esclusi dal banchetto. Ma alla mangiatoia, per usare la metafora di Salvatore Buzzi, un posto privilegiato ce l'aveva proprio il Partito democratico con i suoi esponenti locali, i suoi amministratori e le sue cooperative. Diciannove persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l’ennesimo terremoto la seconda tranche dell’inchiesta denominata "Mafia Capitale" che già lo scorso dicembre aveva fatto scattare le manette ai polsi di 37 indagati, con il coinvolgimento di altri 40. Ancora una volta, l’ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all’alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra, del Campidoglio a della Regione Lazio: risultano tutti a libro paga dell’organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo e si aggiudicava i migliori appalti. "Un Paese solido è quello che combatte la corruzione come sta avvenendo in Italia con decisione e forza - commenta il premier Matteo Renzi - mandando chi ruba in galera, perchè è giusto che chi ha violato le regole paghi tutto e fino all’ultimo giorno". Ma sono solo dichiarazioni di circostanza. Perché, come dice anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini, al Nazareno sono convinti che a rubare siano sempre glia altri. "Le amministrazioni di Marino e Zingaretti - commenta Orfini in conferenza stampa - sono state un baluardo della legalità". Eppure, aldilà di Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl in consiglio comunale e poi in Regione, la seconda "retata" di Mafia Capitale ha fatto scattare le manette ai polsi di numerosi esponenti dem. Tra questi spiccano Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale in quota Pd, dimessosi a dicembre dopo la prima ondata di arresti, e il suo capo segreteria, Franco Figurelli. Per i pm, avrebbero ricevuto la promessa di 150mila euro, la somma di 10mila e l’assunzione di una persona segnalata da Coratti in cambio di una serie di favori da fare alle cooperative di Buzzi. In cella anche Daniele Ozzimo, ex assessore piddì alla Casa, Angelo Scozzafava, ex capo del quinto dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute di Roma, e Pierpaolo Pedetti, anche lui eletto consigliere comunale nel 2013 con il Pd, presidente della Commissione Patrimonio. Insomma, al pari di altre forze politiche, il Pd continua a comparire nelle carte dell'inchiesta. Eppure Orfini resta ancora convinto che non ci siano le condizioni per sciogliere il Comune di Roma, "perché questo significherebbe andare incontro alle richieste della criminalità". Dal canto suo, il sindaco di Roma Ignazio Marino rivendica il "cambiamento epocale" della sua giunta e si dice soddisfatto "della legalità contabile che abbiamo portato nella nostra città". "Continuiamo in questo modo - commenta il primo cittadino di Roma - la linea amministrativa che abbiamo assunto in questi due anni di governo sta dimostrando che veramente stiamo cambiando tutto". Per difenderlo, Orfini chiama addirittura in causa i servizi segreti: "Chiederò al Copasir di occuparsi della vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota come Carminati» e di come «abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità". Ma il teorema non regge proprio. "Che cos’altro deve accadere perché Marino se ne vada e si torni alle urne?", replica il leader della Lega Nord Matteo Salvini che vede proprio nel sindaco piddì il primo responsabile. Anche il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni di Marino: "Questa è l’ennesima prova che il sistema dei partiti è totalmente marcio, ivi incluso il Pd romano".
Fuoriluogo, scrive Franco Corleone su “L’Espresso”. L'onestà politica secondo Benedetto Croce. L’invocazione ossessiva dell’onestà è ben giustificata da mille episodi della cronaca del malaffare e però un bagno di razionalità può essere utile. Leggere il saggio di Benedetto Croce presente nel volume Etica e politica appare dissacrante di tanti luoghi comuni. “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”, così esordisce il filosofo e prosegue contestando la deriva per un Paese di affidare la cosa pubblica a onesti uomini tecnici. Croce definisce strana la pretesa che nelle cose della politica si chiedano non uomini politici ma onest’uomini. “Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica?- si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”. Vale la pena di leggere gli esempi della storia che presenta Croce per giustificare la sua posizione, ma soprattutto è istruttiva la sua conclusione: la disonestà coincide con la cattiva politica, con l’incapacità politica. Una tesi paradossale che esalta la politica e in tempi di crisi, di vero abisso della politica, rappresenta una lezione aristocratica.
Mafia Capitale, la Procura: "Rubano tutti". Gli arresti posticipati per non influenzare il voto delle regionali, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. "Rubano tutti, ecco il filo rosso di questa seconda parte dell'inchiesta....". A piazzale Clodio, sede della procura capitolina, il procuratore Pignatone non riceve i giornalisti e tutti i pm coinvolti, l'aggiunto Prestipino, i pm Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e Paolo Ielo, declinano gentilmente dichiarazioni e commenti. "Rubano tutti" resta l'amara constatazione dopo mesi di indagine e dopo aver riscontrato le dichiarazioni a verbale di numerosi manager e imprenditori che hanno spiegato "il sistema di potere trasversale ad ogni partito e maggioranza" che ha gestito ogni affare nella Capitale almeno negli ultimi dieci anni. Proprio per questa trasversalità, è stato chiaro a tutti che la seconda parte di Mafia capitale avrebbe avuto ricadute pesanti nelle settimane prima del voto già infuocate da una campagna elettorale durissima. "Abbiamo ritenuto necessario, per non influire sul voto, attendere la chiusura delle urne prima di procedere agli arresti" afferma una fonte in procura. Lo dimostrano le date: la richiesta della procura risale a marzo, l'ordinanza è stata firmata il 29 maggio, venerdì, quando già imperversava sul voto la lista dell'Antimafia. Attendere qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E così è stato deciso. Se in Mafia capitale parte Prima è stato protagonista Il sistema delle cooperative rosse che faceva capo a Salvatore Buzzi, nella parte Seconda la parte del leone la fanno le cooperative bianche. Al centro di molti passaggi dell'ordinanza lunga 500 pagine c'è infatti La Cascina, cooperativa bianca che fa riferimento a Comunione e Liberazione. Tra i 44 arresti di questa mattina per corruzione e concussione aggravati dalla modalità mafiosa, anche Menolascina, manager della cooperativa. Secondo l'accusa, la cooperativa garantiva un premio mensile di 10 mila a Lica Odevaine in quanto il tecnico che garantiva, dal tavolo nazionale per l'emergenza immigrazione, la gestione degli appalti per i centri profughi e immigrati. Una volta che La Cascina ha ottenuto l'appalto del Cara di Mineo (7 aprile 2014), il premio per Odevaine è stato raddoppiato (20 mila euro mensili). La cooperativa è emersa anche in un'altra delicata inchiesta del Ros dei Carabinieri: quella che ha portato in carcere Ettore Incalza, il super direttore generale del ministero delle Infrastrutture, e ha costretto alle dimissioni l'ex ministro Lupi (che non è mai stato indagato).
Il tariffario delle tangenti: “Un euro a migrante”, scrive “La Stampa”. Le intercettazioni del Ros svelano le mazzette. Il ras delle coop sociali Buzzi al telefono: «La mucca deve mangiare per essere munta». Mucche da mungere solo se ben foraggiate. Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e in carcere per l’inchiesta di Mafia Capitale dello scorso anno, così si esprimeva al telefono con altri indagati. A pagina 21 dell’ordinanza del gip Flavia Costantini, che conta 500 pagine, si legge che «ha ricevuto l’eloquente risposta che la mucca era stata ben foraggiata dall’attività di Coratti (ex presidente del consiglio comunale ndr) considerazione alla quale altrettanto eloquentemente Buzzi ribadiva che «la mucca era stata munta tanto». Nell’ordinanza, che riporta appunto le intercettazioni telefoniche, viene evidenziato che ciò «è un’eloquente dimostrazione di un rapporto corruttivo continuativo nel tempo». «Le erogazioni di utilità di Buzzi, esecuzione della linea strategica delineata di concerto con Massimo Carminati - si legge nel provvedimento - avevano l’evidente funzione di asservire agli interessi del gruppo politici che gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». Ma la 29 giugno non è l’unica cooperativa interessata dalla «mungitura della mucca», il giudice scrive, infatti, ancora: «Gli esponenti del gruppo La Cascina (coop attiva, dal 2012, anche nel settore dei servizi per l’immigrazione, e oggetto questa mattina di perquisizione da parte dei carabinieri del Ros, ndr) avevano promesso a Luca Odevaine una retribuzione fissa mensile, concordata prima in 10mila euro al mese e poi aumentata a 20mila euro e commisurata al numero di immigrati ospitati dai centri gestiti dal gruppo». La cifra - spiega il Gip - è il «prezzo per lo stabile asservimento della sua funzione di pubblico ufficiale componente del Tavolo di Coordinamento sull’immigrazione istituito presso il ministero degli Interni» e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio come componente delle commissioni di aggiudicazione delle gare indette per la gestione dei servizi presso il Cara di Mineo». L’effettiva, periodica consegna delle somme pattuite, sarebbe confermata dalle intercettazioni ambientali e, «con certezza», in «almeno cinque episodi», dalle indagini tecniche. La conferma arriva dalle stesse parole di Odevaine, intercettato nell’ambito dell’inchiesta: «...altre cose in giro per l’Italia... possiamo pure quantificare, guarda ... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va be’ ... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...». Questo è lo stralcio di una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, grazie al quale il gip Flavia Costantini prospetta l’esistenza di «un vero e proprio tariffario per migrante ospitato». A titolo esplicativo Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e spiega: «Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so’ almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so’ 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...». Costantini sottolinea come Le indagini dei carabinieri del Ros abbiano evidenziato «la straordinaria pericolosità di Luca Gramazio». L’amministratore di centrodestra «potrebbe sfruttare la rete ampia dei collegamenti per fornire nuova linfa alle attività delittuose e agli interessi dell’associazione» capeggiata da Massimo Carminati, «nonostante lo stato detentivo di numerosi sodali». In un altro passaggio viene evidenziato come per le elezioni al parlamento europeo del maggio 2014, Gianni Alemanno, chiese l’appoggio a Salvatore Buzzi. Quest’ultimo si sarebbe mosso per ottenere il sostegno alla candidatura anche con gli uomini della cosca `ndranghetista dei Mancuso di Limbadi. «Un ulteriore tassello idoneo a corroborare il rapporto di reciproco riconoscimento tra le due organizzazioni - scrive il giudice - è costituito dai riscontri intercettivi effettuati in occasione delle elezioni del Parlamento Europeo 2014, che hanno visto il politico Giovanni Alemanno, candidato nella lista «Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale», nella circoscrizione Sud». Buzzi, in una conversazione con Massimo Carminati, intercettata il 21 marzo del 2014, riferiva l’esito di un incontro avuto poco prima con Alemanno negli uffici della «Commissione Commercio» a Roma. «Buzzi - scrive il gip - riferiva del sostegno richiesto in quell’occasione dall’ex primo cittadino («no, no era pe’ la campagna elettorale ... una sottoscrizione e poi se candida al sud») e rappresentava al sodale come avesse individuato Campennì, indicato con il solo nome di battesimo, quale strumento idoneo per assecondare tale richiesta (».. da Giovanni ... gli famo fa ..«). Buzzi, il giorno seguente contattava «Giovanni Campennì, al fine di interessarlo per «da ’na mano a Alemanno ... in campagna elettorale ...«. Il tentativo «di Buzzi di mascherare, in maniera evidentemente strumentale con l’interlocutore («sto numero è intercettato ... però so telefonate legali ..»), l’illecita richiesta pervenutagli, facendola passare come innocua e legittima istanza volta ad ampliare il consenso elettorale (»? basta che non sia voto di scambio .... tutto è legale ... uno po’ vota’ gli amici???!!!»), nell’ambito di una circoscrizione elettorale particolarmente ampia («? mica può venire li!!! Scusa ... no perché la circoscrizione è grandissima .... è Abruzzo .... Campania .... la Calabria .... Puglia .... Basilicata ..... come cazzo fa? ... èèè ....»), veniva perfettamente compreso da Campennì, il quale, avendo evidentemente ben inteso il vero senso della richiesta («ah ste chiamate so legali??? ...»), aderiva prontamente alla richiesta, non potendo evitare, tuttavia, di sottolineare la propria capacità di poter attingere a un ampio bacino di consensi pilotabili, facendo ricorso a una metafora particolarmente espressiva («va bene .... allora .... è qua la famiglia è grande ... un voto gli si dà»).
Mafia Capitale, 44 arresti tra politica e affari. In manette anche big di Pd e Forza Italia. Seconda ondata di provvedimenti cautelari nell'inchiesta sulla malavita romana. Tra i reati contestati associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta e false fatturazioni. Tanti i nomi della politica locale coinvolti, scrive Lirio Abbate su L’Espresso”. Il clan mafioso di Massimo Carminati aveva in pugno politici regionali e comunali attraverso i quali riusciva a gestire appalti e incassare milioni di euro di soldi pubblici. Su Roma si abbatte così il secondo atto giudiziario di mafia Capitale, con 44 arresti eseguiti stamani dai carabinieri del Ros che hanno condotto le indagini, coordinate dalla procura antimafia di Roma. E così, accanto al cecato, compaiono nel provvedimento cautelare il capogruppo prima del Pdl e poi Forza Italia alla Regione, Luca Gramazio, ma anche l'ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti e l'ex minisindaco di Ostia Andrea Tassone, entrambi del Pd. Ma c'è anche l'ex consigliere comunale del Pdl Gerardo Tredicine. E poi soci e amministratori di cooperative bianche che si erano aggiudicati incarichi per l'emergenza immigrati. Mafia Capitale secondo atto: i carabinieri del Ros hanno eseguito 44 nuovi arresti tra Lazio, Abruzzo e Sicilia. I reati contestati sono associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Il blitz è scatato all'alba nelle province di Rieti, Frosinone, l'Aquila, Catania ed Enna. Altre 21 persone risultano indagate. Su di loro sono in corso perquisizioni. uesta seconda tornata di arresti, secondo gli inquirenti, "conferma l'esistenza di una struttura mafiosa, operante nella capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministratori ed imprenditori locali". Tra gli arrestati ci sono anche il consigliere regionale di Fi, Luca Gramazio, l'ex presidente del consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, l'ex assessore Daniele Ozzimo, Giordano Tredicine e l'ex presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone. Sono dunque 44 le persone arrestate (fra detenzione in carcere e quella domiciliare) con le accuse a vario titolo di associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, con l’aggravante delle modalità mafiose. E poi ci sono altre 21 persone indagate per le quali sono scattate stamani le perquisizione. Gli interventi dei carabinieri sono stati effettuati nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania e Enna.Salvatore Buzzi parla con Massimo Carminati e gli dice che i consiglieri comunali dovevano stare ai loro ordini poiché vengono pagati e, pertanto, devono rispettare gli accordi perché "se non rispetti gli accordi, lo sai da dove vengo". Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, in questa nuova fase, hanno permesso di acquisire ulteriori elementi sul metodo mafioso attuato dal clan Carminati, confermato anche dalle testimonianze rese da diversi imprenditori vittime. È questa un'altra grande sorpresa: la collaborazione di molte delle vittime del clan. Gli imprenditori chiamati nei mesi scorsi dagli investigatori non hanno negato di aver subito pressioni o violenza ed hanno parlato, facendo cadere lo strano di omertà che aveva avvolto molti altri. E grazie alle indagini è stata confermata la centralità nel clan Carminati di Salvatore Buzzi, che era a capo di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate. Un giro di affari per 150 milioni di euro solo con il Campidoglio. Il consigliere Luca Gramazio è accusato di associazione mafiosa «in qualità di esponente della parte politica che interagiva, secondo uno schema tripartito, con la componente imprenditoriale e quella propriamente criminale».La malavita romana lucra sulla pelle dei più poveri, e gli ultimi arresti dimostrano quanto il sistema fosse capillare. Per fortuna c'è anche chi si ribella all'omertà che dilaga a Roma. Il nostro inviato spiega come si evolve l'inchiesta "Mondo di mezzo". Gramazio prima nella carica di capogruppo Pdl al Consiglio comunale di Roma ed in seguito come capogruppo Pdl (poi Forza Italia) presso il Consiglio Regionale del Lazio, sfruttando la propria appartenenza alle due assemblee amministrative e la conseguente capacità di influenza nell’ambiente istituzionale «poneva in essere condotte strumentali al conseguimento degli scopi del sodalizio».
Mafia Capitale, le nuove telefonate. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». La metafora di Buzzi per spiegare il sistema delle tangenti, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Sono ancora una volta le intercettazioni telefoniche e ambientali nelle quali Salvatore Buzzi racconta il suo ruolo di corruttore a comporre il secondo capitolo di Mafia Capitale, che arriva dritto nel governo di Roma (cinque consiglieri comunali arrestati e altri indagati, insieme a funzionari di vari livelli finiti anch’essi in carcere), della Regione dove pure sarebbero stati siglati “accordi spartitori”, e del sistema di gestione dell’emergenza immigrati. Secondo i pubblici ministeri della Procura di Roma e il giudice dell’indagine preliminare che ha concesso i nuovi arresti – basati su ulteriori accertamenti e verifiche svolte dai carabinieri del Ros – l’organizzazione guidata dal “signore delle cooperative” Buzzi e dall’ex estremista nero Massimo Carminati ha esteso la propria rete corruttiva in maniera sempre più trasversale, passando senza problemi dall’amministrazione capitolina di centro-destra, quando era sindaco Gianni Alemanno, a quella di centro-sinistra, guidata da Ignazio Marino. Continuando a comprare, attraverso consistenti somme di denaro e “altre utilità”, gli amministratori e i funzionari che servivano a pilotare le gare e ottenere l’assegnazione degli appalti. E così, per un buon numero dei nuovi inquisiti è scattata l’aggravante di aver favorito, grazie alla “vendita” delle proprie funzioni, “l’associazione mafiosa diretta da Carminati”, già riconosciuta come tale da una pronuncia della corte di cassazione. Secondo il giudice Flavia Costantini che ha firmato la nuova ordinanza d’arresto, le frasi pronunciate da Buzzi nei dialoghi con Carminati e altri personaggi coinvolti nei “di mezzo”, “di sopra” e “di sotto” scoperchiati dall’inchiesta, rivelano “circostanze veritiere”, che peraltro hanno trovato riscontro nelle indagini degli investigatori del Ros. In una telefonata del 15 ottobre 2014 – un mese e mezzo prima degli arresti del 2 dicembre – il manager delle cooperative parlava con Franco Figurelli, all’epoca appartenente alla segreteria del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, e prendendo spunto dalla richiesta di assunzione per una ragazza avanzata da Figurelli, rendeva chiara la sua filosofia.
Buzzi: “Ahò ma, scusa ma lo sai... la sai la metafora?
Figurelli: “Eh…”.
Buzzi: “La mucca deve mangiare”.
Figurelli: “Ahò, questa metafora io glielo dico sempre al mio amico, mi dice: ‘non mi rompere, perché se questa è la metafora lui ha già, già fatto, quindi non mi rompere’...”.
Buzzi: “Ma... fai fa... fagli un elenco...
Figurelli: “Salvatò…”
Buzzi: “Fagli un elenco della mangiatoia, digli, oh” (ridono)
Figurelli: “Salvatò, te voglio be... già me rompe… dice: ‘E’ possibile che Salvatore a noi ce risponde così?’, ho detto: ‘Ahò, che te devo di’, gli ho detto, ‘questa è la metafora che me dà il cammello e della cosa… quindi che te devo fà?’” (…)
Buzzi: “Sì, ma io investo su di te, lo sai che investo su di te”.
Figurelli “Eh, meno male” (…)
Buzzi: “Ahò, però diglielo: ‘guarda che ha detto Buzzi che qui la mucca l’avemo munta tanto… (sovrapposizione di voci)”.
In altre occasioni, e parlando con altri personaggi, Buzzi tornava spesso sulla stessa metafora, per spiegare – nell’interpretazione dell’accusa – che politici e funzionari dovevano foraggiare le sue cooperative (attraverso gli appalti) per poi ricavarne qualcosa anche per loro (le tangenti): “Se la mucca non mangia non può essere munta”; “La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià”; “La mucca può essere munta solo se mangia”. Secondo l’accusa che ora li ha portati in carcere, Figurelli e Coratti (i quali hanno cambiato incarico dopo la retata di dicembre) ricevevano un vero e proprio “stipendio” per mettere le proprie funzioni al servizio del gruppo guidato da Buzzi e Carminati. I quali, con il cambio di maggioranza in Campidoglio, hanno dovuto “investire nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale”. In un’altra conversazione intercettata, dopo un lungo elenco di nomi e di cifre lo stesso Buzzi, afferma: “Perché noi pagamo tutti, come vedi”. E il 17 novembre scorso, appena 15 giorni prima di essere arrestato nell’operazione del 2 dicembre, faceva proclami agguerriti, che nel linguaggio evocano espressioni da Romanzo criminale: “Noi comunque … ti dico una cosa… lui (Marino ndr) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma”.
Secondo capitolo dell'inchiesta Mondo di Mezzo della procura di Roma e dei carabinieri del Ros: 44 gli arresti in corso di esecuzione in Sicilia, Lazio e Abruzzo per associazione per delinquere ed altri reati. Ventuno gli indagati a piede libero. Sullo sfondo il business legato ai flussi migratori e alla gestione dei campi di accoglienza per migranti, scrive Panorama. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, e del gip Claudia Costantini, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti altre 21 persone sono state perquisite in quanto indagate per gli stessi reati. I provvedimenti riguardano gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros nei confronti di Mafia Capitale, il gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. Secondo gli investigatori, gli accertamenti successivi a quella tornata di arresti hanno confermato "l'esistenza di una struttura mafiosa operante nella Capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministrativi ed imprenditoriali locali". In particolare le indagini hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un "ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori. Secondo il magistrato, Luca Gramazio "svolge un ruolo di collegamento tra l'organizzazione da un lato e la politica e le istituzioni dall'altro, ponendo al servizio della stessa il suo 'munus publicum' e il suo ruolo politico". Un collegamento che, sul piano politico, si traduce nella costruzione del consenso necessario ad assecondare gli affari del sodalizio; sul piano istituzionale, si materia di iniziative formali e informali intese per un verso a collocare nei plessi - sensibili per l'organizzazione - dell'amministrazione pubblica soggetti graditi, per altro verso nell'orientare risorse pubbliche in settori nei quali il sodalizio, in ragione del capitale istituzionale di cui dispone, ha maggiori possibilità di illecito arricchimento. Egli, inoltre, "elabora insieme ai vertici dell'organizzazione le strategie di penetrazione della pubblica amministrazione". Infine, sostiene ancora il gip, il consigliere regionale, "riceve dall'organizzazione per un verso una costante erogazione di utilità, per altro verso protezione e sicurezza in tutti quei casi in cui si rende necessario". Secondo gli inquirenti della Procura di Roma sarebbero state versate a Luca Gramazio mazzette per oltre 100mila euro dal gruppo guidato da Massimo Carminati. In particolare nella contestazione presente nell'ordinanza del gip Costantini si spiega che il consigliere regionale avrebbe avuto "98mila euro in contanti in tre tranches (50.000-28.000-20.000)"; ma anche "15mila euro con bonifico per finanziamento al comitato Gramazio". Inoltre, anche per "l'assunzione di 10 persone, cui veniva garantito nell'interesse di Gramazio uno stipendio; la promessa di pagamento di un debito per spese di tipografia". A carico di Gramazio jr è ipotizzata "l'aggravante di aver agito al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso indicata al capo 23". "Il ruolo di Luca Gramazio, quale personaggio vicino all'associazione in esame, era già emerso, ma è stato possibile solo successivamente, con un ulteriore e più approfondito vaglio del materiale investigativo, delineare il ruolo dello stesso all'interno dell'associazione, che può ricondursi al capitale istituzionale di Mafia Capitale" ha affermato Costantini, nell'ordinanza di custodia cautelare che riguarda anche il consigliere regionale. Delle perquisizioni in corso nell'ambito di Mafia Capitale, una riguarda la cooperativa "La Cascina", vicina al mondo cattolico. Gestisce tra l'altro il Cara di Mineo, in Sicilia. La perquisizione rientra nel quadro degli accertamenti sulla gestione degli appalti per i rifugiati. I Ros hanno poi perquisito anche gli uffici della Manutencoop a Zola Predosa (Bologna). Secondo quanto si apprende i militari del comando emiliano-romagnolo agiscono su delega della Procura di Roma e oggetto del loro interesse è il sequestro della documentazione in un ufficio, un faldone relativo ad una singola gara che si è tenuta a Roma e che coinvolge il colosso cooperativo. "Credo che la politica nel passato abbia dato un cattivo esempio ma oggi sia in Campidoglio che in alcune aree come Ostia abbiamo persone perbene che vogliono ridare la qualità di vita e tutti i diritti e la dignità che la Capitale merita". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino sulla nuova ondata di arresti per l'inchiesta su Mafia Capitale. E a chi gli chiede notizie riguardo sue possibili dimissioni, taglia corto: "Dimissioni? Continuiamo in questo modo. Stiamo cambiando tutto. Una politica antica non solo nei metodi ma anche nei contenuti, e in alcuni casi gravemente colpevole è stata allontanata da me".
Mafia capitale 2: ecco chi sono i politici arrestati. Nell'operazione Mondo di Mezzo bis dei Carabinieri del Ros finiscono in carcere 44 persone, la maggior parte esponenti della politica romana, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". L'operazione Mondo di Mezzo Bis. Mondo di Mezzo, secondo atto. Non è stata certo una novità. Le indagini condotte dai Carabinieri del Ros e gli arresti effettuati a dicembre scorso facevano intuire che all'inchiesta di Mafia capitale ci sarebbe stato un seguito. E ,a distanza di meno di sei mesi, altre decine di arresti spaccano il mondo politico e imprenditoriale romano, abruzzese e siciliano. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti, in tutto 44 e che per la maggior parte riguardano politici, ci sono state perquisizioni a carico di altre 21 persone indagate per gli stessi reati. Gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros sono legati al gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. In particolare, le ultime indagini, hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori.
Manette per Luca Gramazio. Tra i 44 arresti del Ros nel nuovo filone di Mafia Capitale c'è anche Luca Gramazio. Questi è accusato di partecipazione all'associazione mafiosa capeggiata da Carminati, che avrebbe favorito sfruttando la sua carica politica: prima di capogruppo Pdl al Consiglio di Roma Capitale ed in seguito quale capogruppo Pdl (poi FI) presso il Consiglio Regionale del Lazio. Luca Gramazio è figlio dello storico senatore di An Domenico. E' stato consigliere comunale Pdl a Roma nella maggioranza di Gianni Alemanno.
Carcere per l'ex presidente Coratti. In carcere c'è anche l'ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, candidato come Consigliere del Municipio III a soli 24 anni e nel 2001 entrato a far parte del Consiglio. Successivamente ha assunto la carica di Presidente del Consiglio comunale mentre era sindaco Veltroni.
In cella anche Daniele Ozzimo. In manette anche l'ex assessore alla Casa del Campidoglio, Daniele Ozzimo. Viene eletto nel 2008 al Consiglio del Comune di Roma nelle liste del Partito Democratico ricoprendo la carica di vice Presidente della Commissione Politiche Sociali e diventando membro della Commissione Lavori Pubblici, Scuola e Sanità.
Arrestato anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. I Ros hanno posto in arresto anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. Nel 2006, Tredicine diventa consigliere al IX Municipio con 1.576 preferenze ed è nominato Presidente Gruppo Consiliare Forza Italia. Nel 2008 è eletto in Consiglio Comunale con 5.284 preferenze, risultando il consigliere più giovane del Gruppo Consiliare del Comune di Roma. Viene nominato Presidente della Commissione Politiche Sociali e Famiglia e Vicecapogruppo del Pdl in Consiglio Comunale.
In manette anche Massimo Caprari. Gli arresti sono scattati anche per il consigliere comunale Massimo Caprari, dal giugno 2013 Consigliere dell’Assemblea Capitolina di Roma Capitale e membro nelle seguenti Commissioni: Lavori Pubblici, di cui è Vice Presidente Vicario, Patrimonio - Politiche Abitative e Progetti Speciali, Urbanistica, Roma Capitale e Riforme Istituzionali, Commissione Speciale Politiche Comunitarie e Commissione di Indagine Amministrativa sull’ATAC, di cui è Presidente.
In carcere anche Andrea Tassone. Le porte del carcere si sono aperte anche per l'ex presidente del X Municipio (Ostia), Andrea Tassone.
In carcere anche il responsabile anti-corruzione degli ospedali laziali, Angelo Scozzafava. Tra gli arrestati di questa mattina anche Angelo Scozzafava, ex assessore comunale a Roma alle Politiche Sociali. Dirigente azienda ospedaliera S. Andrea, Scozzafava era il responsabile anti-corruzione e trasparenza della S.Andrea, una delle principali aziende ospedaliere del Lazio.
Colpita anche la Regione Lazio. I provvedimenti hanno riguardato anche alti dirigenti della Regione Lazio come Daniele Magrini nella veste di responsabile del dipartimento Politiche Sociali... Ancora manette al Campidoglio. In manette anche Mario Cola, dipendente del dipartimento Patrimonio del Campidoglio e Franco Figurelli che lavorava presso la segreteria di Mirko Coratti. In manette anche un costruttore. Arresti domiciliari anche per il costruttore Daniele Pulcini. L'imprenditore era già finito sotto la lente d'ingrandimento della procura di Roma per una maxi-inchiesta sulle tangenti Enpam. Secondo gli investigatori avrebbe pagato una "bustarella" da un milione e 800 mila euro al parlamentare del Pd Marco Di Stefano quando era assessore al Demanio della giunta regionale guidata da Piero Marrazzo. Nuove accuse anche per la Chiaravalle. Nuove accuse per l'indagata marsicana Pierina Chiaravalle, 31 anni, nell'ambito del secondo filone dell'inchiesta. Originaria di Avezzano e agli arresti domiciliari da dicembre 2014.
Migranti, il business dell'emergenza. Dalla primavera del 2014 le prefetture stanno affidando i servizi d'accoglienza per stranieri con procedure "straordinarie". Che permettono di lucrare. E aumentano il rischio di bombe sociali, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Il centro d'accoglienza di Corcolle da cui erano partite proteste violente Dopo gli scandali, forse per pudore, non è più definita “emergenza”. Il risultato però è lo stesso: fiumi di soldi, controlli inesistenti, sprechi accertati. Dalla primavera del 2014 le prefetture di tutta Italia stanno affidando per vie “straordinarie” i servizi d’accoglienza per migranti. L’impegno economico per lo scorso anno supera i 480 milioni di euro, considerando vitto, alloggio e una minima assistenza. Le altre spese (organizzazione, trasporti) non è dato saperle: il ministero dell’Interno non ha risposto a “l‘Espresso”. Intanto, grazie alle procedure direttissime del Viminale una pletora di hotel, agriturismi, bed and breakfast e persino officine si sono riempite di richiedenti asilo, con rimborsi giornalieri dai 30 ai 35 euro pro capite. Una ricca occasione: le strutture temporanee non devono rendicontare le spese; se riescono a risparmiare, tagliando magari sulle attività per i rifugiati, è tutto guadagno. I prefetti, dicono, pagano pure puntualmente. In questa rete rabberciata sono raccolte oggi 33mila persone. E se la fretta di trovare alloggi è giustificata dall’aumento choc degli sbarchi, meno comprensibile è la nebbia che circonda i contratti, a partire dal gran numero di prefetture (Calabria in testa) che dimenticano di pubblicare online affidatari e importi, come impone la legge. «L’emergenzialità favorisce chi lucra e rischia di provocare bombe sociali», sintetizza Berardino Guarino, dirigente del Centro Astalli di Roma, il ricovero per migranti fondato dai gesuiti. Il suo più che un teorema è una constatazione: nella Capitale il fiume di soldi dell’emergenza (quella sì chiamata così anche nei documenti ufficiali), dichiarata nel 2011 per le rivolte del Nord Africa , ha rimpinguato le casse del consorzio Eriches di Salvatore Buzzi , il braccio destro di Massimo Carminati. Il business ha significato anche altro. I maxi-condomini affittati di corsa nelle periferie hanno trasformato spesso l’accoglienza in disperazione, quindi in disagio, infine in scontri, come è successo a Corcolle o a Tor Sapienza . «La lezione non è servita», scuote la testa Guarino: «A Roma ci sono ancora 3500 posti “straordinari”. E manca un piano per l’integrazione». Ad approfittare dell’Emergenza Nord Africa – un miliardo e 300 milioni fra il 2011 e febbraio 2013 - e poi di Mare Nostrum non è stata solo la società di Buzzi, aderente alla rossa Lega Coop. La cattolica Domus Caritatis , che gestisce decine di centri a Roma e ha una partecipazione al Cara di Mineo, ha raddoppiato il fatturato: da 18 a 36 milioni. Come lei si sono ingranditi i gruppi di cui fa parte: il Consorzio Casa della Solidarietà, rappresentato da Tiziano Zuccolo (intercettato al telefono con Buzzi: «L’accordo è al 50 per cento, dividiamo da buoni fratelli», dicevano degli appalti) e La Cascina, vicina a Cl. Rispetto agli sprechi dell’Emergenza Nord Africa, denunciati da “l’Espresso”, qualcosa è cambiato. I costi sono più contenuti: si è passati da 45 a circa 30 euro al giorno. E il governo ha aumentato i posti “ordinari” prima di aprire il suk di quelli extra. I vantaggi sono quattro: i soldi per i servizi (denominati Sprar) arrivano in gran parte dall’Europa, non dallo Stato. Le coop sono costrette a rendicontare le spese. I controlli sono (in teoria) maggiori. E soprattutto sono coinvolti gli enti locali. L’ampliamento d’urgenza però - i Comuni sono passati in un anno da 3mila a 20mila posti – ha intaccato la qualità generale di un sistema considerato d’eccellenza, come nota Gianfranco Schiavone di Asgi (associazione studi giuridici per l’immigrazione). «Metà dei progetti finanziati per i prossimi tre anni ha ricevuto una valutazione molto bassa, lontanissima dal punteggio riconosciuto al primo, che è del comune di Parma». Su 446 progetti, poi, 226 sono in Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata. «Per questo insistiamo sulla necessità di un piano nazionale», conclude il giurista. Ma con i piani si fanno meno soldi. Mentre l’emergenza è un affare d’oro. Tanto paga il prefetto.
Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su “L’Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.
Mineo, la mangiatoia da duecento milioni. "Creiamo un gruppo e lo facciamo vincere". La procedura avviata a Ferragosto invitando pochissime aziende. Per aggiudicarsela c'era bisogno di una cucina da duemila pasti che aveva solo il consorzio vicino a Odevaine. La gara venne bandita dall'attuale sottosegretario Ncd Castiglione, allora presidente della provincia di Catania col Pdl, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. "A 30 chilometri deve sta da Mineo... e noi quello l'abbiamo messo praticamente per fargli vincere la gara", dice Luca Odevaine vantandosi di quella trovata che gli aveva consentito di pretendere dai vincitori un raddoppio del suo stipendio-tangente: da 10 a 20 mila euro al mese. Una cucina da duemila pasti entro 30 chilometri dal Cara, una cucina in più, d'emergenza, perché all'interno del residence degli Aranci dove ha sede il più grande centro richiedenti asilo d'Europa, una cucina capace di sfornare 4000 pasti caldi due volte al giorno c'è già. Eccola la "condizione di gara idonea a condizionare la scelta del contraente", come i pm della Procura di Catania definiscono, nell'avviso di garanzia inviato al sottosegretario Giuseppe Castiglione e ad altre cinque persone tra cui Luca Odevaine, consulente del Cara, il "trucco" con il quale il mega-appalto da cento milioni di euro è stato sempre assegnato all'unico concorrente in grado di rispondere a tutti i requisiti richiesti. Un bando che il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone definisce un "abito su misura". Al raggruppamento temporaneo d'imprese "Casa della Solidarietà" (composto dal consorzio Sisifo di Legacoop, Senis Hospes e La Cascina vicine a Comunione e Liberazione, dal consorzio Sol Calatino e dalla Pizzarotti di Parma proprietaria del residence) è bastato presentare l'offerta con un ribasso dell'uno per cento per assicurarsi la continuità in quella gestione che, a forza di proroghe, ha in mano da settembre 2011 e che, forte dell'appoggio del prefetto Mario Morcone, ha resistito ostinatamente alla "censura" di Cantone che ora annuncia l'avvio delle procedure di commissariamento.
Milioni sulla pelle dei rifugiati. Un dossier segreto commissionato dal Viminale svela il meccanismo attraverso il quale i soldi del pocket money, destinati agli ospiti dei centri d'accoglienza, non vengono distribuiti e spariscono nel nulla. La mancata erogazione dei 2,50 euro quotidiani cui ha diritto ogni migrante, nel solo Cara calabrese di Isola Capo Rizzuto, vale 3.750 euro al giorno che, moltiplicati per i 21 mesi di permanenza media dei richiedenti asilo, arrivano a superare i due milioni. Se si considera poi che la distribuzione della quota non avviene in modo regolare anche in altri centri italiani, le cifre lievitano ulteriormente. Si tratta di denaro che lo Stato versa agli enti gestori. RE Inchieste è entrata in possesso del documento che il ministero dell'Interno tiene in un cassetto da mesi, scrivono Raffaele Cosentino ed Alessandro Mezzaroma su “La Repubblica”. Illeciti e irregolarità nell'erogazione del "pocket money", la paga giornaliera ai richiedenti asilo, nell'impiego di mediatori culturali, interpreti e psicologi. E poi mancato rispetto delle procedure legali da parte di molte questure, come nel caso di quelle di Roma, Caltanissetta e Crotone che non rilasciano il permesso di soggiorno per richiesta d'asilo allo scadere dei 35 giorni di permanenza nel centro. E ancora, un quadro impietoso e desolante degli alloggi in cui i migranti, in particolare i richiedenti asilo, sono costretti a vivere, da Gorizia a Trapani. È quanto emerge da un rapporto riservato rimasto nei cassetti, o meglio, nei computer perché si tratta di file Excel, del ministero dell'Interno, mai reso pubblico, di cui Repubblica.it è entrata in possesso. Presenza di armi bianche, di scarafaggi nei container, mancanza di docce e di acqua calda, servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti, pulizia scarsa, bambini senza assistenza pediatrica. Sono alcuni degli esiti di un doppio monitoraggio che le organizzazioni del progetto Praesidium, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Save The Children e la Croce Rossa hanno realizzato nel corso del 2013 su 18 centri italiani, nove Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e nove Centri di identificazione e di espulsione (Cie), su mandato ispettivo del Viminale. Migliaia di persone costrette a vivere anche per due anni dentro un Centro di accoglienza - il tempo effettivo per l'esame della richiesta d'asilo contro i 35 giorni previsti dalla legge - senza poter avere neanche una bacinella e il sapone per fare il bucato. Perché il capitolato d'appalto del ministero prevede una serie di servizi come la lavanderia e la barberia, che spesso sono disattesi dagli enti gestori. Profughi segregati a chilometri di distanza dalle città, senza mezzi di trasporto, e dunque costretti a fare anche cinque chilometri a piedi su strade pericolose per raggiungere il primo centro abitato. Giovani rifugiati che alla fine del lungo periodo passato nei Cara, ne escono senza possibilità di inclusione sociale perché non hanno neanche imparato l'italiano. I corsi di lingua, quando ci sono, sono scarsi o mal strutturati. Sotto il profilo della gestione, merita attenzione quanto è scritto sul centro di accoglienza di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto, vicino a Crotone, dove gli operatori del progetto Praesidium presenti all'interno del Cara hanno rilevato lo scorso settembre che "l'erogazione del pocket money avviene tramite la distribuzione di due pacchetti di 10 sigarette a settimana. Il migrante non ha la possibilità di acquistare nessun altro bene né gli viene fornita una chiavetta elettronica o una carta moneta per poter spendere l'importo rimanente. Da settembre 2011 a maggio 2013, gli ospiti riferiscono che il buono economico non è stato erogato". La denuncia dei migranti è stata presa sul serio da chi ha scritto il rapporto che, nella parte riservata alle raccomandazioni, chiede in caratteri maiuscoli di "riattivare immediatamente l'erogazione del pocket money" e di "costituire un sistema informatizzato che permetta di rilevare l'effettiva tracciabilità dell'erogazione del buono economico". Il pocket money è la quota di due euro e cinquanta centesimi che spetta al migrante sull'importo giornaliero pagato per ogni ospite dallo Stato ai gestori del centro. Nel caso di Isola Capo Rizzuto, la cifra complessiva erogata è pari a circa 21 euro, con i quali devono essere garantiti tutti i servizi. Il centro ha una capienza ufficiale di 729 posti, ma come gli altri Cara è solitamente sovraffollato. Al momento del monitoraggio erano presenti 1497 persone, oltre il doppio dei posti disponibili. Gli ospiti erano 1600 quando Repubblica ha visitato il Cara lo scorso 3 settembre (il rapporto porta la data del 25 settembre 2013 ma non è mai stato reso pubblico). Facendo un calcolo approssimativo di 2,50 euro per una media di 1500 persone, si arriva alla somma di 3.750 euro al giorno che moltiplicato per 21 mesi, cioè 630 giorni, fa oltre due milioni di euro. Anche con un numero di ospiti pari alla capienza, si raggiunge una cifra a sei zeri che, leggendo questo documento, sembra non sia stata erogata ai suoi legittimi destinatari, cioè i profughi fuggiti da guerre e persecuzioni ospitati nel Cara calabrese. Nel rapporto c'è scritto che andrebbe predisposto un paniere di beni da poter acquistare all'interno del centro o previste soluzioni alternative, come la possibilità di accumulare l'importo mensile del buono per pagare le marche da bollo necessarie al rilascio del primo permesso di soggiorno e del documento di viaggio. Nel file si sottolinea che quando il pocket money è stato erogato, ai migranti sarebbero stati consegnati solo due pacchetti di sigarette da 10 a settimana come equivalente di tutto l'importo settimanale pari a 17 euro e cinquanta centesimi. Il centro è gestito da dieci anni dalla confraternita della Misericordia fondata dal parroco di Isola Capo Rizzuto, il rosminiano don Edoardo Scordio, e dal suo uomo di fiducia Leonardo Sacco, attuale vicepresidente delle Misericordie d'Italia. L'ultima gara d'appalto triennale vinta dalle Misericordie (nel 2012 contratto valido fino al 2015) è stata di 28.021.050 euro iva esclusa. Nello stesso periodo in cui le organizzazioni di Praesidium realizzavano il rapporto, Repubblica aveva chiesto al direttore del Cara, Francesco Tipaldi, come venisse distribuito il pocket money. "Diamo l'equivalente dei 2 euro e cinquanta centesimi giornalieri in beni", è stata la risposta. "Dividiamo i 1600 ospiti in diversi giorni per poter accedere al pocket money, non lo diamo con cadenza quotidiana perché questa attività durerebbe 24 ore, ma lo suddividiamo in maniera settimanale". I disservizi riscontrati nel centro crotonese sono anche altri. "La distribuzione dei beni consumabili avviene ogni 20-30 giorni circa, fatto salvo per i nuclei familiari", si legge nel rapporto. "Il personale del servizio socio-psicologico non sembra essere proporzionale al numero degli ospiti presenti nel centro: ci sono tre psicologhe per circa 1400 ospiti. Il servizio di mediazione culturale non garantisce la copertura delle principali lingue parlate dagli ospiti presenti nel centro. Ad esempio non vi sono mediatori per gli ospiti provenienti dalla Somalia e dal Bangladesh. L'ente gestore ha fornito un organigramma assolutamente inadeguato perché troppo generico". Ma sono state riscontrate anche carenze sanitarie: "Non è garantita l'assistenza pediatrica ed è difficile eseguire vaccinazioni; le condizioni dei servizi igienici del centro d'accoglienza sono assolutamente inadeguate a causa della mancanza di pulizia e del danneggiamento dei sanitari". Infine, gli alloggi nei container sovraffollati e l'impianto di condizionamento non funziona. Il rapporto evidenzia problemi nella gestione del pocket money anche nel Cara di Restinco, a Brindisi, gestito dal consorzio Connecting People di Castelvetrano. I vertici del Consorzio sono stati coinvolti in un'inchiesta della magistratura su fatture gonfiate in un altro Cara, quello di Gradisca d'Isonzo. Tredici i rinviati a giudizio dal tribunale di Gorizia, di cui 11 del consorzio trapanese, fra cui Giuseppe Scozzari, ex presidente del consiglio di amministrazione, per associazione per delinquere, truffa e frode in pubbliche forniture, e due funzionari della prefettura tra cui un vice prefetto, per falso in atti pubblici. Il consorzio si è difeso affermando che esiste una relazione della prefettura di Gorizia che attesta la correttezza delle fatturazioni. L'inizio del processo è previsto per giugno. A Restinco, rileva il dossier, "l'ammontare giornaliero di 2,50 euro del pocket money può essere speso dagli ospiti nell'acquisto di beni presenti al corner shop o nell'acquisto di bibite/snack/bevande calde nei distributori automatici presenti nel centro. Gli ospiti non possono accumulare l'importo giornaliero del pocket money e devono consumarlo nel giro di due giorni, pena la cancellazione dell'importo residuo non speso". Non è specificato però che fine fanno le somme cancellate. Nel Cara brindisino: "Non sono presenti mediatori che coprano tutte le lingue parlate dagli ospiti. L'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'ambulatorio medico del centro presenta gravi condizioni di precarietà igienica". A Bari, in un centro che ospita 1400 richiedenti asilo, pari al doppio della capienza, gestito dalla cooperativa Auxilium "è stata riscontrata la presenza di scarafaggi in tutti i moduli visitati" e anche qui "l'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'attesa per l'inserimento dei migranti nei corsi è molto lunga e la durata degli stessi è scarsa". Nel cara di Borgo Mezzanone (Fg) gestito in quel momento dalla Croce Rossa, è stata rilevata "insicurezza per la presenza di ospiti senza titolo e il possesso di armi rudimentali quali coltelli da cucina e barre in legno o ferro". I migranti hanno riferito che gli alloggi non vengono mai puliti e l'igiene è insufficiente. Non c'è il servizio di lavanderia e non vengono distribuite bacinelle né stenditoi. Anche a Gradisca d'Isonzo, nel centro ancora gestito da Connecting People, "le condizioni igieniche dei servizi igienico sanitari sono piuttosto scarse. La qualità dei vestiti forniti è molto bassa e il cambio di vestiario avviene ogni 3 mesi. L'ente gestore ha attivato un corso di lingua italiana solo qualche settimana prima della visita di monitoraggio. Il corso risulta, però, inadeguato poiché i posti disponibili sono pochi e i tempi di attesa per l'acceso troppo lunghi (anche fino a due mesi)". A Caltanissetta, un Cara da 500 persone è fatto di container vecchi "in cattivo stato, e in condizione di evidente sovraffollamento", con i bagni in condizioni igieniche "estremamente carenti, soprattutto a causa della ruggine e dell'allagamento continuo del pavimento provocato dalle frequenti otturazioni dei lavandini che vengono condivisi da un elevato numero di persone". A questo contribuisce la mancanza di un servizio di lavanderia, per cui "gli ospiti lavano i vestiti nei lavabi dei bagni, con lo stesso sapone che usano per l'igiene personale". L'ente gestore era in quel momento la cooperativa Albatros (a cui è poi subentrata Auxilium dal primo ottobre) che "si è rifiutata di fornire l'organigramma dettagliato del personale". Ma, secondo il documento, "i servizi di supporto socio-psicologico e legale sono apparsi insufficienti per il numero complessivo di stranieri presenti. I corsi di lingua italiana vengono erogati dai mediatori culturali e non da personale qualificato. Nessuno degli ospiti intervistati era in grado di parlare la lingua italiana nonostante fossero ospiti del centro già da diversi mesi". Inoltre, "i migranti intervistati hanno riferito di non aver ricevuto tutti i beni che spettavano loro e che gli asciugamani non sono mai stati sostituiti durante tutta la loro permanenza al Cara". Il monitoraggio evidenzia anche alcuni elementi positivi che sono un po' ovunque la buona disponibilità degli operatori, l'adeguatezza dei pasti e l'iscrizione a scuola dei bambini.
Quelle regole non applicate su cui adesso il Viminale deve fare luce. Secondo il capitolato d'appalto dei Centri dell'immigrazione, pubblicato sul sito del ministero dell'Interno, dovrebbero essere le prefetture a controllare che i contratti stipulati con gli enti gestori vengano rispettati. Dai file, però, emergono irregolarità gestionali e procedurali, oltre che strutture fatiscenti. Ne sono responsabili, nell'ordine: le cooperative che sono gli enti gestori, le questure e il Viminale. Le organizzazioni che hanno monitorato i centri non hanno diffuso pubblicamente queste informazioni. Si tratta comunque di realtà che operano con il ministero dell'Interno. Nel caso della Croce Rossa che ha ispezionato l'ambito sanitario, c'è anche un conflitto di interessi, essendo la Cri a sua volta gestore di diversi centri nel momento in cui è stato realizzato il dossier, come i Cie di Torino e di Milano e il Cara di Foggia. Alla luce di tutto questo restano alcune domande. Sono passati sette mesi da quando il Viminale ha avuto i risultati del monitoraggio realizzato con l'uso di soldi pubblici: perché i risultati non sono stati pubblicati? Quali misure intende utilizzare per migliorare l'accoglienza? Sempre secondo il capitolato d'appalto, gli enti gestori devono garantire i servizi di barberia e lavanderia, una dotazione minima di personale per l'assistenza 24 ore su 24 e figure professionali adeguate al relativo compito. I kit igienici forniti agli ospiti (sapone, shampoo, dentifricio) devono essere costantemente sostituiti sulla base di una dose monouso giornaliera. I disservizi per "mancata o inesatta esecuzione dei servizi presenti nel contratto", rilevati in sede ispettiva, di controllo e di monitoraggio o lamentati dagli utenti con riscontri fondati, devono portare a una penale di almeno il 3% del corrispettivo mensile ma è prevista anche la possibilità di un risarcimento dei danni più alto. È stata mai applicata questa norma del contratto d'appalto? E se non lo è stata, quale è il motivo? Infine, i soldi del pocket money, che nel solo Cara di Isola Capo Rizzuto ammontano a due milioni di euro, stanziati dallo Stato e non erogati a chi ne aveva diritto, dove sono finiti?
Sulla pelle dei rifugiati bambini. Garantire un alloggio ai minori che sbarcano in Italia senza genitori, così come a quelli che vengono sottratti alle famiglie, costa alle casse pubbliche oltre 30 milioni di euro l'anno. Una massa di denaro che ha messo in moto vasti appetiti criminali: dal giro delle solite coop legate ai boss di Mafia Capitale agli intermediari senza scrupoli che spacciano per ragazzini giovani di oltre 30 anni. E destano dubbi anche alcune sentenze di affidamento al centro di una guerra legale con il governo dell'Ecuador. L'Inchiesta di “La Repubblica”.
Decine di milioni che fanno gola a molti, scrivono Daniele Autieri e Roberta Rei. Al mercato delle anime battezzato da Mafia Capitale con i centri di accoglienza, c'è una merce che vale più delle altre: gli immigrati minorenni. Nel 2014 i comuni italiani hanno dato alloggio a 10.536 stranieri under 18, un esercito di solitudini accolto da poche centinaia di associazioni e cooperative e trasformato, in molti casi, in una cambiale da riscuotere. L'articolo 403 del codice civile prevede infatti che i Msna (minori stranieri non accompagnati) debbano essere accolti ed economicamente sostenuti dal sindaco del Comune in cui vengono identificati. Ed è nelle pieghe della legge che si addensano le vischiosità di un sistema che drena denari pubblici senza un reale controllo. Ad esclusivo vantaggio dei protagonisti delle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, dalle cooperative di Mafia Capitale alle associazioni vicine a Comunione&Liberazione. Tutti pronti a reclamare una fetta del ricco business dei minori. Fare affari con i rifugiati bambini. Il sistema, prima di tutto. A spiegare come funziona è una qualificata fonte delle forze di polizia. "Quando i minori stranieri arrivano, i dirigenti del dipartimento politiche sociali di un qualsiasi comune italiano contattano le cooperative con cui collaborano. L'affare è grosso e queste si organizzano. Se non hanno alloggi li trovano in una notte: acquistano villette, affittano, chiedono palazzetti in prestito a costruttori amici. Pochi giorni dopo la macchina è pronta ad accogliere i ragazzi". Un banchetto ricco, distribuito lungo un tavolo dove c'è spazio per tutti. Nell'inchiesta Mafia Capitale le cimici del Ros dei carabinieri intercettano una conversazione tra Tiziano Zuccolo, consigliere e vice presidente della cooperativa Domus Caritatis, e Salvatore Buzzi, l'uomo della "29 Giugno" sodale di Massimo Carminati. "Eh bravo - dice Zuccolo - l'accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da bravi fratelli". Lo spirito ecumenico è condensato in poche parole che spiegano come i protagonisti del sistema si preparino a spartirsi i rifugiati siriani in arrivo a Roma. Intervenendo sulle generalità anagrafiche dei soggetti coinvolti, il palcoscenico cambia, ma gli attori restano gli stessi e il copione scritto per i rifugiati viene replicato tale e quale con i minorenni. La cooperativa Osa Mayor è sconosciuta ai più, eppure analizzando i suoi bilanci si scopre che la sede è nello stesso stabile della Domus Caritatis e che a dirigerla c'è ancora una volta lui, Tiziano Zuccolo. La Domus Caritatis non è roba da poco. Fattura 36 milioni di euro, ha 15 milioni di debiti accumulati verso i fornitori e al 31 dicembre del 2013 vantava partecipazioni nel Cara di Mineo e nella Cascina, il colosso della ristorazione vicino a Comunione&Liberazione. Dalle carte dell'inchiesta di Firenze sulle grandi opere che ha portato in cella Ercole Incalza, emergono alcuni pagamenti per prestazioni poco chiare fatti dalla Domus Caritatis alla Capa srl di Francesco Cavallo, il faccendiere legatissimo all'ex-ministro Maurizio Lupi. Del resto, gli interessi del gruppo spaziano un po' dappertutto, e arrivano fino alla Osa Mayor, la piccola cooperativa che ottiene dal dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma il compito di accogliere circa 60 stranieri, tutte famiglie con minori al seguito. Gli ospiti vengono alloggiati in un villino alle porte di Roma, in via Casal Morena. Per loro il Campidoglio paga la retta completa, ma cosa offre in cambio la Osa Mayor? Una cucina di fortuna allestita nel garage con un forno a microonde, impianti non a norma, letti accatastati, mancato rispetto delle normative antincendio e soprattutto continua a dichiarare la presenza di tutti gli ospiti anche quando parte di loro ha lasciato la casa. Nessuno controlla. Il Comune paga. E la cooperativa si arricchisce. La vicenda è un puntino rispetto al grande mare dei 10.536 minori stranieri che nel corso del 2014 sono arrivati in Italia. Il loro peso economico grava soprattutto sulle casse degli enti locali. Lo scorso anno il ministero del Lavoro ha stanziato appena 14,8 milioni di euro per sostenere i comuni, mentre la fetta più grossa esce direttamente dalle casse degli enti locali. I trasferimenti statali sono stati effettuati sui conti di Tesoreria comunale, ma solo 4 amministrazioni hanno presentato i certificati di corretto utilizzo del contributo pubblico, per un valore irrisorio di 21.240 euro. Al 31 dicembre del 2014 non vi era ancora traccia di come i restanti 313 comuni abbiano usato gli altri 14,7 milioni. E in questa confusione, non sempre casuale, i mercanti di bambini si sono organizzati e hanno messo in piedi il business più redditizio. Non solo rifugiati. L'altra faccia del dramma minorile non riguarda ragazzi soli, ma famiglie comuni. Il tema è molto delicato ed è stato più volte denunciato perché tocca il sistema tradizionale degli affidamenti: un assistente sociale dichiara che il nucleo familiare non è sicuro per il bambino e questo viene immediatamente assegnato alle cure di una casa famiglia. A quel punto interviene il tribunale minorile che conferma l'affido e ne stabilisce la durata. Statistiche ufficiali non esistono, ma gli organi impegnati nel settore parlano di 30.000 minori in Italia. La macchina è complessa e, a fronte di tantissimi casi virtuosi, permangono alcuni elementi di criticità che arrivano a coinvolgere anche alcuni giudici onorari dei tribunali minorili. Secondo "Finalmente Liberi", l'associazione legata a Federcontribuenti che monitora il fenomeno, circa 200 sui 1.082 giudici onorari italiani avrebbero maturato conflitti d'interesse rispetto alla circolare del Csm che ne individua le incompatibilità, ottenendo incarichi personali dalle case famiglia mentre svolgono la loro attività all'interno dei tribunali minorili. Le inefficienze del sistema sono tali che alcuni Stati stranieri hanno avviato contenziosi legali per tutelare legalmente i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. È quanto ha fatto la Repubblica dell'Ecuador. "L'indicazione di avviare cause contro il sistema italiano degli affidi - spiega l'ambasciatore dell'Ecuador a Roma, Juan F. Holguìn - arriva direttamente dal Presidente della Repubblica, che segue questa vicenda in prima persona. Sono moltissimi i bambini della nostra comunità presente in Italia che vengono tolti alle loro famiglie. E a nostro parere questo avviene ingiustamente. Abbiamo quindi costituito un'equipe legale e avviato una serie di cause. Ad oggi, grazie alla nostra assistenza legale, già 10 bambini sono tornati dalle loro madri".
Il muro del pianto dei ragazzi di Termini, continuano Autieri e Rei. Stazione Termini: una ragnatela ferroviaria attraversata da 480.000 persone al giorno, 150 milioni l'anno. Molte di esse costeggiano via Giolitti, il bordo multietnico che confina con l'Esquilino. Passano e non si fermano. Sul muro di marmo che fa da argine alla scalinata del sottopassaggio un gruppo di ragazzi egiziani attende. Sono tutti minorenni. Passa qualche minuto, e un uomo di mezza età si avvicina. Ne abborda uno. Poche parole, una veloce trattativa e spariscono insieme sotto le scale. A volte il cliente arriva in macchina, carica il prescelto e lo riconsegna al "muro del pianto" solo di sera, dopo averlo portato a casa e avergli offerto un pasto caldo. Lui, come tutti gli altri, non è un clandestino. Anzi. Si prostituisce per mandare i soldi alla famiglia d'origine e quando arriva la sera torna alle cooperative dove il Comune di Roma lo ha alloggiato. Chi ha potuto parlare e passare del tempo con questi ragazzi racconta chi li ospita: "Sono sempre i soliti - confessa - Istituto Sacra Famiglia, Eriches (controllata dalla "29 Giugno" di Buzzi), Domus Caritatis, Riserva Nuova di Morena, Best House, Eta Beta. Alveari che in passato sono stati capaci di ammassare anche 100 ragazzi. E per ognuno di loro il Comune di Roma può arrivare a sborsare fino a 100 euro al giorno". Molti dei giovani di Termini vengono dal Car, il Centro agrolimentare di Guidonia dove hanno lavorato per mesi con paghe da fame. In quell'occasione il giro d'affari venne svelato da un'indagine del Corpo di Polizia di Roma Capitale guidato dal vice comandante Antonio Di Maggio (e rivelata da "REInchieste"). Anche allora, quando gli agenti della Polizia Municipale si imbatterono nel fenomeno, scoprirono che molti giovani egiziani impegnati nel lavoro nero erano affidati a case famiglia. All'interno di un'informativa riservata depositata in Procura si legge che le associazioni dove i ragazzi del Car alloggiavano erano l'Istituto Sacra Famiglia, la Eriches, la Domus Caritatis e la Virtus Italia.
Barba e capelli per sembrare più giovani, continuano Autieri e Rei. La storia di Ullah è molto simile a quella delle centinaia dei falsi minorenni alloggiati in case famiglia che, nel corso del 2013, sono stati smascherati dagli uomini della Polizia di Roma Capitale. Una volta arrivati in città i ragazzi finivano in una rete criminale che prima interveniva sul look (barbe tagliate, capelli tinti, ecc.), poi li indirizzava ad alcuni uffici comunali o ai commissariati del centro storico spiegandogli come denunciare la minore età e assicurarsi così l'alloggio nelle comunità pagate dal Campidoglio. Ullah, a differenza di molti altri, ha deciso di collaborare con la giustizia e testimoniare contro i criminali che lo avevano inserito nel giro. "Mi hanno abbordato sulla linea A della metropolitana - ricorda - e mi hanno portato a casa loro. Ho dormito lì per 8 giorni, poi mi hanno spiegato come avrei potuto ottenere il permesso di soggiorno". I trafficanti gli tolgono il passaporto e in cambio gli danno un falso certificato, rilasciato da un ospedale romano, che indica la minore età. "Mi hanno accompagnato fino alla questura - prosegue Ullah - dicendomi come avrei dovuto fare. Lì sono stato riconosciuto minorenne e spedito in una casa famiglia a Morena". Un mese dopo, quando i Vigili fanno irruzione nella casa del trafficante, scoprono decine di documenti falsi che dimostrano l'esistenza di un vero e proprio business dei falsi minorenni. Da quel momento Ullah collabora con la giustizia, ma due anni dopo attende ancora che la procura di Civitavecchia e l'ufficio immigrazione del ministero gli rinnovino il permesso di soggiorno. Come lui, tanti altri immigrati sono finiti nel giro. E oggi sono diverse le inchieste aperte su un fenomeno tutt'altro che superato. La novità è che, per la prima volta, al centro di alcune indagini è finito il presunto scambio affaristico tra le organizzazioni che garantiscono la "materia prima" e alcune cooperative conniventi. Un patto criminale, siglato in nome del denaro.
E per chi fa qualcosa arriva il taglio dei soldi, scrivono Monica D'Ambrosio ed Anna Di Russo. Il Sacrai è uno di quei posti dove ogni giorno neuropsichiatri e psicologi infantili seguono minori abusatori e abusati per sottrarli al carcere o alle case famiglia. Eppure le attività del centro, che opera all’interno dell’Università la Sapienza di Roma, hanno rischiato di concludersi insieme ai fondi governativi stanziati a favore di progetti pilota per minori svantaggiati. Con la grave conseguenza che l’interruzione della terapia vanificasse il lavoro fatto fin lì e aggravasse le condizioni dei minori presi in cura. Ora, dopo mesi d’incertezza, proprio il Sacrai è l’unico centro ad aver ottenuto un rifinanziamento (100mila euro) grazie ad un emendamento all’articolo 7 del Milleproproghe firmato dall’ex ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna. Ma il principio al momento sembra valere solo per il centro universitario. Non per le altre 26 strutture, anch’esse finanziate dalle Pari Opportunità, che a ottobre 2014 hanno esaurito la copertura economica. Eppure tutti i 27 destinatari dei fondi hanno fornito con il loro lavoro la risposta italiana alla convenzione di Lanzarote e al richiamo dell’Europa che sollecitava gli Stati membri a fare di più per l’infanzia e l’adolescenza. “L’Europa - precisa Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia - ha fissato degli obiettivi economici che dobbiamo perseguire: l’Italia ha precisi obblighi anche riguardo ai piani per l’infanzia e l’adolescenza”. “Sottovalutare i traumi subiti dai minori – aggiunge – è un grave errore anche in termini di spesa pubblica. In Italia il costo sociale complessivo del maltrattamento è di circa 13 miliardi di euro, con un’incidenza annuale in incremento di nuovi casi pari a 910 milioni”. Eppure quanto un servizio psicologico integrato e multidisciplinare può fare per enti locali e aziende sanitarie lo ha dimostrato il centro Vatma in Molise, che non solo ha limitato l’ingresso di alcuni minori in case famiglie o in altre strutture ad hoc, con un risparmio di oltre 30mila euro all’anno a bambino (circa 85 euro al giorno), ma ha anche tagliato tutti quei costi diretti che gli enti locali devono sostenere. Pochi, confusi e spesi male. I finanziamenti per l’infanzia e l’adolescenza esistono, ma per capirci qualcosa bisogna districarsi tra una serie di fondi statali, regionali ed europei che non sempre vengono destinati davvero ai minori. Perché oltre a non esserci un monitoraggio a livello istituzionale, non esiste neanche una programmazione chiara e una visione di lungo periodo sull’utilizzo di queste risorse. Così, oltre ai tagli – il Fondo nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza dal 2001 al 2015 ha perso oltre il 43% dei finanziamenti, mentre non si riesce a quantificare quanto del Fondo per le politiche sociali sia stato dedicato ai minori – molte regioni, in particolare al sud, hanno difficoltà a programmare e spendere i soldi disponibili. La Campania, ad esempio, non ha ancora programmato, richiesto e utilizzato le risorse statali del 2009, 2010 e 2011, per un totale di oltre 34 milioni di euro. Eppure oggi la copertura dei suoi servizi regionali non raggiunge il 3%. Va meglio invece con i fondi europei con 227 milioni di euro (Fondo di aiuti agli indigenti 2014-2020) che nei prossimi anni saranno utilizzati per assicurare materiale scolastico e accesso gratuito alla mensa a bambini e adolescenti in condizioni di povertà e all’apertura pomeridiana delle scuole in contesti deprivati.
Dal ministero delle Pari Opportunità riceviamo e pubblichiamo .Sostegno ai minori, la precisazione del governo: Gentile Direttore, nell'articolo pubblicato sul vostro sito dal titolo "E per chi fa qualcosa arrivo il taglio dei soldi", a firma Monica D'Ambrosio e Anna Di Russo, nell'ambito di una inchiesta sui bambini rifugiati, appaiono alcune inesattezza circa il ruolo del Dipartimento delle Pari Opportunità e delle decisioni che è chiamato ad adottare, colgo dunque l'occasione per fare chiarezza sull'intera questione. Gli autori dell'articolo sostengono che dei 27 progetti pilota - finanziati con Avviso pubblico n.1/2011 per la concessione di contributi per il sostegno a progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale - soltanto uno ha avuto la proroga dei fondi scaduti a fine 2014, il Sacrai, che opera all'interno dell'Università la Sapienza di Roma. E' vero, ma questo non per decisione del Dipartimento, quanto piuttosto, come riportato nell'articolo, grazie ad un emendamento all'articolo 7 del Milleproroghe, firmato dall'ex ministra Mara Carfagna. Senza mettere in dubbio il lavoro svolto da Sacrai, va sottolineato che con quell'emendamento, presentato per un'unica struttura, di fatto non si è provveduto ad un intervento sistemico nei confronti di tutte le strutture coinvolte nei progetti pilota i cui finanziamenti erano relativi a 18 mesi di attività. Ecco perché il Dipartimento, che a questo fine dispone di propri fondi, ha avviato un monitoraggio per individuare quanti sono i minori attualmente in carico alla varie strutture e di conseguenza formulare un piano di finanziamento ad hoc per i progetti sperimentali ancora attivi. Occorre, però, precisare che la presa in carico di minori non è tra le competenze di questo Dipartimento, a cui spetta la prevenzione del fenomeno e quindi a tal fine, per gli interventi strutturali e i relativi fondi, sono altri soggetti istituzionali a doversene fare carico, come prevede la legge. Ancora qualche precisazione: l'avviso pubblico da cui nascono i progetti pilota ha avuto come obiettivo strategico quello di promuovere interventi sperimentali e innovativi a favore dei minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale caratterizzati dalla capacità di raccordare tutte le risorse operative e istituzionali del sistema locale. Ma il nostro impegno è mirato anche all'individuazione di livelli minimi di assistenza che siano applicabili e applicati su tutto il territorio nazionale sopperendo a quella disomogeneità che ancora purtroppo persiste. L'esperienza delle strutture impegnate nel progetto pilota, è dunque diventata una base conoscitiva anche per la redazione di apposite linee guida, come previsto dal III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per l'individuazione delle quali è stata attivata un'azione di monitoraggio, in collaborazione con l'Istituto degli Innocenti di Firenze, al fine di rendere omogeneo su tutto il territorio il servizio delle attività a tale scopo finalizzate. Ma il Dipartimento sull'intera materia ha inteso superare la logica emergenziale, mettendo a punto politiche in grado di contrastare su più fronti il fenomeno. Due gli strumenti a cui si sta lavorando: il Piano nazionale di contrasto alla tratta e al grave sfruttamento (dove si dedica grande attenzione al fenomeno dei minori non accompagnati che molto spesso finiscono nelle mani di organizzazioni criminali per essere poi destinati al mercato del sesso a pagamento e alla segregazione) e il Piano nazionale di prevenzione e contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori. Entro il prossimo 9 giugno, a tal riguardo, si concluderà il giro di consultazioni che il Dipartimento ha avviato non solo con i soggetti istituzionali coinvolti nella materia ma anche e soprattutto con le associazioni del settore in vista della stesura finale del Piano antipedofilia nel quale è previsto un rafforzamento del ruolo di coordinamento unico in capo al Dipartimento stesso al fine di evitare sovrapposizioni e spacchettamenti di deleghe. Il nostro obiettivo finale è quello di mettere a sistema misure e interventi multi-livello e multi-agenzia in grado di rendere efficaci le azioni programmate e di raccordare l'operato di tutti i soggetti e gli enti coinvolti nel contrasto di tali fenomeni garantendo un servizio omogeneo sull'intero territorio nazionale. Uno degli strumenti individuati nel Piano antipedofilia è quello di centri pilota regionali per la cura e la presa in carico di minori autori e vittime di abusi valorizzando il ruolo e il lavoro delle ong e delle associazioni di settore. Altro strumento fondamentale sarà un monitoraggio costante di tutta la fase di attuazione degli interventi perché qualunque legge o progetto deve poi poter essere valutato alla luce dei risultati che effettivamente produce in ogni suo aspetto. Lo sfruttamento e l'abuso dei minori sono gravi violazione dei diritti dell'infanzia, una vera e propria forma di schiavitù che va combattuta su più fronti, un fenomeno che si alimenta sia dentro circoscritti ambiti sociali (rapporti famigliari, scolastici, amicali) sia in ambito sovranazionale (pedopornografia, pedofilia, turismo sessuale, tratta di esseri umani). Come risulta dai dati della Campagna del Consiglio d'Europa contro la violenza sessuale nei confronti dei bambini, in Europa il fenomeno riguarda quasi un minore su cinque che almeno una volta nell'infanzia subisce abusi sessuali: vittime sono i minori di entrambi i sessi anche se la maggioranza sono bambine, di ogni età con percentuali più alte a partire dalla pre-adolescenza e non ci sono particolari differenze tra etnie. L'articolazione e la dimensione stessa del fenomeno indicano la complessità degli interventi necessari, il Dipartimento sta facendo la sua parte e lo sta facendo nel rispetto della normativa nazionale ed europea, ma soprattutto garantendo in ogni passaggio la trasparenza e il rigore a cui è chiamata ogni azione della Pubblica amministrazione. Distinti saluti. Giovanna Martelli, consigliera del Presidente del Consiglio per le Pari Opportunità.
"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.
Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.
Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.
Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Concorso truccato per aspiranti avvocati, gli indagati sono 5. Scatta l'accertamento sui telefonini della dirigente dell'ateneo e del cancelliere della Corte d'appello. Al momento si esclude ci sia stato passaggio di denaro, forse si tratta di uno scambio di favori, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica”. Un accertamento sulle chiamate in entrata e in uscita e ancora sugli sms ricevuti ed inviati sui telefonini del cancelliere della Corte di Appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell'università di Bari Tina Laquale. E' il nuovo passo dell'inchiesta sul tentativo di truccare le prove per il conseguimento dell'abilitazione alla professione di avvocato, scoperto dai carabinieri il 19 dicembre scorso. L'attività istruttoria, quindi, va avanti. Il fascicolo si allarga e ora conta nuovi indagati. Sono tre candidati al concorso al quale Giacomo Santamaria, segretario di una delle commissioni d'esame, avrebbe dovuto passare gli elaborati, passatigli da Tina Laquale. Gli aspiranti avvocati (Nicola Colasuonno, Rosa Chiapparino e Giuseppina Rosa Laccone, di 32, 30 e 31 anni) hanno ricevuto l'avviso di conferimento dell'incarico per l'accertamento irripetibile sui due telefonini. Anche loro tre sono indagati e per questo hanno diritto a nominare un proprio consulente. In questi giorni la procura ha analizzato le informative dei carabinieri del reparto operativo. Ai cinque vengono contestati due reati: il primo riguarda la violazione dell'articolo uno della legge 475 del 1925. Il secondo invece è un concorso in abuso d'ufficio, accusa che è possibile muovere perché Santamaria aveva le funzioni di pubblico ufficiale. L'accertamento sui due telefonini, sequestrati dai carabinieri nel terzo ed ultimo giorno di prove dell'esame, è fondamentale per capire per conto di chi Tina Laquale abbia ideato questo tentativo di truccare il concorso o se sia stata pagata per passare gli elaborati. Al momento si esclude ci sia stato un passaggio di denaro, più semplicemente pensano che la truffa sia stata organizzata in un più ampio scambio di favori. Il numero degli indagati, quindi, è destinato a crescere. I carabinieri stanno anche cercando di capire in che misura siano coinvolti nella vicenda tre avvocati che avrebbero redatto i tre elaborati e soprattutto Angelo L., un altro dipendente dell'università. Agli atti dell'inchiesta c'è, infatti, il verbale reso da Santamaria poche ore dopo il blitz. Il cancelliere ha raccontato di essere stato contattato da Tina Laquale che dopo un incontro nel suo ufficio gli avrebbe chiesto di aiutarla nel tentativo di passare gli elaborati delle tre prove ad alcuni candidati. E così è stato. E se nel primo e nel secondo giorno di prove, non ci sono stati intoppi, Santamaria è uscito dalle aule per prendere due buste bianche consegnate dalla Laquale, giovedì 18 dicembre sono intervenuti i carabinieri. Il cancelliere ha aggiunto un altro particolare: il secondo giorno la dirigente dell'ateneo era con un uomo che ha presentato come "Angelo, autista del rettore". L'autista, assegnato formalmente al rettore dell'ateneo di Bari, si chiama Nicola, ma all'interno dell'università c'è un altro dipendente che talvolta può ricoprire le stesse mansioni. Ed il suo nome è Angelo. Autista e factotum all'università è venuto a contatto con i plichi contenenti i test di Medicina, uno dei quali, nell'aprile scorso, manomesso in circostanze che non sono mai state chiarite. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Le leggi in Italia sono farraginose. Sono fatte apposta. Tanto da creare un labirinto da cui è difficile districarsi, salvo che non ci sia qualcuno che abbia il capo del filo di "Arianna".
IN ITALIA UN APPALTO SU TRE E' TRUCCATO.
In Italia nel 2014 un appalto su tre, per un totale di 1,8 miliardi è stato assegnato illecitamente., scrive Chiara Sarra su “Il Giornale”. Lo ha scoperto la Guardia di Finanza che ha effettuato verifiche su 220 appalti, per un valore complessivo di 4,6 miliardi. Complessivamente, secondo il rapporto annuale delle Fiamme Gialle diffuso oggi sono state denunciate 933 persone, di cui 44 arrestate. Su questo fronte, sottolinea la Gdf, l’azione si è mossa secondo due direttrici: una "in chiave preventiva, attraverso lo sviluppo di costanti sinergie con l’Autorità nazionale anticorruzione", l’altra "ai fini repressivi, per contrastare la diffusione dell’illegalità nella pubblica amministrazione". In totale, tra frodi ai finanziamenti pubblici e sprechi nella pubblica amministrazione commessi da 3700 persone, nel 2014 lo Stato ha subìto un danno di 4,1 miliardi, mentre gli evasori totali, completamente sconosciuti al Fisco, sono stati 8mila e per reati tributari sono stati sequestrati beni per un valore totale di un miliardo e 200 milioni. A questi vanno aggiunti 4 miliardi di euro tra beni sequestrati e confiscati alla mafia. Lotta all'evasione fiscale, appalti e tangenti.
Dalla Gdf la fotografia della corruzione. Il rapporto 2014 sulle attività dello scorso anno. I reati tributari scoperti sono stati 13062. Quasi un miliardo e duecento milioni di euro il valore dei beni sequestrati. Dodicimila i lavoratori in nero. Identificati oltre 3700 responsabili di reati contro la Pubblica Amministrazione. Sottratti alla criminalità organizzata 4 miliardi di euro. Scoperti 8mila evasori totali e 13mila responsabili di reati fiscali, scrive Carmine Saviano su “La Repubblica”. Un’attività silenziosa, costante. Dove, come recita il loro motto, “non si retrocede mai”. Dove il rigore si coniuga con l’intransigenza nei confronti di chi ostacola illegalmente la crescita economica. Una funzione, quella della Guardia di Finanza, ancora più preziosa nel tempo in cui le speranze del Paese di uscire dalla crisi diventano, giorno dopo giorno, occasioni da non farsi scappare. E per il 2014 i numeri - contenuti nel Rapporto Annuale delle Fiamme Gialle - confermano un impegno capace di identificare oltre 3700 responsabili di reati contro la Pubblica Amministrazione. Di individuare sprechi per oltre 2,6 miliardi di euro e frodi ai finanziamenti pubblici e al welfare per 1,5 miliardi. Di sottrarre alla criminalità organizzata 4 miliardi di euro. Di scoprire 8mila evasori totali e 13mila responsabili di reati fiscali. Di arrestare 389 trafficanti di esseri umani. Un lavoro a tutto campo per restituire equità al mercato italiano.
Partiamo dal quotidiano. Dalla lotta alle frodi fiscali e all’economia sommersa. I cardini del lavoro dei finanzieri. Nello scorso anno i reati tributari scoperti sono stati 13062. Quasi un miliardo e duecento milioni di euro il valore dei beni sequestrati. Dodicimila i lavoratori in nero che sono stati scoperti. Mentre sono stati individuati oltre cinquemila datori di lavoro che hanno utilizzato manodopera illegale o irregolare. Per un lavoro fatto di indagini e accertamenti che non punta solo al recupero di beni, ma anche a contrastare i fenomeni illeciti connessi: dall’immigrazione clandestina alla produzione e al commercio di articoli con marchi contraffatti.
Poi il controllo della spesa pubblica. Dai contributi alle imprese nazionali ed europee ai finanziamenti del servizio sanitario, fino al controllo sulle risorse utilizzate per gli appalti pubblici a quelle relative al sistema previdenziale. Ne più ne meno che le dinamiche dove spesso e volentieri si nasconde la corruzione. Su questo terreno il lavoro della Guardia di Finanza assume un rilievo fondamentale per il rilancio del sistema Italia. Nello specifico: per quanto riguarda gli appalti pubblici gli interventi eseguiti sono stati 210. Quasi mille le persone denunciate di cui 44 ancora in stato d’arresto. Nel corso dei controlli è emerso che le somme assegnate in modo irregolare sono state quasi di un miliardo e ottocento milioni di euro.
Fondamentale anche il lavoro sui traffici commerciali. Che nel nostro Paese equivale a dire: la lotta al contrabbando. I sequestri nel 2014 sono stati notevoli: 1238 tra mezzi navali e terrestri, 200 tonnellate di sigarette e 129 di droga. E sempre per quanto riguarda la lotta agli interessi della criminalità organizzata, da segnalare i numeri della lotta contro il gioco illegale. Oltre mille le “macchinette” sequestrate mentre i punti clandestini di raccolta-scommesse scoperti e chiusi sono stati 3116. Ma l’aggressione dei patrimoni della criminalità passa anche attraverso la lotta al riciclaggio – 1483 le persone denunciate – e all’usura: 477 gli interventi eseguiti nel 2014. E le risorse messe in campo per seguire le tracce che conducono ai quei “reati che generano profitti” sono state ingenti.
Altro capitolo, quello relativo alla difesa dei consumatori. Su questo terreno la strategia operativa si compone di tre linee guida: il presidio degli spazi doganali, il “controllo economico del territorio” rappresentato dalla pattuglie in strada e la ricostruzione della “filiera del falso”. E l’anno trascorso ha visto sia il potenziamento delle attività del “117” sia l’introduzione del Siac, il Sistema Informativo Anti Contraffazione: si tratta di una piattaforma informatica per il supporto delle attività operative che offre ai cittadini “informazioni e consigli utili sul mondo della contraffazione” e, contemporaneamente, consente ai titolari dei marchi di “concorrere fattivamente nel contrasto dei traffici illeciti sul territorio”. Tutto online.
COME ARRICCHIRSI CON L'1%.
Appalti, come arricchirsi con l’uno per cento. Grazie a sponsor politici e protezioni aziendali, le grandi opere sono sempre un affare. Così funziona il meccanismo che assegna le direzioni dei lavori. A spese dei cittadini, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. I cantieri della metro C a Roma Lo scorso autunno una delegazione libica sbarca a Roma per discutere della Coastal road. È l’autostrada che il governo italiano ha promesso al fu Muhammar Gheddafi nel 2008, con Silvio Berlusconi premier e Altero Matteoli ministro delle Infrastrutture, per compensare i danni della colonizzazione sabaudo-fascista. Lo schema dell’accordo, mantenuto anche dopo la caduta del Colonnello, prevede che la società pubblica Anas international enterprise, controllata al 100 per cento dall’Anas, si occupi del progetto e della direzione lavori. La Libia può scegliere le imprese, purché siano di preferenza italiane (Salini-Impregilo, Cmc, Condotte, Pizzarotti). L’incontro romano si svolge in un’atmosfera surreale. I libici si sentono dire che alla direzione lavori sulla Ras Ejdyer-Emssad Motorway parteciperà anche la Ingegneria Spm di Stefano Perotti. No problem, rispondono. Sanno bene che in questo momento la costruzione di un’autostrada è più probabile su Marte che nella Libia devastata da tre anni di guerra civile e dall’attacco dello Stato Islamico. Ma conoscono gli italiani e sanno stare al gioco. E in gioco per adesso non ci sono i 2,3 miliardi di euro della Motorway costiera ma i 125 milioni di euro di consulenze tecniche e amministrative bandite a gara dall’ambasciata di Tripoli ma pagate con fondi degli ex colonizzatori. L’inchiesta “Sistema” della Procura di Firenze rivelerà che la Spm è stata imposta da Ercole Incalza, il burattinaio del Mit, arrestato insieme all’ingegnere Perotti. Per l’autostrada libica è finito sotto inchiesta anche il direttore generale di Anas international, Fabrizio Averardi Ripari, che oggi si difende dicendo di avere subito le pressioni di Incalza per inserire Spm nel business libico. È la stessa tesi che ha rilanciato in termini generali Pietro Ciucci, dominus uno e trino dell’Anas secondo la definizione del capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. Secondo Ciucci, intervistato da “Repubblica”, i general contractors, ossia i grandi costruttori, sono appoggiati dai politici o dai grand commis del ministero e l’Anas è loro ostaggio. Si potrebbe eccepire che un ostaggio, al contrario di Ciucci, non riceve ricchi emolumenti e non può dimettersi quando vuole. Ma la questione esiste, e da parecchi governi. Il Partito democratico nemmeno era alle viste nel 2003 quando il senatore dell’Ulivo Zanda e i suoi colleghi Paolo Brutti e Anna Donati presentavano la prima interrogazione parlamentare sul “Sistema” che accentra progettazione e direzione lavori delle opere pubbliche nelle mani di un oligopolio. Nell’ultimo decennio giovani e meno giovani leoni dell’ingegneria hanno prosperato. I contraenti generali li nominavano come progettisti o direttori dei lavori, spesso con l’intermediazione interessata di sponsor politici. L’effetto è stato l’asservimento della tecnica al profitto. Dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) il settore è stato lottizzato a vantaggio di imprenditori privati dell’engineering e a scapito delle professionalità interne di società pubbliche come la stessa Anas o l’Italferr (gruppo Fs) guidata un tempo da Giulio Burchi, un altro indagato di “Sistema”. Ha fatto comodo a tutti. Alle imprese di costruzione, che guadagnano con le perizie di variante concesse dalla committenza pubblica su imbeccata dei tecnici. Ai controllori pubblici che, invece di controllare, si sono arricchiti con i collaudi. Ai tecnici che sono nominati dai contraenti generali, che incassano fra lo 0,7 e l’1 per cento dell’importo lavori e che hanno spesso una filiale straniera per smistare il nero. Ai politici, che fabbricano consenso con le inaugurazioni e ricevono favori sotto varie forme, dal versamento estero su estero all’assunzione dei figli, com’è accaduto all’ex ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Nelle carte dell’inchiesta fiorentina sono citati vari progettisti di primo piano. Alcuni non sono indagati. Nel Sistema non è necessario commettere un reato. Basta che ognuno sappia trovare il suo posto in una lottizzazione dove i grandi hanno un giro d’affari a sette zeri e i meno grandi ricavano comunque 4-5 milioni di euro l’anno. Di Perotti si è detto che la sua specialità sono le vie ferrate, metropolitane o treni. Con il completamento della linea dell’alta velocità (Torino-Milano-Napoli) la Spm ha allargato il perimetro verso il settore stradale prendendo tre lavori sulla Salerno-Reggio. Tecnico molto apprezzato da Incalza, Perotti ha diretto il macrolotto 2 in Basilicata (200 milioni di euro di extracosti) per conto del consorzio italo-spagnolo Sis guidato da Claudio Dogliani. Con Pizzarotti ha gestito il macrolotto 4b e con la cooperativa Cmc il tratto Atena Lucana-Sicignano. Poco prima che l’ingegnere romano venisse arrestato, un altro intervento sulla Salerno-Reggio (macrolotto 3.2) ha creato qualche problema alla Spm, con il crollo del viadotto Italia e la morte di un operaio. Una vera maledizione visto che Spm è subentrata nella direzione lavori dopo l’esclusione di Giuseppe Marascio ingaggiato dalla Technital di Alessandro Mazzi, arrestato per l’inchiesta sul Mose. Marascio, un tempo molto vicino agli ambienti di An e all’ex ministro Matteoli, oggi indagato per il Mose, sta valutando se presentare ricorso contro la decisione dell’Anas attraverso il figlio Francesco, avvocato amministrativista e autore di un testo giuridico sulla revisione prezzi nei lavori pubblici con prefazione dello stesso Matteoli. Nel curriculum di Perotti spicca la direzione lavori della tratta Colosseo-San Giovanni della metro C di Roma (Astaldi, Caltagirone, Ansaldo Sts e Lega coop). In ritardo di anni, esplosa nei costi, la Metro C ha una delle commissioni di collaudo più care della storia per un totale di oltre 7 milioni di euro pagati da Roma metropolitane ai tre commissari Giuseppe Ricceri (3,3 milioni), ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici e consulente per il Mose, Andrea Monorchio (1,9 milioni di euro), ex Ragioniere generale dello Stato, e Dario Zaninelli (1,9 milioni di euro), citato nell’inchiesta sulla Cricca per la consulenza alla Scuola dei marescialli di Firenze. L’ascesa di Perotti è avvenuta quando Antonio Bevilacqua detto Nino, 52 anni, era già il numero uno grazie alla quantità di incarichi accumulati dalle sue società: la Sis e la A&S prima, e oggi l’Italconsult. L’ingegnere palermitano è passato indenne dalla decadenza dei suoi protettori forzisti, dall’ex viceministro dell’Economia Gianfranco Miccichè a Denis Verdini. Per lui c’è stato il sostegno bipartisan di Lupi e del democrat Giuseppe Lumia, mentre il suo riferimento in Anas è Ugo Dibennardo, proconsole della spa pubblica in Sicilia dal 2008 al 2013. Sotto il profilo economico, Bevilacqua è il più forte del settore. Può vantare un fatturato di oltre 30 milioni di euro all’anno con Italconsult. In aggiunta, ha due alleati di peso nell’azionariato. Uno è Intesa, il colosso bancario che Burchi si vantava di rappresentare nel mondo delle infrastrutture lombarde (Teem, Brebemi e Pedemontana). L’altro è Tecnoholding, la società che riunisce le camere di commercio italiane. Appassionato di arte moderna e vitivinicoltore part-time (Terrazze dell’Etna), Bevilacqua è stato nominato presidente del porto di Palermo nel 2001 dal sindaco forzista Diego Cammarata. Si è dimesso nel 2013. Oltre alla Catania-Siracusa con Pizzarotti, Bevilacqua ha gestito il raddoppio della statale 640, divisa in due lotti da oltre 1,5 miliardi di euro. Nel primo è stato progettista con la Sintel di Giandomenico Monorchio (figlio di Andrea)alla direzione lavori. Nel secondo ha diretto i lavori del consorzio Empedocle (Cmc, Ccc e Tecnis). Oltre alla statale 640, Bevilacqua ha fatto la parte del leone anche con la statale 106 Jonica (Reggio Calabria-Taranto). I maxilotti 1 e 2 sono suoi. Nel maxilotto 3 l’ingegnere siciliano ha soltanto la progettazione mentre la direzione lavori è di Monorchio. Classe 1970, Monorchio junior ha fondato Sintel Engineering nel settembre 1998, tre mesi dopo essersi iscritto all’albo professionale e tre anni prima che il padre iniziasse a occuparsi di lavori pubblici alla guida di Infrastrutture spa (ispa), la holding di stato creata nel 2002. Prima di essere assorbita nella cassa depositi e prestiti (2005), Ispa ha finanziato il quadrilatero Marche-Umbria, i lotti 2 e 3 dell’A3, l’alta velocità ferroviaria Torino-Milano-Napoli (Sintel ha lavorato sulla Firenze-Bologna) e il tav Milano-Genova dove la Sintel ha avuto la direzione lavori dal contraente generale Cociv, passato dal controllo del gruppo Gavio a Impregilo-Condotte. Sintel ha inoltre progettato il laboratorio del centro sperimentale dell’Anas a Cesano e l’impiantistica per il nuovo palazzo del cinema di Venezia, mai realizzato ma costato 37 milioni di euro. Nel settore strade, Monorchio ha avuto la Torino-Novara dalla Sina del gruppo Gavio. A Sud ha diretto i lavori del macrolotto 6 dell’A3 per conto di Impregilo-Condotte. In entrambi i casi, le opere sono andate avanti fra ritardi e spese fuori controllo. Anche peggio è finita sulla Palermo-Agrigento, con lo smottamento del viadotto Scorciavacche. La Sintel era responsabile della direzione lavori con Fulvio Giovannini, rimosso dopo l’incidente su richiesta del presidente dell’Anas. Monorchio ha tentato la carriera politica presentandosi alle ultime comunali di Roma nella lista del collega ingegnere Alfio Marchini. I suoi 537 voti non sono bastati per un seggio. Con i suoi 86 anni appena compiuti e una transoceanica in barca a vela portata a termine nel 2010 è il decano del settore. Ma non si limita a navigare e ad esibirsi ai fornelli durante le serate Masterchef al circolo Canottieri Aniene. Dopo che Perotti è stato estromesso dalla direzione lavori sul macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio, dove è sprofondato il viadotto Italia, tocca a Beomonte seguire un’opera che in fase di progettazione esecutiva ha già ottenuto un ritocco economico consistente. I lavori sono passati da 425 a 495 milioni di euro. Oltre che con la sua Cilento ingegneria, Beomonte ha spesso collaborato con un’altra primaria società di engineering, la 3Ti di Alfredo Ingletti e Giorgio Casciani. 3Ti ha ricavi superiori ai 20 milioni di euro e ha lavorato sull’A3 (macrolotti 5 e 6), sugli aeroporti di Bologna e di Fiumicino, nei paesi della penisola arabica, in Romania e in Sierra Leone.
CONFLITTI DI INTERESSI SUGLI APPALTI: QUANDO IL CONTROLLORE LAVORA PER IL CONTROLLATO.
Quando il controllore lavora per il controllato. Troppi conflitti d'interesse sugli appalti. La Commissione Via è l'organo pubblico che decide se un'opera si può fare o no. C'è solo un problema: molti dei suoi componenti lavorano per aziende private. I cui affari dipendono direttamente dai pareri dei commissari. Un'anomalia che il governo non ha risolto e su cui il Movimento 5 Stelle chiede chiarezza, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. Decidono di ponti e autostrade, oleodotti e ferrovie, perforazioni petrolifere, centrali elettriche, porti, inceneritori. Su tutto ciò che può modificare l'ambiente in Italia, il pallino è in mano ai 48 membri della Commissione Via , acronimo che sta per “Valutazione d'impatto ambientale”. Loro sono architetti, magistrati, ingegneri, economisti, geologi. Professionisti chiamati a dire se un'opera si può fare oppure no. E a controllare che i criteri scelti per la realizzazione vengano rispettati dalle aziende costruttrici. Compiti delicatissimi, visto che in ballo ci sono lavori milionari e spesso contestati dalle comunità locali. Indagando sui membri della Commissione emerge però che parecchi di loro, oltre a fare i tecnici per il governo italiano, lavorano per società che dai pareri della Commissione dipendono direttamente. Una coincidenza che potrebbe mettere a rischio la loro imparzialità. Su questo si concentra l'esposto inviato in questi giorni da un gruppo di parlamentari del Movimento 5 Stelle (membri della Commissione Ambiente della Camera) alle Procure di Roma e Firenze, oltre che all'Autorità Anti Corruzione e alla Direzione Nazionale Antimafia. “L'Espresso” ha potuto leggere in anteprima l'esposto. E questi sono alcuni dei nomi dei commissari su cui i parlamentari grillini chiedono di fare luce. Uno dei capitoli più lunghi è dedicato ad Antonio Grimaldi, storico docente di Ingegneria all'università romana di Tor Vergata. Oltre ad essere membro della Commissione, Grimaldi svolge anche attività privata con la Progin, una società di progettazione che il professore di fatto controlla. Il problema, sottolinea l'esposto, è che la Progin lavora insieme a gruppi che hanno parecchio a che fare con la Commissione di cui Grimaldi fa parte. Il caso più eclatante riguarda l'Anas, la società pubblica che gestisce una buona fetta delle autostrade italiane. E non solo: la Progin è infatti socia dell'Anas in tre consorzi attivi in Colombia, con cui si spartisce commesse per un totale di 30 milioni di euro. Allo stesso tempo, si legge nell'esposto, «decine di progetti dell'Anas sono stati valutati a vario titolo dalla Commissione Via». Come dire: siamo sicuri, chiedono i deputati grillini, che quando Grimaldi ha dovuto valutare i progetti dell'Anas lo abbia fatto in modo imparziale? La stessa domanda riguarda parecchi altri membri della Commissione. Come Silvio Bosetti, ingegnere e direttore generale della Energy Lab Foundation: una struttura di cui sono socie la Fondazione Edison, della Edison, e la Fondazione AEM, del gruppo A2A. Insomma, dietro la Energy Lab Foundation ci sono due dei principali gruppi energetici che operano in Italia. Nell'esposto si evidenzia che, da membro della Commissione, tra il 2013 e il 2014 Bosetti si è trovato a decidere di tre progetti proposti da questi due gruppi. Una centrale elettrica di Edison a Pianopoli, in provincia di Catanzaro. E due centrali di A2A, una a Monfalcone (Gorizia) e l'altra a Brescia. In tutti e tre i casi il parere dell'ingegnere è stato positivo. Ha approvato un bel po' progetti presentati dall'Anas un altro membro della Commissione, l'architetto Francesca Soro. Che dalla stessa Anas ha ricevuto un incarico personale: nel 2011 è stata nominata commissario di gara per un intervento stradale da svolgere in Sicilia. Anche Arturo Luca Montanelli, architetto, è citato nell'esposto. Oltre ad essere membro della Commissione, Montanelli è il legale rappresentante di una società di progettazione (la Ardea) che fa parte di un grande consorzio di imprese (Red). Il problema, fanno notare i grillini, è che i clienti di alcune società che formano il consorzio hanno presentato i loro progetti alla Commissione Via. Insomma, Montanelli ha votato i piani dei clienti dei suoi soci. Come ad esempio quello dell'Ilva di Taranto, l'enorme acciaieria entrata in crisi a causa del mancato rispetto delle procedure ambientali. Tra i nomi citati nell'esposto c'è anche quello del presidente della Commissione Via, Guido Monteforte Specchi. I deputati del Movimento 5 Stelle dicono che l'ingegnere ha fatto il consulente per un'azienda, la Itw & Lkw Geotermia Italia. E che quest'azienda ha presentato un progetto in Commissione per un impianto geotermico pilota da realizzare a Castel Giorgio, in provincia di Terni. Una stoccata i grillini la tirano anche a chi alterna incarichi pubblici e privati. Come ad esempio Maria Fernanda Stagno D'Alcontres, architetto, fino a un anno fa commissario straordinario per la Metro C di Roma, l'opera finita al centro delle indagini della magistratura per i ritardi e i costi aumentati. Ebbene, come si legge nel suo curriculum , la D'Alcontres è stata dal 2001 al 2005 in forze al ministero delle Infrastrutture, come componente della struttura tecnica di missione. Poi, dal 2006 al 2007, è passata a fare la consulente per la Tav spa, la società costituita dalle Ferrovie dello Stato per realizzare le linee dei treni ad alta velocità. Infine, dal 2008, è diventata membro della Commissione Via, che sulla Tav si è trovata spesso a decidere. Non ci sono però solo i possibili conflitti d'interesse. Come gli stessi deputati grillini avevano già evidenziato in una recente interrogazione parlamentare, all'interno della Commissione Via ci sarebbero persino piduisti e personaggi vicini alla 'ndrangheta. Di Vincenzo Ruggiero, commercialista e membro della Commissione da oltre 10 anni, si ricorda che la Prefettura di Reggio Calabria nel 2008 lo descrisse come «sospettato di essere asservito alla cosca Piromalli-Molè-Stillitano operante in Reggio Calabria» . Mentre di Antonio Castelgrande, ingegnere di 85 anni, si mette in evidenza un articolo pubblicato dal quotidiano “l'Unità” nel 2002 , che raccontava della presenza di Castelgrande nell'elenco dei membri della loggia massonica P2. Al di là di questi ultimi casi, però, l'esposto riguarda un tema per certi versi ancora più rilevante. E' giusto che persone chiamate a decidere il destino di opere come la Tav, le autostrade o i pozzi petroliferi possano avere degli interessi privati in quelle opere? Non sarebbe meglio, per evitare possibili conflitti d'interesse, affidare la Commissione solo a persone oggettivamente imparziali, ad esempio a professori universitari senza incarichi nel settore privato? Domande a cui nemmeno i magistrati potranno rispondere. Perché quel compito tocca al governo di Matteo Renzi e al suo ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, a cui fa capo la Commissione Via.
COME SI CORROMPE UN POLITICO OD UN AMMINISTRATORE PUBBLICO.
Inchiesta Cpl Concordia, Francesco Simone vuota il sacco: "Così corrompevo i politici", scrive “Libero Quotidiano”. Ora Francesco Simone collabora con i magistrati di Napoli. Il manager della coop Cpl Concordia che teneva rapporti con i politici e amministratori pubblici parla per oltre otto ore e senza giri di parole ammette l'esistenza di un sistema corruttivo. Simone fa tremare la politica, perché rivela il meccanismo che avrebbe consentito alle società di aggiudicarsi gli appalti truccati per la metanizzazione dei Comuni. L'interrogatorio è avvenuto due giorni fa a Poggioreale, dove Simone è rinchiuso dallo scorso lunedì insieme ai responsabili della società e al sindaco di Ischia, Giuseppe Ferrandino. Per tutti l'accusa è di corruzione, turbativa d'asta, riciclaggio e false fatturazioni. Il sospetto è che abbiano pilotato i bandi di assegnazione grazie a un giro di mazzette. La rete di Simone, che per anni è stato segretario e uomo di fiducia di Bettino Craxi, è stata ricostruita grazie a intercettazioni e verifiche svolte dal pm John Henry Woodcock. E dopo il primo interrogatorio di giovedì, in cui non ha voluto rispondere, l'ex socialista - come rivelano i verbali coperti da alcuni "omissis" - spiega: "Lo strumento di penetrazione "da parte di Cpl delle pubbliche amministrazioni, stazioni appaltanti dei lavori e dei servizi cui la Cpl è interessata, è rappresentato dalle consulenze, dal subappalto ovvero dalle forniture in favore di soggetti legati ai pubblici ufficiali che gestiscono i medesimi appalti. Voglio dire che Cpl affida o una consulenza (più o meno fittizia) ovvero individua un subappaltatore o un fornitore segnalato dal soggetto pubblico che poi gli fa aggiudicare l’appalto o che gestisce le pratiche amministrative, tanto è avvenuto, secondo un protocollo ben consolidato". Per fare un esempio concreto sulle modalità utilizzate dalla cooperativa, Simone ha parlato ai pm dell'incarico ottenuto da Cpl a Procida: "Lo stesso metodo e lo stesso protocollo è stato usato in relazione all’appalto che la Cpl si è recentemente aggiudicata per la metanizzazione di Procida. Il facilitatore è stato l’ex senatore Muro, già sindaco di Procida è legatissimo all’attuale sindaco". Scecondo Simone il coinvolgimento di politici o funzionari prevederebbe una contropartita: " La Cpl ha utilizzato Muro per ingraziarsi l’amministrazione comunale e cioè per ottenere le autorizzazioni e gli atti che il Comune ha dovuto adottare. In tal caso l’utilità è stata destinata a Muro pagando a lui o a un suo prestanome una quota tra il 10 e il 20% del capitale della società che è stata costituita ad hoc dalla Cpl per tale opera, le cui quote sono possedute dalla stessa Cpl". "Per ogni lavoro una mazzetta" - Il racconto di Simone si fa via via più dettagliato, e dopo Procida spiega come il medesimo metodo sia stato utilizzato ad Ischia, dove Ferrandino aveva negato di aver percepito mazzette per agevolare l'appalto. Al contrario, Simone sostiene che tutti i lavori sarebbero stati ottenuti seguendo la stessa procedura. Questo è quanto recitano i verbali, dove si può leggere: "Quando la Cpl partecipa a un appalto accade talvolta che si costituisca una società di scopo (a Ischia per esempio era la Ischia gas). Ebbene al momento della costituzione il capitale e dunque le quote di tale società di scopo hanno un determinato valore - di regola basso - che ovviamente lievita in modo straordinario dopo l’aggiudicazione dell’appalto e soprattutto dopo l’erogazione del finanziamento pubblico. Voglio dire che se per esempio il 10% di tale società di scopo vale 100 euro prima del finanziamento, dopo il finanziamento il valore della stessa quota sarà di 100 mila euro".
Finanziamenti dalla rossa Cpl Concordia, ce n'è per tutti: da Marino, Zingaretti e Meloni. La cooperativa rossa modenese, coinvolta nell'inchiesta della procura di Napoli per un appalto a Ischia, era solita staccare assegni per molti eventi politici, scrive Federico Nicci su “Il Giornale”. "Io non darei soldi a nessun politico - diceva ai pm il 15 gennaio scorso Fabrizio Tondelli, direttore generale affari esteri di Cpl - e infatti anche quando si è parlato di partecipare alla cena di Renzi io ero in disaccordo, non trovavo alcuna utilità. Tuttavia il Cda per motivi commerciali e di opportunità ha poi stabilito diversamente e ha quindi erogato il contributo". Eppure, una pioggia di soldi si abbatteva sulla politica senza distinzione di colore o partito. Il "nuvolone" in questione è la Cpl Concordia, coop rossa modenese coinvolta nell'inchiesta della procura di Napoli per un appalto a Ischia. Tutti amavano cantare sotto la pioggia. Tempeste più rumorose si sono abbattute sul Partito Democratico: 20 mila euro a favore della Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema ai contributi dichiarati dalla Cpl Concordia e indirizzati a Matteo Renzi. Il 5 novembre 2014 la cooperativa registrava 5 mila euro in uscita per i democratici, alla vigilia delle due cene elettorali di raccolta fondi dell'attuale premier, organizzate il 6 a Milano e il 7 a Roma. E, come viene ricostruito da Il Fatto Quotidiano, tra il 2011 e il 2014 le pioggie sono state diffuse. La coop rossa staccava un assegno di 20 mila euro per Virginio Merola, candidato sindaco a Bologna, e finanziava con 10 mila euro i democratici di Pesaro, Ferrara ed Urbino. Solo due mila euro a Foggia e Frosinone. Nel 2012 ancora 15 mila euro a Ferrara e 3 mila al comitato Bersani. Il 2013 è anno di elezioni europee, il 2014 di elezioni politiche. E, come insegnavano i latini, Roma caput mundi (anche se dopo Mafia Capitale è meglio parlare di due mundi): 17 mila euro per il Pd romano, 10 mila euro per il senatore Pd Ugo Sposetti, 5 mila per il deputato democratico Alfredo D'Attorre, 10 mila per la lista civica di Nicola Zingaretti e altri 10 mila per il Comitato Zingaretti; arrivano 6 mila euro per la cena elettorale di coppia Zingaretti-Marino, ma anche 2 mila euro al comitato di Giorgia Meloni e 3 mila per Antonio Paravia di Forza Italia, 2.500 euro per Ignazio Marino. Ma non basta mai. Mandati 5mila euro ad Antonio Decaro sindaco di Bari; 2 mila euro per il mandato a Strasburgo di Cecile Kyenge e 4 mila per l'ex ministro Flavio Zanonato, mille per Antonella Forattini in Lombardia e 10 mila per Eugenio Patané, consigliere regionale poi indagato nell'ambito di Mafia Capitale.
Ischia: la rete di truffe e tangenti della coop rossa. False consulenze e quote societarie: ecco come la Cpl Concordia corrompeva politici e amministratori pubblici, scrive Claudia Daconto su "Panorama". Sembra non avere fondo il vaso di Pandora scoperchiato dall'inchiesta della Procura di Napoli sugli affari e le tangenti pagate dal colosso delle cooperative rosse Cpl Concordia a politici e amministratori in cambio di nomine favorevoli e appalti. Il primo a parlare è stato il capo delle relazioni istituzionali Francesco Simone. Ma secondo le rivelazioni di un altro “pentito” dell'azienda modenese, al centro della fitta rete di affari e rapporti ci sarebbe stato proprio lui, Simone, l'uomo di cui, a un certo punto, l'ex presidente finito in manette, Roberto Casari, si sarebbe “innamorato”, l'artefice del “protocollo ben consolidato” da seguire per truccare gare, corrompere politici, funzionari, sindaci. È infatti con l'arrivo di Simone che, a detta del manager della cooperativa modenese, il perimetro e il livello dei rapporti istituzionali della Cpl aumentano notevolmente. “Rimasi molto sorpreso – racconta - nel vedere che loro della Cpl dialogavano con ministri, politici e amministratori a tutti i livelli. Al telefono Francesco Simone parla, per esempio, con Gianfranco Micciché a proposito di eventuali affari da concludere in Sicilia e per i quali si pensa a come e attraverso chi contattare anche l'ex ministro Maurizio Lupi. Per favorire nuovi investimenti in Campania e Calabria si punta invece a sfruttare i buoni rapporti con la sottosegretaria allo Sviluppo economico Simona Vicari; per Ischia, da dove è partita l'inchiesta sulle tangenti per la metanizzazione dell'isola, si parla al telefono di un prossimo incontro tra Casari, il sindaco Giosi Ferrandino e Massimo D'Alema mentre per i lavori a Procida sarebbero coinvolti l'attuale sindaco Vincenzo Capezzuto (non indagato) e il suo predecessore ed ex parlamentare di An e poi di Fli Luigi Muro (indagato per corruzione per aver ricevuto una quota della società costituita ad hoc dalla Cpl per portare il metano nell'isola). Nel 2014 il capo delle relazioni istituzionali parla con Maurizio Rinaldi, presidente del consiglio d'amministrazione della Cpl, “dell'interessamento di Giulio Tremonti nella trasformazione della Cpl distribuzione” in una società per azioni”. Ma le intercettazioni telefoniche svelano frequentazioni anche tra Simone e l'attuale sindaco di Firenze Dario Nardella e un canale preferenziale con Matteo Renzi e Luca Lotti. Tra le “innumerevoli relazioni istituzionali di Simone", si legge nelle carte dei pm, è emersa per esempio quella con Vito Riggio. E' infatti il presidente di Enac che, relativamente ad una gara che la Cpl si è aggiudicata presso l'Agenzia spaziale italiana, organizza un incontro con l'ex presidente Enrico Saggese già indagato e arrestato per corruzione e concussione nell'ambito di un'altra inchiesta. Ed è sempre a Riggio che Simone propone “un'opportunità” per il figlio Federico in Tunisia e Algeria in cambio del suo interessamento a favore della Cpl per una gara indetta da Aeroporti di Roma. Anche l'Ama, l'azienda municipalizzata romana che si occupa della raccolta dei rifiuti, finisce nel raggio d'azione dell'attivissimo manager. Francesco Simone viene infatti contattato da un ex dirigente dell'ospedale Idi (che al telefono gli dice di aver chiamato lui perché “potentissimo e supremo”) per raccomandargli un suo amico alla carica di amministratore delegato come se Simone potesse in effetti avere voce in capitolo. Millantando o meno, Simone dice anche di avere “tutta Finmeccanica”. Lo fa in una telefonata del 25 febbraio 2014 quando, parlando del suo ufficio a Tunisi, dice di aver ripreso l'attività come quando stava con Finmeccanica e aveva “40/50 mila euro al mese”. La Tunisia è importante anche perché sarebbe qui, secondo gli inquirenti, che la Cpl Concordia aveva creato “fondi neri” per pagare tangenti in Italia. Ed è qui infatti che Simone vorrebbe trasferirsi visto che in Italia, dice, “è diventato reato anche portare a casa due fette di pane”. E' sua la società tunisina (“Tunita”) con la quale la Cpl stipulava fittizi contratti di consulenza per effettuare transazioni di denaro tra i due paesi. Simone fa infatti transitare i compensi sulla sua società per sfruttare un regime fiscale più favorevole e fa rientrare i soldi (“cammelli”) in Italia grazie anche ai favori di un suo amico, il capo scalo della “Tunis Auro”, Bruno Santorelli, manager Cpl per il Nord Africa. Soldi che dovevano finire nelle tasche di amministratori compiacenti. Gli appalti finiti sotto la lente degli inquirenti sarebbero addirittura una trentina. Oltre a quelli per la metanizzazione delle isole di Ischia e di Procida, ci sono i lavori Consip/Cns in provincia di Caserta e di Napoli, alla Seconda Università del capoluogo campano, alla Asl di Salerno, agli ospedali di Vallo della Lucania, Nocera Inferiore e Pagani. Ma le commesse vinte dalla Cpl Concordia, grazie ai rapporti di “amicizia” e alle tangenti pagate dall'azienda modenese a politici ed esponenti della pubblica amministrazione, sono sparse in tutta Italia. E nei prossimi giorni anche chi non risulta indagato potrebbe essere chiamato a spiegare la natura della propria frequentazione con i massimi vertici, ormai decapitati, della cooperativa.
Ischia, spunta il nome di D'Alema nell'inchiesta sul sindaco. Giuseppe Ferrandino avrebbe ricevuto compensi dalla cooperativa Cpl, e nelle intercettazioni viene nominato anche il leader politico Pd, scrive “Panorama”. La stipula fittizia di due convenzioni nell'albergo della famiglia, per un totale di 330 mila euro; l'assunzione come consulente del fratello e almeno un viaggio in Tunisia: sarebbe stato questo, secondo l'accusa, il "prezzo" pagato dalla CPL per la corruzione del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, finito in manette nell'ambito dell'inchiesta della procura di Napoli condotta dai carabinieri del Comando Tutela Ambiente. Secondo l'accusa Ferrandino "era diventato una sorta di factotum al soldo della CPL Concordia, per gli appalti per le opere di metanizzazione sull'isola. In particolare, la CPL Concordia - in cambio dei "favori" di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori di metanizzazione, avrebbe stipulato due "fittizie convenzioni" (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della "messa a disposizione" di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Altre "utilità" ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, quale consulente della CPL Concordia e almeno un viaggio tutto spesato in Tunisia. Secondo l'accusa sarebbe stato proprio grazie all'interessamento del sindaco ed alla complicità dell'architetto Silvano Arcamone, dirigente dell'ufficio tecnico di Ischia, che l'appalto di metanizzazione dello stesso Comune (capofila del progetto) e di quelli di Lacco Ameno e Casamicciola Terme è stato affidato alla CPL. La cooperativa, dal canto suo, avrebbe provveduto al pagamento attingendo a dei fondi neri costituiti mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti con una società tunisina (la Tunita sarl) riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo CPL Concordia, definito dagli inquirenti "personaggio chiave" della vicenda, con un ruolo di primo piano nella presunta associazione a delinquere attiva non solo nell'appalto di Ischia, ma in numerosi altri, soprattutto in Campania. In una delle intercettazioni agli atti dell'inchiesta, Francesco Simone, dirigente della CPL arrestato, chiama in causa Massimo D'Alema sottolineando la necessità di "investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare Commissario Europeo" in quanto "...D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose". Nell'ordinanza di custodia cautelare il gip Amelia Primavera sottolinea, tra l'altro, che "per comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla CPL Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa CPL Concordia, che è tra le più antiche cosiddette cooperative rosse, ovvero l'On. Massimo D'Alema". L'intercettazione ambientale in cui Francesco Simone parla di D'Alema con Nicola Verrini, responsabile commerciale di area della CPL Concordia, risale all'11 marzo 2014. Per il gip questa conversazione "appare di estremo rilievo", "oltre che per il riferimento a D'Alema" e "ad alcuni appartenenti alle forze di polizia", anche "per il modo in cui gli interlocutori distinguono i politici e le Istituzioni loro referenti, operando la netta ma significativa distinzione tra quelli che al momento debito si sporcano le mani, 'mettono le mani nella merda' e quelli che non le mettono, distinzione che appunto dice tutto a proposito del modus operandi della CPL e dei suoi uomini". Secondo il giudice, il termine "investire" utilizzato da Simone ("...investire negli Italiani europei...") "rende piu' che mai l'idea dell'approccio di Simone e della Concordia rispetto a tale mondo". In un passaggio successivo e relativo ad un'altra vicenda Simone afferma, "in riferimento sempre alla quota associativa da pagare ad un'altra fondazione (della quale , per ragioni investigative, si omette la denominazione): '...dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento..'". "La diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napoli è scandalosa e offensiva" dichiara Massimo D'Alema. "Ho dato mandato all'avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede", annuncia. "Certamente ho rapporti con CPL Concordia, per cui tenni anche una conferenza in occasione della sua assemblea annuale. Ho rapporti con CPL come con altre cooperative e aziende private", dichiara D'Alema. "Dalla CPL non ho avuto alcun regalo ed è ridicolo definire l'acquisto di 2.000 bottiglie di vino in tre anni come un 'mega ordine', peraltro fatturato e pagato con bonifici a quattro mesi. Quanto ai libri - prosegue - nessun beneficio personale, ma un'attività editoriale legittima, che rientra nel normale e quotidiano lavoro della Fondazione Italianieuropei. Inoltre, i libri furono acquistati per una manifestazione elettorale dedicata ai temi europei, alla quale fui invitato dal sindaco di Ischia, che era candidato del Pd". "Do mandato all'avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede", conclude. La CPL Concordia, con sede a Concordia sulla Secchia, nel Modenese, è una cooperativa storica, nata nel 1899. Negli atti dell'inchiesta viene definita una "tra le più antiche cosiddette 'cooperative rosse'". Opera a livello internazionale, con 1.800 addetti e 70 società controllate e collegate in tutto il mondo e un fatturato consolidato di 461 milioni nel 2014. Si tratta di un gruppo cooperativo cosiddetto "multiutility" che si occupa di energia in tutti i suoi aspetti: dall'approvvigionamento e distribuzione alla vendita e contabilizzazione di gas ed elettricità, alla produzione mediante sistemi tradizionali o impianti rinnovabili. L'attuale presidente è Mario Guarnieri. Il precedente, Roberto Casari, arrestato stamani, era andato in pensione il 30 gennaio scorso. È di un mese fa la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dell'ex presidente della CPL, Roberto Casari, per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta sui lavori di metanizzazione compiuti tra il 1999 e il 2003 a Casal di Principe e in altri sei comuni del Casertano. Opere realizzate non a norma, con rischi per la sicurezza dei cittadini, sostiene la Dda di Napoli, dopo le dichiarazioni rilasciate nel giugno 2014 dal pentito Antonio Iovine. Secondo l'ipotesi accusatoria, la Cpl si sarebbe aggiudicata l'appalto con l'appoggio della fazione dei Casalesi guidata da Michele Zagaria; i subappalti sarebbero stati poi distribuiti alle ditte locali indicate dai boss. Zagaria ne ha fatto un elenco dettagliato, indicando anche le anomalie sullo svolgimento dei lavori. Anomalie che i magistrati hanno voluto verificare, inviando di recente le ruspe a Casal di Principe: dagli scavi, coordinati dai carabinieri del Noe di Caserta ed effettuati in corso Umberto, in pieno centro, è emerso che le tubature erano state interrate a 30 centimetri di profondità invece che ai 60 previsti dalla normativa, mettendo quindi a rischio la sicurezza della popolazione. Nell'ordinanza di custodia cautelare relativa alle tangenti che sarebbero state pagate per la metanizzazione di Ischia non si entra nel merito dei presunti collegamenti tra la CPL e la criminalità organizzata, oggetto di altra indagine. Anche i brani delle intercettazioni, quando gli arrestati toccano questo argomento, sono coperti da omissis. (ANSA).
Cpl, nuovo testimone: «Nella rete anche ministri». Fondi in Tunisia. Nuovo testimone nell'inchiesta sulle tangenti pagate dalla Cpl Concordia per aggiudicarsi appalti pubblici e controllare le nomine, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. C’è un altro testimone prezioso nell’inchiesta dei magistrati napoletani sulle tangenti che sarebbero state pagate dalla «Cpl Concordia» per aggiudicarsi appalti pubblici, ma anche per orientare nomine e «controllare» l’affidamento degli incarichi. È un manager della cooperativa modenese che in un verbale allegato agli atti ha fornito elementi importanti ai pubblici ministeri rivelando come nella rete di Francesco Simone, il consulente «pentito» che ha cominciato a collaborare dopo l’arresto avvenuto una settimana fa, ci fossero «ministri, politici e amministratori pubblici». Mentre si attende la fissazione del nuovo interrogatorio di Simone un altro dipendente svela dunque nuovi dettagli, confermando come fosse proprio lui il perno dei rapporti con le istituzioni. È il 28 giugno scorso. I pubblici ministeri Henry John Woodcock e Celeste Carrano interrogano Diego Solari, responsabile commerciale della «Cpl». E lui dichiara: «Sono stato io a presentare Francesco Simone al presidente Roberto Casari. Tra i due si è stabilito un rapporto strettissimo dal quale io in qualche modo sono rimasto fuori. Lo presentai a Casari quando la “Cpl” voleva affermarsi in Tunisia, i due “si innamorarono”, poi Simone fece aprire alla “Cpl” un ufficio a Roma. Simone mi fu presentato da Saro Munafò, ex segretario del ministro Claudio Martelli. Simone mi ha sistematicamente “bypassato” e per questa ragione ho gettato la spugna. Posso dire che da quando è diventato consulente lo spettro dei rapporti istituzionali della “Cpl” si è molto allargato. Simone nasce come segretario di Bobo Craxi. La “Cpl” è una realtà commerciale molto radicata politicamente, soprattutto in un certo contesto. Rimasi molto sorpreso nel vedere che loro della “Cpl” dialogavano con ministri, politici e amministratori a tutti i livelli. Gli incarichi di consulenze non passano dal consiglio di amministrazione ma vengono conferiti direttamente dal presidente o dal vicepresidente». Nel verbale ci sono numerosi «omissis» che coprono nomi e circostanze sulle quali sono tuttora in corso verifiche. Nelle conversazioni registrate è lo stesso Simone a raccontare quale sia la propria sfera di influenza. Agli atti è allegata una nota dei carabinieri del Noe trasmessa alla magistratura il 14 marzo 2014 nella quale «si evidenzia che la rete relazionale intrattenuta da Simone non è solo finalizzata alla parte propedeutica per la conclusione di trattative nel settore energetico per conto della società “Cpl”. La stessa è spesso indirizzata a trattative economiche finanziarie parallele a quelle di sua competenza o che esulano dal settore dell’energia». C’è poi il riassunto di una intercettazione ambientale del 25 febbraio 2014. Scrivono i carabinieri: «Simone riferisce che a Tunisi ha un ufficio. Simone riferisce che era diventato “l’italiano più potente giù”, che “avevo tutta Finmeccanica”. Quando stavo con Finmeccanica avevo 40/50 mila euro al mese. Comunque adesso giù ho ripreso, l’ufficio è tornato tutto funzionante i conti correnti eccetera. Quando tu hai cose in Tunisia l’ufficio è gratis, hai la segretaria». I magistrati sono convinti che i «fondi neri» per il pagamento delle tangenti vengano accumulati anche grazie a operazioni effettuate da Simone in Tunisia e anche di questo si parlerà nei prossimi interrogatori. Alcuni elementi sono già stati acquisiti. Scrivono i pm: «È emerso come la stipula di contratti di consulenza con la società tunisina riconducibile a Simone sono utilizzati dalla “Cpl” per effettuare delle sospette transazioni di denaro tra l’Italia e la Tunisia. Nel corso dell’incontro - intercettato il 19 febbraio 2014 - Simone spiega in maniera alquanto dettagliata il “modus operandi” che adotta per porre in essere tali transazioni, facendo transitare questi compensi sulla società tunisina onde avere un regime fiscale più basso per poi far rientrare il denaro in Italia utilizzando un sistema collaudato che coinvolge il capo scalo della “Tunis Air” suo amico, e Bruno Santorelli, manager Cpl per il Nordafrica, il quale ogni tanto gli porta 10, 15 mila euro. “Se lui me li porta io gli faccio l’assegno tunisino, lui c’ha la stessa banca mia, li cambia, cioè dopo quattro cinque giorni che va e viene me li porta». Il 26 marzo 2014 nella sala riunioni della “Cpl” «Simone informa il direttore amministrativo Maurizio Rinaldi che “la settimana scorsa sono arrivati, venerdì scorso sono arrivati i fondi in Tunisia, la prossima settimana sono operativi”. Poi accenna a una somma di 38.250». Le migliaia di pagine mostrano come Simone fosse in grado di orientare persino le nomine all’Ama, la municipalizzata del Comune di Roma per la raccolta dei rifiuti. E soprattutto che avesse entrature ovunque. I carabinieri del Noe inseriscono nella sua «rete» anche il generale della Guardia di Finanza - che però nega di averlo mai conosciuto - risultato in ottimi rapporti con i collaboratori più stretti del premier Matteo Renzi. Agli atti ci sono le telefonate con Dario Nardella, diventato sindaco di Firenze, mentre parlano della nomina del nuovo comandante delle Fiamme Gialle. L’11 febbraio 2014 Simone e Maurizio Rinaldi, presidente del consiglio di amministrazione della “Cpl”, «parlano dell’interessamento di Giulio Tremonti nella trasformazione della “Cpl distribuzione” in una società per azioni». Annotano gli investigatori: «Gli interlocutori discutono per organizzare un incontro con “il professore” a Roma» .
Coop rosse, i legami di Simone con la Farnesina di D'Alema e Tremonti. Il super manager della Cpl Concordia è stato uno stretto collaboratore di Bobo Craxi quando era sottosegretario alla Farnesina. Il ministro? Era D'Alema. Francesco Simone parla ai pm e spiega il sistema degli appalti. Nelle intercettazioni i rapporti con i politici: "Ho dato una mano a Tremonti e sono più schifato di prima", scrive “Affari Italiani”. Il super manager della Cpl Concordia è stato uno stretto collaboratore di Bobo Craxi quando era sottosegretario alla Farnesina. Il ministro? Era D'Alema. Francesco Simone parla ai pm e spiega il sistema degli appalti. Nelle intercettazioni i rapporti con i politici: "Ho dato una mano a Tremonti e sono più schifato di prima". Spunta il caso Shalabajeva: "Conosco bene l'ambasciatore kazako, lì dalle parte della questura c'è più di qualcuno a libro paga". Le lettere a Craxi in "esilio": "Vorrei aprire un'azienda in Tunisia". Francesco Simone, dopo una carriera interrotta per motivi misteriosi nel Partito Socialista negli anni Ottanta. Aveva ricevuto il compito di riorganizzare e strutturare i giovani socialisti. Poi, all'improvviso, l'allontanamento in circostanza piuttosto oscure. Ma il rapporto con Craxi resta. Simone sembra essere uno dei più vicini a Bettino Craxi. Tra i documenti messi a disposizione dalla Fondazione Craxi, riporta Repubblica, una serie di lettere e scambi tra Simone e Craxi da Hammamet. In un biglietto del 1999 Simone paventa a Craxi "l'ipotesi concreta di realizzare insieme a Bobo un'azienda agricola per colture orticole" in Tunisia. Ma, spiega Repubblica, non risulta che Craxi abbia risposto. Sarebbe rimasto sempre forte invece il legame con Bobo Craxi. Simone segue Bobo Craxi anche negli anni successivi alla morte di Bettino. Sta con lui quando appoggia il governo Berlusconi per poi passare al governo Prodi del 2006. Proprio in quegli anni potrebbe essere avvenuta la conoscenza tra Simone e D'Alema (ricordiamo ancora una volta non indagato dai pm di Napoli) poi sfociata nell'acquisto di vini e libri. Già, perché Bobo Craxi era il sottosegretario della Farnesina quando D'Alema era il ministro degli Esteri. Nel frattempo, mentre proseguono gli interrogatori allo stesso Simone, emergono altre intercettazioni che gettano una luce sui rapporti della Cpl Concordia con il mondo della politica. In un'informativa dei carabinieri del Noe si legge, come riporta Repubblica: "La vicinanza all'ambiente politico-istituzionale, e nello specifico la conoscenza con Giulio Tremonti, rappresenta per Francesco Simone un mezzo per agevolare l'iter delle trattative e dei progetti". Tra le intercettazioni ce n'è una dell'aprile 2013 nella quale Simone parla di Tremonti: "Ho dato una mano a lui e adesso sono più schifato di prima, ovviamente il suo rapporto e la sua vicinanza con lui mi crea delle opportunità, delle relazioni importanti, però faccio il mio lavoro, faccio le relazioni istituzionali per alcuni gruppi importanti che sono nel settore energetico, nel settore infrastrutture". Nelle carte spunta anche qualche riferimento al caso di Alma Shalabajeva, la moglie del dissidente kazako Ablyazov. In un'intercettazione, riportata da Repubblica, Simone, alla domanda dell'interlocutore, risponde così sul caso: "La vedo che politicamente è un disastro... Questi litigano sul kazako che è una vergogna. Perché che cazzo, Io conosco bene l'ambasciatore del Kazakistan, è a libro paga più di qualcuno lì, dalle parti della questura. Quello è andato, gli ha detto che è un pericoloso delinquente, senza dirgli che è un rifugiato politico. Quelli si sono come dire scappellati.. e gli hanno fatto 'sta marchetta, senza che secondo me veramente il ministro (Alfano, ndr) sapesse un cazzo (...) Questa è la mia opinione. L'ambasciatore kazako che è uno molto generoso con qualcuno da quelle parti... Questo lo so quasi per certo".
Caso D'Alema: "Sono innocente, mi rivolgo all'Anm". Spunta un'intercettazione che racconta di un presunto versamento da 87mila euro. Il politico attacca i giudici per la fuga di notizie. Massimo D'Alema sempre al centro della cronaca per l'inchiesta sulle presunte tangenti ad Ischia dove compare il suo nome. Spunta un'intercettazione in cui si parla di un presunto versamento da 87 mila euro che sarebbe in qualche maniera legato a D'Alema. D'Alema si difende chiamando in causa l'Anm: "Sono innocente, ma la fuga di notizie è inaccettabile. Si dovrete vigilare di più sui giudici".
Massimo D'Alema, il vino e la denuncia che non farà. A "Baffino" sono state poste semplici domande. A cui ha risposto con delle vere "intimidazioni". Senza farsi mancare, per carità, un gesto di cortesia..., scrive Marco Ventura su “Panorama”. È proprio un gran simpaticone Massimo D’Alema. Lo chiamano "Baffino", gli rimproverano l’arroganza dell’uomo di potere, la supponenza dell’ex capo di governo icona della sinistra, l’appartenenza alla vecchia guardia post-comunista, l’insofferenza per i giornalisti. Voglio dirlo con chiarezza: tutto questo non è vero. D’Alema è simpatico e avveduto. All’inviato di Virus (Rai2), Filippo Barone, che gli chiede un giudizio sull’opportunità di legare l’immagine del Pd e delle iniziative democratiche alla vendita del (suo) vino, D’Alema risponde chiedendo di ripetere la domanda. E chiede al giornalista di declinare le generalità per trasferirle ai suoi avvocati. Gli dice bello netto, senza giri di parole, che se il botta e risposta andrà in onda partirà la denuncia. Bene saperlo. Ovviamente il botta e risposta andrà in onda, stasera, ma non credo che la denuncia ci sarà. D’Alema sa quel che fa, anche se sotto effetto della querelle enologica, e sa che non si querela una domanda, semmai si risponde. Al massimo, la si contesta. Posso dirlo? Mi colpisce che un politico abituato a trattare coi grandi della Terra e grondante medaglie istituzionali si ritrovi a dover spiegare che non c’è nulla di male a vender vino per un ex presidente del Consiglio (infatti che male c’è?) a imprese che ne fanno dono per le feste comandate. Ma qualche ulteriore domanda ce l’avrei comunque: perché proprio i vini delle cantine D’Alema? E perché proprio a certe Coop? E perché i responsabili delle Coop parlano di vino con una fondazione politica invece che con una azienda vinicola? Nessun reato. Semplici domande. Come quest’altra: D’Alema, nell’indignarsi per una domanda, è solo attento alla propria immagine o è anche sinceramente garantista? Già, perché non risultano “agli atti” paginate d’interviste come quelle da lui elargite a propria difesa e annunci di fracassi giudiziari per mettere un freno al malcostume (che tale è) nell’uso delle intercettazioni quando a farne le spese non sono esponenti della sinistra ma del centrodestra, specie se non indagati (come lui) eppure già sottoposti alla gogna dei processi sommari sui media (avrei qualche decina di esempi, ve li risparmio). Se poi un giornalista come Barone di Virus fa il suo dovere, non rischierà la denuncia ma qualche brivido sì. Leggo alla voce “intimidazione” sulla Treccani: “Atto o parole di minaccia, che hanno lo scopo di incutere timore e costringere ad agire o a desistere da un’azione con lo stimolo della paura”. Ma D’Alema non ha intimidito, no, lui è un simpaticone. Al contrario: invece di invitare a desistere dal trasmettere l’intervista, ha “pregato” di farlo. Per poi far partire la denuncia. Un gesto di cortesia…
D'Alema e l'antica antipatia per i giornalisti italiani. Furioso per essere finito al centro dell'attenzione mediatica per il caso di Ischia, ha minacciato querele a tappeto. Una vecchia abitudine..., scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Massimo D'Alema croce dei giornalisti e delizia dei titolisti. Nessuno come l'ex direttore dell'Unità è tanto bravo a formulare battute fulminanti buone a riempire per giorni le pagine dei giornali e tanto velenoso nell'infliggere cocenti umiliazioni ai suoi interlocutori o nel minacciarli di querela. Ne sa qualcosa il povero inviato del programma “Virus” che, dopo lo scoppio dello scandalo di Ischia, si è azzardato a domandargli se non ritenesse inopportuno vendere il suo vino, finito nelle carte dell'inchiesta della procura di Napoli, alle feste del Pd. Quello che D'Alema pensa dei giornalisti. Un rapporto mai facile quello tra la stampa e uno dei più influenti leader della minoranza dem che dei giornalisti ha sempre pensato tutto il male possibile, giudicandoli dei pusillanimi, ignoranti e pettegoli e querelandone già in passato il più possibile. Nel 2009 è stato capace di prendersela con “Il Giornale” mentre partecipava alla manifestazione per la libertà di stampa indetta dalla Fnsi (il sindacato dei giornalisti). Ha chiesto 3 miliardi di risarcimento a Giorgio Forattini per una vignetta che lo ritraeva a sbianchettare il dossier Mitrochin. Addirittura Michele Serra insorse dalle pagine dell'Unità per implorarlo di ripensarci. Ironico e anche autoironico, D'Alema non ha mai sopportato troppo nemmeno la satira. Tuttavia si è sempre divertito da morire a demolire davanti a tutti il giornalista che lo importuna con domande scomode o per lui irritanti. Gode nello sbefferggiarlo, nell'intimorirlo. Colpirne uno per educarne cento è la sua massima. Celebri alcuni scambi di battute avvenuti in Transatlantico: “onorevole, posso farle una domanda?”, “l'ha già fatta” oppure “no perché sarebbe sbagliata”. Tanti giovani cronisti alle prime armi sono stati tentati di cambiare mestiere dopo essersi sentiti sibilare in faccia, tra le risatine compiacenti dei colleghi più scafati: “la sua è una domanda stu-pi-da”, detto proprio così, ogni sillaba una pugnalata. Ma nemmeno le grandi firme sono state risparmiate: Scalfari? “Un leccapiedi”, Galli della Loggia? “Un analfabeta di andata e ritorno”, Pansa? “Non capisce un cazzo di politica”. Il giornalismo? “Un problema per l'Italia come la corruzione”. In un libro del 1997 Massimo Gramellini ha definito “baffino” come “l’ultimo italiano a non poter vivere senza la mazzetta dei quotidiani, cui dedica le ore più piacevoli della giornata sfogliandoli e disprezzandoli”. A un certo punto aveva addirittura quasi smesso di rilasciare interviste sulla carta stampata preferendo di gran lunga la televisione dove il suo verbo non poteva essere più di tanto manomesso dall'intermediazione fallace dei taccuini. Tattiche di sopravvivenza all'intervista con D'Alema. Anche chi scrive, nelle occasione in cui ha potuto intervistare l'ex premier a quattr'occhi, si è avvantaggiata del suo favore per il mezzo radiofonico. E tuttavia l'incontro è stato quasi sempre preceduto dalle “raccomandazioni” dei suoi fidi collaboratori: “è reduce da un forte attacco di labirintite, sta molto nervoso, probabilmente non si siede nemmeno”, “ti prego non chiedergli nulla della candidatura a ministro degli esteri europei perché ha il dente avvelenato”. Richiesta, quella volta, completamente disattesa. E per fortuna, visto che la domanda in merito provocò la famosa battuta sul “Renzi grassottello” che farebbe meglio a stare lontano dai pop corn. Ma in genere le precauzioni non sono mai troppe. Complice il terrore di finire vittima sacrificale del suo malumore, anche noi abbiamo nel tempo messo a punto una tecnica praticamente infallibile in base alla quale l'intervista deve obbligatoriamente iniziare dall' “argomento a piacere” (accuratamente selezionato e concordato) per giungere poi, una volta certi di averlo ben disposto, a piazzare qualche domanda vera prima dei saluti finali corredati da qualche battuta sulle vicende calcistiche della Roma che D'Alema, ritenendosi umilmente uno dei massimi esperti in merito, ama sempre scambiare soprattutto con chi gli fa capire di condividerne la fede. Furbizia? No, spirito di sopravvivenza, diciamo...
Boss tira in ballo il pupillo di Saviano: imbarazzo nel mondo dell'antimafia. L'ex capoclan pentito Iovine: "Ecco i rapporti tra il senatore Diana e la coop indagata", scrive Simone Di Meo su “Il Giornale”. Racconta il super pentito Antonio Iovine che quattro imprenditori a cui sarebbero stati affidati i lavori per la metanizzazione del Casertano li scelse la camorra. Il quinto no. «Io e Zagaria (altro capoclan Casalese, ndr ) dovemmo fare un passo indietro dal momento che furono il sindaco di San Cipriano Angelo Reccia e il senatore Lorenzo Diana che individuarono Pietro Pirozzi come subappaltatore della Concordia. Dunque, io personalmente e Zagaria trovammo un'intesa con Reccia e col senatore Diana». Nelle carte dell'inchiesta sulla tangentopoli ischitana, che nei giorni scorsi ha portato in carcere manager, politici e imprenditori legati alla coop rossa, ci sono un paio di paginette che minacciano di sconvolgere il tranquillo mondo dell'antimafia campana e nazionale, e che danno linfa a un altro filone investigativo che riguarda la costruzione del gasdotto dell'Agro-Aversano ad opera sempre della Cpl Concordia. Lorenzo Diana è un ex parlamentare diessino, oggi presidente del Centro agroalimentare di Volla per volontà del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. È tra i principali testi d'accusa nel processo per concorso esterno mafioso nei confronti di Nicola Cosentino ed è soprattutto l'unico politico citato (positivamente) in Gomorra di Roberto Saviano. «Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina - si legge nel best seller dello scrittore - quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale». Oggi, l'ex parlamentare che ha vissuto sotto scorta per il rischio che i Casalesi gli piazzassero una bomba sotto l'auto si trova però a fare i conti con le rasoiate dell'ex padrino che per 25 anni ha gestito gli affari criminali nella provincia casertana. L'ex senatore non è indagato, anzi sostiene di essere vittima di una calunnia. «Leopoldo Martino è stato assunto dalla Cpl grazie alla raccomandazione del senatore Diana», continua a raccontare Iovine ai pm a proposito degli accordi tra la coop emiliana e le cosche campane. Ma perché è tanto importante questo dettaglio? Il collaboratore lo spiega: «Martino è una persona a me legata. Era solito accompagnarmi durante la mia latitanza, quando io mi incontravo con gli affiliati per concordare affari e strategie». Leopoldo al volante, il gran capo del malaffare nascosto dietro. «Io mi mettevo nel cofano della macchina e lui la guidava (…) - ricorda Iovine nell'interrogatorio del 26 settembre scorso - in uno di questi spostamenti, fu Martino a dirmi di essere stato assunto alla Concordia grazie al senatore Diana». Coincidenze. Come quella che vede la sede della coop rossa ospite di un immobile di proprietà di un parente del pentito a San Cipriano d'Aversa, paese natale di Iovine e dell'ex parlamentare. Il garage di quel palazzo - ha spiegato il pentito - «veniva utilizzato come tappa nei numerosi e diversi spostamenti che mia moglie e mio figlio facevano per incontrarsi con me».
Pd e coop rosse: Ischia e tutti gli altri scandali. Ecco come dietro molte inchieste su politici e amministratori dem ci sono quasi sempre i loro rapporti con le cooperative rosse, scrive Claudia Daconto su Panorama. C'è quasi sempre anche una cooperativa rossa dietro i guai giudiziari di esponenti del Partito democratico. Questa volta è successo a Ischia, dove per aggiudicarsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola, la Cpl Concordia ha distribuito, secondo l'accusa, tangenti e altre utilità. Tra i destinatari il sindaco Giuseppe, detto Giosi, Ferrandino, primo dei non eletti nella circoscrizione Sud alle scorse elezioni europee con ben 80mila preferenze, arrestato ieri, e che il suo partito, come annunciato dal presidente Orfini, ha deciso di sospendere. Anche Massimo D'Alema è finito nelle carte dell'inchiesta. L'ex premier non è indagato ma il suo nome spunta in un'intercettazione telefonica. Un dirigente della Cpl Concordia parla infatti di dover “investire” nella sua fondazione Italianieuropei visto che D'Alema “sta per diventare commissario europeo” e che saprà come sdebitarsi in quanto “mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato cose”. La Cpl verserà in effetti, in modo trasparente e rendicontato, 60mila euro alla fondazione e acquisterà sia 2mila bottiglie del vino prodotto dall'azienda di famiglia che 500 copie del libro “Non solo euro”. Nessun illecito, per carità, solo la dimostrazione di come, da decenni, la galassia delle coop rosse viaggi a braccetto della sinistra italiana. Ex dirigenti sono diventati assessori, sindaci, addirittura ministri (Giuliano Poletti è stato presidente della LegaCoop fino al giorno in cui Matteo Renzi lo ha chiamato alla guida del ministero del Lavoro). Gli appalti più ghiotti sono stati conquistati grazie a rapporti consolidati con le amministrazioni amiche. Ma qualche volte è successo che il meccanismo che regola l'intrico di interessi, favori e commesse sia andato in tilt trascinando nel baratro, oltre che svariati milioni, anche luminose o promettenti carriere politiche. Ecco, oltre a quello di Ischia, gli altri casi più eclatanti degli ultimi anni.
Penati e "il sistema Sesto". I fatti e anche i reati sono ormai prescritti ma lo scandalo scoppiato nel 2011 per vicende risalenti a una decina di anni prima hanno trascinato nel fango uno dei pezzi da novanta del Pd milanese e nazionale: l'allora vicepresidente del consiglio regionale della Lombardia Filippo Penati, ex capo della segreteria di Pier Luigi Bersani, già presidente della provincia di Milano e prima ancora sindaco di Sesto San Giovanni. Il costruttore Giuseppe Pasini dichiarò infatti che il Consorzio cooperative costruttori di Bologna gli avrebbe imposto di pagare, sotto forma di consulenze fittizie, 4 miliardi di vecchie lire a Penati in cambio del rilascio di alcune concessioni relative all'area delle ex acciaierie Falck di cui Pasini era diventato proprietario.
Lorenzetti e la Tav di Firenze. Nel 2013 a finire nei guai è l'ex governatrice Pd dell'Umbria, la dalemiana Maria Rita Lorenzetti, anche detta “la zarina di Foligno”. In qualità di presidente di Italferr (Gruppo Fs) la procura di Firenze le contestò reati pesantissimi: associazione a delinquere finalizzata all'abuso d'ufficio, corruzione, traffico illecito di rifiuti derivati dai lavori per la costruzione del sottoattraversamento Tav di Firenze eseguita con materiali scadenti e senza norme di sicurezza. Secondo l'accusa, che tira in ballo addirittura legami con la Camorra, la Lorenzetti avrebbe agito violando leggi e vincoli allo scopo di favorire economicamente il General Contractor e Nodavia e indirettamente il suo socio di maggioranza Coopsette (coop rossa di Castelnovo), che gestivano l'appalto di quel tratto della Tav, in cambio di favori per il marito, fondatore e socio della Cooperstudio di Foligno (ancora una cooperativa).
Errani e lo scandalo "Terre Emerse". È stata invece l'inchiesta sui finanziamenti facili ottenuti dalla cooperativa presieduta addirittura dal fratello a costringere alla dimissioni l'ex presidente della regione Emilia Romagna, e bersaniano doc, Vasco Errani. Nel 2006, infatti, la coop “Terre Emerse” ottenne 1 milione di euro dalla regione per costruire una cantina. Il bando però stabiliva che la cantina dovesse essere già stata realizzata mentre i lavori, a differenza di quanto dichiarato dall'allora presidente Giovanni Errani condannato a due anni e sei mesi per truffa, non erano nemmeno iniziati. Anche il governatore fu allora indagato per falso ideologico. Assolto in primo grado, nel luglio scorso è arrivata la condanna a un anno in appello a seguito della quale Errani ha deciso di rassegnare le sue dimissioni.
Poletti e "Mafia Capitale". Allo scoppio dello scandalo romano “Mafia Capitale” una foto, tra le numerose apparse sui giornali, ha destato particolare scalpore: quella della cena in cui al fianco di Salvatore Buzzi, ras della coop rossa “29 giugno”, c'era il ministro del Lavoro (all'epoca della foto ancora nei panni di presidente della Legacoop) Giuliano Poletti. Nessun reato, Poletti non è mai stato coinvolto dall'inchiesta della Procura di Roma. Come nemmeno altri importanti esponenti del Pd nazionale e locale come l'europarlamentare Simona Bonafé o il sindaco di Roma Ignazio Marino che, al pari di altri consiglieri comunali, hanno ottenuto finanziamenti per le loro campagne elettorali. Tuttavia, se non loro, altri amministratori e politici romani e laziali (certamente non solo del Pd) sono finiti nei guai per colpa dei rapporti con la banda di Buzzi e Carminati. Per esempio l'assessore alla Casa Daniele Ozzimo, o il presidente dell'assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi indagati. Ma anche dell'ex vice capo di gabinetto di Veltroni, Luca Odevaine. Tutti accusati di far parte di un vasto giro di tangenti e appalti che aveva il suo epicentro proprio nella cooperativa di Buzzi, per anni considerata da tutta la sinistra un fiore all'occhiello nel campo della cooperazione sociale. Un malaffare talmente radicato e pervasivo da costringere i vertici del Pd al commissariamento del partito romano.
IL PRIVATO VINCE SUL PUBBLICO.
Il privato vince sul pubblico, scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Adesso che l’inchiesta di Ischia e delle coop della sinistra, coinvolge Massimo D'Alema il quale si schianta contro il pm Woodcock giudice perennemente in cerca di notorietà, D’Alema dice "diffusione intercettazioni scandalosa e offensiva", precisamente che "la diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napoli è scandalosa e offensiva". Ma dov’era Massimo D’Alema quando si macellava, a cura dei pm ghigliottinari d’assalto di Mani pulite quali Di Pietro, De Pasquale, Ghitti, Colombo, D’Ambrosio, Boccassini eccetera, tutta un’intera parte di politica, precisamente non di sinistra e rigorosamente di centro e di centro destra? L'ex premier Massimo D'Alema se la godeva e pontificava, certo di non venirne intaccato perché i magistrati di Tangentopoli indagarono e misero in galera per fare “cantare” nella direzione voluta solo quelli di una parte politica, non quelli di appartenenza alla “parte” politica di D’Alema, cioè i politici di sinistra. Questi rimasero “intatti”, la macchina giudiziaria da guerra di Tangentopoli non indagò contro la sinistra politica che oggi, guarda caso, è illegittimamente al governo, che ha rubato. C’è voluto infatti lo sterminio pubblico e privato dei politici non di sinistra ma di centro e di centro destra, di tutti i politici cioè diversi dall’allora partito comunista italiano, poi Ds e oggi Partito democratico (democratico per ridere), per fare spazio e posto a questi sinistrorsi ladri e imbroglioni al potere. Questo legame tra la Coop rossa emiliana CPL Concordia (il cui ex presidente è Roberto Casari e il responsabile delle relazioni istituzionali Francesco Simone arrestati insieme al sindaco Pd Giuseppe Ferrandino) e i “democratici” di sinistra, confermato anche dai soldi versati alla Fondazione Italianieuropei dello stesso D'Alema, è solo la punta dell’iceberg di un malaffare che, da molto tempo, fa da sponsor economico ai partiti politici di sinistra. Non solo CPL Concordia che ha anche comprato i vini prodotti dal presidente della Fondazione D’Alema ma chissà quante altre cooperative facenti capo e riferimento alla sinistra politica si sono contese e contendono i favori di D’Alema, pronte a sborsare per profittare. Anche i libri di D’Alema sono stati acquistati per una manifestazione elettorale dedicata ai temi europei, alla quale era presente, invitato, il sindaco di Ischia, allora candidato del Pd. Chi di spada ferisce, di spada perisce. E non c’è certo paragone o “parità” con la galera a fini estorsivi operata negli anni novanta verso chi, politico di parte contraria, è stato addirittura fatto fuori, morto, infangato. Si tratta solo di un'indagine che mette in luce il giro di corruzione esistente tra la politica di sinistra e l’impresa di sinistra e i legami delle istituzioni permeate di sinistra con i clan della camorra e della delinquenza comune. La Coop pagava persino la fondazione di D'Alema Italianieuropei, con da ultimo ben 60 milioni di euro. Le entrature politiche nel mondo della sinistra da parte delle coop emiliane e altre sono di rilievo. Se un rolex al figlio di Lupi, costringe alle dimissioni chissà cosa spetta a questo Pd che traffica al solo fine di lucrare per sé contro gli italiani. Ecco infatti che con Mafia Capitale, con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, risulta evidente lo snaturamento delle coop rosse, che è in realtà un vero e proprio sistema trasversale con cui la sinistra si spartisce i soldi sul traffico degli immigrati alle spalle degli italiani. Come ha riferito Buzzi “Il traffico di droga rende meno”. E’ il filo rosso delle inchieste, da quelle nascoste ai tempi di Tangentopoli da cui è stato fatto emergere solo o quasi Primo Greganti a Filippo Penati e, più di recente, passando per l’ex sindaco pd di Venezia Giorgio Orsoni, fino al sindaco pd Marino e al pd di Mafia Capitale. Il pd non lavora per i cittadini ma per se stesso, non rappresenta la società ma solo i suoi eletti (con voto pagato ai rom), “coperti”, insieme a Renzi, dalla campagna acquisti ed immissione nella amministrazione politica della magistratura targata pd. Un partito, quello della sinistra pd, che lavora unicamente per sé, per i propri eletti, per gli amici e i parenti, “coperto” oggi dai giudici amici arruolati a mo’ di scudi umani, a protezione. Cos’è infatti l’ex magistrato Raffaele Cantone all’anti corruzione? E Alfonso Sabella oggi magistrato-assessore romano alla giunta di centro sinistra per la legalità e la “ moralità”? E l’ex procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, alla legalità di Firenze? O, ancora, Nicola Gratteri che presiede oggi la commissione del governo imbroglio Renzi per la riscrittura delle leggi antimafia? E c’è poi anche Francesco Greco che, cavalcando le epoche, da Tangentopoli ad oggi, sarebbe dovuto di recente entrare all’agenzia delle entrate al posto di Befera ma, messo in stand by, è attualmente tra i papabili alle infrastrutture “liberate” da Lupi. Ed ecco ancora e sempre la struttura delle coop che “alimenta” la ragnatela di sinistra politica/impresa/istituzioni, quella delle coop rosse legate al duo Buzzi/Carminati di Mafia Capitale che parte da Legacoop, la lega delle cooperative rosse capitanata da Mauro Lusetti coadiuvato dal direttore generale Aldo Soldi. La Legacoop controlla il gruppo assicurativo Unipolsai. L’attuale ministro del lavoro di Renzi Poletti, ad esempio, presiedeva fino a qualche tempo fa Coopfond s.p.a. che gestisce il fondo mutualistico delle cooperative rosse, controllata al cento per cento da Legacoop. La Coopfond di Poletti fino all’altro ieri è stata guidata proprio da Salvatore Buzzi di Mafia capitale e, disponendo di partecipazioni per 251 milioni di euro e gestendo un fondo di riserva da 412 milioni, ha fantasticato circa “soluzioni” relative alla possibilità di emettere miniobbligazioni. La Coopfond ha partecipazioni in società quali la Cooperfactor, società di factoring di Legacoop, la Cooperfidi Italia che ha in sé cooperative anche bianche, e la Cooperare s.p.a. dotata finanziariamente di 270 milioni circa di euro e di investimenti in nove società cooperative per 303 milioni di euro. La Cooperare s.p.a. ha una quota di Finsoe con cui controlla Unipol assicurazioni, investe nelle concessioni autostradali, nelle energie rinnovabili, e in colossi di cooperazione rossa quali Manutencoop e Cmc di Ravenna. Nell’azionariato di Cooperare s.p.a. ci sono la Coopfond, Ccfs un consorzio finanziario che opera come banca del sistema, cinque finanziarie territoriali di sistema delle coop rosse e tutti gli azionisti di Cooperare hanno un patrimonio netto aggregato di 700 milioni di euro. Si tratta di un sistema finanziario riconducibile allo spazio territoriale di sinistra che si colloca sull’asse tra Bologna e Reggio Emilia, e riconducibile precisamente alle persone quali l’attuale ministro Poletti così come a Delrio ex sindaco di Reggio Emilia oggi sottosegretario al governo di Renzi. La cosa migliore che può fare lo Stato oggi sarebbe quella di aiutare a convertire il pubblico e le attività pubbliche nel privato, aiutare il pubblico ad esistere sul mercato, che è quello di chi lavora, non di chi aspetta l’obolo a fine mese. La revisione della cosa pubblica deve cominciare dalla politica dove oggi, come insegna la sinistra i politica, è tutto un magna magna a ridosso degli italiani arcistufi di dovere pagare di tasca propria soggetti che non rappresentano nessuno e che speculano e lucrano. La dimostrazione che la via da intraprendere sia quella verso il privato è data, mutatis mutandis, dal caso delle cronache attuali relativo ad Uber. I mezzi pubblici scioperano a Milano? Ecco il vettore privato Uber che arriva offrendo il servizio di noleggio auto con conducente. Proprio in questo momento infatti Uber sta regalando corse gratis ai nuovi utenti muniti di biglietto o abbonamento dell’autobus. Si grida al fatto che sia un’azione di marketing che approfitta e “specula” sulla protesta. Uber lavora e vuole conquistare, così facendo, e a ragione, fette di mercato. Fa bene e “vincerà”, così come dappertutto “vincerà” il mercato, il lavoro vero contro quello controllato e assistenziale dello Stato, e vincerà in ogni attività. E’ questa la direzione corretta su cui procedere e da percorrere. L’iniziativa di Uber è sacrosanta e in linea con criteri sani di mercato vero. Renzi con il suo governo non eletto, di illegittimi al potere, esaspera tale conflitto invece di risolverlo accompagnando verso la privatizzazione dei servizi. E’ necessario aiutare ciò che è pubblico in Italia ad entrare nel mercato globale.
TANGENTI: CORRUZIONE E COLLUSIONI. LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.
Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.
Virus su Rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se lo dice Peter Gomez, direttore de "Il Fatto Quotidiano", notoriamente giustizialista e manettaro oltre che asservito alla magistratura, è tutto dire.
Con lo Stato dilaga il moralismo. La corruzione è figlia di statalismo e burocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Alcuni lettori si sono indignati perché nell'ultimo Dubbio ho scritto che - vivendo in mezzo agli altri, in una società di relazioni - la segnalazione e la raccomandazione non sono immorali in sé perché rientrano nell'ordine delle cose, nella zona grigia delle relazioni interpersonali. Sono un fatto logicamente connaturato al nostro modo di vivere. Prendersela con i fatti non produce conoscenza e, tanto meno, moralità, ma solo confusione. È una forma di arretratezza culturale che non approda a nulla. Pensavo che inclini al moralismo fossero soprattutto certi lettori del Corriere, fra i quali quelli orientati a sinistra sono probabilmente la maggioranza, che se la prendevano volentieri per quello che scrivevo. Invece, constato che ancora prevalgono forme di moralismo che rifiuta il realismo e c'è chi se la prende con la realtà, rifiutandola e rifugiandosi nelle buone intenzioni, convinto che la realtà dovrebbe essere morale. L'Uomo, ha scritto Kant, «è il legno storto» dal quale non si può pretendere esca qualcosa di dritto. La cultura liberale, a differenza di quella socialista, non pretende di cambiare l'Uomo, di renderlo migliore, ma si limita a governarlo come è. Prendersela con la realtà - che non è immorale in sé - è sciocco, equivale a prendersela con i temporali, perché ci si bagna. Non è un segno di intelligenza - da intelligere: capire - e fa dell'Italia un Paese incapace di agire politicamente, cioè un Paese intimamente arretrato! Se piove, piuttosto che imprecare contro la pioggia, è meglio fornirsi di un ombrello...Invece di indignarsi, i lettori del Giornale e noi stessi, dovremmo chiederci, ad esempio, perché, da noi, come accadeva nei Paesi di socialismo reale, corruzione e clientelismo - che sono (anche) una forma di rimedio contro le rigidità del sistema - siano tanto diffusi. La risposta è semplice. Perché siamo un Paese dove prevalgono statalismo e burocratismo, non prevale il merito, ma prosperano permessi e divieti di ogni genere. Corruzione e clientelismo sono un modo di ovviare agli eccessi burocratici. In una economia libera, di mercato, corruzione e clientelismo hanno poca presa perché non sono convenienti; chi si scontra con l'eccesso di legislazione, di permessi e divieti, si comporta guardando, nel proprio interesse, al merito e difficilmente inclinerebbe verso la corruzione e il clientelismo e/o assumerebbe qualcuno che non abbia la qualifica richiesta dalla domanda del mercato. Ho visto, giorno dopo giorno, crollare l'Unione Sovietica per questa ragione e constato con raccapriccio che l'Italia è avviata sulla stessa strada. Se anche lettori aperti al mercato, come si presume dovrebbero essere quelli del Giornale , invece di pensare realisticamente e politicamente, reagiscono moralisticamente di fronte alla realtà, stiamo freschi! Ho la tendenza, da liberale, ad attribuire allo statalismo e al burocratismo, l'arretratezza di cui soffrono i Paesi socialisti. Mi rendo, però, anche conto che, da noi, non sono solo i socialisti a ragionare in tal modo, ma, in generale, tutti gli italiani in quanto culturalmente eredi del fascismo, che era una forma di dirigismo di destra, e influenzati dal collettivismo, indipendentemente dalla loro collocazione politica. Lo dico, allora, con franchezza. Diamoci tutti una regolata, se non vogliamo fare una brutta fine...
Roma, due milioni l’anno per portare i rom a scuola. Stanziamenti d’oro per gli appetiti delle coop. Ma poi frequenta solo un minore su 20, scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. Due milioni di euro per mandare i Roma a scuola. Riparte il business delle cooperative nei campi rom per mandare i bambini a scuola. Con una spesa complessiva di quasi 1 milione di euro, infatti, il Comune di Roma ha affidato a 4 cooperative il compito di attivare nei 6 mesi che verranno (dal 1 marzo al 31 agosto) un percorso di scolarizzazione per 1827 minori residenti in 10 strutture fra campi attrezzati, tollerati e residence. Parliamo, tuttavia, di un progetto che riguarda soltanto l’assistenza all’insegnamento, e non tiene conto dei costi collaterali, come quelli ad esempio legati al trasporto, che fanno parte di un capitolo a parte. Basti pensare che nel 2013 sono stati spesi ben 3.115.509 euro di fondi soltanto per tutto quello che riguarda la scuola. L’appalto per quasi 200mila euro al campo di Castel Romano (364 bambini) è stato preso in carico dalla Arci Solidarietà. Nella struttura divenuta famosa negli ultimi mesi per essere stata creata e gestita per anni dalle cooperative di Salvatore Buzzi, arrestato nell’ambito di Mafia Capitale, nel 2013 la cooperativa. come racconta ilTempo, Arci Solidarietà nel 2013 ha speso ben 654.962 euro per i progetti di scolarizzazione, che rappresentano il 12,2% dei fondi assegnati al campo. La scolarizzazione dovrebbe essere il viatico, in prospettiva, per l’inclusione sociale di queste persone. Ma i progetti finora sono stati fallimentari. Sempre secondo 21 Luglio, il tasso di inclusione è dello 0% in 10 delle 11 strutture esistenti: solo il campo di Candoni, nell’ex XV Municipio, può "vantare" un risultato lievemente superiore, lo 0,8%. Un fallimento inevitabile, guardando il tasso delle frequenze: ad oggi sono iscritti alla scuola dell’obbligo quasi 2.000 minori, ma solo il 5% va alle superiori.
Giuseppe Pagliani: "Ho fatto un convegno contro le coop rosse e mi hanno arrestato", scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Sembra Detenuto in attesa di giudizio, quel film di Nanni Loy, con Alberto Sordi immerso in un’allucinazione giudiziaria. Ma Giuseppe Pagliani, anni 41, consigliere comunale Pdl di Reggio Emilia, avvocato con quattro studi avviati, politicamente e penalmente intonso da un quarto di secolo, non è Sordi. Quei ventidue -giorni- ventidue di ingiusta detenzione non li ha vissuti sul set. Pagliani è stato strappato, lo scorso fine gennaio, dalla famiglia all’alba, nell’ora degli assassini; l’hanno rinchiuso come un topo nelle galere della civilissima Emilia senza essere mai ascoltato dai magistrati che in quell’inferno l’avevano precipitato; e «senza aver mai capito -lo giuro- il motivo per cui ero stato arrestato». Pagliani, oggi, è stato scarcerato per un errore giudiziario ciclopico, ma senza troppe scuse dalla Procura. Anzi, a dire la verità è stato scarcerato il 19 febbraio scorso; ma oggi sono arrivate le sferzanti motivazioni della sentenza del Tribunale della Libertà di Bologna che doveva giudicare la sua accusa di concorso esterno in associazione mafiosa «semplicemente perchè tre anni fa, in un incontro pubblico, a un ristorante, con i fornitori-creditori delle Coop rosse, tra 60 imprenditori c’erano mescolati degli esponenti della N’drangheta del clan Aracri di cui nulla sapevo e mai più avrei rivisto...» ci racconta Pagliani con la voce mozzata. Da lì, il solito copione. Qualcuno sussurra che quella «consorteria» era il legame con le ’ndrine; e il politico-avvocato entra nel mirino dei piemme, e ci esce in gabbia, con la chiave buttata chissà dove. «Un incubo, sono figlio unico: genitori e fidanzata sono rimasti choccati. Le famiglie dei miei 14 dipendenti erano in stato di trance. In galera senza un perchè, ho cominciato perfino a fare consulenza agli altri detenuti». Per capirci: nella retata a strascico del suo arresto -117 persone, per l’inchiesta Aemilia- finiscono anche incensurati assoluti, con violazione palese del principio della misura della pena. Ci finisce addirittura un signore, tal Oppido, che passava di lì per caso, in cella per una settimana prima di sapere di esser vittima d’una devastante omonimia. «Se non ci fosse stato il riesame, se non facessi l’avvocato, se non avessi vergato sette pagine di memorie per spiegare l’assurdo; be’, ora sarei ancora lì a marcire. Per fortuna c’era il riesame, la cui sentenza pare scritta da me». E la sentenza spiega che, in effetti: «Non possono giudicarsi acquisiti gravi indizi di colpevolezza», stilando con aguzza precisione un documento che è una demolizione completa e definitiva dell’accusa. Sostiene Pagliani: «Nel mio ruolo politico mi sono sempre occupato degli strani affari delle cooperative. Ho attaccato per anni i conflitti d’interesse dell’ex presidente della Provincia Sonia Marini e gli interessi locali della sinistra. Forse ho alzato troppo la cresta...». Forse. Di certo le 1286 lettere e email di solidarità («risponderò a tutte») ricevute, compresa quella ufficiale Pdl a firma Maurizio Gasparri, attestano una patologia. Scene d’ordinaria ingiustizia, giusto alla vigilia di una vaporosa riforma giudiziaria. Secondo l’aggiornatissimo sito Errorigiudiziari.com nel solo 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, incremento del 41,3 per cento rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012 lo Stato per questo motivo ha speso 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente dietro le sbarre negli ultimi 15 anni. Non è finita qui, per Pagliani. Qualche piemme orgoglioso potrebbe riprende il filo dell’assurdo: «Mi auguro che ci provino. Così saranno sberle anche dalla Cassazione». Dov’eravamo rimasti su quella cosa della responsabilità civile dei magistrati macbethiani, ministro Orlando...?
Tangentopoli: la storia scritta dai vincitori, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Il 1992 mi evoca subito il numero 41, i quarantuno morti suicidi di Tangentopoli, che non hanno potuto scrivere la Storia per ovvie ragioni, ma anche perché la Storia la scrivono i vincitori, e loro erano i vinti. La storia dei Vinti è rimossa con fastidio, dopo che uno dei Pubblici Ministeri di Milano, Gerardo D’Ambrosio, aveva sentenziato, non senza un certo cinismo: «Evidentemente c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Non un dubbio sul fatto che il circo mediatico-giudiziario del disonore che era stato cucito addosso a colpevoli e innocenti sia stato il vero assassino, che ha colpito con violenza la reputazione e la vita di persone che non avevano nessuna possibilità di difendersi, incarcerati, disorientati e sbeffeggiati. Ma dalla parte dei trionfatori, che in occasione della fiction di Sky invadono ogni angolo del pianeta della comunicazione, la storia è stata raccontata come il puro trionfo del Bene sul Male, un gruppo di magistrati-guerrieri senza macchia in lotta contro una classe politica corrotta che ammorbava l’intera società. Sulla scialuppa degli onesti erano saliti ben presto imprenditori in lacrime, giornalisti-coccodè, uomini politici con le tasche traboccanti di rubli, avvocati-accompagnatori alleati del Pubblici Ministeri. Ma la storia di Tangentopoli potrebbe anche essere raccontata come vera Storia Politica, come vicenda che segnò il trionfo massimo di una giustizia di parte, che ebbe come protagonisti magistrati politicizzati e un eroe tutt’altro che “senza macchia”. Che vide complici con le toghe innanzi tutto quegli imprenditori che avevano ben lucrato sul finanziamento illegale ai partiti, a tutti i partiti, e che mai se ne erano lamentati, finché l’arresto di otto di loro fece rendere conveniente agli altri immaginare di esser stati sfruttati. Sono gli stessi che, proprietari di giornali, decisero la campagna del Grande Sputtanamento degli uomini politici, quelli sconvenienti, i non allineati. Quelli che si salvarono dal carcere ripudiando se stessi e la propria storia e accoltellando quelli che erano stati i loro benefattori. La vacca non dava più latte. Non c’era più pane e loro scelsero le brioches. Il girotondo intorno ai protagonisti principali, magistrati e imprenditori, era fatto di avvocati di grandi e piccoli studi, che salivano festosi, ma in ginocchio, le scale fino al quarto piano del Palazzo di giustizia tenendo per mano i proprio assistiti pronti all’autodafè, mentre il Di Pietro di turno li riceveva in ciabatte, rideva e agitava manette. Quelli bravi, quelli amici, riuscivano a salvare l’assistito dal carcere e ne venivano ricompensati. In vario modo e da diverse parti. Avevano dimenticato il codice a casa, molti di questi avvocati, badavano al sodo e basta. C’erano poi i giornalisti-coccodè, i cronisti giudiziari che ogni mattina fiutavano la preda, giovani entusiasti che indossavano con orgoglio la maglietta che inneggiava all’eroe di Mani Pulite, lavoravano in pool e non tornavano mai in redazione a mani vuote, con il carniere pieno di verbali d’interrogatorio ( non erano ancora di moda le intercettazioni ), sicuri che avrebbe apprezzato il direttore, ma soprattutto l’editore, lo stesso che tremava se il campanello di casa suonava troppo presto il mattino. I fiaccolanti forse erano i più innocenti, cittadini che facevano il girotondo intorno al Palazzo, nella speranza-illusione che qualcosa cambiasse. Ma non c’erano solo loro, c’era un po’ di tutto, in quelle manifestazioni, compresi i cinici di nuovi movimenti politici che volevano solo sostituirsi agli altri, e anche quelli che erano sulla scialuppa di salvataggio, comunisti e democristiani di sinistra che si erano finanziati come gli altri, ma che si erano opportunamente alleati ai magistrati. Una folla di indifferenti, mentre ogni giorno saltavano le regole dello Stato di diritto, mentre veniva calpestata la Costituzione, mentre si violavano le competenze territoriali, la libertà personale e i diritti della difesa. Mentre si usava il carcere come tortura per far parlare la gente. Mentre si uccideva. Tanto la Storia la scrivono i vincitori, anche alle spalle dei quarantuno che non ci sono più.
Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se lo dice Peter Gomez, direttore de "Il Fatto Quotidiano", notoriamente giustizialista e manettaro oltre che asservito alla magistratura, è tutto dire.
"Tangenti e cricche si possono sconfiggere ma ci sono anche giudici riluttanti". "La magistratura in qualche caso ha dato l’impressione d’essere dura e pura davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. E qualche collega non ha voglia di impegnarsi in inchieste difficili". Intervista a Raffaele Cantone, presidente dell'Anticorruzione, tratta dal nuovo libro scritto con Gianluca Di Feo.
«Non voglio creare illusioni, ma neppure lasciare alibi. La guerra alla corruzione si può fare. L’Autorità che guido non può arrestare né intercettare: non può bloccare le tangenti. Ma ha altri poteri, che cominciano a dare qualche risultato».
Raffaele Cantone è il presidente della prima struttura creata in Italia per cercare di prevenire la corruzione. Un modo nuovo di affrontare il problema, insistendo sulla trasparenza, sul merito, sulla fiducia nella capacità di riscatto del Paese. In un solo anno ha dovuto misurarsi con gli scandali dell’Expo, del Mose e di Mafia Capitale. E adesso affida a un libro intervista scritto con Gianluca Di Feo de “l’Espresso” l’analisi de “Il male italiano” più grave: un morbo più profondo delle tangenti, che ha contaminato l’intera società. Cantone discute delle colpe della politica, degli imprenditori e della burocrazia. Senza risparmiare critiche alla magistratura, a cui è orgoglioso di appartenere. Come in queste pagine che anticipiamo.
Raffaele Cantone, lei sostiene che per domare la corruzione è necessario puntare su tre pilastri: repressione, prevenzione e una battaglia culturale per cambiare l’atteggiamento degli italiani. Partiamo dalla repressione: cosa bisogna fare?
«Prima di tutto, bisogna porre l’attenzione su una questione organizzativa, ossia la capacità della magistratura di mettere in campo il meglio. Ancora oggi esistono realtà in cui non si aprono indagini per tangenti, nonostante nel Paese non esistano zone franche. Questo male si manifesta ovunque, seppure con diversi livelli di intensità. Se la corruzione non viene scoperta, significa che c’è un problema, nelle procure o negli inquirenti, e questo è anche specchio dell’inefficienza della magistratura nell’affrontare questioni complesse. Credo che sia necessaria un’autocritica sull’organizzazione giudiziaria e sull’importanza che viene riconosciuta alla lotta alla corruzione. Per esempio, non tutti gli uffici investigativi hanno pool specializzati per i reati di questo tipo. Che richiedono grande impegno e professionalità: quando le inchieste vengono fatte bene, i risultati arrivano sempre».
Ma se la giustizia non funziona, come si può fermare la corruzione? Oggi l’impunità per i colletti bianchi è praticamente certa: la maggioranza dei procedimenti per corruzione si chiude con la prescrizione o con pene irrisorie. Quasi sempre i protagonisti degli scandali riescono a tornare al loro posto.
«La repressione giudiziaria è il momento chiave della lotta, senza il quale la prevenzione non ha alcun senso. Inutile mettere in campo strumenti per impedire la corruzione, se i reati non vengono puniti. Anche negli anni di Mani Pulite le inchieste sono state a macchia di leopardo. In quel periodo c’è stato il più alto livello di incriminazioni, ma studiando le statistiche giudiziarie ci si rende conto che esistono vuoti assoluti in alcune zone d’Italia: perché quelle procure non hanno indagato? Di sicuro non perché in quei territori non ci fossero tangenti o finanziamenti illeciti. La legge Cirielli del 2005 è stata devastante, perché ha reso la prescrizione di questi reati più rapida, ma anche prima di allora tanti processi venivano buttati via perché si perdeva troppo tempo. Ricordo la prima indagine sulle ecomafie in Italia, che ha fatto finire alla sbarra l’alleanza tra boss casalesi, politici e funzionari campani: una vicenda fondamentale, l’origine dell’avvelenamento di un’intera regione. L’assessore della Provincia – che aveva intascato tangenti per autorizzare il trasporto di rifiuti illeciti – venne condannato, in primo grado, poi in appello ci sono stati talmente tanti rinvii che si è arrivati alla prescrizione. E di casi come questi ce ne sono moltissimi. Oggi ci sono istruttorie che vengono cancellate dal tempo prima ancora che sia pronunciato qualunque giudizio: l’inchiesta finisce nel cestino senza neppure l’incriminazione. Questo ha un effetto disastroso: oltre a non dare un colpo al malaffare, trasmetti la certezza dell’impunità. Una parte della magistratura compie il proprio dovere e difende i processi. Ma bisogna riconoscere che un’altra parte, sicuramente minoritaria, non sempre ha fatto tutto quello che poteva».
Nel 1992 i risultati delle indagini milanesi e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno cementato il consenso degli italiani verso i giudici. Piercamillo Davigo ha detto che la magistratura non ha fatto una rivoluzione, ma ha salvato la credibilità delle istituzioni, impedendo che la crisi economica e politica di quegli anni degenerasse nel caos. Adesso la fiducia nella categoria è ai minimi e la paralisi della giustizia insostenibile. Ma non sembra che la magistratura tenti di trovare soluzioni.
«Nella magistratura convivono varie anime. Lei ha citato il 1992, ma anche allora era divisa. Mentre Falcone, Borsellino, Livatino venivano uccisi, c’era un pezzo di magistratura che faceva in modo molto più burocratico la sua parte. Nel 1980, l’assassinio del procuratore di Palermo Gaetano Costa, una figura la cui probità dovrebbe essere d’esempio a tanti, venne collegato al fatto che alcuni colleghi avevano preso le distanze dalle sue decisioni, rifiutandosi di firmare l’ordine d’arresto per i capi di Cosa nostra. Oggi come allora, tra le toghe c’è chi fa il suo dovere con abnegazione, correndo rischi altissimi, e chi non lo fa: numericamente questi ultimi sono molti di meno, una percentuale inferiore alla media riscontrata negli altri settori della pubblica amministrazione. E non è un caso che nel 1988 si sia preferito insediare Antonino Meli e non Falcone alla guida degli inquirenti di Palermo. Perché? Falcone era antipatico a molti, veniva considerato un «supergiudice» e tra i colleghi c’era invidia nei suoi confronti. Ma anche perché con il suo lavoro metteva in discussione la figura del magistrato che si limita a fare il minimo indispensabile. Negli ultimi anni questa fascia della magistratura si è ridotta, ma esiste ancora».
Ci sono importanti magistrati che hanno fatto l’apologia del «giudice senza qualità», che si limita ad applicare la legge senza protagonismi. Ma così si rischia di avallare la débâcle della giustizia. Perché le regole processuali favoriscono chi ha le risorse economiche per sfruttare in pieno la prassi dei ricorsi fino al traguardo della prescrizione.
«La magistratura è per certi versi schizofrenica. In qualche caso abbiamo dato l’impressione d’essere duri e puri davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. Somigliamo per certi versi alla tela del ragno: più grossa è la vittima che cade nella nostra rete, più è facile che le sue maglie cedano e la lascino scappare indenne. Per il ragno, è una dimostrazione di intelligenza: a che serve affannarsi a imprigionare un animale troppo grande per le sue forze? Meglio concentrarsi sugli insettini inermi che si impigliano nella sua trappola. Per la magistratura, invece, questa diventa una dichiarazione di impotenza».
I pezzi grossi, infatti, beneficiano della situazione. E non solo grazie al colpo di spugna della prescrizione. Ci sono tribunali di provincia dove raramente si dà fastidio ai potenti, senza contare che la procura di Roma, per decenni, è stata «il porto delle nebbie» in cui tutte le indagini scomparivano nel nulla. Se si tratta di punire emarginati e piccoli delinquenti, però, gli stessi giudici sanno essere inflessibili.
«L’impressione è che spesso sia così. E questo consolida il potere dei forti. Basta vedere quanto spesso i processi ai colletti bianchi finiscono nel nulla rispetto ai giudizi contro cittadini comuni. Certo, sono processi più complessi, ma questo giustifica solo in parte le disparità negli esiti. La verità è che molti non hanno voglia di impegnarsi in inchieste difficili, e il fatto che i meccanismi di valutazione della produttività siano spesso oggetto di valutazioni meramente burocratiche peggiora le cose: se tu condanni uno scippatore che ha rubato venti euro, o un concussore che ha intascato milioni con metodi sofisticati, non fa differenza. Nelle statistiche possono valere entrambi uno, anche se l’impegno richiesto per assicurarli alla giustizia è molto diverso».
IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.
Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. Mica c'è bisogno dell'Istat e dei sondaggi, per capire gli italiani basta vedere di cosa si lamentano in continuazione, lagne entrate nel linguaggio popolare come tic, frasi fatte che si sentono ovunque, una volta solo al bar o in famiglia o se prendevi un tassì a Roma, ormai perfino in televisione. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. E comunque ve lo immaginate un inglese o in americano che si lamenta del magna magna e dice « it's all an eat eat »? Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? Troppi immigrati, «arrivano solo da noi, perché non li mandiamo in Francia e in Germania?», che però ne hanno più di noi, e al contempo gli italiani sono pure tutti cattolici (non praticanti, per carità), con un papa che gli immigrati, cristianamente, li farebbe entrare tutti, per dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Noi al massimo porgiamo l'altra guancia, ma degli altri, insomma «se ne dovrebbe occupare l'Europa!», la quale Europa quando elargisce i finanziamenti a noi spariscono non si sa dove, e però «è tutta colpa della Merkel!». Se non altro stiamo rivalutando Andreotti, Craxi, «loro sì che erano politici», e quando c'erano loro i nostalgici pensavano a Mussolini, «con lui non si rubava». In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.
Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.
Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.
Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.
Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.
Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.
Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.
Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.
Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.
Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).
Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.
Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.
Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.
Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".
La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:
1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;
2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;
3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.
Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.
Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.
Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.
Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.
Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero ), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso , testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.
Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.
Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!
Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.
La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.
Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.
Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.
Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!
Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.
Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.
Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.
Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?
Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.
La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.
Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.
Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!
Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.
I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.
Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.
Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.
IL MONDO SEGRETO DEL FISCO: I DIRIGENTI TUTTI FALSI.
Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sulla sorte di migliaia, anzi milioni, di cartelle esattoriali emesse da Equitalia. I giudici delle leggi sono infatti chiamati a decidere sulla costituzionalità di un decreto, sfoderato d’urgenza a marzo 2012 per sanare lo scandalo dei 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate (più della metà) promossi a dirigenti senza concorso. Cosa significa? Che migliaia di cartelle furono firmate da “falsi dirigenti” e di conseguenza potrebbero venire considerate nulle o addirittura inesistenti. A ricostruire bene la vicenda è l’avvocato Angelo Greco di Cosenza, in un articolo apparso sul portale La Legge per Tutti. Detto in estrema sintesi, per supplire alla carenza di organico dirigenziale, l’Agenzia delle Entrate, qualche anno fa, aveva deciso di “promuovere” alla qualifica di dirigente ben 767 funzionari, senza prima averli sottoposti a un concorso pubblico, per come invece prescrive la nostra Costituzione (“agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”). Di tanto si erano accorti sia il Tar Lazio che la Commissione Tributaria di Messina che avevano bloccato le suddette nomine a dirigenti. Risultato: migliaia di atti firmati dai “falsi dirigenti” (o meglio, “non correttamente nominati”), e le conseguenti cartelle esattoriali di Equitalia, erano da considerarsi completamente nulli o, addirittura, inesistenti, avendo trovato il loro presupposto in un soggetto privo di qualsiasi potere. Un vero e proprio terremoto. Per arginare la falla, il Governo è ricorso alla consueta arma che, in casi come questi, viene sfoderata d’urgenza: la sanatoria. Così, un decreto legge del 2012 ha concesso, retroattivamente, all’Agenzia delle Entrate il potere di attribuire, a proprio piacimento ed in barba alla stessa Costituzione, incarichi dirigenziali ai propri funzionari (con contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso). Insomma, in attesa del maxi-concorso tutte le nomine dovevano ritenersi valide. [...] E così, la questione è finita al Consiglio di Stato che, sospettando la legge di sanatoria di incostituzionalità (appunto per violazione dell’obbligo del concorso pubblico) ha rinviato la patata bollente [6] alla Corte Costituzionale. Il rischio catastrofe è dunque imminente. Va da sé che se la Consulta dovesse ritenere infondata la questione di costituzionalità, il problema non sussiste e i contribuenti destinatari delle cartelle in bilico, dovranno rassegnarsi a pagare i loro debiti. Ma se viceversa il decreto verrà giudicato incostituzionale, le prospettive possono essere molteplici. L’avvocato Greco fa alcune proiezioni:
Secondo il consolidato orientamento sposato dalla Cassazione e dai tribunali di tutta Italia, gli atti fiscali sono nulli (alcuni tribunali, addirittura, parlano di “inesistenza”) se firmati da chi non aveva il potere per farlo. E dunque, chi non ha ancora pagato potrà fare ricorso al giudice per ottenere l’annullamento della richiesta di pagamento. Lo potrà fare anche chi ha chiesto o ha già avviato una rateazione. In passato abbiamo pubblicato anche la formula da inserire nel ricorso per chiedere la nullità della cartella.
E se sono scaduti i termini per impugnare?
In verità, stando all’orientamento (maggioritario) che ritiene gli atti privi di firma “inesistenti”, questo non dovrebbe essere un problema, in quanto si tratterebbe di una nullità non sanabile neanche con il decorso dei termini. Ovviamente, però, ogni tribunale ha la sua interpretazione.
Come faccio a sapere se il mio atto è firmato da un falso dirigente?
Per evitare un ricorso “alla cieca” contro la cartella esattoriale, bisogna innanzitutto verificare che la stessa abbia come presupposto un pagamento chiesto dall’Agenzia delle Entrate e non da altre amministrazioni. Poi bisognerebbe avere la certezza che l’atto a monte sia stato notificato da uno dei falsi dirigenti. Tuttavia l’elenco dei dirigenti privi di potere non è mai stato diffuso ufficialmente. Il contribuente potrebbe tentare di superare l’ostacolo depositando una istanza di accesso agli atti amministrativi e chiedendo di verificare la documentazione inerente alla carriera del dirigente firmatario.
La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”. Terremoto all’Agenzia delle Entrate: è incostituzionale la legge che aveva sanato le nomine dei falsi dirigenti; ora non c’è scampo per le cartelle esattoriali. Un vero fulmine a ciel sereno. La tanto attesa sentenza della Corte Costituzionale è uscita: le nomine “fasulle” dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate, portati al ruolo di dirigenti senza un pubblico concorso, sono tutte nulle. E, perciò, sono nulli anche gli atti da questi firmati e notificati ai contribuenti. Non solo: nulle diventano, conseguentemente, pure le cartelle esattoriali emesse da Equitalia sulla scorta di tali accertamenti. Che il cielo stesse annuvolandosi all’orizzonte era già chiaro da diverso tempo. E ne avevamo parlato già noi quando abbiamo scritto, a più riprese, dello scandalo dei falsi dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Leggi, tra i tanti: “La Corte Costituzionale fa vacillare Equitalia e milioni di cartelle esattoriali”. Il succo della sentenza è chiaro: è incostituzionale il la legge del 2012 che, dopo la bocciatura del TAR Lazio della nomina dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate a dirigenti, pur senza la qualifica, aveva introdotto una sorta di sanatoria. Insomma, in attesa che fossero indette le normali gare, gli incarichi “a tempo” da dirigente, conferiti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate senza i concorsi regolari dovevano ritenersi validi. Il che è palesemente illegittimo per contrasto con la Costituzione e con la norma che impone che, a tutti i pubblici uffici, si giunge solo tramite concorso. Come avevamo anticipato anche noi in “Dirigenti falsi all’Agenzia delle Entrate” in sostanza è stato eluso il principio secondo cui nel pubblico impiego anche le funzioni di dirigente si acquistano con il concorso pubblico pure nell’ipotesi in cui gli incarichi vadano al personale interno. La durata degli incarichi, almeno sulla carta, era legata al tempo necessario a indire i concorsi, ma è stata seguita da proroghe, anche queste “bocciate” dalla Corte Costituzionale. La norma del DL semplificazione, scrivono oggi i giudici costituzionali, “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”. Ora la pronuncia della Corte costituzionale mette la parola “fine” alla vicenda ma apre interrogativi sulla sorte degli accertamenti sottoscritti negli anni dai funzionari-dirigenti. Insomma, poiché sono state bocciate ben 767 nomine su circa 1000 dirigenti di ruolo, ciò significa che più del 50% delle cartelle che, in tutti questi anni, Equitalia ha notificato agli italiani, sono nulle! O meglio, del tutto inesistenti perché firmate da soggetti che non avevano il potere per farlo e per ricoprire tale ruolo.
I dirigenti dell’agenzia delle Entrate erano falsi: Equitalia trema, continua Greco. Milioni di cartelle esattoriali notificate in questi anni sono a rischio nullità: la Corte Costituzionale si è pronunciata sul più forte scandalo che abbia mai coinvolto il fisco italiano. Questa mattina, l’attesa di milioni di italiani, letteralmente “assediati” da controlli e accertamenti fiscali in tutti questi anni, è finita. La Corte Costituzionale si è appena espressa sulla questione che, da un paio di anni, pendeva sulla bocca dei contribuenti: quella cioè dello scandalo dei “falsi” dirigenti presso l’Agenzia delle Entrate, ossia di funzionari che erano stati “elevati” al ruolo di dirigenti – per mancanza di organico – pur senza aver partecipato a un normale concorso. La questione, che era stata sollevata inizialmente dal Tar Lazio, aveva poi subito uno “stop” a causa di una legge sanatoria del 2012. Ma su quest’ultima era forte la puzza di incostituzionalità. Tant’è che il Consiglio di Stato aveva rinviato gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunciasse in merito e decidesse, una volta per tutte, se è vero o meno che, in Italia, anche i funzionari del pubblico impiego (così come tutti gli altri dipendenti della pubblica amministrazione) debbano sottostare all’obbligo del concorso per accedere ai posti. Per la Consulta non ci sono stati dubbi: chiunque acceda al pubblico impiego lo può fare solo tramite un concorso pubblico e mai, quindi, con una legge di “sanatoria” o con una nomina interna. E ciò vale anche se si parla del tanto temuto fisco. Insomma, questo significa che tutti gli atti che sono stati firmati dai dirigenti (o meglio, funzionari svolgenti funzioni da dirigenti) potrebbero essere dichiarati “inesistenti” (per mancanza di poteri) dalla giurisprudenza. E, con essi, a cadere sarebbero anche le relative cartelle di Equitalia che sono state notificate sulla base di tali accertamenti. Attenzione: la questione riguarda solo le cartelle determinate da atti firmati dall’Agenzia delle Entrate e non, quindi, per imposte locali, contravvenzioni o richieste di pagamento dell’Inps. Ora si apre uno scenario apocalittico per le casse dello Stato. A cui i giudici saranno chiamati, a breve, a dare risposta. Noi, intanto, vi riportiamo la sentenza per esteso della Corte Costituzionale.
SENTENZA N. 37 ANNO 2015. REPUBBLICA ITALIANA. LA CORTE COSTITUZIONALE:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;
2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15;
3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.
F.to: Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015. Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.
È la bestia nera delle banche. "Errori nei conteggi e usura". Giovanni Battista Frescura: "Ho visto fallire bellissime aziende per insolvenze inesistenti. Le Procure archiviano le denunce perché colluse con il potere finanziario: è un cancro", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. «Tutti i conti delle banche sono sbagliati. Le prime a saperlo sono le banche stesse». Con tale premessa, s'intuisce perché Giovanni Battista Frescura, consulente tecnico nei processi sul contenzioso bancario, sia diventato la bestia nera degli istituti di credito. Quando lo denunciò, una decina d'anni fa, gli italiani disposti ad assumersi l'onere di un'affermazione così temeraria si contavano sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino. In pratica, lui solo. E subito ne aggiunse un'altra: «Tutte le banche hanno praticato o praticano l'usura». Era più scusabile, all'epoca, una bestemmia in duomo. A sconsacrare le chiese laiche dove la religione dei soldi celebra i suoi riti è stato Frescura, che in questo momento sta seguendo circa 200 casi di clienti presi per il collo da Bolzano a Messina. Lo ha fatto dapprima con il libro Usura e anatocismo nelle operazioni di credito finanziario e poi con un secondo tomo di 698 pagine, L'usura nei prestiti di banche e finanziarie, che nel sottotitolo in latino riprende la definizione attribuita a Carlo Magno nel capitolare di Nimega dell'anno 806, Usura est ubi amplius requiritur quam datur, si ha usura quando si richiede più di quanto si dà. Quasi 2 connazionali su 10 hanno qualche problema con le banche. La stima è di un banchiere, Dino Crivellari, amministratore delegato di Uccmb, gruppo Unicredit, che si occupa di crediti deteriorati. Per l'esattezza il contenzioso coinvolge 10 milioni di cittadini su 60. Frescura, 61 anni, residente a Valdagno (Vicenza), sposato, tre figli ormai adulti, è uno di questi. «Nel 1995 comprai una casa con un mutuo di Unicredit, poi rimborsato in 15 anni. Per ristrutturarla, chiesi un finanziamento quinquennale di 40 milioni di lire ad Antonveneta. Ebbi qualche difficoltà a pagare le rate. Dopo tre anni il debito era salito a 60 milioni. Avete sbagliato i conti, protestai, e ne restituii 40. Invece, secondo loro, l'anatocismo, cioè il calcolo degli interessi sugli interessi, pesava solo per 1 milione di lire. Per cui mi fecero un decreto ingiuntivo di 19 milioni. Con le spese legali, la somma da restituire superava addirittura i 20 che, a loro dire, ancora gli dovevo. Mi rifeci da solo i conteggi. Alla mia minaccia di denunciarli per usura, reagirono con violenza: "La quereliamo per diffamazione". Querela mai arrivata. In compenso, per un contenzioso da 10.000 euro, mi hanno venduto all'asta la casa, che ne vale 350.000. Ho denunciato per usura ed estorsione la banca, l'avvocato dell'ingiunzione, il notaio che ha gestito l'asta e anche l'acquirente. Per il momento abito ancora dentro la mia abitazione, in attesa che il tribunale di Vicenza decida chi ha torto e chi ha ragione». A differenza dei giudici, quasi tutti usciti dal liceo classico e quindi impermeabili alle formule matematiche, Frescura sa far di conto, avendo frequentato lo scientifico: «Non è un vantaggio da poco, mi creda». All'abilità contabile unisce una solida preparazione giuridica: si è laureato in giurisprudenza quando all'Università di Padova ancora insegnava Giuseppe Bettiol, docente di diritto penale che attirava l'attenzione degli studenti picchiando il bastone da passeggio sulla cattedra. Concluso un master al Politecnico di Torino, è diventato perito e consulente tecnico del tribunale di Vicenza. Si occupava di immobili messi all'asta dagli uffici giudiziari, argomento sul quale ha scritto un libro per le edizioni del Sole 24 Ore. Poi la crociata contro le banche. «Nonostante in Italia siano in corso innumerevoli inchieste penali - 300 solo nel Veneto - a carico degli istituti di credito, con centinaia di amministratori, dirigenti e funzionari coinvolti, finora le condanne pronunciate sono state appena quattro».
Cane non mangia cane, è questo che mi sta dicendo?
«Sì. Le Procure di solito archiviano con la motivazione che l'usura c'è stata però non si può dimostrare il dolo da parte della banca. Siamo arrivati all'assurdo per cui a Vicenza un caso di usura su un mutuo casa, già sanzionato in sede civile, non approda alla sentenza penale perché il Pm non sa a chi affibbiare l'imputazione. Ma come? È così difficile sapere il nome del presidente di una banca? E guardi che l'usura è un reato gravissimo».
Non lo metto in dubbio.
«Non mi riferisco all'aspetto etico. Gravissimo per le conseguenze sul reo: da 2 a 10 anni di reclusione. E nel caso delle banche sono contemplate tre aggravanti specifiche che possono portare a una condanna fino a 20 anni».
Ma le condanne scarseggiano.
«Già. A parte il caso Parmalat, in cui quattro funzionari dell'Ubs hanno patteggiato e il presidente della Banca di Roma è stato assolto in Cassazione per prescrizione. Il rappresentante italiano di Bank of America è ancora sotto processo a Parma. Nel frattempo la Svizzera, dove costui ha subìto una condanna per reati finanziari, l'ha fatto estradare dalla Slovenia e l'ha sbattuto in galera. Giusto per darle un'idea delle differenze tra la giustizia elvetica e quella italiana».
Il suo mestiere precisamente qual è?
«Aiuto i clienti ad accertare se i calcoli degli interessi presentati dalle banche sono esatti oppure no. Vado a caccia di tassi usurari e costi occulti. All'inizio lo facevo per passione civile, una forma di volontariato che è diventata un mestiere».
Lei sostiene che le banche sbagliano i conti intenzionalmente.
«È così. Vuole un piccolo esempio? Il conteggio degli interessi sui mutui va fatto con divisore 365. Invece alcune banche arrotondano a 360. È illegale. Un anno ha 365 giorni, non 360. Pensi che mostruose cifre complessive genera quest'arbitraria decurtazione».
Sarà perché tre dei miei quattro fratelli ci lavoravano, ma ho sempre pensato le banche fossero infallibili con la calcolatrice.
«Fino agli anni Novanta lo pensavano tutti, perché gli imbrogli venivano compensati dall'inflazione alta. Con l'avvento dell'euro, la gente s'è messa a leggere gli estratti conto con più attenzione e sono venuti alla luce gli imbrogli».
Che genere di imbrogli?
«L'uso piazza, l'anatocismo e l'usura. Tralascio la commissione massimo scoperto, che pure incide parecchio».
Parla ostrogoto. Andiamo per ordine. L'uso piazza che cos'è?
«Pochi sanno che tutti i contratti per i conti correnti aperti prima del 1992 erano standard. L'articolo 7 rinviava a un inesistente tasso "uso piazza" per il calcolo degli interessi a debito e a credito. Però la magistratura non l'ha mai contestato. Nel 1992 una legge ha stabilito che o nel contratto viene fissato un tasso preciso oppure va applicato il tasso legale. Questo significa che i conteggi a partire da allora, su tutti i contratti stipulati prima di 23 anni fa, vanno rifatti. Crede che le banche abbiano avvisato la clientela? All'epoca il tasso legale era del 5 per cento, mentre loro applicavano sui passivi un'aliquota dal 15 al 20 per cento».
Uno sbilancio pazzesco.
«Le dico solo questo: il mio elettrauto è andato in pensione e le tre banche con cui lavorava pretendevano da lui la restituzione di debiti per 100.000 euro. Rifatti i conteggi solo sull'ultimo decennio, perché le carte precedenti le aveva buttate via, è andato a credito. Devono dargli indietro parecchi soldi».
Veniamo all'anatocismo.
«Era ritenuto lecito nei conti correnti, ma nel 1999 la magistratura ha precisato che è vietato. Le banche lo calcolavano ogni tre mesi sugli interessi a debito e una volta l'anno su quelli a credito, quindi a svantaggio del cliente. Una legge ha stabilito che l'anatocismo è valido solo se applicato paritariamente. Per i contratti antecedenti al 2000 i conteggi sono tutti da rifare. Solo che gli istituti di credito si rifiutano di pagare anche quando perdono le cause».
Be', esiste il pignoramento.
«Lo sa come sfuggono quando il cliente lo chiede? Si fanno pignorare un assegno circolare con l'importo che dovrebbero versargli. Ma, anziché a suo favore, lo intestano alla cancelleria del tribunale. Quindi, finché non arriva la sentenza della Cassazione, il cliente non vede un euro».
Parliamo dell'usura.
«In Italia fu reintrodotta come reato penale dal codice Rocco del 1930 per punire lo sfruttamento dello stato di bisogno. Dal 1996 la tutela è estesa anche ai soggetti in stato di necessità economica o finanziaria. Ma le banche si sono prontamente autoescluse, sostenendo che la normativa non le riguardava».
Possibile che istituti quotati in Borsa, vigilati dalla Banca d'Italia e dalla Consob, si arrischino a praticare tassi fuori legge? Vuol dire che pensano di poter contare sull'impunità.
«È così. Giustizia e sistema bancario sono collusi, è questo il grande cancro».
Ma i tassi usurari vengono applicati da singoli dipendenti oppure costoro obbediscono a ordini di scuderia?
«Entrambi i casi. Vincenzo Imperatore, un ex funzionario di Unicredit, lo ha confessato in un libro, Io so e ho le prove. Ma si guarda bene dal restituire il maltolto».
Qual è il tasso d'interesse oltre il quale scatta l'usura?
«Magari ce ne fosse uno soltanto. Sono una trentina. Dipendono dall'importo in ballo e dalla categoria del prestito: mutui ipotecari, leasing, prestiti personali, cessioni del quinto, anticipi e via di questo passo. Nel primo trimestre del 2015 il più basso è quello dei mutui ipotecari a tasso variabile: 8,33. Il più alto è quello delle carte di credito revolving: 24,9. L'usura scatta sostanzialmente quando gli interessi applicati da banche e finanziarie superano del 50 per cento il tasso medio rilevato ogni tre mesi».
Rilevato da chi?
«Dovrebbe essere il ministero dell'Economia. Ma, con un abuso, ha delegato a computarlo la Banca d'Italia».
Il carnevale di Viareggio.
«No, è una guerra civile, questa dell'usura. Per non parlare della grande rapina chiamata cessione del quinto».
Di che si tratta?
«Di un prestito che il lavoratore riceve e che è garantito dallo stipendio. Fino al 2005 lo potevano chiedere solo i dipendenti pubblici, con un tasso d'interesse molto basso. Ma ora lo concedono anche al personale delle imprese private e ai pensionati, con un tasso soglia che va dal 18,55 al 19,57. Si sono infilate nel business finanziarie e mediatori senza scrupoli. Bankitalia sarebbe dovuta intervenire, ma fino al 2010 non ha mosso un dito. Nello spingere la povera gente a farsi tosare ci hanno guadagnato tutti, persino i sindacati, che ricevono cospicue provvigioni dalle banche, e l'Inps, che per ogni pratica evasa incassa 10 euro».
Conosce casi di imprenditori portati al fallimento o, peggio, al suicidio?
«Parecchi. Le banche hanno fatto fallire un orafo di Trissino che aveva 50 dipendenti. Una ditta bellissima. Ho rifatto i conteggi e ci siamo accorti che l'insolvenza non esisteva. Ma è molto difficile rimediare: il fallimento è come una sentenza passata in giudicato. Ha quasi perso il lume della ragione, poveretto».
Però anche le banche hanno problemi con la clientela insolvente. In sette anni di crisi le sofferenze hanno raggiunto i 181 miliardi di euro.
«Ma sarà vero credito? I conteggi sono stati fatti tenendo conto degli errori? Perché Unicredit ha messo prudenzialmente a bilancio un passivo di 17 miliardi di euro per cautelarsi da brutte sorprese? È l'unica banca ad averlo fatto».
Come si fa a chiudere questo buco?
«Ci vorranno dieci anni».
Esisterà pure una banca virtuosa.
«No, tutte applicano gli stessi trucchi. Le uniche sarebbero le banche arabe, che non possono compiere operazioni con gli interessi, come prescritto dal Corano, ma in Italia non le lasciano entrare».
E di che campano le banche arabe?
«Invece dei mutui, fanno vendite con patto di riscatto. La banca acquista una casa, me la consegna, per 20 anni pago l'affitto, trascorso il termine diventa mia. Non molto diverso da quanto fece Amintore Fanfani all'epoca del boom, senza bisogno degli arabi».
Il caso più clamoroso di cui s'è occupato?
«Due fratelli di Empoli che hanno dovuto chiudere un'azienda di pelletteria per colpa dell'anatocismo. Si sono ritrovati indebitati per 300.000 euro con la banca e per altri 300.000 con Equitalia. Ho rifatto i calcoli. La prima ha dovuto riconoscere d'aver praticato l'usura. Perciò s'è detta disposta a rinunciare ai 300.000 euro di credito, a versarne al fisco altri 300.000 al posto dei clienti e a offrirne 100.000 a titolo di risarcimento».
Ma lei si fida delle banche?
«Certo. Basta non chiedergli prestiti».
Quindi i nostri soldi depositati nelle banche sono al sicuro.
«Sì, perché il denaro non esiste. È una creazione normativa».
Il mondo segreto delle lobby. Negli Usa sono legittimi e radicati nella cultura nazionale, in Italia agiscono nell'ombra e in assenza di regole. Nel racconto di un "insider", ecco come i gruppi di interesse riescono a influenzare la vita politica del Paese, e, in assenza di norme chiare, rischiano di restringere il diritto di rappresentanza democratica, confondendo il legittimo lavoro dei lobbisti con quello ambiguo dei faccendieri, scrive “La Repubblica”.
Terra di nessuno in attesa di regole, scrive Carmine Saviano. L'accordo è raggiunto. Il testo è scritto. Il voto in aula è solo una formalità. Poi ecco l'emendamento dell'ultimo minuto, la modifica che non ti aspetti. E la legge passa mentre il coro pronuncia una sola parola: "Lobby". Lo abbiamo visto nell'ultimo decreto sulle liberalizzazioni: "Vincono le lobby", "perdono le lobby", "colpa delle lobby". Ne è piena la storia recente, almanaccarle tutte un'impresa: le pressioni, indebite o meno, cui sono sottoposi i decisori pubblici rappresentano un capitolo a sé della prassi politica. Aziende di stato sospettate di scrivere interi decreti - il caso Enel, smentito, sul taglio degli incentivi alle energie rinnovabili - multinazionali che finanziano in modo bipartisan, aziende che cercano di influenzare l'iter dei provvedimenti. Ordini professionali con il loro "paladini" tra i parlamentari. E poi tassisti, case farmaceutiche, operatori del gioco d'azzardo. Una terra di nessuno, quella dei rapporti tra politica e lobby. Di nessuno perché nessuno l'ha mai regolata: in Italia non esiste una legge per questi rapporti. Una zona grigia in cui solo il 20% - i dati sono di una ricerca ancora inedita dell'Università Unitelma Sapienza - delle attività di lobbying è parzialmente in chiaro, riconducibile a determinati soggetti: dalle società di lobbying ai lobbisti in house, i rappresentanti di grandi gruppi economici, pubblici o privati. Il restante 80% è coperto dall'ombra: qui ricostruire l'identità dei lobbisti che l'hanno generata è impossibile se non per macro-categorie: dalle società di comunicazione (circa il 60% del totale dei casi), ai grandi studi legali (il 30%) o da liberi professionisti individuali (il 10%). Ma come si svolge la giornata di un lobbista? A raccontarlo a Repubblica è Luigi Ferrata, di SEC relazioni pubbliche ed istituzionali, una delle società che opera in chiaro e che chiede al più presto una legge sui gruppi di pressione. Lo incontriamo nel suo studio, centro di Roma. Sommerso da giornali, da monitor accesi sui siti di Camera e Senato, diagrammi e grafici, telefoni che non smettono di squillare, Ferrata racconta: "Il nostro lavoro è legato all'attività del Parlamento e del governo. Durante l'approvazione della Legge di Stabilità c'è molto da fare. E nelle ultime settimane c'è stata grande attenzione sul tema delle liberalizzazioni". Si inizia raccogliendo informazioni. "Si parte con l'analisi dei provvedimenti presentati. Dopo possiamo contattare un eventuale cliente per proporre un'attività di lobbying. Ovviamente capita anche il contrario: le aziende a cui interessa sottoporre il proprio punto di vista ai parlamentari o ai membri del governo, ci chiamano e ci commissionano il lavoro". Alla fine di questa fase è tutto pronto per l'aggancio: si individuano i soggetti che possono influire sul processo decisionale e si parte alla ricerca del contatto. "Attualmente l'approccio migliore, quello più efficace, è durante la discussione nelle Commissioni: ci sono meno persone, i provvedimenti vengono discussi sul serio e c'è maggior interesse a recepire ulteriori informazioni dai soggetti che possono essere coinvolti dall'eventuale legge". Ma quello parlamentare è solo uno dei piani. Un piano secondario. Perché il reale obiettivo è l'esecutivo. Ancora Ferrata: "Qui ci si muove su due livelli: quello dei dirigenti del ministero e quello dello staff del ministro. Il nostro compito è sollecitare l'interesse, raccontare una storia, suggerire modi possibili per affrontare determinate tematiche". E dopo l'analisi dell'oggetto e l'individuazione del soggetto è tempo dell'aggancio vero e proprio. "L'approccio avviene in molti modi. Mail, telefonate, messaggi. Di solito però cerchiamo il contatto personale, magari durante un incontro in cui sappiamo che sarà presente l'uomo che ci interessa". Poi ci si siede intorno a un tavolo: "In genere si organizza un convegno sul tema d'interesse. O si pranza insieme in qualche posto". Dopo l'incontro, se si è fortunati, la posizione del portatore di interesse particolare viene "accolta" in un disegno o in una proposta di legge. Più spesso in qualche emendamento. E nell'assenza della possibilità di tracciare il lavoro del lobbista, esistono alcuni segnali che possono far comprendere se una "pressione" è stata attuata. "Non c'è un metodo per scoprire un'attività di lobbying", conclude Ferrata. "A occhio ci si può accorgere di un lavoro simile quando emergono delle posizioni trasversali che coinvolgono parlamentari di diversi schieramenti. O quando il progetto di legge presentato è molto specifico". "A occhio". Perché nel Paese dove la logica diventa ossimoro il processo che conduce alla formazione delle decisioni pubbliche non è pubblico, si può solo intuire. Non esiste un registro dei lobbisti. Ministri e politici non hanno nessun obbligo di rendere pubblici i loro incontri con rappresentanti di interessi particolari. E le porte tra grandi aziende e politica sono sempre aperte: nessuno vieta a un manager di diventare capo di gabinetto di un ministero e viceversa. Negli altri paesi il periodo di raffreddamento, il cooling off, è di due anni: in questo periodo di tempo le porte tra pubblico e privato devono restare chiuse. Perché le informazioni acquisite durante il proprio incarico governativo potrebbero essere utilizzate per favorire la propria azienda. E i rapporti costruiti al di fuori del pubblico potrebbero influenzare decisioni e scelte che riguardano la totalità dei cittadini. Eppure, una legge sul lobbying è stata spesso ricercata. Cinquantotto disegni di legge presentati nella storia della Repubblica, quasi uno all'anno: tutti lasciati marcire in attesa di finire nel dimenticatoio. Nelle ultime settimane la Commissione Affari Costituzionali del Senato, guidata da Anna Finocchiaro, sta procedendo all'esame congiunto di ben sei proposte che arrivano da tutte la parti politiche. La volontà è quella di arrivare a un testo unico da portare in aula. Perché oramai la necessità è stringente: stabilire quelle regole in grado di eliminare ogni ambiguità nel rapporto tra chi decide e chi si batte per portare al tavolo delle decisioni interessi determinati e particolari. L'obiettivo delle proposte di legge è dare un abito giuridico a chi ogni settimana compie il proprio pellegrinaggio nel Transatlantico di Montecitorio e nelle sale d'attese delle aule delle Commissioni Parlamentari. A chi incontra, giorno dopo giorno, decine di deputati, senatori, dirigenti dei ministeri, staff dei capi dei dicasteri. Distinguere, insomma: mettere dei paletti che possano aiutare a tracciare una linea di separazione tra chi offre competenza e chi traffica relazioni. Tra lobbista e faccendiere, appunto. Una legge che servirebbe a fare chiarezza, contribuendo a illuminare un contesto reso ancora più indecifrabile grazie anche all'assenza del vincolo di rendicontazione per le donazioni di privati ai partiti politici: fino a 100 mila euro e per quattro mesi, sempre che il privato acconsenta a rendere pubblico il suo nome. In definitiva: l'assenza di questa legge è un'eccezione alla trasparenza che non ha simili nel contesto dei paesi democratici. In Europa è prevista l'esistenza di un registro dei lobbisti: gli italiani iscritti, tra persone fisiche e giuridiche, sono oltre 650. Nel nostro Paese niente di simile. L'unico caso a livello nazionale è l'elenco previsto dal ministero dell'Agricoltura: lanciato con il governo Monti con gli ultimi due esecutivi è semplicemente scomparso. E negli ultimi mesi il viceministro Nencini ha messo online l'agenda dei suoi incontri. Un primo passo. Per il resto, solo promesse. L'ultima in ordine di tempo è quella del governo Renzi: nel Def la legge sul lobbying era prevista per giugno del 2014. Otto mesi fa. Perché su questo terreno la politica professa trasparenza ma sceglie di far proliferare l'opacità?
"Un comodo capro espiatorio per i politici", scrive Carmine Saviano. Ci prova da anni. Da quando fu coinvolto dall'ultimo governo di Romano Prodi per lavorare a una legge che regolasse i gruppi di pressione. Pier Luigi Petrillo è professore associato di Diritto pubblico comparato all'Università Unitelma Sapienza di Roma. E da 8 anni insegna Teoria e tecniche del lobbying alla Luiss Guido Carli. Non solo: è consulente per l'OCSE in materia di lobbying e trasparenza. Con il governo Letta il suo ultimo impegno nelle istituzioni: era l'estate del 2013 e la legge sui lobbisti sembrava realmente a un passo dal vedere la luce.
Professor Petrillo, cosa comporta la mancanza di questa legge per il tessuto democratico del Paese?
"Questa assenza consente alla politica di scaricare la responsabilità della propria inefficienza proprio sui lobbisti. Un provvedimento non viene approvato? Colpa delle lobby. Un disegno di legge si ferma? Colpa delle lobby. Le lobby sono diventate un paravento della politica che non vuole scontentare taluni soggetti e non vuole assumersi la responsabilità della scelta".
Con una normativa sul tema la politica guadagnerebbe in efficienza?
"Una legge sul lobbying, rendendo pubblici gli interessi particolari contrapposti, toglierebbe alla politica qualsiasi alibi: il decisore dovrebbe decidere, sotto gli occhi di tutti. Nei 18 paesi dove il processo decisionale pubblico è regolato dalla legge avviene tutto in trasparenza: gli incontri con i portatori d'interesse sono pubblici e la politica alla fine deve assumersi la responsabilità di indicare quale o quali interessi soddisfare. La zona d'ombra che esiste nell'ordinamento del nostro paese consente alla politica di non scegliere: e quindi di non scontentare nessuno, salvo i cittadini ai quali si fa credere che è colpa delle lobby anziché della politica".
Nel 2013 il governo guidato da Enrico Letta sembrò a un passo dall'approvazione di un decreto legge...
"Da marzo 2013 a maggio 2013 il governo chiese a un gruppo di esperti, di cui facevo parte, un lavoro preparatorio per un disegno di legge. Alla fine della fase di studio, maggio 2013, presentammo il nostro lavoro, basato essenzialmente sui principi indicati dall'Ocse. Successivamente, per redigere il testo, furono incontrati, il 5 giugno, a Palazzo Chigi, alcuni lobbisti così da analizzare l'impatto delle norme ipotizzate sui destinatari della stessa. Il provvedimento venne calendarizzato per essere approvato dal consiglio dei ministri del 5 luglio. Fino a ventiquattro ore prima sembrava filare tutto liscio. Ma durante la seduta, il Consiglio decise di rimandarlo senza approvarlo. E la successiva crisi del governo Letta mandò in soffitta il lavoro fatto".
Da dove arrivano le maggiori resistenze alla legge?
"Oggi ci sono dei soggetti facilitati nell'accesso ai decisori perché, ad esempio, rappresentano interessi di società pubbliche o a partecipazione pubblica. Una legge sul lobbying metterebbe sullo stesso piano questi lobbisti 'privilegiati' con gli altri: per questo l'OCSE ha più volte detto che una legge in materia serve per assicurare la concorrenza".
Un privilegio che esiste solo finché esiste una zona d'ombra...
"Uno studio realizzato dall'Università Unitelma Sapienza evidenzia come solo il 20% delle attività di lobbying è in chiaro nel senso che è possibile conoscere chi ha fatto lobbying e per cosa. L'altro 80% è composto da lobbisti 'di fatto': da chi gestisce le relazioni esterne delle aziende fino agli studi di comunicazione o legali. Questo 80% non è tracciabile".
La soluzione legislativa più veloce?
"Il governo potrebbe intervenire in materia senza nemmeno aspettare la legge. Con un decreto del premier - che necessita solo di una veloce approvazione in Consiglio dei ministri - finalizzato a regolamentare l'attività di lobbying diretta verso tutta l'amministrazione esecutiva, dal governo agli enti pubblici economici. Se solo si volesse...".
Allarme corruzione: "Urgenti norme chiare", scrive Carmine Saviano. Tra pochi mesi non si potrà più farne a meno. Perché l'assenza di una legge sul lobbying rischierà di incidere in modo negativo sul sistema degli appalti pubblici. Le nuove norme, infatti, sono contenute in un disegno di legge delega presentato dal governo e in discussione al Senato che recepiscono tre direttive europee: la 2014/23, la 2014/24 e la 2014/25. Tra i principi contenuti in queste direttive si prevede la "partecipazione di portatori qualificati d'interesse nell'ambito dei processi decisionali finalizzati all'aggiudicazione di appalti e concessioni pubbliche". Vale a dire: lo Stato potrà coinvolgere privati nella stesura stessa dei provvedimenti che danno il via ai lavori. La legge sui gruppi di interesse diventa quindi essenziale: è inimmaginabile, infatti, non mettere al corrente l'opinione pubblica circa i rapporti tra istituzioni e portatori d'interesse in relazione alla realizzazione di opere pubbliche. E' necessario prevedere registri consultabili, agende e resoconti degli incontri. Apparentemente: niente di più semplice se i nuovi strumenti di cui si avvale anche la comunicazione politica fossero presi sul serio: la pubblicità che la rete può fornire è enorme. Un veicolo di trasparenza. E la regolamentazione delle attività lobbistiche è un'esigenza avvertita anche - e soprattutto - dall'Anac, l'Autorità Anti Corruzione presieduta da Raffaele Cantone. Il cui team sta lavorando a un Libro Bianco da presentare al governo. Proposte e indirizzi per migliorare la gestione della cosa pubblica. Michele Corradino è uno dei quattro consiglieri di Cantone. E non utilizza mezze misure: "Dobbiamo parlarci chiaro: le lobby entrano nelle stanze della politica, nei luoghi dove vengono prese le decisioni che riguardano la totalità dei cittadini". E più i gruppi di pressione sono forti "più riescono a incontrare interlocutori che sono ai vertici delle istituzioni". Una proporzione diretta: al massimo di forza economica corrisponde la massima capacità di influenzare il decisore pubblico. Una legge che regolamenti questi incontri, che riesca a mettere in luce il percorso incontrato da una legge diventa quindi essenziale anche in relazione alla lotta contro la corruzione: "Abbiamo stabilito una sorta di equazione, accettata da tutti: l'arma migliore per combattere la corruzione è la trasparenza". E se la trasparenza è un metodo, questo metodo non può essere circoscritto alla retorica politica.
Diamanti: "Trasparenza significa democrazia", scrive Carmine Saviano. Dalle cause storiche che possono spiegare l'assenza in Italia di una cultura delle lobby alle classi in cui possono essere divisi i gruppi di influenza. Metodi di pressione, impatto sull'opinione pubblica, il ruolo del governo. La zona d'ombra tra scena e retroscena delle decisioni pubbliche. Ne abbiamo parlato con Ilvo Diamanti, professore di Scienza Politica all'Università di Urbino e di Régimes Politiques Comparés a Paris 2, Panthéon Assas. Partendo da come incide, in questo contesto, l'assenza di norme sulla qualità della democrazia italiana.
Professor Diamanti, regolamentare le lobby innalzerebbe il grado di democraticità del nostro sistema?
"Assolutamente sì. La democrazia ha diverse facce ma tutte prevedono forme di controllo sulle decisioni della politica. E' evidente che quando esistono ambiti di discrezionalità sottratti al controllo dei cittadini viene indebolita la possibilità di controllo sui decisori. Viene indebolita la rappresentanza".
Nell'opinione pubblica, lobbista è sinonimo di faccendiere...
"E' una questione di tradizione politica e culturale. E mi riferisco sia a quella cattolica che a quella comunista che condividono un'idea negativa della ricchezza. Quasi fosse necessariamente un peccato. Peraltro, scontiamo un approccio fariseo: il denaro lo si fa ma non ci importa come. Così il lobbista è un peccatore e fare lobby significa raggiungere risultati con ogni mezzo. Più o meno lecito".
Un governo non dovrebbe porre tra i suoi obiettivi primari una legge sui gruppi di pressione?
"Dovrebbe. Se non avviene è perché le lobby all'italiana sono molto forti".
Lobby all'italiana, appunto. Abbiamo provato a dare i voti...
Possiamo indicare due classi diverse. Esistono grandi sistemi di interessi che riguardano prodotti e servizi di largo interesse pubblico. Come quelli che gestiscono le fonti energetiche: risorse che dipendono da regole e concessioni della politica. E nella percezione generale questi gruppi sono sicuramente quelli in grado di influenzare maggiormente il potere politico".
L'altra classe?
"Le professioni: dispongono di altri mezzi, possono mettere in campo altre forme di lotta. Forme 'materiali' che però riguardano beni immateriali. Pensiamo ai tassisti: gestiscono la mia 'mobilità'. Possono interromperla. E con questo possono bloccare la mia possibilità di comunicare. Anzi, possono bloccare i movimenti e la mobilità del Paese. Come, peraltro, i camionisti".
Cosa accomuna queste due classi?
"Entrambi le classi hanno lo stesso bersaglio. Intervengono sugli stessi attori politici. Tendono a esercitare pressione sulle decisioni e i decisori politici".
Ma, a oggi, la maggior parte di questi interventi resta nell'opacità...
"Naturalmente c'è differenza fra chi esercita una pressione esplicita attraverso scioperi e forme di lotta aperte e chi, invece, agisce esercitando pressioni e influenza sul ceto politico, nel retroscena. Il problema italiano è qui. E dipende dall'assenza di una cultura delle lobby. E quindi dall'esistenza di lobby implicite. Che non sono regolate ma sono contigue con il potere politico. Contiguità che è difficile da modificare: rendere pubbliche determinate procedure - pensiamo agli appalti - farebbe saltare la procedura stessa. E metterebbe in discussione gli interessi e le posizioni di potere esistenti. Per questo rendere trasparente il mercato è operazione difficile".
Usa, scandali a raffica ma è nel Dna del paese, scrive Alberto Flores D'Arcais. "Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale". Quando alla fine del 2010 - dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l'ora in una pizzeria - Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni - al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) - diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità. Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino "il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo") ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti 'gruppi d'interesse' (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un'altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro 'sporco' e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un'attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele. Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all'anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l'unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) - varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite "poco chiare" - e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come "gruppi portatori di interesse da tutelare", un giro di parole che rende bene l'idea. Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo 'buono' (e assolutamente legale) e il mondo 'grigio' del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle 'tre B' (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato. Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all'atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.
Rosa o gay, una per ogni stagione, scrive Filippo Ceccarelli. Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying. Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice. Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi.
"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso” Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.
Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.
Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.
Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.
Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.
Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.
Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.
Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.
Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.
Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.
I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Ah porci!”, esclamò Perpetua. “Ah baroni!”, esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro - baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a “l’Espresso” - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”. A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L’abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. “La conoscenza della lingua italiana”, ha spiegato in una nota il ministero dell’Istruzione, “non è prevista dalla legge”. I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell’università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul “Manifesto”), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell’originalità e dell’innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l’altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all’unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d’Italia), all’abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato “Cooptazioni: ieri e oggi”: «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online “Judicium” prima che l’articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l’avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell’Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell’ex rettore dell’ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell’università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l’intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l’avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d’accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del “Corriere della Sera”, si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, “impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni”. Cos’era successo? “Qualche concorrente” spiegava il cronista “non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie”. Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell’ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette “scuole” e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l’esame (le cosiddette “mediane”), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della “Voce.info” hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole “la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo”. A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica “gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più” di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i “peggiori” sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l’ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell’università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell’associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell’Anvur che ha considerato “scientifiche” ben 12.865 riviste tra cui spiccano “Alta Padovana” del Comune di Vigonza, “Delitti di carta” specializzata nella giallistica, “L’annuario del liceo di Rovereto”, il mensile della parrocchia di San Domenico, “Cineforum” e “Stalle da latte”. Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all’università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l’unico “sì”) Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l’Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d’esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.
Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione: “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato.
Università, paradossale guerra ai fuori corso. "Gli atenei finiranno per regalare gli esami". Il ministero, nell'erogare i fondi, adesso penalizza i centri con troppi studenti in ritardo con le materie. E a subire le peggiori decurtazioni sono le grandi università. Che, per correre ai ripari, hanno solo due strade: aumentare le tasse o promuovere con più facilità, scrive Roberta Carlini su “L’Espresso” Caccia grossa al fuoricorso. L’eterna lamentela sul numero eccessivo di studenti italiani che non si laureano “in tempo” è diventata un problema contabile serio. Da quando dalle stanze ministeriali è uscita la tabella che assegna i fondi pubblici agli atenei, mettendo in pratica la grande novità del “costo standard per studente in corso”. Che di fatto cancella dall’università italiana almeno 700.000 persone, perché fuori corso. Risultato: gli atenei con maggior numero di studenti che non si laureano nei tempi dovuti hanno un danno economico consistente, e crescente. E crescono i timori per due conseguenze perverse del nuovo meccanismo: da un lato, l’aumento a tappeto delle tasse per i fuori corso; dall’altro, la tentazione di abbassare l’asticella delle prove d’esame, in modo da accelerare il percorso verso la laurea. “Nella nostra università ci sono circa 20mila studenti fuori corso: è pensabile che non pesino per niente? A loro non dobbiamo dare servizi, offerte, insegnamenti?”. Il rettore di Pisa Massimo Mario Augello è stato uno dei primi a protestare contro le nuove regole. L’ateneo che lui guida è uno dei più penalizzati: “non è questione di virtuosi o no”, afferma, ricordando classifiche internazionali sulle università che vedono Pisa tra le prime italiane. Il problema è un altro: “il numero dei fuori corso è più alto nei grandi atenei, quelli con un bacino di utenza più ampio”. Se in percentuale, nella classifica delle università, abbiamo quote di fuori corso superiori al 40 per cento in molte piccole università soprattutto del Sud, sopra la media ci sono anche alcune grandi, dalla Sapienza di Roma all’università di Pisa, da Napoli a Palermo.
I dati per singolo ateneo si possono vedere nel grafico: il numero degli studenti in corso è quello risultante dalla tabella di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario 2014, mentre il numero complessivo degli iscritti è da Anagrafe degli studenti. Tutti i dati si riferiscono all’anno accademico 2012/2013.
Atenei dai numeri imponenti, nei quali gli studenti messi fuori con il nuovo calcolo dei fondi sono migliaia e migliaia: alla Sapienza si “perdono”, ai fini delle entrate di bilancio, 42 mila iscritti, a Palermo 20 mila, alla Federico II di Napoli oltre 30 mila, alla Statale di Milano 18.000. In soldi, la differenza è dolorosa: per fare un esempio, la prima università d’Italia e d’Europa, la Sapienza, ha perso una decina di milioni di euro di fondi con il nuovo meccanismo. E siamo solo all’inizio: infatti se per quest’anno solo il 20 per cento del finanziamento è attribuito sulla base di questo calcolo, entro cinque anni si salirà al 100 per cento. Cioè, i fuori corso saranno solo un “peso morto” per gli atenei, un costo che c’è ma non conta nulla ai fini del finanziamento pubblico. “Il problema si può risolvere alla radice, con decreto del rettore: regaliamo ogni anno un esame a ogni studente, così molti di più si laureano in tempo”, ha detto provocatoriamente il rettore di Pisa. Ma non è solo una battuta. Anche il Cun – il Consiglio universitario nazionale – ha denunciato il rischio di “comportamenti non virtuosi per ridurre il numero degli studenti fuori corso”. Che vuol dire? Un occhio più benevolo nella valutazione degli esami? “Qui a Milano abbiamo circa 18 mila fuori corso: cerchiamo di ridurli, investendo su orientamento, diritto allo studio, tutoraggio, servizi – dice Giuseppe De Luca, prorettore alla didattica della Statale di Milano - Ma molti piccoli atenei non hanno un soldo per fare queste cose, potrebbero reagire semplicemente abbassando l’asticella degli esami”. Perché spesso un alto numero di fuori corso deriva dalla serietà e selettività delle lauree. O anche dal fatto che si tratta di studenti lavoratori. O addirittura “che hanno impiegato più tempo perché sono andati a fare degli Erasmus”, denuncia Alberto Campailla della rete Link degli studenti. “Tutti questi diventano fantasmi, non esistono. E però pagano sempre di più”, aggiunge Campailla. E’ questa l’altra possibile conseguenza “non virtuosa” del nuovo meccanismo. Infatti, dai tempi del governo Monti le università hanno meno vincoli nell’aumento delle tasse: se in generale i contributi chiesti agli studenti non possono salire oltre una certa quota del Ffo, per i fuori corso il tetto è saltato. Risultato: i soldi persi per “eccesso” di fuori corso si possono recuperare tassando il loro ritardo. Già in alcuni atenei questi pagano di più degli altri: alla Sapienza, dopo il terzo anno fuori corso si paga il 50 per cento in più; anche Palermo ha introdotto un aggravio per chi non si laurea in tempo, che era allo studio anche a Pisa ma è stato bloccato in extremis. “Lo abbiamo rifiutato, è un modo per fare cassa che non riteniamo giusto – dice il rettore Augello – Ma questo è uno degli effetti distorsivi delle nuove regole: tutte le università stanno guardando al serbatoio dei fuori corso per cercare risorse”. Chi è stato alle ultime riunioni dei rettori, dopo la stangata del “costo standard”, racconta che l’idea di aggravare la tassazione sui fuori corso è generalizzata. Giustificata da urgenze di cassa, e dal fatto che è una delle poche leve che gli atenei hanno; e dal vecchio stigma su quelli che l’allora sottosegretario Michel Martone (governo Monti) definì “gli sfigati”. Mentre cresce il numero di quanti lavorano e studiano, o restano indietro per altri motivi, spesso riconducibili proprio alla disorganizzazione delle università. “Il concetto di fuori corso è cambiato – dice Guido Fiegna, già direttore generale del Politecnico di Torino ed esperto dei numeri dell’università italiana – già si farebbe molta pulizia se si utilizzassero di più le iscrizioni a part time, per gli studenti lavoratori, per le quali però le università fanno resistenza, proprio per non perdere iscritti e fondi”. Non solo: “non si capisce perché nel costo standard si calcolano solo gli studenti iscritti ai corsi, e non chi sta facendo il dottorato di ricerca, come se questi non studiassero”.
Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?
«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».
Helg, Montante e gli altri: le carriere antimafia finite tra accuse e sospetti, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. L'arresto del presidente della Camera di Commercio di Palermo, che denunciava le estorsioni ed è ora accusato di praticarle, riapre in Sicilia la polemica sui "professionisti dell'antimafia". Fava: "Troppe protezioni e impunità". Don Ciotti: "Solo un'etichetta". E l'impegno autentico per la legalità rischia di essere travolto. Da anni predicava la necessità di combattere il “pizzo” imposto da Cosa Nostra agli esercenti palermitani, si faceva promotore di iniziative antimafia e ingaggiava rumorose polemiche per sottolineare il coraggio di chi denunciava le estorsioni dei boss. Attività che avevano consentito a Roberto Helg, da quasi dieci anni presidente della Camera di Commercio di Palermo, di entrare di diritto nei ranghi del movimento antimafia: peccato che nel frattempo sia finito in manette per aver chiesto e intascato una tangente da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto di alcuni locali dell’aeroporto del capoluogo.Scalo intitolato a Falcone e Borsellino, simboli della lotta a Cosa Nostra, citati a più riprese nelle iniziative presenziate da Helg. Abbandonato oggi persino dal suo legale, che giudica “incompatibile” questa difesa. Il motivo? L’avvocato Fabio Lanfranca ha scelto da anni di assistere le vittime di estorsione: lo stesso reato denunciato da Helg, ma di cui ora è accusato. Solo l’ultimo emblema di un pericoloso fenomeno, un cortocircuito paradossale che rischia di polverizzare l’intero fronte della lotta a Cosa Nostra: l’antimafia utilizzata come status, un carrierismo colorato da slogan e iniziative contro la criminalità organizzata che punta solo ad occupare luoghi di potere. “Occorre chiedersi cosa sia diventato oggi il fronte antimafia in Italia e come abbia prodotto e protetto troppe carriere e troppi spazi di impunità” è il commento del vice presidente della Commissione Antimafia Claudio Fava. Gli fa eco il senatore ex M5S Francesco Campanella che sottolinea come oggi “chi gestisce sacche di potere possa farlo ergendosi a paladino e professionista di un’antimafia di facciata”. Un concetto già descritto pochi mesi fa da don Luigi Ciotti: “L’antimafia – diceva il fondatore di Libera – è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L’etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi”. E quell’ “anzi” lasciato sospeso richiama immediatamente all’allarme lanciato da Leonardo Sciascia dalle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987: nell’ormai celebre articolo sui professionisti dell’antimafia, lo scrittore di Racalmuto mise nel mirino gli esempi sbagliati (cioè la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala) ma intuì prima di tutti, in tempi non ancora maturi, ciò che oggi è diventato un sistema diffuso. Parole profetiche diventate adesso più che mai attuali. Il primo caso della mafia che si fa antimafia va in scena a Villabate, nei primi anni duemila: l’associazione Addiopizzo era appena nata e Francesco Campanella, presidente del consiglio comunale della cittadina palermitana, ebbe l’idea di creare un osservatorio per la legalità, attribuendo persino un premio a Raoul Bova, interprete sul piccolo schermo del capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, il carabiniere che arrestò Totò Riina. Peccato che Campanella fosse un mafioso (oggi è un collaboratore di giustizia), e che l’idea dell’Osservatorio fosse solo uno stratagemma per confondere le acque: la mafia che si fa antimafia, in quel caso con l’autorizzazione diretta di Bernardo Provenzano. E più cresceva la coscienza antimafia, con le associazioni antiracket e le denunce pubbliche che si moltiplicavano, più si diffondevano i casi in cui il paravento della legalità veniva utilizzato per fare affari e carriere. Pochi anni dopo l’escamotage di Campanella, all’imprenditore Pino Migliore era arrivato un consiglio: iscriversi ad un’associazione antiracket. Peccato che quell’indicazione provenisse dagli stessi estortori mafiosi del commerciante palermitano. In questo senso il caso di Helg è solo la sintesi estrema. Prima della mazzetta in tasca, prima dell’assegno ottenuto come garanzia dell’estorsione futura, Helg era rimasto alla guida dei commercianti palermitani, nonostante lui stesso non lo fosse più dal 2012, e cioè da quando la catena di negozi di famiglia aveva dichiarato fallimento. Ciò nonostante, l’etichetta di frontman dell’antimafia gli ha garantito la permanenza al vertice di Confcommercio. È così che il concetto di lotta a Cosa Nostra è diventato passepartout per fare carriera. E poco importa se si tratti di una lotta di plastica, di cartapesta. Appena poche settimane fa era toccato ad un altro leader della lotta al racket messa in campo dagli imprenditori siciliani: Antonello Montante, presidente di Confindustria sull’Isola, delegato per la legalità dell’associazione di viale dell’Astronomia, membro (poi dimessosi) del direttivo dell’Agenzia per i Beni Confiscati. Da volto moderno dell’antimafia rampante Montante è finito trascinato addirittura in un’inchiesta per concorso esterno a Cosa Nostra: ad accusarlo non ci sono prove schiaccianti come per Helg, ma i verbali di ben cinque collaboratori di giustizia. Una storia che rimane ancora oggi a metà tra il sospetto di un complotto politico giudiziario (in Sicilia si chiama “mascariamento”) e uno dei più grandi abbagli della storia antimafia recente. A garantire l’assoluta trasparenza di Montante era stato nel settembre del 2013 il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, intervenendo ad un dibattito a Chianciano Terme, proprio al fianco del presidente degli industriali isolani. “In Sicilia – aveva tuonato il magistrato – è in corso una campagna di delegittimazione della vera antimafia da parte di centri occulti che vogliono screditare chi fa antimafia con i fatti, come Confindustria, Fai e Addiopizzo”. Poi aveva aggiunto: “Questa campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione, potrebbe tradursi in attentati e azioni eclatanti”. Oggi Montante è indagato proprio a Caltanissetta, la procura di Lari, che se è rifugiato nel no comment. E se da Castelvetrano Giuseppe Cimarosa, cugino di secondo grado di Matteo Messina Denaro, annuncia la sua battaglia contro Cosa Nostra, ( e suo padre Lorenzo è considerato soltanto al momento un dichiarante), non ha ancora dato segni effettivi la presunta Rivoluzione di Rosario Crocetta, primo presidente di Sicilia dichiaratamente antimafioso, dopo che i suoi predecessori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo sono finiti entrambi condannati per fatti di mafia. “La storia di Helg non ci riguarda, ma non possiamo tacere di fronte al fatto che in tanti, troppi, pensano che è venuto il momento di chiudere l’impegno antimafia, la denuncia della corruzione e che sia arrivato il tempo di una riappacificazione generale” tuona il governatore, che sembra fare dei precisi riferimenti che vanno oltre all’arresto di Helg. È noto come Crocetta abbia messo la lotta a Cosa Nostra e la battaglia per la legalità tra i primi punti del suo programma di governo: fino ad oggi non è stato sfiorato da nessuna indagine penale, ma dal Tar (sul caso Muos), fino alla Corte dei Conti ha ricevuto pesantissimi richiami a livello amministrativo. Come dire che la legalità non si annida solo nel condannare l’associazione criminale denominata Cosa Nostra. È il caso di Helg, nemico degli estortori mafiosi ed estortore freelance allo stesso tempo, secondo l’accusa. “Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato per lo stesso reato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole” dice oggi Raffaele Cantone, il magistrato campano che guida l’Anticorruzione. All’orizzonte dunque sembra spuntare il pericolo maggiore, e cioè che l’utilizzo spregiudicato del brand antimafia distrugga alla fine l’unico, vero concetto di opposizione a Cosa Nostra: quello che passa dalle scuole, dalle iniziative culturali, dalle denunce serie, che non fa affari e non fa carriere. Ma la cui credibilità è minata oggi dai professionisti dell’anti-antimafia: ovvero gli utilizzatori di slogan contro Cosa Nostra per fini privati, che alla fine depotenziano la vera lotta contro la piovra e le sue connivenze. Una perversa evoluzione dell’allarme lanciato da Sciascia che solo sull’Isola dei paradossi poteva vedere la luce. E d’altra parte la Sicilia rimane sempre una Regione dove, parafrasando Enrico Deaglio, chi si ferma alla quarta versione dei fatti è un superficiale.
"Stigmatizzo certa antimafia. Crocetta conosce il potere", scrive Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. Il Pd, il governo, Cosa nostra, l'Europa. Intervista a Giovanni Fiandaca: "Essere contro la mafia significa fornire un sostegno acritico ai magistrati? L'intellettuale, per dirla con Norberto Bobbio, più che un dispensatore di certezze è un seminatore di dubbi". “Rimane, peraltro, da chiedersi a questo punto quali concessioni lo Stato abbia in concreto finito col fare all'esito del tortuoso percorso trattativista, e quali effettivi vantaggi ne abbia tratto Cosa nostra. Proprio in un'ottica di risultato, è quello che rimane sfumato e che i pubblici ministeri non si sono sforzati di chiarire”. Giovanni Fiandaca, intellettuale, professore di diritto penale e docente a Palermo, candidato alle Europee per il Pd, ha sostanzialmente affermato che certa antimafia è nuda. E lo ha affermato da insospettabile uomo di centrosinistra, scrivendo tra l’altro alcuni densi saggi sulla trattativa Stato-mafia (da cui è tratto l'incipit) e su un processo dalla forte valenza simbolica. Con un tratto di penna ha demolito l'impalcatura dell'accusa, con una critica a tutto campo. Tanto è bastato per inscriverlo nella lista dei reietti. Fiandaca è andato oltre. Ha insistito. Ha tenuto conferenze sul tema. Qui spiega che cosa l'ha spinto ad affrontare anatemi e scongiuri, le usuali maledizioni destinate ai malcapitati che decidono di rompere un tabù. E' una spiegazione ragionata, più da studioso che da politico, che però contiene elementi appetibili per i titolisti di un quotidiano, perché sconfina, dall'accademia, nell'attualità. Il bersaglio è sempre quello: una certa idea dell'antimafia militante.
Professore, lei si mette a scrivere cose che riguardano il suo lavoro e viene attaccato da un settore ben delineato dell'opinione pubblica, diventando oggetto di editoriali ed esecrazioni. Perché?
“Perché taluni forse si sono sentiti traditi. Tuttavia io domando: cosa c'è di sconvolgente nel fatto che un professore di diritto critichi un processo e metta in ordine le sue osservazioni? Lo faccio per mestiere. O forse il mio mestiere dovrebbe essere quello di fornire un avallo fideistico a tutti i processi importanti? Sarebbe questa l'aspettativa?”.
Perché tanto livore contro di lei?
“Ho smontato il giocattolo. Critico il tipo di approccio di una specifica cultura antimafiosa, ne svelo gli impliciti presupposti di ordine culturale ed etico-politico, insomma decostruisco uno stile intellettuale. Essere contro la mafia significa fornire un sostegno acritico ai magistrati? L'intellettuale, per dirla con Norberto Bobbio, più che un dispensatore di certezze è un seminatore di dubbi; ciò ovviamente non gli impedisce di dare contributi costruttivi anche da un punto di vista tecnico”.
Era dai tempi del celebre articolo di Sciascia sui professionisti dell'antimafia che non si assisteva a una tale levata di scudi.
“Quello che scrivo, lo scrivo per contestare una visione dogmatica o bigotta dell’antimafia divenuta purtroppo negli ultimi anni una sorta di senso comune diffuso. C'è un ovvio riferimento a Sciascia, ai suoi avvertimenti. Mi pregio di definirmi sciasciano”.
Qual è la sua colpa massima?
“Io stigmatizzo un'antimafia irriflessiva, retorica, prevalentemente ritualistica e simbolica. Preciso subito, a scanso di equivoci: i simboli e i riti sono importanti. Testimoniano la condivisione di un insieme di valori, sono fattori di identità politica e culturale. Ma perché ciò sia vero è necessario che sussistano conseguenti comportamenti concreti. Quando si diffonde il sospetto – e questo sospetto è diffuso – che l’antimafia venga utilizzata come strumento di lotta politica o di potere, oppure diventi una scorciatoia per fare affari, allora la funzione simbolica viene di fatto contraddetta e si traduce in impostura, un tradimento di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta alla mafia”.
Qual è il punto centrale della questione?
“Il vero problema oggi è come fare antimafia in modo intelligente ed efficace, aggiornando la cassetta degli attrezzi, affinando la tecnica di indagine, per mettere allo scoperto la forma più attuale e insidiosa del potere mafioso. Senza cercare di intentare, nello stesso tempo, processi globali alla politica e alla storia”.
Ci sono innumerevoli antimafie a disposizione sul mercato, l'una contro l'altra armata...
“Nessuno ha il diritto di stabilire una volta per tutte quale sia l'antimafia doc. Il pluralismo è una ricchezza. L'antimafia non deve costituire strumento di lotta e quindi di esclusione, perché in essa convergono valori – la liberazione dell'uomo dal potere violento, il rispetto della sua dignità e libertà – che rappresentano i prerequisiti etici dell'impegno politico. La mia concezione insiste sul fatto che tutti i possibili approcci all’antimafia dovrebbero essere non soltanto considerati legittimi in linea di principio, ma costituire la base di strategie, in concorrenza tra loro. In altri termini, i cittadini dovrebbero scegliere tra concrete politiche antimafia poste a confronto, e non in funzione del personale coefficiente di antimafiosità che il politico di turno attribuisce a se stesso più o meno arbitrariamente. Più fatti, meno annunci e meno recite mediatiche di militanza antimafia".
Qualche esempio, professore.
"Si discute molto di beni confiscati, di efficienze nella gestione delle aziende sequestrate e di Agenzia nazionale. Spesso, però, se ne discute male, e cioè a colpi di slogan, con toni scandalistici e non di rado con la coda di paglia, e cioè a difesa di interessi che con la lotta alla mafia hanno poco a che fare".
Entrando nel merito?
"Due questioni dirimenti: chi deve gestire i beni sequestrati fino a quando la confisca non passa in giudicato? Nel 2010 il Parlamento ha ritenuto di istituire l’Agenzia nazionale dei beni confiscati: a quattro anni di distanza nessuno può negare che è stato un fallimento. E io, insieme agli esperti, magistrati, prefetti e professori componenti della commissione ministeriale che ho presieduto, ritengo che bisogna correre ai ripari. L’Agenzia nazionale si occupi soltanto dei beni definitivamente confiscati per puntare a una rapidissima destinazione o vendita, ma lasci a magistrati, amministratori giudiziari e manager la gestione prima dell’acquisizione definitiva. So che il ministero dell’interno di Angelino Alfano è orientato a riaffermare la competenza dell’Agenzia anche nella gestione precedente alla confisca definitiva: significherebbe perpetuare diabolicamente nell’errore. In tali casi ha senso dividersi, discutere razionalmente la bontà delle soluzioni, senza polemiche sterili e velenose?".
La divisione è un vizio irrinunciabile.
"Le racconto un altro episodio che mi ha molto colpito, perché ha registrato un silenzio fragoroso della pur mitica Confindustria siciliana. Molti di noi ritengono, infatti, che oltre a sequestrare e confiscare le aziende irrimediabilmente compromesse da interessi mafiosi, sia necessario sviluppare una strategia nuova per intervenire con strumenti meno invasivi e più flessibili di sequestro e confisca, come il controllo giudiziario, prima che le mafie si impadroniscano delle imprese border line. Ebbene, il ministro Orlando pare che abbia accolto l’idea e stia per tradurlo in proposta di legge, da Confindustria non abbiamo ricevuto nessun segnale, nonostante più volte e pubblicamente interpellata".
Torniamo all'assunto: di concetti antimafiosi è disseminata la politica. L'antimafia, per esempio, è il biglietto da visita del governatore, Rosario Crocetta.
“Ribadisco che non condivido la tendenza perversa che è andata diffondendosi nella politica siciliana ad assumere il presunto tasso di antimafiosità personale come prevalente parametro di valutazione della capacità di governare. Per uscire dal generico, se ad esempio fosse vero che per Crocetta il numero di denunce presentate all'autorità giudiziaria rappresenti una ragione di preferenza per attribuire un incarico o una nomina d'assessore, rispetto al possesso di competenze specifiche, io non mi troverei affatto d'accordo”.
Mi pare che sia accertato. E che le scelte del presidente premino una diffusa capacità denunciante.
“E io non sono d'accordo, lo ripeto. Verosimilmente risponde a questa impostazione la nomina di Valeria Grasso alla guida della Foss. Una scelta criticabile e criticata con motivazioni che condivido pienamente”.
Qui siamo nel cuore del “crocettismo” se il termine le va bene.
“Dalla totalizzante visione antimafiocentrica del crocettismo deriva come conseguenza pressoché automatica che il massimo merito consista nell'assumere il ruolo di denunciante in servizio permanente effettivo e che la lotta alla mafia abbia come presupposto la rinuncia al primato della politica. D'altra parte, credo che, al di là di certe estremizzazioni o pose retoriche, neanche lo stesso Crocetta la pensi davvero così”.
E allora che fa? Simula?
“Crocetta conosce benissimo la logica del potere. Sa come va il mondo e in modo molto maggiore di quanto non voglia fare credere”.
Sta dicendo che l'antimafia del governatore è soltanto funzionale all'acquisizione e al mantenimento del potere?
(la risposta è un leggero sorriso)
Un suo saggio è dedicato a Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del presidente Napolitano, morto d'infarto dopo una martellante campagna giornalistica che lo chiamò in causa a proposito delle famose intercettazioni tra il presidente e Mancino.
“Lo conoscevo. Tra di noi era nato un rapporto di profonda stima. Era uno studioso competente, un grande uomo delle istituzioni”.
Possiamo considerarlo vittima di quella certa antimafia?
“Direi piuttosto così: tra le vittime indirette della mafia, ci sono purtroppo uomini sacrificati sull'altare di una micidiale interazione tra la macchina giudiziaria e il sistema mediatico”.
Dulcis in fundo, la belligerante dialettica tra il Pd siciliano e il presidente della Regione. Come la valuta?
“Mi preoccupa molto lo scenario di forti divisioni e contrapposizioni che si è creato. Ne risente la campagna per le Europee che viene strumentalizzata per le esigenze di due gruppi, tra chi vuole liberarsi a tutti i costi di Crocetta e chi a tutti i costi vuole stabilizzarne il potere”.
Possibile un'Antimafia del diritto? Scrive Fausto Raciti su “Live Sicilia”. L'intervento del segretario del Pd: "Il primo fatto che abbiamo sotto il naso, ma che nessuno vuole ammettere, è il fallimento del primato della società civile". Da quando è iniziato, il dibattito su cosa sia diventata l'antimafia siciliana è stato segnato da parole spesso oblique, allusive, incomprensibili. Non possono essere le indagini su Antonello Montante, né le inchieste della Commissione antimafia sull’antimafia medesima il tema della nostra discussione. I dossier, le insinuazioni, i sospetti rischiano di cancellare ciò che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto: chi è indagato ha il diritto di difendersi ed essere considerato innocente fino all’ultimo grado di giudizio. Le stesse allusioni di Luigi Ciotti a nuove indagini lasciano sbigottiti. Per fare chiarezza è allora bene ripartire dalle premesse: non è dalle aule di tribunale che arriveranno le risposte su come ripensiamo l’antimafia, sui fallimenti della società civile e i compiti della politica. È molto più onesto porre il problema di cosa sia diventato questo campo di battaglia chiamato antimafia, come ha fatto Giovanni Fiandaca nel corso della difficile campagna elettorale delle elezioni europee, che non affidarsi alle parole di qualche pentito con l'obiettivo di allungare ombre senza affrontare il cuore del problema. Il primo fatto che abbiamo sotto il naso, ma che nessuno vuole ammettere, è il fallimento del primato della società civile e le storture che ci ha lasciato. L’antimafia, per come si è caratterizzata nella storia recente del nostro Paese, è il simbolo di una società civile che si è sostituita alla politica in nome di un marchio, della sua capacità di gestirlo e di una superiorità morale rivendicata nei confronti della rappresentanza democratica e finanche dello Stato. Un esempio -forse il più efficace tra i tanti possibili- è il protocollo aggiuntivo tra Confindustria nazionale e il Ministero dell’Interno di febbraio 2014 finalizzato all'accelerazione delle procedure per il rilascio della certificazione antimafia alle aziende che aderiscono all'associazione degli industriali. L’antimafia degli imprenditori che hanno scosso l’opinione pubblica e il potere siciliano si fa intermediazione, in sostituzione degli organi dello Stato. Come si può capire bene, è un problema di modello culturale, non di amicizie d’infanzia. Altro esempio è la battaglia che si sta consumando sulla gestione dei beni confiscati in cui, a modelli diversi, corrispondono distinti gruppi della grande famiglia -le liti in famiglia sono sempre le più feroci- antimafia. Nel frattempo il 90% delle aziende confiscate ha continuato a fallire regalando alla mafia uno dei migliori spot pubblicitari cui potesse ambire. A questa sostituzione della politica ha fatto sponda una parte della magistratura che ha trasformato l’antimafia in battaglia di parte, in tentativo di affermazione di una verità esclusiva e incontestabile: la candidatura di Antonio Ingroia alle elezioni politiche è stata, in ultima analisi, questo. La politica, per il suo verso, si è fatta volentieri utilizzare da un antimafia percepita come strumento di legittimazione per superare le proprie deficienze e non fare i conti con le proprie contraddizioni. Non ha, in definitiva, combattuto la propria battaglia. Esattamente come nel caso delle imprese nissene che hanno trovato in Confindustria il mediatore per ottenere i certificati antimafia, la politica si è messa in fila per ottenere indiscutibili certificati di moralità, cedendo sovranità. E’ passato il principio che migliore è la classe dirigente quanto più lontana è cresciuta dai meccanismi della rappresentanza democratica, dal consenso e dai partiti. E se fosse, allora, la politica che ha il compito di salvare l’antimafia da se stessa ritornando sulla scena? Tutto sommato, basterebbe ritornare alla finalità semplice, ma dirompente, dell'affermazione dello Stato di diritto e delle normali regole della concorrenza. L'antimafia si salva se è, e viene percepita, come strumento di liberazione, non di intermediazione né di lotta politica. Pena la perdita della propria credibilità. Il compito di chi governa è combattere l'anomalia mafiosa regalando normalità all'economia siciliana, non quello di rispondere attraverso la costruzione di un'altra anomalia. Il caso del presidente della Camera di Commercio di Palermo, colto in flagranza di reato mentre intasca una mazzetta da 100.000 euro, diventa illuminante quando scopriamo che le sue aziende erano fallite da tre anni. L'unico titolo di legittimazione per ricoprire quel ruolo gli veniva da un'esposizione pubblica come uomo dell'antiracket. Quello che in passato abbiamo chiamato "circo barnum dell’antimafia”, strumento possente ed efficace di carriere che non troverebbero altra giustificazione, e a cui non si sottrae la gestione delle camere di commercio in Sicilia, ha bisogno di essere riportato a normalità da una politica più consapevole e sicura di se. Oggi la palla passa alla nostra capacità di mettere in campo strumenti, alleanze sociali, riforme che ci consentano di recuperare l'autorevolezza e la forza necessarie ad affermare lo stato di diritto. Una delle missioni che il Partito democratico non può mancare è costruire una classe dirigente che non abbia bisogno di delegare la certificazione della propria moralità ad alcuno, che abbia la capacità di essere punto di riferimento per le forze sociali, spesso molecolari ma sane, che vogliono affermare il proprio diritto ad operare in Sicilia come farebbero in qualsiasi altra parte d'Europa. Ed è a questo che serve una nuova antimafia che non ambisca a sostituirsi allo Stato e alla politica ma, viceversa, che abbia al centro l'obiettivo dell'affermazione dello stato di diritto del principio di rappresentanza democratica. A ciascuno il proprio mestiere: chi nelle aule di tribunale, chi nelle istituzioni, chi nella società. Solo così di può rinnovare il movimento antimafia e restituirgli quell'unità e quel rispetto per il pluralismo che oggi sembrano persi dopo vent’anni di guerre interne, spesso non dichiarate, ma combattute con inusuale durezza.
IL MONDO DEI TRASFORMISTI.
Trasformismo in parlamento, 235 cambi di casacca in meno di due anni. Dalle politiche del 2013 al 15 marzo 2015 - 23 mesi - tra Camera e Senato, in parlamento ci sono stati 235 cambi di casacca. Da Letta a Renzi, sono già 185 i parlamentari che hanno deciso di emigrare in un altro gruppo politico: 13 fanno come Razzi e Scilipoti e saltano lo schieramento, quasi tutti salgono sul carro del Pd. Scelta civica verso la liquefazione, emorragia nel M5s tra espulsioni e abbandoni. Non mancano gli 'affezionati' della fuga: c'è chi è riuscito ad attraversare l'intero spettro politico. Raffronto con i governi Berlusconi e Monti, scrive Michela Scacchioli su “La Repubblica”. "Metà stipendio a te che cambi gruppo" parlamentare. O peggio: non sei più d'accordo col tuo partito? "Allora ti dimetti e decadi". Se "tradisci" dopo che sei stato candidato ed eletto, devi mollare subito la poltrona e uscire dal Palazzo alla svelta. I tentativi di punire chi scavalca lo steccato fioccano. Oggi, dinanzi a un Pd attrattivo e pigliatutto, Movimento 5 Stelle e Lega Nord continuano a insistere all'unisono sulla necessità di introdurre il vincolo di mandato di cui tanto si discute. Il motivo è quel "trasformismo galoppante" nato già nel Regno d'Italia ai tempi di Depretis. In merito, la Costituzione si esprime in maniera netta nel suo articolo 67 che esclude qualsiasi tipo di ripercussione su deputati e senatori. Indipendenza e autonomia, infatti, sono sanciti nero su bianco. E chi viene democraticamente scelto è tutelato da qualsiasi ingerenza esterna - forza politica di appartenenza in primis - affinché possa agire e votare con libertà di coscienza. Una garanzia riconfermata anche nel ddl Boschi che riforma la seconda parte della Carta. Ed è proprio a questa libertà che, puntualmente, fanno appello nelle loro dichiarazioni i parlamentari protagonisti dei 235 cambi di insegna avvenuti negli ultimi 23 mesi (durante i governi a guida Enrico Letta e Matteo Renzi). Sono 119 alla Camera e 116 al Senato. Numeri altissimi che se confrontati con la legislatura precedente - la sedicesima - forniscono un'idea del fenomeno e del suo trend: 261 passaggi in 58 mesi, dal 2008 al 2013. Il raffronto, ulteriormente suddiviso, consegna una cifra pari a 10,22 cambi al mese (nella diciassettesima legislatura, quella attuale) contro i 4,50 del periodo Berlusconi-Monti. Più del doppio. Se poi si vuole scorporare il dato degli ultimi quattro governi, le differenze sono ancora più forti: secondo i dati Openpolis per Repubblica.it, vince il governo Letta, con 15,33 cambi al mese (in virtù dell'implosione del Pdl e della nascita di Ncd), seguito dal governo Renzi (8 passaggi al mese) che si piazza davanti agli esecutivi Berlusconi e Monti, rispettivamente con 5,56 e 2,94 transizioni. Un'annotazione: in cifre assolute, durante l'esecutivo guidato dall'ex Cav (3 anni e 6 mesi) i trasformismi sono stati 217 contro i 97 dell'esecutivo Renzi, i 138 dell'esecutivo Letta e i 50 dell'esecutivo Monti. Un ammontare elevato, quello che fa riferimento a Berlusconi, se si considera che l'attuale leader di Forza Italia è stato l'ultimo ad aver vinto le elezioni politiche e si è insediato in un contesto politico ben più stabile. Certo, ciascuna legislatura è una storia a sé, e ciascun parlamento rappresenta una novità rispetto a quello precedente. Ma le dinamiche che si instaurano all'interno dell'aula, fra i banchi di Camera e Senato, forniscono una chiave di lettura per capire come e quanto stia cambiando la politica italiana. La XVII legislatura, iniziata a marzo 2013, già oggi risulta caratterizzata da un alto numero di cambi di gruppo. Un fenomeno che fa parte del nostro assetto costituzionale da sempre ma che, in questi ultimi due anni, ha raggiunto nuove dimensioni, complici le spaccature interne a tutti i partiti. Di sicuro, deputati e senatori sono costituzionalmente liberi di cambiare gruppo ogni qual volta lo desiderino, senza dover render conto a nessuno. E se nel 2010 sono stati proprio improvvisi cambi di gruppo - e di schieramento - a salvare il governo guidato da Silvio Berlusconi (vedi i casi di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi), più recentemente si è assistito al proliferare di espulsioni sommarie (come nel caso del Movimento 5 Stelle), scissioni interne (la rottura dentro al Pdl con la nascita di Forza Italia e Nuova centrodestra) e la fine di esperimenti politici, come nel caso di Mario Monti e della sua creatura post premierato tecnico: Scelta civica. Chi viene e chi va. I gruppi che compongono il parlamento - nonché le loro dimensioni - oggi sono molto diversi se confrontati con quelli eletti alle politiche del 2013. E' possibile riassumere gli spostamenti in tre grandi insiemi: gruppi in forte crescita, gruppi in perdita e quelli che hanno subìto scissioni interne. Dentro quest'ultima categoria rientrano le forze che hanno dovuto mettere a bilancio il crollo numerico maggiore: c'è il Popolo delle libertà (con la rottura tra l'ex Cavaliere e Angelino Alfano, titolare del Viminale) e c'è Scelta Civica, con la fine dell'alleanza con Udc più Popolari e la conclusione dell'esperimento montiano al Senato. A seguire, in questo valzer di cambi si pone il Movimento 5 Stelle - terzo per membri persi - che risulta essere in forte ridimensionamento sia a Montecitorio (-18) sia a Palazzo Madama (-17). Fra i tanti in perdita, l'unico in reale crescita è il Partito democratico che ha giovato sia del salto di schieramento di molti deputati Sel sia del confluire del gruppo Scelta civica al Senato. Da marzo 2013 ad oggi, dunque, ci sono stati 235 cambi di gruppo che hanno coinvolto 185 parlamentari. Non solo: molti deputati e senatori hanno cambiato più volte gruppo, ma alcuni hanno compiuto il salto da maggioranza a opposizione (si veda la migrazione di molti deputati Sel), e altri sono persino tornati nei gruppi che all'inizio avevano deciso di lasciare. L'ultima mossa, in ordine di tempo, appartiene al deputato Massimo Corsaro che soltanto qualche giorno fa ha deciso di abbandonare Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d'Italia in evidente contrasto con il feeling che si è venuto a creare tra gli ex An e la Lega di Matteo Salvini. L'approdo, come per molti altri, è stato al gruppo Misto. E' lì, ad esempio, che molti parlamentari in fuga si appoggiano in un primo momento, in attesa di spiccare il volo verso altri lidi. Negli ultimi 23 mesi il Misto ha rappresentato un porto sicuro per 11 deputati: Fucsia Nissoli, oggi parlamentare di Per l'Italia, mesi fa ha lasciato Scelta civica per il Misto salvo poi tornare a Sc e infine atterrare su Pi. Sempre alla Camera, Adriano Zaccagnini è uscito dal M5s ma è transitato dal Misto prima di arrivare a Sel. Otto deputati di Sel - da Gennaro Migliore a Titti Di Salvo - sono passati dal Misto prima di entrare nel Pd. Nel panorama, non mancano neanche i ripensamenti: alla Camera è il caso di Alberto Giorgetti (da Fi ad Ap e poi di nuovo a Fi) e di Stefano Quintarelli (da Sc a Pi e ritorno indietro). Al Senato Luigi Compagna corre dal Misto al Gal ad Ap e poi di nuovo al Gal e poi ancora ad Ap. Paolo Naccarato parte dalla Lega per andare al Gal poi ad Ap e poi di nuovo al Gal. Sempre a Palazzo Madama il salto di schieramento l'ha fatto Antonio D'Alì che da Ncd è passato a Forza Italia mentre a Montecitorio il 'ribaltone' l'hanno fatto in 12, quasi tutti a favore del Pd. Ancora al Senato, è Lorenzo Battista (passato dal M5s al Misto e poi alle Autonomie-Psi-Maie) a lanciare un appello ai colleghi che come lui sono entrati in parlamento col movimento di Beppe Grillo ma che poi ne sono usciti per dissidi con il leader: "Creiamo un gruppo con Sel ed entriamo nel governo" è l'appello che lancia mentre un altro ex pentastellato, Walter Rizzetto, scende in piazza a Venezia con la destra della Meloni. Altro dato che emerge è la tendenza a cambiare gruppo ripetutamente. Sono 11 i parlamentari che hanno cambiato maglia tanto nella XVI quanto nella XVII legislatura, con alcuni - come Dorina Bianchi - che hanno attraversato l'intero spettro politico. La parlamentare, eletta con il Partito democratico nel 2008 al Senato, è poi transitata nel Pdl, con cui è stata ricandidata e rieletta nel 2013, per poi passare nei mesi successivi nel Nuovo centrodestra.
Paola Binetti alla Camera nella XVI legislatura è passata dal Pd all'Udc mentre nella XVII è passata da Scelta civica ad Area popolare.
Linda Lanzillotta nella XVI legislatura (alla Camera) è transitata dal Pd al Misto. Poi, però, nella XVII è ritornata da Scelta civica al Pd.
Benedetto Della Vedova nella XVI legislatura è passato dal Pdl a Fli ma poi nella XVII è andato da Scelta civica al Misto.
Aldo Di Biagio nella XVI legislatura è passato, da deputato, da Pdl a Fli. Poi, nella XVII, da senatore, è passato da Scelta civica ad Area popolare (Ncd più Udc).
Vincenzo D'Anna nella XVI legislatura è passato dal Pdl a Pt (alla Camera) mentre nella XVII è passato da Fi-Pdl a Gal (al Senato).
Dorina Bianchi nella XVI legislatura (al Senato) è passata dal Pd al Pdl mentre nella XVII legislatura (alla Camera) è transitata da Fi-Pdl ad Area popolare.
Mario Ferrara, senatore, nella XVI legislatura è passato dal Pdl a Cn mentre nella XVII è passato da Misto a Gal.
Alessandro Maran nella XVI legislatura (alla Camera) è passato dal gruppo Pd a Misto mentre nella XVII (al Senato) è ritornato da Scelta civica a Pd.
Antonio Milo nella XVI legislatura (alla Camera) è passato dal gruppo Misto a Pt mentre nella XVII (al Senato) è transitato da Fi-Pdl a Gal.
Giuseppe Ruvolo nella XVI legislatura è passato (alla Camera) dall'Udc a Pt e nella XVII è transitato (al Senato) da Fi-Pdl a Gal.
Ripercussioni sulla maggioranza. Deputati e senatori possono esprimere dissenso nei confronti del proprio gruppo in vario modo. Uno di questi è proprio il voto, vale a dire la possibilità di esprimersi in maniera non conforme alla linea dettata dal capogruppo. In linea generale, prima della fuoriuscita dal gruppo di elezione, i parlamentari transfughi avevano una percentuale media di voti ribelli in linea con il resto dell'aula. Anzi: il 60% di loro alla Camera e il 77% al Senato erano sotto la media di ribellione. In pochissime situazioni in aula sono emerse le avvisaglie del cambio di gruppo e quasi mai è stata data prova tangibile di 'infedeltà' prima di scegliere la nuova 'squadra'. La situazione dei voti ribelli, però, varia molto se la si analizza subito dopo il cambio di maglia. La percentuale di voti discordanti rispetto al gruppo di elezione sale a dismisura soprattutto per deputati e senatori che hanno fatto un salto di schieramento. In una situazione analoga si trovano i numerosi fuoriusciti grillini, che dopo l'espulsione o abbandono del Movimento 5 Stelle hanno tendenzialmente iniziato a votare in maniera opposta. L'analisi sui voti ribelli permette di delineare altre due situazione ben specifiche. Da un lato il caso Pdl, con la discrepanza nei voti tra membri del Nuovo centrodestra e Forza Italia, soprattutto per il passaggio di quest'ultimo all'opposizione. Infine i tanti cambi di gruppo interni alla maggioranza (scissione Scelta Civica - Per l'Italia e spostamento di molti parlamentari nel Partito democratico), hanno reso alcuni cambi, specialmente in sede di voto, totalmente irrilevanti. A quanti una seconda chance. Se durante l'attuale legislatura il fenomeno dei cambi di gruppo è particolarmente accentuato, non si può certo dire che sia una novità rispetto alla precedente. Infatti, nella XVI legislatura (2008-2013) ben 180 parlamentari hanno cambiato gruppo. In particolare ci sono stati due eventi catalizzatori: la rottura fra il Pdl e Gianfranco Fini da un lato, e il voto di fiducia che ha salvato il governo Berlusconi grazie ai cosiddetti 'Responsabili'. Ma che fine hanno fatto questi 180 transfughi? Sono stati premiati per aver salvato il governo Berlusconi? E quelli che hanno seguito Fini nell'avventura di Fli sono stati ricandidati? I numeri parlano chiaro: il 48% dei transfughi è stato ricandidato, e il 12,75% è stato rieletto. Cifre più basse dei parlamentari 'fedeli', che sono stati ricandidati per il 52% e rieletti per il 41 per cento. La differenza principale sta nel gruppo che si è scelto di raggiungere. I 'Responsabili' che hanno lasciato i loro gruppi di appartenenza per salvare il governo Berlusconi sono stati quasi sempre ricandidati e soprattutto rieletti (Scilipoti e Razzi, appunto), mentre deputati e senatori che hanno seguito Fini nell'avventura Fli sono stati ricandidati ma non rieletti visto che il partito non ha raggiunto la soglia minima. In generale il 50% dei parlamentari che ha abbandonato Berlusconi nella scorsa legislatura è finito nel 'dimenticatoio' e non è stato neanche ricandidato.
IL MONDO DELLE CRICCHE.
Corruzione, se la politica arriva sempre in ritardo. Expo, Mose, Mafia Capitale, Tav: tutti gli scandali che la politica non ha saputo prevenire, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. È un film visto e rivisto quello della politica costretta a inseguire le inchieste della magistratura quando si tratta di corruzione. Né gli annunci di nuove e più dure misure di contrasto né gli interventi effettivamente adottati, sono riusciti infatti a mettere finora un vero argine a un fenomeno che, secondo alcune stime (anche se è impossibile quantificare esattamente il danno), costerebbe all'Italia 60 miliardi di euro l'anno. Una volta superato lo choc iniziale provocato dalla notizia di un nuovo scandalo, le grandi promesse maturate nel clima di indignazione collettiva vengono mano a mano ridimensionate, dimenticate e nel migliore dei casi, anche per colpa dei veti incrociati che incontrano in Parlamento, rimandate. Fino, ovviamente, al momento di ritirarle di nuovo fuori di fronte a nuovi arresti, nuovi indagati, nuove tangenti. Negli ultimi 12 mesi lo stesso identico copione si è ripetuto almeno quattro volte. Tanti sono stati infatti gli scandali che hanno terremotato il mondo politico e imprenditoriale più di altri: Mose, Expo, Mafia Capitale e adesso Tav e altre grandi opere tra cui di nuovo l'Expo. E pensare che solo pochi giorni fa, prima che l'ultima inchiesta della Procura di Firenze lo smentisse, il premier Matteo Renzi aveva ottimisticamente profetizzato che “l'epoca degli scandali" sarebbe "finita”.
Scandalo Expo. È l'8 maggio del 2014 quando il compagno G., al secolo Primo Greganti, storico tesoriere del Pci già coinvolto nella Tangentopoli dei primi anni '90, viene di nuovo arrestato insieme ad altre sei persone per un giro di tangenti e appalti truccati sui lavori legati all'Expo di Milano e alla sanità lombarda. In manette anche l'ex plenipotenziario della Dc lombarda Gianstefano Frigerio, l'ex senatore Pdl Luigi Grillo, il direttore generale delle Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni, il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, l'imprenditore Enrico Maltauro e l’intermediario genovese Sergio Catozzo. Per tutti le accuse sono di turbativa d'asta e corruzione. Coinvolte nell'inchiesta diverse imprese coperte e favorite dalla cupola formata da Greganti e Frigerio. “Massima severità nel caso siano stati commessi dei reati” il primo commento a caldo del premier Matteo Renzi che poi nei giorni successivi, commentando la scena della consegna di una tangente ripresa dalle telecamere nascoste della guardia di finanza, lancia la proposta: “ci vuole l'interdizione dai pubblici uffici”.
Scandalo Mose. Passa giusto un mese che il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e l'ex governatore veneto Giancarlo Galan finiscono in manette insieme ad altre 35 persone (gli indagati in tutto sono un centinaio tra cui politici, funzionari pubblici, imprenditori). Imprese di costruzione della zone avrebbero infatti finanziato la campagna elettorale di Orsoni del 2010 e il restauro della villa di Galan con denaro ricavato da sovrafatturazioni false create ad hoc e fondi distratti al Mose, il sistema di dighe mobili progettato per difendere Venezia dall'acqua alta. Il giorno stesso, era il 5 giugno, il premier Matteo Renzi annuncia da Bruxelles, dove si trovava per il G7, nuove misure su appalti, anticorruzione e “altri temi specifici” aggiungendo che “un politico indagato per corruzione” andrebbe indagato “per alto tradimento”.
Scandalo Mafia Capitale. Associazione di stampo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta e altri resti. Sono queste le accuse che il 2 dicembre scorso portarono all'arresto di 37 persone tra cui l'ex Nar Massimo Carminati, il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi, considerati i capi dell'organizzazione criminale romana, l'ex vice capo di gabinetto dell'ex sindaco Walter Veltroni Luca Odevaine, e all'iscrizione nel registro degli indagati di esponenti di spicco della politica capitolina come l'ex sindaco Gianni Alemanno, l'assessore alla Casa del Campidoglio Daniele Ozzimo, il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, i consiglieri regionali Eugenio Patané e Luca Gramazio, ma anche alti dirigenti dell'amministrazione, come il responsabile della direzione trasparenza Italo Walter Politano, l'ex ad di Eur Spa Riccardo Mancini e di Ama Franco Panzironi. Tutti personaggi considerati dai magistrati a libro paga del presunto sodalizio criminale che negli anni avrebbe ricevuto appalti per milioni di euro per gestire immigrati, rifiuti, verde pubblico, manutenzione stradale ecc. Toni da guerra quelli scelti anche allora da Matteo Renzi di fronte all'ennesimo scandalo: “faremo capire che in Italia il vento è cambiato, faremo capire che non sono tutti uguali. E chi ruba, chi corrompe, sarà perseguito fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo centesimo” le parole del premier cui segue l'annuncio dell'innalzamento della pena minima della corruzione e di altre misure.
Inchiesta Grandi Opere. Altri nomi eccellenti sono anche quelli coinvolti nell'ultima inchiesta della procura di Firenze che ha ordinato l'arresto, tra gli altri, di Ercole Incalza, dominus dei lavori pubblici in Italia, ex potentissimo dirigente del ministero dei Lavori Pubblici durante sette diversi governi, in pensione dal dicembre scorso e accusato, insieme ad altri tra cui l'imprenditore Stefano Perotti, di aver illecitamente gestito numerosi appalti tra cui quello dell'Alta velocità e dell'Expo. Nelle carte dell'inchiesta anche il nome del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi di cui, benché non sia indagato, Lega e M5S hanno già chiesto le dimissioni. Mentre Matteo Renzi è tornato a parlare di aumento delle pene sulla corruzione, reato che secondo il premier è “inaccettabile” pensare di poter prescrivere. Ma il premier ha anche rivendicato di aver messo in campo l'autorità anticorruzione “perché casa per casa, appalto per appalto, si possa far pulito”.
Tutti gli scandali simbolo della Seconda Repubblica. Da Giancarlo Galan all'ex tesoriere della Margherita Lusi, passando per Batman e Penati, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Cambiano i nomi, e a volte nemmeno quelli, ma i vizi della politica restano sempre gli stessi. Dalla Prima alla Seconda Repubblica sembra infatti essere rimasta irresistibile la tentazione di arricchirsi personalmente grazie al ruolo ricoperto nei partiti o nelle istituzioni. Sindaci, presidenti di Regione, consiglieri, parlamentari, segretari e tesorieri di partito: tutti accusati, in modo trasversale, di aver incassato tangenti, o di essersi appropriati indebitamente di fondi pubblici, o di corruzione o peculato o di più reati insieme. Senza alcuna differenza tra destra, centro e sinistra.
GIANCARLO GALAN. “Non ho le colpe che mi vengono attribuite dai miei accusatori". Coinvolto nello scandalo Mose, l'ex governatore veneto si è difeso così davanti ai giornalisti radunati a Montecitorio e nella memoria difensiva consegnata alla giunta per le autorizzazioni della Camera. In particolare i magistrati lo ritengono responsabile di aver ricevuto da parte del Consorzio Venezia Nuova tangenti sotto forma di acquisto e lavori di restauro nella sua villa a Cinto Euganeo, di aver dichiarato 88 mila euro di reddito tra lui e la moglie a fronte di una rata annua del mutuo della stessa abitazione di 150mila euro, di possedere 10 barche, un conto a San Marino e di un giro di operazioni sospette per 50 milioni di dollari in Indonesia. Ma per Galan si tratta di tutte “fesserie”.
GIORGIO ORSONI. Accusato nell'ambito della tangentopoli veneta sul Mose di aver ricevuto 500mila euro per la sua campagna elettorale in cambio di agevolazioni alle aziende che facevano capo al Consorzio Venezia Nuova, l'ex sindaco di Venezia ha patteggiato una pena a 4 mesi senza però rinunciare a scaricare le colpe sul suo partito, il Pd, e in particolare su Davide Zoggia, Giampiero Marchese e Michele Mognato, che, secondo lui, avrebbero gestito il denaro per suo conto ma senza che lui fosse al corrente da parte di chi arrivassero quei fondi.
PRIMO GREGANTI. Già coinvolto nella Tangentopoli dei primi anni '90 e famoso come il “compagno G.”, lo storico tesoriere del Pci che all'epoca sacrificò se stesso per salvare il suo partito, Primo Greganti è tornato in cella nell'ambito dell'inchiesta su Expo. Arrestati anche l'ex plenipotenziario della Dc lombarda Gianstefano Frigerio, l'ex senatore Pdl Luigi Grillo, il direttore generale delle Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni, il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, l'imprenditore Enrico Maltauro e l’intermediario genovese Sergio Catozzo. “Greganti governa le Coop. E' un martello”, è il testo di un sms trovato nel cellulare di Paris. Per l'accusa il compagno G ha svolto il ruolo di collegamento tra la “cupola” e i politici di centrosinistra.
CLAUDIO SCAJOLA. Il quattro volte ministro è finito nei guai più volte nel corso della sua lunga carriera politica. Arrestato già nell' '83 per tentata concussione aggravata nell'ambito di un'inchiesta sugli appalti del Casino di Sanremo quando era sindaco d'Imperia, Scajola è ricordato come il ministro dell'Interno che definì il giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalla Brigate Rosse il 19 marzo del 2002, “un rompicoglioni”. E' stato coinvolto e assolto in primo grado nello scandalo sugli appalti per i grandi eventi. Era accusato di finanziamento illecito per aver ricevuto, “a sua insaputa”, una parte della cifra per l'acquisto di una casa al Colosseo da parte del faccendiere Diego Anemone. Nei mesi scorsi Scajola è stato arrestato con l'accusa di aver favorito la fuga all'estero di Amedeo Matacena, ex parlamentare di Forza Italia condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.
FRANCANTONIO GENOVESE. Mister preferenze in Sicilia (20mila alle ultime parlamentarie del Pd), è finito in cella (poi ai domiciliari) dopo il sì della Camera all'arresto. E' accusato di associazione a delinquere, truffa e peculato nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei fondi della formazione professionale nella sua Regione. Per la Procura avrebbe commesso anche il reato di riciclaggio per avere intascato, sotto forma di consulenze, 600 mila euro da parte di società del proprio gruppo, parte dei quali erano provento di peculati e frodi alla Regione Siciliana. Genovese sarebbe inoltre responsabile di un giro di false fatture tra sé stesso e società del gruppo a lui riconducibili per frodare sistematicamente il fisco e non pagare le tasse.
ROBERTO FORMIGONI. E' di associazione per delinquere e corruzione per i casi del San Raffaele e fondazione Maugeri l'accusa che riguarda il senatore Ncd ed ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. In cambio di delibere regionali favorevoli alla fondazione, Formigoni sarebbe stato ripagato con yacht, vacanze di super lusso, un maxi sconto sull'acquisto di una villa in Sardegna, finanziamenti vari, cene e denaro in contanti. Si parla anche di un sistema di consulenze d'oro nella sanità lombarda che secondo gli inquirenti sarebbe stato in funzione fin dagli anni '90.
FRANCO FIORITO. E' con l'arresto di Batman che presero avvio in tutta Italia una serie d'inchieste in cui sono rimasti coinvolti decine di consiglieri regionali e che nel Lazio ha provocato la caduta della giunta Polverini. Accusato di essersi appropriato di un milione e 300 mila euro dai fondi destinati al gruppo consiliare, Fiorito, come molti altri, avrebbe utilizzato soldi pubblici per spese personali: dalle auto alle cene, alle vacanze, all'acquisto di borse e gioielli. Dopo Fiorito sono finiti nel mirino Vincenzo Maruccio dell'Italia dei Valori, Nicole Minetti, Renzo Bossi, Roberto Cota, Raffaele Lombardo ecc.
FRANCESCO BELSITO. Con i soldi dei rimborsi elettorali alla Lega, l'ex tesoriere avrebbe effettuato investimenti in Tanzania e Cipro e pagato le spese dei familiari dell'ex leader del Carroccio Umberto Bossi e dell'ex vicepresidente del Senato Rosi Mauro, ma anche la campagna elettorale di Renzo Bossi per le ultime elezioni regionali e addirittura alcuni lavori di ristrutturazione alla villa della famiglia Bossi a Gemonio. Negli interrogatori Belsito ha fatto i nomi di molti dirigenti del partito che avrebbero ricevuto soldi da lui, tra questi Matteo Salvini e Roberto Calderoli.
FILIPPO PENATI. Da ex sindaco di Sesto San Giovanni a presidente della Provincia di Milano a capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, Filippo Penati finisce coinvolto nel cosiddetto “sistema Sesto” imperniato su un giro di mazzette per opere pubbliche. Da una parte le due aree industriali Falck e Marelli, dall'altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Dopo averlo annunciato Penati non ha rinunciato alla prescrizione dei reati sopraggiunta il 28 febbraio del 2014.
LUIGI LUSI. “Avevo bisogno di quel denaro di cui avevo la disponibilità e l’ho preso”. E' rimasta famosa la giustificazione fornita dall’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi per essersi appropriato indebitamente di 23 milioni di euro di fondi appartenenti al suo partito. Lusi tentò di difendersi all'epoca parlando di “regolari consulenze” pagate dal partito rutelliano alla sua società, la TTT. Poi si giustificò sostenendo di essersi preso quello che gli spettava per 10 anni di lavoro; alla fine l'ammissione. I soldi sarebbero serviti per l'acquisto di case (a Roma in via di Monserrato), ville (a Genzano) e per rimpinguare i conti suoi e della sua srl, italiana ma controllata da una società canadese di cui Lusi stesso era proprietario.
Inchiesta grandi opere: tutti i protagonisti coinvolti. Dal ministro Maurizio Lupi a Angelino Alfano, da Incalza a Pacella, Cavallo, Perotti. Ruoli in diverso ordine e grado dello scandalo grandi appalti, scrive “Panorama”. È lungo l'elenco dei politici che si incontrano nelle carte dell'inchiesta fiorentina sui grandi appalti. Ci sono gli indagati, che mettono lo zampino nell'aggiudicazione delle opere, ci sono quelli che ricevono favori, e ci sono i ministri. Maurizio Lupi viene tirato in ballo per i suoi "strettissimi rapporti" con il principale accusato, l'ex capo della struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture, Ercole Incalza, ora in carcere. Angelino Alfano è citato nelle vicenda di un'impresa che cerca aiuti per sbloccare uno stop imposto dal prefetto. Ma i due esponenti dell'Ncd non fanno parte dei 51 indagati. Gli arrestati sono Incalza, il suo collaboratore Sandro Pacella e due imprenditori Franco Cavallo e Stefano Perotti. Secondo l'accusa, erano il 'Sistema' che pilotava le opere pubbliche, dalla tav a Expo. Dalla ricostruzione fatta dai carabinieri del ros e dai pm fiorentini, la qualità dei rapporti fra Incalza, Perotti e Lupi, oltre che sui regali e sul lavoro trovato al figlio del ministro, sarebbe emersa anche in occasione di alcuni passaggi della recente storia politica. Nel 2013, ricorda il gip, "dopo le annunciate dimissioni dei ministri Pdl/Fi (fra i quali Maurizio Lupi) Ercole Incalza anticipa" a Perotti "che l'incarico di ministro ad interim verrà ricoperto dal ministro per lo sviluppo economico Flavio Zanonato". Perotti commenta: "Un macello". E Incalza di risposta: "Un macello sì, va buò". Qualche mese più tardi, è il febbraio 2014, Perotti "mostra alla moglie tutta la sua preoccupazione per la possibilità che Maurizio Lupi non sia confermato come ministro per le infrastrutture" e, riferendosi alla possibilità che possa essere nominato Michele Emiliano, commenta: "No, il rischio è questo Emiliano, che sarebbe un magistrato, che è terribile". La possibile esclusione di Lupi dal Governo, continua il gip, fa emergere la preoccupazione di Perotti, che a Franco Cavallo mostra l'esigenza di "chiudere le ultime pratiche". "Non è chiaro - scrive il gip - a quali ultime cose o ultime pratiche alluda Perotti, quello che appare certo èche esse debbano essere 'fatte' o 'chiuse' prima che sia nominato un diverso ministro dell'Infrastrutture e che, pertanto, la presenza di Maurizio Lupi in tale dicastero sia una condizione essenziale per realizzarla". Ma il gip parla anche di interventi del ministro. L'ex direttore generale della metropolitana di Milano, Giuseppe Cozza, parlando con l'ex presidente del cda di Italferr, Giulio Burchi, "ricorda di aver subito le pressioni di Maurizio Lupi in favore di Franco Cavallo". Mentre nel commentare l'arresto di Antonio Rognoni, "quello dell'Expo", Burchi spiega: "Freddo ai piedi l'avràil ministro perchè era un uomo di stretta osservanza di Lupi questo, eh ma è Comunione e Liberazione". La vicenda che chiama in causa Alfano riguarda l'inchiesta solo in via incidentale. Un imprenditore, Claudio De Eccher, "sottoposto a misura di prevenzione dal Prefetto di Udine" si rivolge a Cavallo, chiedendogli di sollecitare un "urgente intervento del ministro degli Interni". Qualche minuto dopo, annota il gip, Cavallo "ha inoltrato la lettera di posta elettronica ricevuta da Claudio De Eccher al ministro Lupi, chiedendogli un incontro". Il 18 luglio 2014, Cavallo, "dopo essersi incontrato con il ministro Lupi, ha telefonato a Claudio De Eccher dicendogli: 'Io ho parlato con lui, aveva giàparlato sia con l'avvocato sia con Angelino'". Il nome di Alfano viene fatto anche da un consigliere del ministero delle infrastrutture, Giovanni Gaspari, che, nel febbraio 2014, quando Incalza viene rinominato alla struttura di missione, sbotta: "È veramente una schifezza tale che non ne posso più, mi viene da vomitare, si sono scatenati tutti alla difesa di Incalza oggi, sono passati da Alfano a Schifani ai general contractor". I rapporti di Incalza con la politica sono frequenti. Il gip scrive, per esempio, che utilizza la sua influenza per favorire l'assunzione del figlio di un "più volte deputato" e annota come mediti di avvisare Massimo D'Alema quando non gradisce un'intervista in cui Francesco Boccia critica una "certa alta burocrazia ministeriale". Il gip ritiene poi che sia "da chiarire" il rapporto fra Pacella e un ispettore della Guardia di Finanza in servizio alla segreteria del viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini. L'ispettore si chiama Massimo Romolini, che oggi si dice "a disposizione per chiarire qualsiasi cosa". Per quel che riguarda i prossimi passi dell'inchiesta, per domani è in programma l'interrogatorio di garanzia a Incalza, in carcere a Roma. "È un processo di corruzione in cui manca la materia prima, cioè i soldi", ha detto il suo difensore, l'avvocato Titta Madia, che sta valutando la possibilità di sollevare la questione della competenza territoriale.
Grandi opere, dalle carte spunta anche D’Alema, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”.
Il ministro Lupi si sarebbe dato da fare per cercare un lavoro al figlio. Ma lui nega. Spuntano come funghi e spesso finiscono nel tritacarne mediatico. Come in ogni grande indagine i nomi eccellenti vengono messi nero su bianco. Gli indagati, intercettati, parlano a ruota libera, anche con persone che con le inchieste non c’entrano nulla. Ma alla fine, comunque, il loro nome viene inserito in atti giudiziari. Uguale, vengono considerati comunque come presunte persone che in un modo o nell’altro hanno avuto un ruolo o un rapporto con chi invece avrebbe effettivamente commesso un reato. L’inchiesta di Firenze, dunque, non si distingue dalle altre. Anche in questo caso infatti non mancano nomi "vip" pronunciati da chi da due anni è nel mirino dei carabinieri del Ros coordinati dai pm toscani. Tra questi, c’è il nome di Massimo D’Alema che come molti altri non è in alcun modo coinvolto nell’inchiesta. A citarlo nelle carte è Ercole Incalza, principale indagato. Era l’8 giugno del 2014 quando l’ex dirigente del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, dopo aver letto alcuni articoli di giornale riguardo le vicende relative al Mose di Venezia, viene intercettato: «Chiamiamo... avvisiamo D’Alema...» afferma l’uomo. Bastano tre parole per far finire nel mare magnum di un’inchiesta giudiziaria anche l’ex Presidente del Consiglio. La telefonata però è chiara e il nome del politico viene citato da un indagato che vorrebbe intervenire su articoli poco graditi. Servizi giornalistici che portano Incalza a confidarsi con Sandro Pacella e, dopo avergli parlato dell’articolo, gli dice «mi devo vedere con Lupi assolutamente... questa cosa è molto seria». Anche il Ministro è spesso citato negli atti pur non essendo indagato. Accade ad esempio nella vicenda relativa al porto di Olbia, uno dei grandi appalti "sospetti". Franco Perotti, arrestato, nell’ottobre scorso scopre di avere una forte concorrenza per quanto riguarda il progetto. È un grande affare e quindi l’uomo «si attiva immediatamente nel segnalare a Franco Cavallo (altro arrestato, ndr ) che ha stretti legami con il vertice del ministero delle Infrastrutture, l’esistenza del problema». «Il 21 ottobre 2013 Franco Cavallo chiede un appuntamento ad Emmanuele Forlani della segreteria del Ministro Lupi». Dieci giorni dopo «Stefano Perotti aggiorna Giorgio Mor sugli sviluppi dell’affidamento dell’incarico di progettazione per i lavori del porto di Olbia riferendogli che il 12 novembre successivo andrà a parlare con il capo, cioè con il commissario Fedele Sanciu». Lo stesso giorno Cavallo «telefona a Fedele Sanciu, e, presentandosi come "l’amico di Maurizio", gli accenna soltanto che andrà a trovarlo in Sardegna quanto prima». Qualche ora dopo Franco Cavallo ritelefona a Fedele Sanciu il quale subito fa presente: «Mi ha telefonato il ministro». Cavallo risponde: «... Sì sì... so tutto ero con lui... ma noi ci siamo visti... ci siamo già conosciuti sulla sua barca... ero con Maurizio qualche volta... senta... io vorrei venire da lei.. a trovarla...». «Particolarmente significativa al fine di comprendere il giro di interessi e l’influenza che Stefano Perotti ha sul "mondo politico" – si legge negli atti - è la vicenda relativa al conferimento dell’incarico a Luca Lupi, figlio del ministro Maurizio Lupi». Nel gennaio Perotti «nell’informare il cognato di essere riuscito a convincere i dirigenti dell’Eni ad avviare un’attività di progettazione a loro affidata – continuano gli atti - gli prospetta la necessità di far lavorare in quest’appalto un giovane pagato da loro stessi ("... e metterei un direttore ... un giovane che ho bisogno di far entrare... ovviamente è rimborsato da noi..."). Il riferimento ad alcune indicazioni contenute nel curriculum e il suggerimento a Giorgio Mor ("... è figlio di un mio amico che hai conosciuto anche tu...") lasciano ritenere che si tratti di Luca Lupi(...). Il 10 febbraio 2014 Luca Lupi si vede con Stefano Perotti presso il cantiere della City Life e, dopo meno di un’ora, il secondo telefona al suo ufficio ravennate e chiede alla dipendente quale sia la procedura più conveniente ai fini contributivi per l’assunzione di un «ragazzo... che deve prendere 2.000 euro più iva». Dalle carte dell’inchiesta emerge che anche il ministro Maurizio Lupi si sarebbe dato da fare per trovare un lavoro al figlio. Circostanza però che lui ha negato. Cavallo sarebbe un uomo chiave: «Anche Claudio De Eccher – si legge negli atti - ricorre a Franco Cavallo per raggiungere le autorità istituzionali». Gli inquirenti scrivono inoltre: «Va segnalato che l’imprenditore Claudio De Eccher è stato sottoposto a misura di prevenzione dal Prefetto di Udine». Nel luglio 2014 Claudio De Eccher rivolge a Franco Cavallo una precisa richiesta: «A questo punto te lo chiedo in modo... in modo molto... come dire?... deciso... bisogna che tu ne parli e che ne parliate anche con il ministero degli Interni...». Egualmente esplicito è Claudio De Eccher in una mail indirizzata a Cavallo: «Ti chiedo a questo punto il grande favore di informare di quanto sopra il nostro comune amico con preghiera di urgente intervento sul ministero degli Interni». Effettivamente Franco Cavallo, dopo appena pochi minuti, inoltra la mail al ministro Lupi chiedendogli un incontro. «Il 18 luglio 2014 Franco Cavallo, dopo essersi incontrato con il ministro Lupi, ha telefonato a Claudio De Eccher dicendogli: "Io ho parlato con lui... aveva già parlato sia con l’avvocato sia con Angelino"».
La “ditta” del PD coinvolta nell’inchiesta sulla corruzione negli appalti Tav e grandi opere, scrive Andrea Mollica sul sito web di Gad Lerner. L’inchiesta della procura di Firenze sulla corruzione negli appalti per la costruzione delle linee ad alta velocità così come per le grandi opere coinvolge alcuni esponenti del PD, oltre a diversi politici di Nuovo Centrodestra. Uno dei nomi legati alla “ditta” democratica è Antonio Bargone, deputato per il Pci/Pds e più volto sottosegretario ai Lavori pubblici, nei governi guidati da Romano Prodi e Massimo D’Alema. Dopo la politica Bargone è diventato un manager nel settore delle infrastrutture. Attualmente l’ex deputato del Pds guida la società autostradale Sat-Tirrenica. Bargone è indagato per induzione indebita (la vecchia concussione) in relazione ai lavori dell’autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, “grande opera di cui Incalza ha la responsabilità procedimentale quale capo della Struttura Tecnica di Missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti”. Altri esponenti legati al PD finiti sotto inchiesta sono Alfredo Peri e Vladimiro Fiammenghi, ex assessori dell’Emilia-Romagna nelle giunte di Vasco Errani, Graziano Pattuzzi,ex presidente della provincia di Modena ( con la Margherita) e Giovanni Li Calzi, figlio di un ex assessore milanese del Pci. Non è la prima volta che nomi legati alla “ditta” ex Pci siano collegati all’inchiesta relativa alla corruzione nel settore degli appalti pubblici. In un precedente momento di questa inchiesta è stata coinvolta l’ex presidente dell’Umbria Maria Rita Lorenzetti, esponente dei Ds indagata per le sue presunte attività illecita da presidente di Italferr. Un’altra politica passata dalle responsabilità istituzionali a incarichi nelle realtà aziendali che vivono di commesse pubbliche. Secondo i magistrati il nuovo scandalo, che ha portato all’arresto di Ercole Incalza, sarebbe stato favorito dalla norma del Codice degli Appalti che ha portato alla creazione della figura del “general contractor”, ovvero il controllo dei lavori affidato alla stessa società che li realizza.
"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede ed gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.
La seconda generazione di Tangentopoli. Perotti, Li Calzi, Trane, Gaspari: hanno ereditato da padri e zii le posizioni chiave negli appalti. E adesso li sostituiscono anche come protagonisti degli scandali. Lo spaccato più amaro di come funziona l'Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Largo ai giovani. Basta con i vecchietti di Mani Pulite, gli anziani reduci alla Primo Greganti e Gianstefano Frigerio che hanno continuato a smistare mazzette per decenni. Anche per loro è arrivata la rottamazione, perché adesso la scena è tutta per la seconda generazione di Tangentopoli: i figli di coloro che vent'anni fa dominavano il mercato delle bustarelle e degli appalti. L'inchiesta di Firenze segna uno storico passaggio di testimone, anzi di imputato: nel 1992 erano stati i padri a finire in cella, adesso la stessa sorte tocca a loro. L'ereditarietà della corruzione è incarnata dalla saga della famiglia Perotti. Negli anni Sessanta Massimo è stato l'enfant prodige degli appalti: entra all'Anas con concorso ed è il più giovane ingegnere a dirigere i lavori dell'Autosole. Scala la gerarchia interna fino a diventare direttore generale dell'Azienda pubblica: costruisce due terzi delle strade siciliane, arbitrando quei cantieri che fanno da sfondo al “Giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. Una carriera che negli anni Ottanta lo porta alla presidenza della Cassa del Mezzogiorno, la più grande mangiatoia della Prima Repubblica, con l'incarico di liquidarla. Venne arrestato dalla procura di Milano nel 1985, in uno scandalo di grandi opere e finanziamenti alla politica che anticipava Mani Pulite: la vittima più celebre fu Pietro Longo, il segretario del Psdi, che perse la poltrona e si ritrovò poi per cinque mesi a Rebibbia con una condanna definitiva. Perotti senior dovette lasciare la Cassa, pur respingendo le accuse di concussione. Dopo un mese di cella è tornato a casa. E che casa: una villa che domina Firenze, usata pochi mesi fa per girare lo spot di un marchio di calze interpretato da Julia Roberts. Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere.di Andrea Lattanzi. La dimora con vista sulla cupola di Brunelleschi non è l'unico lascito che Massimo Perotti ha consegnato all'erede Stefano, protagonista assieme a Ercole Incalza dell'ultima retata. In un ventennio di appalti il babbo aveva intessuto rapporti con tutti i signori delle infrastrutture, un capitale senza prezzo, trasmesso integralmente al rampollo. Lo racconta la moglie di Perotti junior, parlandone al figlio Philippe, destinato a essere il terzo della dinasty: «Tuo padre sì si è sposato a 23 anni, a 24 ha dato la tesi a 25 aveva appena appena iniziato a lavorare. Come te, uguale. E non aveva fatto un cazzo nella vita. Aveva avuto tanto da suo padre, perché aveva avuto già una casa, il permesso di sposarsi senza guadagnare però nient'altro». Eccolo, il modello dominante dell'Italia di sempre: il merito non esiste, contano le relazioni, conta essere dentro il giro importante, dimostrare la fedeltà a una consorteria. «Per cui tu non devi pensare: “Io oggi non sono come papà”... Perchè che tu ti devi paragonare con i soldi che fa papà è questo che sbagli Philo... Perchè papà oltretutto se guadagna bene e tanto e anche perchè ci sono state delle coincidenze. Papà è bravo... però ha avuto delle coincidenze fortunate di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre... okay? Grazie ad un certo giro di politica... lavori pubblici eccetera che non è detto che in futuro sarà sempre uguale a come è stato fino adesso...». Il passaggio dinastico è simile anche per Giovanni Li Calzi, figlio dell'architetto rosso di Tangentopoli. Il padre Epifanio ebbe un posto in pole position: fu Mario Chiesa ad accusarlo nel primo verbale firmato a San Vittore. Progettista di grido, ex assessore ai Lavori Pubblici delle giunte di sinistra della Milano da bere, alla fine di febbraio 1992 Epifanio Li Calzi fu chiamato a sostituire proprio il “mariuolo” Chiesa come direttore dei lavori dell'ospedale Sacco. L'incarico durò poco: è entrato in carcere come collettore del Pci-Pds nella spartizione metropolitana. Era già stato indagato quattro anni prima, nello scandalo delle “Carceri d'oro” e poi assolto. Dai processi di Mani Pulite invece esce grazie alla prescrizione. E torna in affari. Con il figlio Giovanni Li Calzi crea la InAr, che macina appalti in Lombardia e nel mondo: costruiscono i padiglioni degli ospedali in Brianza e nel Sud Sudan. Creano anche una fondazione per promuovere l'architettura sociale. Ormai il suo passato rosso è dimenticato e gravita nell'area ciellina, la stessa del ministro Maurizio Lupi ma soprattutto del Celeste Roberto Formigoni che dal Pirellone domina la Regione. Li Calzi senior è morto l'anno scorso, quando il quarantenne Giovanni – come dimostrano le intercettazioni del Ros che lo hanno fatto finire nel registro degi indagati – è ormai pienamente inserito nel sistema di potere. Una grande differenza tra padri e figli è l'orientamento politico. La prima generazione aveva referenti chiari nei partiti. Perotti era considerato uomo del Psi, Li Calzi del Pci anche se gli atti giudiziari li descrivono come maestri nell'applicare il manuale Cencelli alla spartizione degli appalti: sanno stare al mondo e dialogare con chiunque. I quarantenni si sono evoluti e sembrano avere sostituito i rapporti personali alle tessere. Come Pasquale Trane, erede del leggendario Rocco ed esponente di punta della “Sinistra ferroviaria” di matrice socialista. Rocco Trane era l'ombra di Claudio Signorile, potente ministro dei Trasporti, il factotum nelle transazioni oscure. Come le mazzette sul piano aeroporti da 1350 miliardi di lire che gli fruttarono una condanna per concussione. Ma solo in primo grado. Perché la prescrizione è stata una benedizione per gli assi di denari della Prima Repubblica. Rocco Trane si è spento all'improvviso due anni fa, mentre partecipava al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione: un altro indizio di come si sia spostato il baricentro degli interessi. Ma il giovane Pasquale è rimasto lungo gli stessi binari: sempre treni, anche se ad alta velocità. Per i quali adesso è sotto inchiesta. Nel settore di famiglia si è radicato un altro nome da amarcord: Giovanni Paolo Gaspari, nipote di quel Remo entrato negli annali come il “cementificatore d'Abruzzo”. Lo zio è stato un pilastro della Dc, al governo per quasi trent'anni; il giovane subito dopo la laurea è entrato alla Comunità europea, due anni dopo era all'Eni. Nel 1994 è direttore finanziario della Tav e dal 2001 con Pietro Lunardi si installa al dicastero delle Infrastrutture, come consigliere del ministro, incarico che ha mantenuto ancora oggi passando indenne attraverso i cambiamenti di maggioranza. È sua la frase intercettata che per i pm incastra Ercole Incalza: «Ercolino… è lui che decide i nomi… fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro…o dominus totale».
Corruzione, Mose Expo e Mafia Capitale: il 2014 anno dei grandi scandali, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Il "classico" di grandi opere e imprenditori a Venezia, il ritorno di Tangentopoli a Milano e la "quinta mafia" a Roma. Mentre l'Italia diventa primatista in tutta Europa, sorpassando anche Grecia e Bulgaria nella classifica di Transparency. La mazzette non finiscono mai. E i “tangentari” di destra e di sinistra ritornano e, in alcuni casi, diventano “mafiosi”. Il 2014 è stato un anno contraddistinto da tre grandi scandali: Mose (Venezia), Expo (Milano) e Mafia Capitale (Roma). Ed è stato anche l’anno in cui l’Italia ha raggiunto il triste primato per il reato di corruzione in Europa, sorpassando anche Grecia e Bulgaria, secondo la speciale classifica di Transparency. L’inchiesta veneziana è un classico delle bustarelle made in Italy: grande opera e imprenditori che foraggiano la politica per ottenere appalti. Quella milanese ha riportato in carcere, anche se per poco tempo, alcuni personaggi storici della Tangentopoli anni ’90 come il compagno G., Primo Greganti, o l’ex Dc, Gianstefano Frigerio. L’indagine romana invece ha rivelato l’esistenza a Roma di quella che potrebbe essere considerata la quinta mafia d’Italia. Italia prima nella classifica della corruzione di Transparency davanti a Grecia e Bulgaria. A giugno è deflagrato il caso Mose: 35 arresti, tra cui il sindaco Pd Giorgio Orsoni, e la richiesta del carcere per l’ex ministro Fi Giancarlo Galan. A sei mesi dalle misure cautelari e gli avvisi di garanzia i pm di Venezia stanno per chiudere l’indagine e nel registro degli indagati sono finiti anche i deputati democratici Mognato e Zoggia. All’ex primo cittadino, che è stato sentito nei giorni scorsi in Procura, il gup ha respinto il patteggiamento mentre per l’ex governatore del Veneto il gip ha disposto gli arresti domiciliari. Quello che sarà sull’indagine sugli appalti del sistema di dighe anti-acqua alta e sul finanziamento illecito ai partiti si vedrà nei prossimi mesi. Invece la prima parte dello scandalo Expo, esplosa a maggio, si è già chiusa con patteggiamenti e poco carcere per i principali imputati. Il gup Milano ha accolto, tra le altre, le richieste dell’ex segretario della Dc milanese all’epoca di Tangentopoli Gianstefano Frigerio, dell’ex cassiere di Pci e Pds Primo Greganti e dell’ex senatore Fi Luigi Grillo. Pena massima, 3 anni e 4 mesi. E così sei dei sette imputati, già liberi o ai domiciliari, potranno accedere in tempi brevi alle misure alternative. E la grande politica è rimasta fuori dal registro degli indagati. Almeno per ora. Altre inchieste sono aperte. Da registrare, in una fase così delicata, l’esautorazione del coordinamento del dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione dell’aggiunto Alfredo Robledo da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. In fase di chiusura l’indagine Mose, patteggiamenti e poco carcere per corrotti e corruttori dell’inchiesta Expo. C’è poi Mafia Capitale, l’inchiesta sul “mondo di mezzo”, che ha svelato l’esistenza di un’organizzazione, considerata mafiosa dagli inquirenti di Roma, capace di intimidire, corrompere politici di ogni schieramento e metter le mani sugli appalti del Campidoglio e della Regione Lazio. Un’indagine, quella coordinata dal ex procuratore capo di Palermo e Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che ha portato a tre tranche di arresti e all’iscrizione nel registro degli indagati per 416bis anche l’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Un gruppo, quello guidato da Massimo Carminati ex banda della Magliana ex terrorista Nar ora al 41bis per ordine del ministro della Giustizia, capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, di manipolare le nomine e indirizzare le scelte politiche dell’amministrazione, finanziare cene e campagne elettorali, affiliare imprenditori e usare la forza. Tanto da far scrivere al New York Times che non “c’è angolo di Itali immune dalla criminalità”. A chiudere l’anno l’inchiesta su Mafia Capitale, capace di corrompere politici di destra e di sinistra, inquinare appalti e affiliare imprenditori. Il clamore per le inchieste ha spinto il governo di Matteo Renzi ad aprire prima una discussione in estate e poi ad approvare qualche giorno fa nuove norme contro la corruzione. Ma i provvedimenti sono stati criticati con forza dall’Associazione nazionale magistrati e anche dal procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti. Era stata chiesta, anche da Pignatone e dal presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, l’estensione degli strumenti che si utilizzano per combattere la mafia ai reati dei colletti bianchi come i “premi” per i pentiti. Richiesta allo stato rimasta inascoltata. E così Mose, Expo, Mafia Capitale, probabilmente, non resteranno un unicum nel paese che non si lascerà mai alle spalle Mani pulite. Sia per gli appalti e le gare per l’Esposizione universale (ci anche altre indagini ancora parte), sia per l’inchiesta dei pm Roma gli accertamenti non sono ancora terminati e la sensazione che il 2015 potrebbe essere un anno ancora da record in negativo per il nostro paese.
16 marzo 2015. Da oggi non solo “Mose, expo, mafia capitale”, si aggiunge TAV, scrive “News Pedia”. E’ da qualche mese che, quando si voleva descrivere l’operato della classe mala-politica, si usavano queste tre sigle, a massima espressione delle infiltrazioni malavitose nel vissuto di Stato: “Mose, Expo, Mafia capitale”. Da questa mattina, 16 Marzo 2015, si potrà aggiungere una nuova altisonante sigla, alla lista delle opere su cui è conclamata un’indagine delle procure, con qualche manetta al seguito, la TAV. L’indagine parte dalla Procura di Firenze, e ha colpito a Roma e Milano con 4 arresti ed almeno una cinquantina di indagati, grazie alla mano ferma dei carabinieri del Ros. L’accusa è gestione illecita degli appalti nelle Grandi Opere. Si tratta, secondo chi ha condotto le indagini, di un “sistema corruttivo articolato”. A finire in manette Ercole Incalza, al secolo super dirigente del ministero dei Lavori Pubblici, ed il suo collaboratore Sandro Pacella. Gli altri due ammanettati sono gli imprenditori Francesco Cavallo e Stefano Perotti. Tutti “frequentatori dei ministeri”, e in particolare Pacella, ad oggi ancora funzionario del ministero dei Lavori Pubblici, a stretto contatto con Ercole Incalza, che vanta una lunga carriera politica sotto i colori più disparati. Arrivato nel 2001 a Palazzo Chigi come capo di segreteria tecnica sotto il governo Berlusconi, Incalza avrebbe “festeggiato” l’anno venturo il quindicesimo anno di permanenza nei palazzi del potere. Sopravvissuto al governo Prodi, permane nell’ennesimo governo Berlusconi, confermato da Corrado Passera per il governo Monti, e ancora poi da Lupi (sia governo Letta che Renzi). L’accusa è incentrata principalmente su di lui, definito dagli inquirenti “potentissimo dirigente” del ministero e “priuncipale artefice del sistema corruttivo”, un autentico “dominus” della struttura tecnica del ministero. Le indagini sono partite e coordinate da Firenze per una ragione ben precisa, tutto nasce da un filone interessante gli appalti per l’Alta velocità in Firenze, e il piano di sotto-attraversamento della città toscana. In realtà la TAV di Firenze non è nuova alle procure, già nel 2013 Maria Rita Lorenzetti, dirigente Italferr di area centrosinistra, viene posta agli arresti domiciliari, con le accuse di associazione per delinquere, abuso di ufficio, corruzione e traffico di rifiuti, nell’ambito di una indagine sulla TAV fiorentina. Dalle indagini svelate oggi sembra emergere che il malaffare nella TAV Firenze non fosse affatto stato sventato.
Riecco la cricca delle Grandi Opere, scrive Domenico Camodeca su “L’Indro”. Arrestato per corruzione il boiardo di Stato Incalza. Mafia Capitale prepara la festa ai cristiani. Calma piatta in parlamento. Le irrimandabili riforme (almeno secondo Matteo Renzi) restano congelate fino a dopo le elezioni regionali del 31 maggio a causa dei soliti, squallidi, giochi di Palazzo. Ma le attenzioni mediatiche sono tutte concentrate sui nuovi clamorosi casi di corruzione. Ancora tangenti Tav e Expo, tra gli arrestati anche il manager bipartisan e Signore delle Grandi Opere Ercole Incalza: Beppe Grillo pretende una legge anticorruzione subito. Il M5S chiede le dimissioni di Maurizio Lupi: il figlio assunto da uno dei fermati (ma il ministro nega sia un favore), rolex e abiti sartoriali regalati da un altro. Intanto Mafia Capitale si prepara al Giubileo delle poltrone: voci per ora smentite su Francesco Rutelli commissario straordinario. Sul versante politico, Maurizio Landini lancia una ‘coalizione sociale’ a sinistra del Pd, ma per il momento anche Susanna Camusso si smarca. Solo il dissidente Dem Alfredo D’Attorre raccoglie in parte l’appello del leader Fiom e convoca un’assemblea per sabato prossimo. Grazie all’effetto Mose il civatiano Felice Casson trionfa nelle primarie del centrosinistra a Venezia battendo il renziano Nicola Pellicani. Dopo la defenestrazione di Flavio Tosi, Matteo Salvini prova a ricucire con Silvio Berlusconi, ma perde 3 senatori. Sergio Mattarella a via Fani per il 37° anniversario del rapimento di Aldo Moro, ma il mistero sulla vicenda resta fitto. Muore a 88 anni l’ex AN Gustavo Selva. Expo, Tav, Mose, ma anche l’intramontabile G8. L’elenco delle Grandi Opere finite nelle inchieste delle procure del Belpaese è veramente completo. Già da tempo, grazie a galantuomini come Guido Bertolaso, Angelo Balducci, Diego Anemone e agli altri protagonisti della cosiddetta cricca delle Grandi Opere, gli italiani erano al corrente dell’immenso giro di denaro sporco allestito nel 2009 in occasione del G8 dell’Aquila e dei Mondiali di Nuoto. Oggi arriva la notizia dell’arresto per corruzione ordinato dalla procura di Firenze di Ercole Incalza (insieme ad altri pesci piccoli), il potentissimo ex dirigente del Ministero dei Lavori Pubblici (con 2 governi Berlusconi, ma anche Prodi, Monti, Letta e Renzi), attualmente solo consulente esterno. Tutte le principali Grandi Opere, in particolare gli appalti relativi alla Tav Firenze e alcuni riguardanti l'Expo, ma non solo, rende noto la procura fiorentina che coordina le indagini, sarebbero state oggetto dell’«articolato sistema corruttivo» architettato dalle persone arrestate e indagate. Sul cadavere della legalità italiana si getta come un rapace Beppe Grillo che, riferendosi ad Incalza, commenta sul web: «L'hanno appena arrestato. Ora ne vedremo delle belle. Tutti in galera. Ora subito legge anticorruzione». In realtà il M5S già a luglio aveva presentato un’interrogazione parlamentare al ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi sull’ambiguo ruolo di Incalza. In quell’occasione il rappresentante di ‘Comunione e Fatturazione’ (così i detrattori chiamano CL) si era speso in una sperticata quanto improvvida difesa del supermanager. E oggi il grillino Alessandro Di Battista posta su twitter l'imbarazzante video di Lupi aggiungendo spietato: «Ministro si ricorda come difendeva Incalza di fronte a noi? Oggi l'hanno arrestato!». Il governo Renzi sarà finalmente costretto ad approvare una vera legge anticorruzione scontentando Berlusconi e Alfano? Difficile. A proposito di affari sporchi, il gioco delle ‘quattro poltrone’ (una volta si chiamavano cantoni) colpisce anche Roma Capitale, meglio nota come Mafia Capitale. L’annuncio di un Giubileo straordinario fatto a sorpresa da papa Francesco venerdì scorso, ha avuto l’effetto di un terremoto sulle istituzioni italiane e capitoline, scatenando al contempo gli appetiti affaristici della solita cricca dei Grandi Eventi. Il sindaco Ignazio Marino ha subito battuto cassa con il governo, respingendo al mittente l’ipotesi di affidare la gestione dell’evento ad un commissario straordinario. Dal Campidoglio hanno fatto sapere che «nel 2000 il commissario lo fece il sindaco di allora», proprio quel Francesco Rutelli che adesso molti indicano come possibile coordinatore del nuovo Giubileo. Ipotesi a cui Marino ha subito chiuso la porta specificando che «questo è il Giubileo della Misericordia, non della cuccagna e delle poltrone». Ma quando si parla di Roma Ladrona la lingua del solito Salvini si scioglie senza freni: «Per Marino e Renzi la città è pronta, per me no. Lo sono affaristi, trafficoni e amici di Mafia Capitale». E come dargli torto visti i precedenti? Stasera, comunque, è in programma un summit tra sindaco e assessori in Campidoglio, mentre il sottosegretario alla P.A. Angelo Rughetti (Pd) provoca il Vaticano proponendo ai taccagni porporati di mettere mano al portafoglio. Le primarie del centrosinistra svoltesi domenica scorsa a Venezia stanno lì a dimostrare che il ‘sistema Renzi’ può implodere facilmente di fronte agli scandali di corruzione di cui si rende responsabile la classe dirigente e imprenditoriale italiana. Non si spiegherebbe altrimenti, se non con l’effetto Mose (l’inchiesta su tangenti e corruzione in Laguna), la limpida vittoria ottenuta dall’ex magistrato Felice Casson. Vero che Casson è persona conosciuta e stimata per la sua probità, ma è altrettanto vero che lui stesso ha scelto di essere civatiano, ovvero seguace delle ‘idee’ di Pippo Civati, l’eterno oppositore interno del Pd. Vincere, anzi stravincere, pur essendo civatiano, con oltre il 55% delle preferenze contro il 24% del favorito del Palazzo Nicola Pellicani, significa per l’ex pm aver intercettato appieno lo scontento e il disgusto per il renzismo imperante del ‘veneziano medio’. «Il nostro popolo», così festeggia oggi Casson intervistato da ‘Repubblica’, «ha chiesto di voltare pagina con forza, nel nome della trasparenza, della legalità e dell'etica. Un segnale importante, ha vinto tutta Venezia». A sinistra del Pd, invece, qualcosa si sta muovendo. Sabato scorso il segretario della Fiom Maurizio Landini ha riunito a Roma il primo nucleo (assai sparuto per la verità) di quella coalizione sociale che, nelle intenzioni del Saldatore della sinistra, dovrebbe opporsi alla visione neoliberista brussellese di cui il governo Renzi è il fedele esecutore in Italia. Ieri, ospite della tribuna domenicale di Lucia Annunziata, Landini ha confermato di non voler trasformare il sindacato in partito, criticato le iniziative di governo e Confindustria che «hanno tolto diritti a tutti», ribadito la necessità di «una riforma del sindacato e anche della Cgil» che in passato hanno commesso l’errore di abbandonare i lavoratori non garantiti e, infine, ripetuto di voler combattere «la battaglia contro il jobs act e per un nuovo statuto dei lavoratori». Tiepide, per non dire gelide, le reazioni dei liderini degli altri partitini della galassia rossa, tutti ciecamente gelosi del loro misero orticello. Il discorso vale per Nichi Vendola di Sel, Paolo Ferrero del Prc, ma anche per Susanna Camusso della Cgil e per lo stesso Pd. Paradossalmente, però, è proprio dal partitone della nazione renziano che arrivano dei tiepidi segnali di apertura. Le famigerate minoranze Dem hanno organizzato per sabato prossimo un’assemblea, a cui parteciperanno esponenti di Cgil e Sel, dal titolo inequivoco: A sinistra del Pd. Anima dell’ennesimo rassemblement della gauche italica è il bersaniano Alfredo D’Attorre che oggi su Repubblica definisce Landini un «interlocutore importante», ma nega che sabato «nascerà un correntone antirenziano». Sarebbe stata troppa grazia per chi in Italia ha ancora il coraggio di definirsi di sinistra. Ma il cortocircuito delle alleanze si sta verificando, ormai da tempo, anche nel centrodestra. Dopo essere stato cacciato dalla Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi ufficializza la sua personale candidatura a governatore del Veneto. Contro il leghista ufficiale Luca Zaia e contro la ‘ladylike’ renziana Alessandra Moretti. Un Tosi riscopertosi moderato (gli ex alleati di Forza Nuova hanno inscenato il suo funerale politico nel capoluogo scaligero) che adesso fa paura a Salvini. Il leader leghista si dimostra sprezzante verso un traditore che potrebbe allearsi con il «nulla» di Angelino Alfano e con Corrado Passera, ma teme la decisione di Forza Italia. Il consigliere di Berlusconi Giovanni Toti ha già avvertito l’altro Matteo di moderare i toni se non vuole perdere l’alleanza con gli azzurri in Veneto. Per questo è già in programma un nuovo incontro tra il Cav e felpetta nera.
L'inchiesta sulle "grandi opere" e quelle preoccupazioni di Renzi. Anche per le ombre sull'Expo, l'indagine rischia di offuscare agli occhi della Ue l'immagine delle riforme del governo. Che chiede chiarezza immediata, scrive “Panorama”. "Chi sta realizzando l’Expo", ha detto Matteo Renzi nel corso dell'ultima sua visita ai cantieri milanesi, "sta costruendo una grande cattedrale laica". Ma a quanto pare con qualche peccato laico di troppo, almeno stando alle carte dell'inchiesta sulle "grandi opere" condotta dalla procura di Firenze, che ha portato all'arresto di quattro persone tra cui Ercole Incalza, dirigente ai Lavori pubblici per 7 governi incluso l'attuale esecutivo (anche se dal ministero delle Infrastrutture precisano che non ha più incarichi dallo scorso dicembre e che era un consulente esterno), e ad altri 51 indagati. Secondo i magistrati, tra le "grandi opere" macchiate da affari illeciti ci sarebbe infatti anche l'appalto per il Palazzo Italia, progetto di "architettura-paesaggio" del padiglione italiano dell'Expo, con la commessa del valore di oltre 25 milioni di euro che sarebbe stata pilotata grazie agli stretti rapporti tra Stefano Perotti, imprenditore arrestato contemporaneamente a Incalza, e l'allora manager di Expo 2015 spa Antonio Acerbo, finito ai domiciliari lo scorso ottobre in una tranche dell'inchiesta milanese sulla cosiddetta "cupola degli appalti". Stando all'imputazione, Acerbo - che ha firmato il bando per Palazzo Italia - avrebbe turbato la gara "pilotandone l'aggiudicazione in favore" dell'impresa Italiana Costruzioni, alla guida di un'associazione temporanea di imprese (composta anche dal Consorzio Veneto Cooperativo). Suoi presunti complici sarebbero stati Perotti, "quale professionista interessato alla progettazione e direzione dei lavori" dell'opera, Giacomo Beretta, ex assessore milanese al Bilancio della Giunta Moratti, Castellotti e anche i "referenti della stessa Italiana Costruzioni", Attilio Navarra (presidente del cda), Luca Navarra e Alessandro Paglia. Sempre secondo gli inquirenti, che basano le loro accuse anche su una corposa serie di intercettazioni telefoniche, Acerbo - che avrebbe redatto un bando ad hoc - e gli altri indagati si sarebbero accordati "preventivamente e clandestinamente" per quella gara, aggiudicata nel dicembre 2013. Inoltre, nel capitolo dell'ordinanza del gip di Firenze relativo a Palazzo Italia si parla anche di una richiesta da parte di Perotti di incontrare il ministro dell'Infrastrutture Maurizio Lupi. Il 3 gennaio 2014, si legge, "Perotti nel riportare che si è accordato con l'ing. Incalza per incontrarsi presso la sede di Expo 2015, chiede a Franco Cavallo (altro imprenditore arrestato nella giornata di lunedì, ndr) di fare in modo, tramite Emanuele Forlani, di incontrare in ministro Lupi prima che inizi il sopralluogo". E Cavallo "ribatte che il ministro è già informato della richiesta di incontro". Anche se si è ancora nel terreno delle indagini e dei condizionali d'obbligo, ce n'è però abbastanza per preoccupare Palazzo Chigi, che rimane in attesa di un chiarimento da parte del ministro Maurizio Lupi, finito appunto nelle intercettazioni, auspicando al contempo che si faccia luce al più presto sul tutto, non solo sull'Expo, affinché l'impegno del governo contro la corruzione, incarnato in particolare dal commissario Raffaele Cantone, non venga offuscato agli occhi tanto dei cittadini quanto dell'Europa, considerando che sul tema l'Italia è da sempre nel mirino dell'Ue e delle istituzioni internazionali per i danni che ciò comporta alla nostra economia. Concentrato nel cercare di dimostrare all'Unione Europea che il Paese è impegnato nelle riforme e sta cominciando lentamente ad uscire dal tunnel, Matteo Renzi viene raccontato come a dir poco "infastidito" dalle notizie provenienti dall'inchiesta. "Serve chiarezza, in gioco sono l'immagine e la credibilità dell'Italia", incalzano i renziani che, per voce del capogruppo in commissione Giustizia Walter Verini, chiedono di riferire "presto" in Parlamento. E in attesa che la magistratura definisca i confini dell'inchiesta, il premier vuole mandare segnali politici chiari: per questo la "riflessione" per un "tagliando" sulla legge Severino, ipotizzata ieri proprio da Cantone, viene derubricata a opinione personale del commissario. "La Severino non si tocca almeno fino alla sentenza della Consulta", spiegano fonti di maggioranza, che non vogliono alimentare l'idea di cedimenti al proposito, mentre lo stesso Renzi ha chiesto agli alleati di trovare immediatamente (e finalmente) l'accordo sul ddl anti-corruzione per arrivare in tempi brevi alla sua approvazione da parte del Senato. Proprio nella serata di lunedì, tuttavia, la seduta della Commissione Giustizia del Senato con in discussione il disegno di legge anti-corruzione è stata sospesa per mancanza del numero legale dovuta all'assenza proprio dei parlamentari del Pd. Con un presumibile aumento del "disappunto" del premier Renzi.
Grandi opere, spuntano regali al ministro Lupi. "Abito sartoriale per lui e un lavoro al figlio". Nelle carte dell'inchiesta sugli appalti anche il titolare delle infrastrutture, che non è indagato. Secondo l'accusa avrebbe ricevuto doni per sé e per il figlio, incluso un rolex. La replica: "Mai chiesto favori", scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L’inchiesta di Firenze che ha portato all’arresto dell’uomo delle grandi opere Ercole Incalza punta dritta al ministro delle infrastrutture. Maurizio Lupi, uomo di peso nel governo Renzi in quota Nuovo Centrodestra, non è indagato ma secondo l’accusa, avrebbe goduto di incarichi di lavoro per il figlio Luca e di regali per la famiglia: un vestito sartoriale per Lupi e un Rolex da 10mila euro al figlio, in occasione della laurea. A regalare il vestito al ministro sarebbe stato Franco Cavallo, uno dei quattro arrestati che secondo gli inquirenti aveva uno “stretto legame” con Lupi tanto da dare “favori al ministro e ai suoi familiari". «Da una telefonata del 22 febbraio 2014 – si legge nell'ordinanza – emerge che Vincenzo Barbato (un sarto che avrebbe confezionato un abito per Emanuele Forlani capo segreteria del ministero e ciellino come il suo mentore ndr) sta confezionando un vestito anche per il ministro Lupi». Scambi di favori per accedere direttamente ai ricchi affari di progettazione dei lavori pubblici: dall’Alta velocità ferroviaria ai cantieri per le autostrade come Orte–Mestre e Cispadana fino al porto di Trieste. Al centro il manager pubblico Ercole Incalza che, puntualmente, affidava gli appalti all’imprenditore Stefano Perotti. Secondo il gip «effettivamente Stefano Perotti ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi». Secondo quanto riportato, uno degli indagati, Giulio Burchi, «racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro». Ecco l’intercettazione che svela lo strano intreccio: «Ho visto Perotti l’altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?». Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: «Il nostro Perottubus (soprannome di Perotti) ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco», ha vinto «anche il nuovo palazzo dell’Eni a San Donato e c’ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita».Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere. «Perotti – continua il Gip – nell’ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l’incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale persona fissa in cantiere Luca Lupi» per 2 mila euro al mese. La replica di Lupi è secca: «Non ho mai chiesto all’ingegner Perotti né a chicchessia di far lavorare mio figlio. Non è nel mio costume e sarebbe un comportamento che riterrei profondamente sbagliato. Mio figlio si è laureato al Politecnico di Milano nel dicembre 2013 e in attesa del visto per lavorare negli Stati Uniti ha lavorato da febbraio 2014 a febbraio 2015 presso lo studio Mor di Genova con un contratto a partita Iva per 1.300 euro netti al mese»."Le spiegazioni il ministro Lupi le ha già fornite. Prematuro trarre le conclusioni di colpevolezza di un intero sistema e un intero Governo". Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, ospite a "Otto e Mezzo", a proposito dell'inchiesta di Firenze su appalti di Grandi Opere e Tav. Il ministro conferma quindi l’incarico ricevuto dal figlio dallo studio Mor di Genova, uno degli snodi dell’inchiesta visto che Giorgio Mor è il cognato di Perotti. I due ne parlano a lungo al telefono: il 16 febbraio 2014 Mor sembra voler salvare almeno le forme e chiede al cognato Perotti se fosse possibile assumere il giovane Lupi “in maniera meno formale”: «Ci siamo, abbiamo fatto una riflessione che sembrava poco opportuno era la triangolazione». La “triangolazione”: secondo il gip è un’espressione che mette in relazione tre nomi, cioè Perotti, Mor e Luca Lupi. Il primo riceve l’incarico da Eni per un’attività di progettazione, stipula un contratto con il secondo affidandogli un incarico di coordinatore e il secondo nominerà come “persona fissa in cantiere” il terzo. Ovvero il neolaureato con il cognome di peso. Ecco uno scampolo dell’articolato sistema corruttivo “che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori” secondo i magistrati di Firenze. Tutto partiva dalla “struttura tecnica di missione”, un ufficio del ministero cucita su misura da Incalza e crocevia di presunti favori e mazzette per le imprese che lavorano nei ricchi appalti pubblici. Questa l’intercettazione della telefonata del 16 dicembre 2014 tra il ministro e il suo braccio destro. Secondo gli inquirenti la conversazione «ben rappresenta» l’importanza della struttura alle dirette dipendenze del ministro. «Su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la struttura tecnica di missione non c’è più il governo!», urla la telefono Maurizio Lupi con Ercole Incalza di fronte alla proposta di soppressione o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio. Una crisi di governo con il mancato appoggio del suo partito, il Nuovo Centrodestra, solo annunciata: Incalza lascia il ministero con la fine dell’anno e della ristrutturazione non c'è nessuna traccia. Ora la difesa a spada tratta dell’operato del suo factotum: «L’ingegner Incalza – spiega Lupi – era ed è una delle figure tecniche più autorevoli che il nostro Paese abbia sia da un punto di vista dell’esperienza tecnica nazionale che della competenza internazionale. Non a caso è la persona che viene definita come il padre della “legge obiettivo” ed il padre della possibilità che nel nostro Paese si siano realizzate le grandi opere».
Ercole Incalza arrestato: cinque anni dopo la cricca, la storia si ripete. Appalti truccati, affidamenti pilotati, mazzette e pressioni, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Cinque anni dopo la storia si ripete. Forse è meglio dire che non si è mai interrotta. Cinque anni fa, più o meno in questi tempi, il Ros dei carabinieri e la procura di Firenze misero le mani sulla cricca del G8, su Balducci, De Santis, Della Giovampaola, Rinaldi, Anemone e tutti gli affari del “sistema gelatinoso” che per anni, dalla cabina di regia della struttura Grandi eventi della presidenza del Consiglio dei ministri ha sottratto al Paese miliardi e miliardi in corruzione e malaffare al Paese. Ieri mattina gli stessi magistrati fiorentini, Luca Turco, Giulio Monferini e Giuseppina Mione sulla base delle indagini svolte dagli stessi uomini del Ros dei carabinieri, hanno firmato l’atto secondo della stessa storia. Cambiano i protagonisti. Salgono sulla ribalta nomi che in quell’indagine erano rimasti sullo sfondo, come il superdirigente del ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza. Forse sono un po’ meno sfacciati i metodi. Il risultato è lo stesso: corruzione, appalti truccati, affidamenti pilotati, il mercato degli appalti pubblici falsato da mazzette, pressioni, ricatti. E il solito giro di “altre utilità”: orologi, abiti, viaggi, posti di lavoro, incarichi. Non pervenuti, al momento almeno, i benefit in forma di massaggi e cene eleganti. Presente, invece, anche oggi il prelato, il monsignore di turno con spiccato senso degli affari. Quanta politica tra gli indagati. Quattro gli arrestati: il super-dirigente del Ministero dei Lavori Pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza, il suo collaboratore Sandro Pacella e gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo. Sono tutti accusati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà delle gare pubbliche e altri delitti contro la pubblica amministrazione. Il gip ha rifiutato un quinto arresto (l’imprenditore Massimo Fiorini). Ma sono una cinquantina gli indagati, ex sottosegretari, ex parlamentari ed ex amministratori locali. C’è Rocco Girlanda, ex sottosegretario ai trasporti ed braccio destro di Denis Verdini; Antonio Bargone, anche lui ex sottosegretario ai Trasporti ai tempi dei governi Prodi e D’Alema e poi presidente della autostrada Sat; l'ex sottosegretario allo Sviluppo economico Stefano Saglia (pdl) poi nel cda di Terna; Vito Bonsignore, ex presidente del gruppo Ppe; l’ex senatore azzurro Fedele Sanciu. Non sono indagati ma nelle intercettazioni spuntano spesso i nomi del ministro Maurizio Lupi, del figlio Luca in quanto beneficiario di un posto di lavoro, un Rolex da diecimila euro e qualche abito di sartoria. E di Riccardo Nencini, viceministro alle Infrastrutture con delega ai lavori pubblici. Sopra tutto e tutti c’è Ettore Incalza: li controlla, li contatta e ottiene il via libera per affidamenti, perizie, direzioni lavori e appalti. In cambio la sua società, la Green Field System, ottiene consulenze e direzioni lavori. Il ruolo di Incalza. Sopravvissuto a sette governi (l’unico che lo allontana è Di Pietro) e una dozzina di inchieste, Ercole Incalza, nonostante la pensione, continua a guidare, come consulente esterno, la struttura tecnica di missione della cosiddette Grandi Opere, organismo del ministero delle Infrastrutture che, ripreso il potere che gli aveva sottratto Balducci con una struttura concorrente, decide la sorte di miliardi di fondi pubblici, segue la progettazione e l'approvazione delle grandi opere. II nome di Incalza è spuntato nell’inchiesta G8, nelle intercettazioni sul Mose e sull'Expo, è indagato per la Tav di Firenze (associazione a delinquere finalizzata a corruzione e abuso). A luglio 2014 i Cinque stelle avevano fatto un’interrogazione alla Camera. Il ministro Lupi aveva difeso fino alla morte l’integrità e le capacità professionali di Incalza. Intanto il figlio lavorava già per una sua società. Il cuore dell'inchiesta. Il gip Angelo Pezzuti affronta in 268 pagine e 19 capitoli tutte le singole accuse mettendo insieme intercettazioni, testimonianze e accertamenti bancari. E individua proprio nella legge il principale alleato dell’oggetto dell’inchiesta: nel 2001, per snellire i tempi di realizzazione delle opere pubbliche, il governo decise che il general contractor era anche il direttore dei lavori. L’inchiesta prende il nome “Sistema” dalla Green Field System srl, società affidataria di numerosi dietro la quale ci sarebbero lo steso Incalza e il costruttore Stefano Perotti. Il “modus operandi” è fondato, scrive il gip, sui “reciproci rapporti di interesse illecito” tra gli indagati. Le società consortili aggiudicatarie degli appalti delle Grandi Opere sarebbero state indotte da Ercole Incalza - capo della struttura di missione competente sulle Grandi Opere - a conferire all'imprenditore Stefano Perotti, o a professionisti e società a lui riconducibili, incarichi di progettazione e direzione di lavori “garantendo di fatto il superamento degli ostacoli burocratico-amministrativi”. In cambio Perotti avrebbe assicurato l'affidamento di incarichi di consulenza o tecnici a soggetti indicati dallo stesso Incalza, destinatario di incarichi “lautamente retribuiti” conferiti dalla Green Field System srl, società affidataria di direzioni lavori. A Francesco Cavallo, sempre secondo l'accusa, veniva riconosciuto da parte di Perotti, tramite società a lui riferibili, una retribuzione mensile di circa 7.000 euro “come compenso per la sua illecita mediazione”. Perotti, responsabile della società Ingegneria Spm e “figura centrale dell'indagine”, sono stati affidati da diverse società incarichi di direzione lavori per la realizzazione di numerose "Grandi Opere", ferroviarie e autostradali. Tra queste figurano l’Alta velocità Milano-Verona, il nodo Tav di Firenze per il sotto attraversamento della città; l’alta velocità Firenze Bologna, la Genova-Milano, il Terzo Valico di Giovi, l'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, l'autostrada Reggiolo Rolo-Ferrara, l’autostrada Eas Ejdyer-Emssad in Libia, il nuovo terminal del porto di Olbia. Perotti avrebbe anche “influito” illecitamente sull’aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo 2015. La commessa del valore di oltre 25 milioni di euro sarebbe stata pilotata grazie agli stretti rapporti tra Perotti e l'allora manager di Expo 2015 spa Antonio Acerbo, finito ai domiciliari in ottobre. In generale l’inchiesta documenta le relazioni instaurate da Perotti con funzionari delle stazioni appaltanti interessate alle opere in questione, “indotti – si legge nell’ordinanza - ad inserire specifiche clausole nei bandi finalizzate a determinarne l'aggiudicazione”. Il valore degli appalti affidati a Perotti si aggira sui 25 miliardi (anche la Metro C di Roma). I costi sono lievitati anche del 40 per cento. Ognuno dei 19 capitoli dell’ordinanza ricostruisce l’affidamento di un appalto e la rete di favori e pressioni. Ed è arricchito e supportato da intercettazioni telefoniche. Illuminante per capire il ruolo e il potere di Incalza sono le parole di Giovanni Gaspari, alto dirigente delle Ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture. “Ercolino...è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...è il dominus totale” dice il 25 novembre del 2013. Dall’altra parte del telefono c’è Giulio Burchi, allora presidente di Italferr Spa e indagato nell'inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. “Come emerge dalle indagini - si legge nell'ordinanza - Incalza dirige con attenzione ogni grande opera, controllandone l'evoluzione in ogni passaggio formale: è lui che predispone le bozze della legge obiettivo, e' lui che, di anno in anno, individua le grandi opere da finanziare e sceglie quali bloccare e quali mandare avanti, da lui gli appaltatori non possono prescindere”. E senza il suo intervento, dice Gaspari a Burchi, “al 100% non si muove una foglia, fa sempre tutto lui”. Il bando di gara per l'incarico di collaborazione temporanea al ministero, poi vinto da Incalza, Gaspari sostiene che quel bando “naturalmente si adatta solo ad Ercolino”. Tra i requisiti c’è che l’incaricato deve aver fatto il capo della struttura tecnica di missione per 10 anni. “Cioè – osserva Gaspari - solo Incalza. Vabbè...non l'hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino”. Alla fine di una lunga trattativa per sbloccare uno dei lavori, Perotti commenta: “Finalmente la chiesa è tornata al centro del villaggio”. Il gip spiega che si tratta di un proverbio francese che sta a significare “rimettere le cose al loro posto”. Gli investigatori mettono in evidenza il legame tra Sandro Pacella ed Ercole Incalza dove il primo “funge da segretario, mediatore e consulente del secondo”. Sono indispensabili l’uno all’altro. Ed entrambi si preoccupano molto a giugno 2014 quando il decreto madia sulla Pubblica amministrazione stabilisce che non è più possibile restare nella pubblica amministrazione, neppure con incarichi di consulenza, dopo la pensione. Dice Pacella a Incalza: “ Stai lavorando, no? Che cazzo stai a fare, hai visto la norma che hanno fatto? Chi è in pensione non potrà più lavorare ottenendo incarichi dirigenziali o di consulenza per le pubbliche amministrazioni. Questi figli di mignotta stavano ad aspettare apposta perche cosi una volta approvato manco ti danno lo stipendio di quest'anno. Siamo sulla strada…”. Incalza saprà lavorare. E saprà trovare il modo per restare come consulente. Sono quelle ricevute – o capitate – a Luca Lupi, il figlio del ministro che pure, come sottolinea il padre, “è laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano e forse non avrebbe bisogno di tante raccomandazioni”. In questo caso è meglio far parlare direttamente il gip. “Effettivamente – scrive - Stefano Perotti ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi”. Il 21 ottobre 2014, uno degli indagati, Giulio Burchi, racconta al telefono al dirigente Anas, ing. Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi. “Ho visto Perotti l'altro giorno - dice Burchi al telefono - tu sai che lui e il ministro sono più che intimi perché gli ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi”. Il primo luglio, sempre Burchi a Averardi: “Ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco, ha vinto anche il nuovo palazzo dell'Eni a San Donato e c'ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita”. Il gip spiega che “nell'ambito della commessa Eni, Perotti stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l'incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà Luca Lupi” per 2 mila euro al mese. Il ministro Lupi corregge e dice che sono “1.300”. Luca Lupi sarebbe destinatario anche di un Rolex dal valore di circa 10mila euro come regalo di laurea della famiglia Perotti. Qualche cosina sarebbe scappata fuori anche per il babbo, ad esempio un vestito sartoriale, regalo, questa volta, di Franco Cavallo (uno dei quattro arrestati). Abiti di sartoria anche per E.F. membro della segreteria del ministro. In qualche telefonata Perotti e Mor si preoccupano circa l’opportunità di aver assunto il figlio del ministro. Il gip scrive che “la preoccupazione di Stefano Perotti e Giorgio Mor non è comprensibile al di fuori di uno scenario illecito. Nulla può impedire a costoro di assumere le persone che vogliono” salvo che la collaborazione “possa essere immaginata quale corrispettivo di qualche utilità fornita da Maurizio Lupi per il tramite di Ettore Incalza”. Incalza suggeritore di Ncd? II legame tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi ed in generale con il Nuovo Centro Destra risulta evidente nel messaggio e nella telefonata che il primo ha con una tal Daniela che adopera un telefono intestato al Ministero delle Infrastrutture. In queste telefonate Incalza afferma di “aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi”. Nell’ordinanza si segnala che “questa Daniela potrebbe essere la stessa persona che il 7 febbraio 2014 ha inviato un sms ad Ercole Incalza avvisandolo del ritorno di un tal Carlea “quello cattivo” che “ha detto che te la farà pagare a te e ad Aiello!!”. Daniela suggerisce ad Ercole Incalza di allearsi con Aiello. Illuminante dei rapporti tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi è la telefonata del 17 febbraio 2014 in cui il ministro si lamenta di essere stato “abbandonato” e il super-dirigente lo contesta dicendo: “Ma se ti ho pure scritto il programma”. Il 28 febbraio 2014, sempre al telefono, Lupi ricorda ad Incalza di aver nominato Nencini solo per la “tua sponsorizzazione” e lo prega di invitarlo a “non rompere i c…..”. In altre telefonate Incalza sottolinea come al ministero siano arrivati “due suoi amici socialisti: Umberto Del Basso De Caro e Riccardo Nencini”. Nencini bolla queste parole come “millantato credito”. Anche perché il 17 febbraio il governo Letta non era neppure caduto. Nella segreteria del viceministro Riccardo Nencini lavora Massimo Romolini, ispettore della Guardia di finanza una volta in servizio presso la procura. Il 6 agosto 2014 lo chiama al telefono Sandro Pacella per avere informazioni circa “quella cosa in procura”. Romolini lo rinvia al giorno dopo. Quando lo incontrerà in ufficio.
Grandi opere, tangenti e favori. «Se ti cacciano cade il governo». Il legame tra Lupi e il manager. L’imprenditore Perotti racconta al cognato di aver trovato un lavoro al figlio del ministro. Pressione per le nomine degli emendamenti, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Il loro legame era talmente stretto che il 2 luglio scorso, quando ha dovuto rispondere alle interrogazioni parlamentari, il ministro Maurizio Lupi si è fatto scrivere il discorso dal difensore di Ercole Incalza, l’avvocato Titta Madia. E pur di difendere il ruolo di quel manager ormai in pensione, ha minacciato addirittura di far cadere il governo. Perché in realtà era proprio Incalza il vero potente, capace di guidare le scelte di politici e imprenditori, di condizionare le scelte degli uomini di governo pronti a correre in suo soccorso quando era in pericolo la riconferma come dirigente della Struttura tecnica di missione, cabina di regia di tutte le grandi opere, dalla Tav all’Expo passando per la Metro C di Roma, quella di Milano e i grandi tratti autostradali, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Nel computer conservava una lettera spedita nel 2004 a Silvio Berlusconi per chiarirgli i motivi della nomina a Provveditore di Angelo Balducci, a riprova dell’esistenza di una «rete» clientelare che dura da oltre dieci anni. E gli avrebbe permesso di ottenere tangenti da centinaia di migliaia di euro, oltre all’assunzione di figli e parenti degli amici, primo fra tutti proprio il rampollo di Lupi, Luca, beneficiato con un incarico all’Eni da 2.000 euro al mese. Il ministro non aveva evidentemente bisogno di chiedere: arrivavano abiti di sartoria, un Rolex da 10.000 euro per la laurea del ragazzo, fine settimana nella splendida dimora fiorentina di quello Stefano Perotti diventato l’alter ego di Incalza e ora come lui finito in carcere. Sono le indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente a svelare i retroscena degli appalti assegnati negli ultimi anni. Comprese le assunzioni di altri parenti «eccellenti»: il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, quello dell’ex parlamentare Angelo Sanza, il nipote di monsignor Francesco Gioia. Lupi è certamente uno dei maggiori sponsor e lo dimostra a fine dicembre quando si fa aspro lo scontro nel governo sulla gestione dei Lavori pubblici. Scrive il giudice nell’ordinanza di cattura: «La sera del 16 dicembre il ministro Lupi chiama l’ingegner Incalza e rivendica il merito di aver bloccato l’emendamento con la richiesta di trasferire la Struttura tecnica di missione alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri: “L’altra cosa che mi dispiace e ne parlerò con la Ida domani, è questa roba per cui è evidente che... cioè ancora continuare a dire che nessuno ha difeso la Struttura tecnica di missione mi fa girare molto i c... eh! scusami, perché se non l’avessi detta io, se non fossi intervenuto io, lasciate stare il Pd che la vuole trasferire, non entrava nell’emendamento governativo questa cosa qui”. Il ministro Lupi intende difendere a qualsiasi costo la Struttura fino a minacciare una crisi di governo: “Vado io guarda, siccome su questa cosa, te lo dico già. Però io non voglio, cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che sennò vanno a c...! Ho capito! Ma non possono dire altre robe! Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura non c’è più il governo! L’hai capito, l’hanno capito?!”». Incalza dispensa favori proprio grazie a Perotti. E così «sistema» Luca Lupi. Il 30 gennaio 2014 «Perotti informa il cognato Giorgio Mor che è riuscito a convincere i dirigenti Eni per avviare l’attività di progettazione loro affidata, gli prospetta che ha il “bisogno” di dover impiegare proprio per questa attività un “ragazzo” che verrà pagato dallo stesso Stefano Perotti: “È un ragazzo che vale molto, l’ho visto, l’ho conosciuto”. Il “ragazzo” è Luca Lupi». Annota il giudice: «Va rimarcato che il 21 febbraio 2014 Philippe Perotti, figlio di Stefano Perotti, come misura di precauzione in seguito alla pubblicazione di un articolo, invia al padre Stefano un messaggio, richiedendo di valutare l’opportunità di allontanare Luca Lupi dal cantiere Eni, e di adottare le dovute cautele nelle comunicazioni sia telefoniche che per posta elettronica: “Bisogna pensare a tirar fuori Luca da Eni. Evitiamo il problema”». Nella primavera scorsa è Franco Cavallo, collaboratore di Perotti, a saldare gli abiti ordinati dal ministro e da suo figlio, mentre il manager regala al ragazzo il prezioso orologio. Perotti e Lupi sono evidentemente amici di famiglia. Annota il giudice: «Il 14 settembre 2013, il ministro Lupi avvisa Perotti che stanno per arrivare per la cena: “Noi dovremmo essere lì verso le 8 e mezza”. Due giorni dopo Christine Mor (moglie di Perotti) racconta alla sorella che ha avuto degli ospiti a cena nel weekend: “Tutto a posto, finalmente sono andati via, anche se è stato bello però molto impegnativo. Erano in 8 con due guardie del corpo, quindi hanno mangiato da venerdì, c’era Maurizio con sua moglie, c’era Frank con la moglie, c’era Toccafondi con la moglie, i primi quattro hanno dormito in casa...». In realtà Lupi non è l’unico a difendere la struttura e soprattutto Incalza. L’inchiesta condotta dai pm di Firenze coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo svela i nomi degli altri. Il 19 febbraio 2014 Giovanni Gaspari, nipote del dc Remo, consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, parla con il manager Giulio Burchi e commenta la conferma di Incalza. Gaspari :
«È veramente una cosa, una schifezza tale che non ne posso più, mi viene anche a me da vomitare. Si sono scatenati tutti alla difesa di Incalza oggi, sono passati da Alfano a Schifani, ai general contractor».
Burchi : «Beato Perotti che prende tutte le direzioni dei lavori d’Italia».
Gaspari : «Si, si, Perotti si prenderà tutto».
In realtà a parlare dei propri rapporti con il ministro dell’Interno Angelino Alfano è lo stesso Incalza al telefono con un’amica alla quale racconta «di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che il Nuovo centrodestra avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Alfano e di Lupi».
Incalza parla con i ministri e tratta con i sottosegretari. A leggere le intercettazioni si comprende che è in grado di orientare le loro scelte politiche. «Altro esempio dell’influenza che Ercole Incalza sembra avere sulle decisioni del ministro - scrive il giudice - si trae il 28 febbraio 2014 quando Maurizio Lupi ha telefonato al primo e lo ha informato che, in seguito alla “sponsorizzazione” di quest’ultimo, avevano nominato viceministro per le Infrastrutture il senatore Riccardo Nencini: “Dopo che tu hai dato, hai coperto, hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro alle Infrastrutture”. Lupi invita quindi Incalza a parlargli per dirgli “che non rompa i c...!”. Nel corso di successive telefonate Incalza fa presente che al ministero per le Infrastrutture sono arrivati due sue compagni socialisti facendo riferimento a Nencini e Umberto Del Basso De Caro. Il suo amico commenta le nomine: “Complimenti, sempre più coperto”. Effettivamente Del Basso De Caro si spende molto per farlo riconfermare». E ottiene vantaggi.
«Il 20 ottobre 2014 Incalza gli segnala che non è stato presentato un emendamento che riguarda la Struttura. Del Basso assicura che provvederà subito a far presentare l’emendamento dall’onorevole Enza Bruno Bossio. Un’ora dopo manda un sms e conferma l’avvenuto deposito». La norma in realtà viene bocciata ma la sua collaboratrice rassicura Incalza «perché sarà riproposto nella legge di Stabilità presentata direttamente dal governo avendo Del Basso già parlato con il ministro Lupi». Due giorni dopo Del Basso manda un sms a Incalza e «chiede aiuto perché un emendamento relativo a un’opera di suo interesse non è passato: “Mi affido, come sempre, al tuo senso di responsabilità e alla tua esperienza della quale ho assoluto bisogno per realizzare l’opera”».
Tangenti, arrestato Ercole Incalza: dirigente dei Lavori pubblici per sette governi. Inchiesta della procura di Firenze su appalti di Grandi Opere e Tav. Blitz dei Ros: in manette anche gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, e il collaboratore di Incalza Sandro Pacella. 51 indagati, anche politici. Nelle carte presunti favori al figlio di Lupi e regali. Il ministro: "Mai chiesto nulla". Le intercettazioni: "Ercolino fa il bello e il cattivo tempo", scrivono Franca Selvatici e Gerardo Adinolfi su “La Repubblica”. Corruzione, induzione indebita, turbativa d'asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione: sono alcune delle accuse che hanno portato all'arresto dell'ex super-dirigente del ministero dei Lavori pubblici Ercole Incalza, uno dei quattro arrestati nell'inchiesta condotta dal Ros e dai pm fiorentini Giuseppina Mione, Luca Turco e Giulio Monferini. In tutto gli indagati sono 51. Gli altri tre finiti in manette sono gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, nonché Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. Nel mirino dell'inchiesta la gestione illecita degli appalti delle grandi opere, in quello che i magistrati definiscono un "articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori". L'inchiesta nasce dagli appalti per l'Alta velocità nel nodo fiorentino e per la costruzione del sotto-attraversamento della città. Da lì l'indagine si è allargata a tutte le più importanti tratte dell'Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altre Grandi Opere, compresi alcuni che riguardano l'Expo. "Il Gip non ha ritenuto che sussistessero gli elementi di gravità per contestare l'associazione per delinquere e l'ha rigettata", ha precisato poi il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo. Il comandante del Ros, Mario Parente, ha parlato di costi di opere pubbliche che "lievitavano anche del 40 per cento". Creazzo ha inoltre reso noto che "il totale degli appalti affidati a società legate a Perotti è di 25 miliardi di euro". Nel mirino della procura i cantieri della linea ferroviaria Av Milano-Verona e Genova-Milano, l'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre e l'autostrada regionale Cispadana. E ancora l'hub portuale di Trieste, l'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria e l'autostrada in Libia Ras Ejdyer-Emssad.
CHI E' INCALZA. Il principale indagato dell'inchiesta, denominata Sistema, è proprio Ercole Incalza. "Ercolino, che fa il bello e il cattivo tempo", come lo descrive un alto dirigente delle Ferrovie dello Stato, da oltre trent'anni figura di primissimo piano nell'ambito del ministero dei Lavori Pubblici, passato per sette diversi governi, fino all'esecutivo Renzi. Ma lo stesso ministero precisa che dallo scorso dicembre non ha più alcun incarico, neppure a titolo gratuito. "Come emerge dalle indagini - si legge nell'ordinanza - Incalza dirige con attenzione ogni grande opera, controllandone l'evoluzione in ogni passaggio formale: è lui che predispone le bozze della legge obiettivo, è lui che, di anno in anno, individua le grandi opere da finanziare e sceglie quali bloccare e quali mandare avanti, da lui gli appaltatori non possono prescindere". E senza il suo intervento, dice Giovanni Paolo Gaspari, già alto dirigente del Gruppo ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, al telefono con Giulio Burchi, già presidente di Italferr spa, "al 100% non si muove una foglia... si sempre tutto lui fa... tutto tutto tutto!... ti posso garantire... ho parlato con degli amici..". Ma aggiungono anche: "Vabbè...ma non l'hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino?".
I POLITICI INDAGATI. Fra gli indagati anche politici già sottosegretari come Vito Bonsignore, ex Forza Italia e Ncd, e Antonio Bargone, Pd ed ex sottosegretario ai lavori pubblici nei governi Prodi e D'Alema, in relazione alla promessa della direzione lavori all'ingegnere Stefano Perotti da parte della sociatà consortile Ilia Orme che proponeva il project financing per la realizzazione dell'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre. Tra i politici coinvolti anche Stefano Saglia, ex Pdl e Ncd ed ex sottosegretario al ministero per lo Sviluppo economico, indagato per turbativa d'asta in relazione al bando di gara emessa dall'autorità portuale di Trieste per il collaudo della Hub portuale di Trieste in cui compare anche il nome di Rocco Girlanda, ex Pdl.
IL MINISTRO LUPI E IL FIGLIO LUCA. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Firenze compare anche Luca Lupi, figlio del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, entrambi non indagati "Effettivamente, Stefano Perotti", l'imprenditore arrestato, "ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi", dice il magistrato. Il gip annota che il 21 ottobre 2014, uno degli indagati, Giulio Burchi, "racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi". Segue l'intercettazione: "Ho visto Perotti l'altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?". Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: "il nostro Perottubus ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco", ha vinto "anche il nuovo palazzo dell'Eni a San Donato e c'ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita". "Perotti - continua il gip - nell'ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l'incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale 'persona fissa in cantiere' Luca Lupi" per 2 mila euro al mese. Replica però il ministro: "Non ho mai chiesto all'ingegner Perotti né a chicchessia di far lavorare mio figlio. Non è nel mio costume e sarebbe un comportamento che riterrei profondamente sbagliato".
I REGALI. Nell'ordinanza si parla anche di regali che gli arrestati avrebbero fatto al ministro e ai suoi familiari: un vestito sartoriale a Lupi e un Rolex da 10mila euro al figlio, in occasione della laurea. A regalare il vestito al ministro sarebbe stato Franco Cavallo, uno dei quattro arrestati oggi che secondo gli inquirenti aveva uno "stretto legame" con Lupi tanto da dare "favori al ministro e ai suoi familiari". "Da una telefonata del 22 febbraio 2014 - si legge nell'ordinanza - emerge che Vincenzo Barbato", un sarto che avrebbe confezionato un abito per Emanuele Forlani, della segreteria del ministero, "sta confezionando un vestito anche per il ministro Lupi". Tra le pagine dell'ordinanza spuntano anche le intercettazioni delle conversazioni di Lupi con Incalza. "Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura tecnica di missione non c'è più il governo!..", dice in una conversazione telefonica il ministro all'ingegnere ora in arresto. "L'importanza della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture - scrive il Gip - è ben rappresentata" nel colloquio: "Il ministro Lupi, infatti, a fronte della proposta di soppressione di tale struttura o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio arriva a minacciare una crisi di governo". Tra i luoghi perquisiti - oltre ad uffici della Rete Ferroviaria Italiana Spa e dell'Anas International Enterprises - anche ambienti della Struttura di Missione presso il ministero delle Infrastrutture, delle Ferrovie del Sud Est srl, del consorzio Autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, dell'autostrada regionale Cispadana spa e dell'Autorità portuale Nord Sardegna. Alcune perquisizioni sono state svolte con il concorso di personale dell'Agenzia delle Entrate per gli accertamenti di competenza in materia fiscale. L'esecuzione dei provvedimenti ha interessato le province di Roma, Milano, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Padova, Brescia, Perugia, Bari, Modena, Ravenna, Crotone e Olbia. Sono passati 731 giorni da quando il presidente del Senato Grasso ha presentato il suo disegno di legge, uno strumento utile per fermare la corruzione", dice il procuratore antimafia Franco Roberti commentando gli arresti. "Bisognerebbe approvare la legge sulla corruzione nella versione, a mio avviso, proposta dal presidente del Senato Grasso, e poi probabilmente bisognerebbe intervenire anche sulla cosiddetta legge Obiettivo del 2001. Adesso - ha spiegato - è presto per definire i cordoni di questo eventuale intervento ma probabilmente qualcosa bisogna rivedere anche in quella legge". Proprio oggi, in commissione il governo ha presentato il proprio emendamento alla legge anti-corruzione che dovrebbe arrivare in aula la settimana prossima.
Caso Incalza, le intercettazioni: «Ercolino è il dominus totale». Dalle telefonate registrate la rete di rapporti intorno a Incalza e agli altri indagati. Compare anche il ministro Lupi, che minaccia la crisi di governo «se viene abolita la struttura» dello stesso Incalza, e che avrebbe ricevuto favori per il figlio Luca, scrive “Il Corriere della Sera”. «...su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo!»: con queste parole il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi si rivolge il 16 dicembre 2014 ad Ercole Incalza in una telefonata intercettata dal Ros nell’ambito dell’inchiesta di Firenze. Secondo gli inquirenti la conversazione «ben rappresenta» l’importanza della Struttura tecnica del dicastero delle Infrastrutture di cui era a capo Incalza e che opera - almeno secondo l’organigramma - alle dirette dipendenze del ministro. Maurizio Lupi è anche citato nelle intercettazioni dell’inchiesta in relazione ad alcuni favori avuti per il figlio Luca da Stefano Perrotti, uni degli arrestati. Secondo Lupi, Incalza «era ed è una delle figure tecniche più autorevoli che il nostro Paese abbia sia da un punto di vista dell’esperienza tecnica nazionale che della competenza internazionale, che gli è riconosciuta in tutti i livelli». Il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini sarebbe stato nominato grazie alla «sponsorizzazione» di Incalza. È quanto emerge da una telefonata tra Lupi e lo stesso Incalza. La telefonata è del 28 febbraio 2014 e a chiamare è Lupi: «Dopo che tu hai dato...hai coperto...hai dato la sponsorizzazione per Nencini...l’abbiamo fatto viceministro». Maurizio Lupi è chiamato in causa anche per altre telefonate. «Il ministro - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Incalza e di altri tre indagati - a fronte della proposta di soppressione» della Struttura di Missione «o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio arriva a minacciare una crisi di governo». Nel provvedimento viene quindi riportato un brano della conversazione intercettata. Dice Lupi: «...vado io guarda... siccome su questa cosa...te lo dico già...però io non voglio...cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che senno’ vanno a cagare!...cazzo!...ho capito!... ma non possono dire altre robe!... su questa roba ci sarò io li e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo!...l’hai capito non l’hanno capito?!». «Effettivamente, Stefano Perotti», l’imprenditore arrestato, «ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi»: è quanto si legge nell’ordinanza del Gip. Secondo quanto riportato, uno degli indagati, Giulio Burchi, «racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi». Segue l’intercettazione: «Ho visto Perotti l’altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?». Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: «Il nostro Perottubus ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco», ha vinto «anche il nuovo palazzo dell’Eni a San Donato e c’ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita». «Perotti - continua il Gip - nell’ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l’incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale persona fissa in cantiere Luca Lupi» per 2 mila euro al mese. «Ercolino...è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...o dominus totale». Così un alto dirigente delle Ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, Giovanni Paolo Gaspari, descrive Ercole Incalza in una telefonata intercettata dal Ros il 25 novembre del 2013. Al telefono con Gaspari c’è Giulio Burchi, allora presidente di Italferr Spa e indagato nell’inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. «Senza l’intervento di Ercolino, dice Gaspari al telefono con Burchi, «al 100% non si muove una foglia...si sempre tutto lui fa...tutto tutto tutto!...ti posso garantire...ho parlato con degli amici..» Anche parlando del bando di gara per l’incarico di collaborazione temporanea, poi vinto da Incalza, Gaspari sostiene che quel bando «naturalmente si adatta solo ad Ercolino. Cioè deve aver fatto il capo della struttura tecnica di missione per 10 anni senno’ non può concorrere a fare il capo della struttura tecnica...hai capito?». E poi conclude: «Vabbè...non l’hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino». Nelle intercettazioni si parla anche di Expo. In una telefonata registrata e agli atti dell’inchiesta, Stefanno Perotti riferisce ad un professionista, l’architetto Marco Visconti, delle «entrature» tra i responsabili dell’iniziativa milanese: «Sappia che in quel tipo di cliente abbiamo delle relazioni molto elevate quindi... abbiamo recentemente vinto la gara per il Palazzo Italia con Italiana Costruzioni... quindi siamo un supporto di ingegneria per questa attività e abbiamo relazioni anche assolutamente trasparenti ma di grande stabilità con l’amministratore delegato, direttore generale e commissario...».
Il "Sistema" grandi opere tra vendette, favori e tangenti. Dalla Tav a Expo, blitz dei pm di Firenze: costi lievitati del 40%, giro da 25 miliardi. Le intercettazioni contro Incalza: "Ercolino è il dominus, fa il bello e cattivo tempo", scrivono Massimo Malpica Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Appalti pubblici e grandi opere ancora nel mirino della magistratura. Un blitz del Ros disposto dalla procura di Firenze ieri ha fatto scattare le manette ai polsi di Ercole Incalza, grande burocrate del ministero delle Infrastrutture e Trasporti che ha attraversato sette governi nell'arco di tre lustri, fino al dicembre 2014 capo della struttura tecnica di missione del dicastero. Oltre a Incalza, l'ordinanza del gip fiorentino Angelo Antonio Pezzuti spedisce dietro le sbarre Sandro Pacella, funzionario dello stesso ministero e stretto collaboratore di Incalza, l'imprenditore Stefano Perotti e Francesco Cavallo, presidente del cda di Centostazioni, spa del gruppo Fs. Gli indagati sono in tutto 51, tra loro anche gli ex sottosegretari alle Infrastrutture Rocco Girlanda (Pdl) e Antonio Bargone (Pds), l'ex sottosegretario allo sviluppo Economico Stefano Saglia e l'ex europarlamentare Vito Bonsignore, gli ultimi due ora nel Ncd. Ma nella bufera finisce anche il ministro Maurizio Lupi (Ncd), del quale l'ordinanza sottolinea la vicinanza con alcuni degli indagati. E il cui figlio avrebbe ricevuto un incarico di lavoro con una «triangolazione» organizzata da Perotti. Secondo la procura - che ipotizza tra i vari reati la corruzione, l'induzione indebita e la turbata libertà degli incanti - quello colpito dal blitz era «un articolato sistema corruttivo» il cui dominus era Incalza, attivo nella gestione illecita di appalti di «grandi opere», soprattutto su ferrovie, industrie e strade, facendo lievitare i costi anche del 40%. Un sistema collaudato, che «coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti e imprese esecutrici dei lavori», e che muoveva cifre importanti. Secondo il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, infatti, «si indaga su un valore di 25 miliardi di euro di appalti». «Ercole Incalza (...) - scrive il gip nell'ordinanza - è stato in grado e lo è tuttora di condizionare il settore degli appalti pubblici da moltissimi anni». È lui «che suggerisce al general contractor o all'appaltatore il nome del direttore dei lavori, cioè di soggetti sempre riferibili a Stefano Perotti (l'altro arrestato, ndr )», è ancora lui «che si mette a disposizione dell'impresa, svendendo la sua funzione ed assicurando, in violazione dei doveri di trasparenza, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, un trattamento di favore». L'ex alto dirigente delle Fs Giovanni Paolo Gaspari, nipote dell'ex ministro Remo, intercettato mentre parla con l'ex presidente Italferr Giulio Burchi a novembre 2013, rivela i «poteri» di Incalza. «Ercolino... è lui che decide i nomi (...) tra tutti i suoi, sì, sì ancora... fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro, il dominus totale, al 100 per cento, non si muove foglia, sì... sempre tutto lui fa». L'8 giugno 2014 Incalza è «particolarmente infastidito», annotano gli inquirenti, per un'intervista al Fatto quotidiano in cui Francesco Boccia caldeggia un ricambio di una «certa alta burocrazia ministeriale», riferendosi evidentemente al manager. Intercettato, Incalza sbotta con qualcuno che gli sta vicino: «Chiamiamo... avvisiamo D'Alema». E la sera, al collaboratore Pacella spiega, a proposito dell'articolo: «Mi devo vedere con Lupi assolutamente? questa cosa è molto seria». Giulio Burchi, che è indagato, viene spesso intercettato mentre manifesta la sua malsopportazione dello strapotere di Incalza e dell'asse tra questi e Perotti. In un'occasione ipotizza di fargli fare un'interpellanza parlamentare contro, «c'ho due o tre episodi circostanziati ... prendo Pippo Civati che mi rompe sempre i coglioni così gli faccio fare una cosa utile». Poi cerca di incontrare «il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini, in quanto lo vuole mettere in guardia su quello che avviene all'interno del Ministero da trent'anni sotto il controllo di Incalza». Infine accenna a un «dossier» su Incalza che avrebbe preparato «per la Serracchiani». Ma alla fine, quasi giustifica il «sistema»: «pensiamoci ... forse si sta bene solo in questo Paese qua (...) i soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato ... non li avrei mai guadagnati in Inghilterra o in America». Saltano fuori anche i rapporti tra l'imprenditore Pierotti e monsignor Francesco Gioia, col prelato che secondo l'ordinanza si sarebbe anche attivato a ottobre 2013 per «dare una mano» ad alcuni imprenditori perché lavorassero all'appalto del «Palazzo Italia» dell'Expo di Milano. Inoltre Pierotti avrebbe assunto un nipote del prelato, e - scrive il gip - da una conversazione tra i due «si rileva che l'assunzione è avvenuta grazie all'interessamento del ministro Lupi ("ti volevo dire che ieri ho visto Maurizio ? gli ho detto che tu lo ringrazi moltissimo") e di Luigi Fiorillo, presidente del cda della società Ferrovie del Sud Est». Il gip scrive che «il legame tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi e in generale con il Nuovo Centro Destra» sarebbe «evidente» per lo scambio di sms e telefonate tra il manager e una certa Daniela, alla quale Incalza «afferma di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che l'Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi». Per il gip la «migliore sintesi» della figura di Stefano Perotti, che avrebbe tra l'altro «influito illecitamente sulla aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo», emerge da un'intercettazione tra la moglie Christine e il figlio Philippe, che non si sente all'altezza del padre. La donna lo consola e gli spiega che «a 25 aveva appena appena iniziato a lavorare, come te, uguale, e non aveva fatto un cazzo nella vita... (...) perché che tu ti devi paragonare con i soldi che fa papà è questo che sbagli Philo, perché papà oltretutto se guadagna bene e tanto è anche perché ci sono state delle coincidenze ... papà è bravo... però papà ha avuto delle coincidenze fortunate di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre (...) grazie a un certo giro di politica, lavori pubblici eccetera che non è detto che in futuro sarà sempre uguale a come è stato fino adesso».
Inchiesta Grandi opere, l'accusa: "Incalza scriveva il programma di Ncd e ha sponsorizzato la nomina di Nencini nel ministero di Lupi", scrive “Libero Quotidiano”. Ercole Incalza era così influente all'interno del ministero delle Infrastrutture da aggiornare il ministro Maurizio Lupi, in procinto di farsi intervistare da un quotidiano, sullo stato dei lavori e dei finanziamenti delle Grandi Opere, da buttare giù il programma di governo che il Nuovo Centro Destra avrebbe dovuto presentare e da ottenere la nomina del senatore Riccardo Nencini a sottosegretario, dietro sua sponsorizzazione. E' quanto emerge dalle 268 pagine di ordinanza cautelare scritta dal gip di Firenze nell'inchiesta che ha portato all'arresto di quattro persone tra cui lo stesso Incalza e che avrebbe portato alla luce il rapporto stretto tra il ministro Lupi e alcuni imprenditori, con tanto di abito sartoriale regalato all'esponente di Ncd e lavoro dato al figlio Luca insieme a un Rolex da 10mila euro per la laurea. "Incalza scrive il programma di Ncd" - Il magistrato si sofferma, anzitutto, sullo strettissimo legame tra Ercole Incalza e il ministro Lupi. "Una relazione - scrive - che ha sicuramente contribuito, da ultimo, all'affermazione del potere di Incalza nei rapporti con i dirigenti delle imprese e anche con altri soggetti istituzionali". Il 28 dicembre del 2013 è significativa per gli investigatori del Ros una conversazione tra i due che esalta "l'effettiva importanza" rivestita dall'ingegnere all'interno del dicastero delle Infrastrutture. Sul Corriere della Sera del 29 dicembre 2013 viene pubblicata l'intervista concessa dal ministro Lupi proprio sui temi trattati il giorno prima con Incalza. Ma era stretto anche il legame che Incalza aveva, più in generale, con il Nuovo Centro Destra: in una telefonata tra l'ingegnere e una tal Daniela il primo "afferma di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi". C'è poi una telefonata del 17 febbraio 2014 indicativa dei rapporti tra il ministro e Incalza: in questa conversazione Lupi - scrive il gip - "si lamenta con l'altro per essere stato da lui abbandonato. Incalza contesta tale affermazione dicendogli di aver scritto anche il programma". La sponsorizzazione per Nencini - Altro esempio dell'influenza che Incalza "sembra avere sulle decisioni del ministro si trae - evidenzia sempre il giudice di Firenze - il 28 febbraio 2014 quando Maurizio Lupi ha telefonato al primo e lo ha informato che, in seguito alla sponsorizzazione di quest'ultimo, avevano nominato viceministro per le infrastrutture il senatore Riccardo Nencini". Lupi - si legge ancora nell'ordinanza - "invita quindi Incalza a parlargli per dirgli che non rompa i coglioni. Nel corso di alcune successive telefonate Ercole Incalza fa presente che al ministero per le Infrastrutture sono arrivati due suoi compagni socialisti facendo riferimento a Nencini e a Umberto Del Basso De Caro. Il suo amico commenta tali nomine dicendo complimenti... sempre sempre più coperto...".
Maurizio Lupi: "Soffro per mio figlio, non mi dimetto", scrive “Libero Quotidiano”. Pensa soprattutto a suo figlio il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Il nome dell'ingegner Luca Lupi è spuntato nelle carte dell'inchiesta di Firenze su Tav e Expo. "Provo soprattutto l' amarezza di un padre nel vedere il proprio figlio sbattuto in prima pagina come un mostro senza alcuna colpa. Quando per tutta la vita ho educato i miei figli a non chiedere favori, né io ho mai cercato scorciatoie per loro", dice il ministro in un'intervista a Repubblica. Precisa che non ha mai pensato alle dimissioni anche se, confessa, che per la prima volta si è chiesto se il gioco valga la candela: "Se fare politica significhi far pagare questo sacrifico alle persone che ami. Sa la battuta che faccio sempre a Luca? Purtroppo hai fatto Ingegneria civile e ti sei ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture". Il curriculum - E ancora: "Mio figlio si è laureato al Politecnico di Milano nel dicembre 2013 con 110 e lode. Dopo sei mesi in America presso uno studio di progettazione, nel febbraio dello scorso anno gli hanno offerto un lavoro. Ci ha messo un anno, come tutti, ad avere il permesso di lavoro e da marzo di quest'anno lavora a New York. Lo scorso anno ha lavorato presso lo studio Mor per 1.300 euro netti al mese in attesa di andare negli Usa". E continua: "Se avessi chiesto a Perotti di far lavorare mio figlio, o di sponsorizzarlo sarebbe stato un gravissimo errore e presumo anche un reato. Non l'ho fatto. Stefano Perotti conosceva mio figlio da quando, con altri studenti del Politecnico, andava a visitare i suoi cantieri. Sono amici, così come le nostre famiglie". Quando il giornalista gli chiede se per questo motivo gli ha regalato un Rolex da 10mila euro, lui risponde: "L' avesse regalato a me non l' avrei accettato". Lupi parla poi di Ercole Incalza, il supermanager ingegnere e architetto molto vicino a lui arrestato nell'inchiesta sul "sistema grandi Opere". "Incalza, che è stato al ministero per anni e ha lavorato con tutti i ministri, tranne Di Pietro, è stato il padre della Legge Obiettivo. È uno dei tecnici più stimati nel suo settore, anche in Europa ce lo invidiavano". Il ministro spiega che è sempre stato riconfermato per "le capacità tecniche riconosciute da tutti. In questi venti mesi non ho mai incontrato un presidente di Regione che non mi abbia dato un giudizio positivo su di lui. L'obiettivo era realizzare le Grandi Opere e recuperare il drammatico gap infrastrutturale dell' Italia ed Ettore Incalza poteva garantire la professionalità necessaria"..
Maurizio Lupi non è indagato, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Né lo è il figlio, un ragazzo poco più che ventenne che fa il responsabile di cantiere di un’azienda che costruisce il nuovo palazzo dell’Eni, a San Donato milanese. Però, nonostante il ministro dei Lavori pubblici non sia stato raggiunto da alcun avviso di garanzia, né gli venga contestato alcunché, il suo nome è già finito nel tritacarne dell’inchiesta di Firenze: diciamo che gli hanno cucito addosso un vestitino su misura, che sembra fatto apposta per indurlo a gettare la spugna e lasciare l’incarico. La nostra non è una battuta: negli atti dell’indagine, il nome dell’esponente di Ncd non viene fatto per qualche cosa di illecito, ma a proposito di un abito che l’uomo politico si sarebbe fatto fare. C’è davvero il completo? Oppure è una chiacchiera telefonica? Ma se giacca e pantaloni non bastassero ecco che dai brogliacci delle intercettazioni spunta anche un orologio che un altro imprenditore avrebbe donato al figlio del responsabile dei Lavori pubblici in occasione della sua laurea. Il Rolex probabilmente vale di più dell’abito, ma basta questo per sospettare qualcosa di losco intorno agli appalti su cui il ministero dovrebbe vigilare? È sufficiente che Luca Lupi sia uno dei quattro ingegneri che si occupano di un appalto per puntare il dito?
Perotti, spunta anche Julia Roberts nell'inchiesta sugli appalti, scrive “Libero Quotidiano”. Spunta anche il nome di Julia Roberts nell'inchiesta che ha travolto Stefano Perotti, il general manager con laurea in ingegneria e una serie di collaborazioni eccellenti con ministeri e comitati nazionali. "Figlio d'arte" - suo padre Massimo è stato presidente della Cassa del Mezzogiorno e direttore generale dell'Anas, arrestato negli anni Ottanta durante Tangentopoli - è ritenuto dalla Procura il grande gestore di appalti per almeno 25 miliardi di euro. Sua moglie Christine, riporta il Corriere della Sera, parla di lui con il figlio Philippe, 27 anni, anche lui indagato, in questi termini: "Si è sposato a 23 anni, a 24 ha dato la tesi, a 25 aveva appena iniziato a lavorare..., come te, uguale, … e non aveva fatto un c… nella vita… aveva avuto tanto da suo padre… perché aveva già avuto una casa… il permesso di sposarsi, senza guadagnare però". "Ha avuto delle coincidenze fortunate… di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre". In effetti a Stefano Perotti è andato sempre tutto bene. Per dirne una possiede una strepitosa villa con vista su Firenze in via di Forte San Giorgio 10, che è stata il set di una pubblicità di Calzedonia con protagonista la meravigliosa Julia Roberts. E ne ha una altrettanto esclusiva a Punta Ala. La sua carriera è tutta in ascesa, soprattutto a Milano non c'è grande opera che non veda la sua presenza diretta o indiretta. Si va dalla linea 5 del metrò che collega Garibaldi a San Siro alla realizzazione di CityLife con i tre grattacieli firmati Isozaki, Hadid, Libeskind, passando per la Fiera di Rho-Pero.
Da Italia 90 alle ferrovie, Incalza, 25 anni di inchieste. L’avvocato Titta Madia: «Un recordman dei proscioglimenti, ben 14 e nessuna condanna», scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera”. Incarichi e inchieste si accumulano in due pile parallele nella carriera di Ercole Incalza, il cui nome in atti giudiziari comincia a circolare, con pesanti accuse, all’indomani dei Mondiali di calcio di Italia ‘90. Nella memoria rimangono le imprese sportive, nelle città che le hanno ospitate restano invece opere incompiute, inutilizzabili o fatte male. A Roma si muove il sostituto procuratore Giorgio Castellucci, che chiede otto rinvii a giudizio al termine dell’inchiesta sugli illeciti nella fase di costruzione e nella mancata utilizzazione di strutture realizzate nella Capitale. Tra tutte, le stazioni ferroviarie di Vigna Clara e Farneto. I reati ipotizzati sono abuso e omissione di atti d’ufficio. Ercole Incalza (che verrà prosciolto) era all’epoca direttore generale del ministero dei trasporti. Coinvolti con lui dirigenti e funzionari delle ferrovie. Sotto sequestro finiscono le due stazioni e il tratto di binari che le unisce. Costate 81,5 miliardi di lire durano giusto il tempo dei mondiali perché, come spiegò Fs, «si trattava di un collegamento provvisorio che usato a pieno regime non avrebbe offerto sufficienti garanzie di sicurezza». Passano due anni e la Corte dei conti di Cagliari chiede la condanna a un risarcimento complessivo di 11 miliardi di lire degli ex ministri dei Trasporti Giorgio Santuz e Carlo Bernini, e di altre 19 persone, tra cui Incalza, dirigente del ministero, per la costruzione e il mancato utilizzo, durato oltre quattro anni, del parcheggio realizzato nell’aeroporto di Cagliari-Elmas ancora in occasione di Italia 90: 1076 posti auto su tre piani e 25 piazzole per i bus dei tifosi che però dovettero parcheggiare altrove. I ministri vennero condannati a risarcire 2 miliardi e oltre 950 milioni di lire. Nel 1996 comincia invece il lungo capitolo legato alla Tav, di cui Incalza è amministratore delegato. La procura di La Spezia fa arrestare l’ad di Fs Lorenzo Necci, il finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia, l’allora ad della Oto-Melara Pier Francesco Guarguaglini (fino al 2011 presidente di Finmeccanica). Una presunta associazione a delinquere che a seconda delle pozioni degli indagati si sarebbe resa responsabile di corruzione, peculato, truffa, falso, riciclaggio. Incalza avrebbe pagato i magistrati Renato Squillante e Giorgio Castellucci per ammorbidire l’inchiesta sulla Tav. «Notizie incredibili - le definisce Incalza - se avessi ricevuto dazioni di denaro da chicchessia, come incautamente scritto da alcuni giornali, i magistrati di La Spezia non mi avrebbero consentito di proseguire nella mia attività». Poi si dimette «per evitare che mie vicende personali vengano strumentalizzate a danno del progetto Alta velocità». Il suo nome compare in alcune intercettazioni in cui Pacini Battaglia affermava di avergli dato del denaro per «far fronte ad una scommessa persa sulle partite di calcio». In un’ altra intercettazione invece lo stesso Incalza parla con l’ ex amministratore delegato delle Fs, Lorenzo Necci, di progetti e finanziamenti collegati all’alta velocità. Questo capitolo giudiziario viene aperto a Roma, dove Incalza è accusato di abuso di ufficio. La cosiddetta Tangentopoli 2 da La Spezia viene trasferita a Perugia per competenza. La posizione di Incalza si aggrava e il manager finisce agli arresti Secondo i pm «appare pienamente partecipe dei disegni criminosi dell’associazione e protetto dalla stessa, anche a livello giudiziario, in relazione alle indagini sul conto della ‘Tav spa». Tutte le accuse, escluso il riciclaggio che non coinvolge Incalza, vengono prescritte. E sempre sulla Tav la procura capitolina apre un altro filone per presunte false fatture, coinvolti ancora Necci e Incalza per i quali viene poi chiesta l’archiviazione. Arriva poi, e siamo agli anni scorsi, il coinvolgimento nell’inchiesta sui lavori per il G8 gestiti dalla «cricca degli appalti» di Balducci, Anemone e Zampolini, grazie ai quali Incalza, dal 2004 capo struttura al ministero dei trasporti su nomina del ministro Lunardi, avrebbe pagato a un prezzo stracciato un appartamento di lusso nel quartiere Flaminio: 390 mila euro per 5 stanze. «È una vicenda che mi lascia assolutamente tranquillo» precisava Incalza, mentre il suo avvocato Titta Madia lo definiva «un vero e proprio recordman dei proscioglimenti, ben 14 e nessuna condanna». Oggi il nuovo arresto.
Incalza, l'"Ercolino" delle grandi opere. Il suo nome ricorre in tutte le inchieste degli ultimi 30 anni: dalla Tav al G8 al Mose, scrive invece “la Repubblica”. Secondo Giovanni Paolo Gaspari, alto dirigente delle Ferrovie, "è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...o dominus totale". Dal G8, alla Tav, al Mose: il nome di Ercole Incalza ("Ercolino", come lo chiama lo stesso Gaspari in una telefonata intercettata dal Ros il 25 novembre del 2013), arrestato oggi, ricorre in tutte le grandi opere - e inchieste - degli ultimi 30 anni in Italia. L'ingegnere pugliese nato nel brindisino il 15 agosto del '44, è stato per molti anni dirigente di vertice al ministero delle Infastrutture e dei Trasporti per poi divenirne consulente esterno: ultimo incarico come capo della struttura tecnica di Missione per l'esame delle questioni giuridiche connesse alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. Incalza appare nel mondo dei lavori pubblici alla fine degli anni '70 alla Cassa per il Mezzogiorno, della quale diventa dirigente nel 1978, assumendo nel marzo 1980 la responsabilità del Progetto Speciale dell'Area Metropolitana di Palermo.Giovane socialista pugliese approda al ministero dei Trasporti con Claudio Signorile. Nel 1983 è consigliere del ministro dei Trasporti, poi nel giugno 1984 assume la responsabilità di Capo della Segreteria Tecnica del Piano Generale dei Trasporti. Dal gennaio 1985 Dirigente Generale della Direzione Generale della Motorizzazione Civile e dei Trasporti in Concessione, passa alle Ferrovie dello Stato nell'agosto 1991, per diventare Amministratore Delegato della Treno Alta Velocità TAV S.p.A. dal settembre 1991 al novembre 1996. Nel 1998 finisce ai domiciliari insieme all'ex presidente di Italferr Maraini. Dopo la bufera della Tangentopoli di Necci e Pacini Battaglia a metà degli anni Novanta, Incalza torna alla ribalta al ministero di Porta con Pietro Lunardi e diventa poi il braccio destro del ministro Altero Matteoli con l'incarico di capo della struttura tecnica di missione. Negli ultimi anni sempre più numerose le inchieste; a febbraio i pm fiorentini Giulio Monferini e Gianni Tei ne avevano chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre 31 persone nell'inchiesta sul sottoattraversamento fiorentino della Tav. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Firenze compare anche il nome di Luca Lupi, figlio del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio.
Arrestato l’uomo delle Grandi Opere italiane. Ercole Incalza, dirigente del ministero delle Infrastrutture per quattordici anni, ha attraversato sette governi finendo spesso nelle maglie delle Procure. Voluto a Roma dall’ex ministro azzurro Pietro Lunardi è una costante di tutti i lavori milionari degli ultimi trent’anni in Italia: dal G8, alla Tav fino alla cricca di Diego Anemone, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L'amministratore delegato della Tav Ercole IncalzaGrandi opere, grandi affari e grandi inchieste. Al centro sempre lui Ercole Incalza, braccio destro del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi e potente burocrate. Oggi è arrivato l’epilogo con l’arresto per corruzione, induzione indebita, turbativa d'asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione insieme agli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. Gli indagati sono oltre cinquanta e toccano anche il mondo della politica: l’europarlamentare alfaniano Vito Bonsignore è anche il capo del gruppo privato che spinge per la costruzione della nuova autostrada Mestre-Orte, una lingua d’asfalto dal Lazio al Veneto attraversando cinque regioni, l’opera pubblica italiana più rilevante dopo il ponte sullo Stretto di Messina. Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere. Nel mirino della Procura di Firenze la gestione illecita degli appalti nostrani delle cosiddette grandi opere per quello che i magistrati definiscono un “articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”. Un sistema gelatinoso dove i ruoli si confondono ma la costante, il perno degli affari è il super manager pubblico che guida dal 2001 gli uffici del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Tra i lavori coinvolti ecco le principali nuove tratte ferroviarie, il Palazzo Italia del sito milanese di Expo 2015 e poi porti, cantieri monstre fino alla metropolitana di Parma dove emergerebbe che l'opera, non realizzata, è costata trenta milioni di euro. Soldi pubblici con l’approvazione del finanziamento arrivata grazie al ruolo dentro i palazzi del potere di Ercole Incalza. Partito come consulente del ministro parmigiano Pietro Lunardi nel 2001, Incalza è una costante in tutte le grandi opere degli ultimi trent’anni in Italia: dal G8, alla Tav, al Mose. Ingegnere pugliese, classe 1944, è stato per molti anni dirigente di vertice al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per poi divenirne consulente esterno: ultimo incarico come capo della struttura tecnica di missione per l'esame delle questioni giuridiche connesse alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. Per quattordici anni all’ex ministero dei Lavori Pubblici, attraversando sette governi: da Berlusconi a Renzi, passando per Prodi e Monti. Dal 31 dicembre del 2014 non riveste nessun ruolo o funzione neanche a titolo gratuito arrivato al traguardo dei 70 anni. L’ingegnere appare nel mondo dei lavori pubblici alla fine degli anni settanta alla Cassa per il Mezzogiorno, della quale diventa dirigente nel 1978, assumendo nel marzo 1980 la responsabilità del progetto speciale dell'area metropolitana di Palermo. Giovane socialista pugliese approda al ministero dei Trasporti con Claudio Signorile. Nel 1983 è consigliere del ministro Claudio Signorile, poi nel giugno 1984 è capo della segreteria tecnica del piano generale dei Trasporti. Dal gennaio 1985 dirigente generale della direzione della motorizzazione civile per poi passare alle Ferrovie nell'agosto 1991, per diventare amministratore delegato della “Treno Alta Velocità Tav Spa” dal settembre 1991 al novembre 1996. Nel 1998 finisce ai domiciliari insieme all'ex presidente di Italferr Eugenio Maraini. Dopo la bufera della Tangentopoli di Lorenzo Necci e Pierfrancesco Pacini Battaglia a metà degli anni Novanta, Incalza torna alla ribalta dei palazzi romani con Pietro Lunardi e diventa poi il braccio destro del ministro Altero Matteoli con l'incarico di capo della struttura tecnica di missione. Negli ultimi anni sempre più numerose le inchieste: un mese fa i pm fiorentini ne avevano chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre trentuno persone nell'inchiesta sul sottoattraversamento fiorentino della Tav: l’accusa è traffico illecito di rifiuti, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, frode e truffa. Ecco come Incalza lodava la legge obiettivo presentata come fiore all’occhiello dal Governo Berlusconi per smuovere l’economia e rompere il tabù italiano dei cantieri infiniti:«L'accelerazione dei tempi dell'apertura dei cantieri delle grandi infrastrutture, di quelle opere cioè strategiche e di preminente interesse nazionale è uno degli scopi della legge obiettivo che come finalità di regolare organicamente e sulla base di principi innovativi la realizzazione delle opere pubbliche maggiori». Nel 2012 in una nuova tranche dell’inchiesta della cricca delle grandi opere di Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Diego Anemone si scopre un favore per Incalza: assegni da 562mila euro, firmati dal "riciclatore" di Diego Anemone, l'architetto Angelo Zampolini, dietro l'acquisto per soli 390mila euro di un appartamento di cinque camere a Roma, a due passi da piazzale Flaminio. Il denaro, scrivono i pm nella richiesta d'arresto, era destinato ad “investimenti finanziari in immobili con intestazione a favore di terzi per la remunerazione dei pubblici ufficiali”. Denaro proveniente dai conti di Zampolini ma anche dai trenta intestati nella banca delle Marche alla segretaria dell'imprenditore, Alida Lucci. Ed ecco spuntare la compravendita di un appartamento in via Emanuele Gianturco 5 a Roma. A vendere sono Maurizio De Carolis e Daniela Alberti, ufficialmente giardinieri, mentre a comprare è tale Alberto Donati, dirigente. Ma dietro Donati ci sarebbe, secondo gli inquirenti, Ercole Incalza. Quest'ultimo è infatti il padre della moglie di Donati, e sarebbe il potente manager pubblico ad aver indicato al genero l'imprenditore Anemone per trovare una casa nella capitale. Dopo la svolta nelle indagini e gli arresti di stamane i grillini alzano il i tiro: «Più volte il Movimento 5 Stelle ha chiesto le dimissioni dell’ingegnere Ercole Incalza come capo della struttura di missione sulle Grandi Opere. Ma la risposta del ministro Maurizio Lupi è stata sempre la stessa è l’uomo giusto al posto giusto. Adesso è la magistratura a spiegarci cosa volesse intendere il ministro», è il commento dei deputati del Movimento 5 Stelle delle commissioni trasporti, infrastrutture e ambiente della Camera. «Non importa che oggi, come sottolinea il ministro in un pronto comunicato stampa, Incalza non ricopra più ruoli pubblici. Lo sappiamo bene che da qualche mese è ufficialmente pensionato. Ma Lupi lo ha difeso quando era pluri-indagato. Quando solo la prescrizione lo salvava dalle indagini, quando le intercettazioni rivelavano il suo “impegno” per le Grandi Opere. Incalza in quattordici anni ha attraversato indenne sette governi. Ora il ministro dovrebbe fare un’unica scelta di dignità: dimettersi», attaccano i deputati Alessandro Di Battista, Michele Dell’Orco e Andrea Cioffi.
Incalza: chi è il grande vecchio delle opere pubbliche italiane. Da trent'anni al ministero dei Trasporti. E' sopravvissuto ai governi, alle inchieste. A settant'anni era ancora il "dominus", scrive Carmelo Caruso su “Panorama”. Da trent’anni è l’ingegnere del cemento e del ferro pubblico italiano. Ed è stato il “vigile” per quanto riguarda le strade, “ferroviere” per quanto riguarda le ferrovie e l’alta velocità, “capocantiere” per quanto riguarda le opere pubbliche, se ancora si possono chiamare tali. Trent’anni, sette governi, cinque ministri, se non è un papato cosa altro può essere quello di Ercole Incalza al ministero dei Trasporti? E se i procuratori di Firenze non lo avessero fermato per un elenco di malversazione contro la pubblica amministrazione (corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta) chissà dove sarebbe arrivato, dicono in Europa per un incarico alla Bei (Banca europea investimenti) quasi a premiare una carriera di indefesso servizio. Di certo, al ministero dei lavori pubblici, e in particolar modo per volere di Maurizio Lupi, che lo definì pubblicamente “un patrimonio per il nostro paese”, ci sarebbe rimasto anche oltre i suoi anni, grazie a un codicillo che ne garantiva la consulenza esterna come capo della stuttura tecnica di Missione. E dato che in Italia esistono solo creatori, ma non creature che possono fare a meno di chi le ha messe in piedi, a Incalza non solo era stata offerta la guida di questa struttura, ma se ne era quasi chiesto la disponibilità per ineluttabilità, quasi come fosse l’unico chirurgo che sapesse maneggiare il bisturi, insomma il solo che potesse a "settant’anni” dirigerla. Per Incalza ci sono state solo le grandi opere mentre le piccole sono «le puttanate» perché dopo «sta gente se non ha continuità lavorativa e sono cazzi». E dunque, dite se possa essere questa la lingua di un dirigente, anche con l’attenuante di essere al telefono. Sarà che il turpiloquio è contagioso, fatto è che quello di Incalza ha colpito il ministro Lupi che nelle intercettazioni dismette il linguaggio sobrio del cattolico praticante per indossare quello del consumato uomo con il sopracciò rassicurando Incalza: «Vado io guarda, siccome su questa cosa, te lo dico già. Però io non voglio, cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che sennò vanno a c...! Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura non c’è più il governo!». Entrato al ministero delle Infrastrutture con il leader socialista Claudio Signorile, Incalza che nelle intercettazioni chiamano «il dominus» è passato dai progetti sull’aria metropolitana di Palermo, il suo primo incarico da dirigente della cassa del Mezzogiorno nel 1978, alla Motorizzazione civile, amministratore delegato della Alta Velocita, la Tav nel 1991, e non si contano i servizi da fedele consigliori dei ministri di destra e di sinistra, Pietro Lunardi, Antonio Di Pietro («Ma io lo cacciai senza complimenti»), Altero Matteoli, Corrado Passera e oggi lo sfortunato Lupi con un figlio che da quanto si ascolta nelle intercettazioni ha pure accettato un Rolex. Incalza ha sùbito 14 inchieste (lo si evoca anche per quanto riguarda l’Expo) uscendone indenne, ammaccato con prescrizioni, ma subito guarito dalla prodigalità della politica che lo corteggiava e dagli imprenditori che avevano cominciato a omaggiare la sua famiglia con case. L’architetto Zampolini, quello dei grandi eventi per intenderci, si premurò a pagare un milione di euro per la casa della figlia di Incalza, Antonia, che nel 2003 ne acquistò una per soli 390 mila euro, un edificio a piazzale Flaminio a Roma, senza sapere che il resto lo pagava Zampolini. Ebbene, dell’ultima appendice del libro a fascicoli “corruzione italia”, Incalza con i suoi settant’anni è nelle intercettazioni degli imprenditori «dominus totale. Maurizio crede di fare qualcosa. Ma fa quello che gli dice quest’altro», è lo sponsor dei socialisti al governo almeno secondo Lupi: «Dopo che tu hai dato, hai coperto, hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro alle Infrastrutture». A gennaio di quest’anno Incalza ha lasciato il ministero nonostante i giovani volessero trattenerlo. Chiamatela intuizione o forse solo l’imprenscindibile prevalenza del grande vecchio. La qualità dell’ingegnere italiano che non costruisce nulla di solido, ma sa conoscere le crepe che anticipano i crolli.
La giustizia ad alta velocità, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Tempo”. Sacra è per noi la presunzione d’innocenza. E non sarà certo un vestito su misura e un Rolex da diecimila euro, a farci cambiare idea. Strano, anzi, è che certi dettagli finiscano nelle carte di un’inchiesta, perché se qualcuno si vuol vendere, non lo fa certo per un piatto di lenticchie. È anche vero, però, che se solo un decimo delle accuse emerse rispondesse a verità (e molti indizi vanno in questo senso) allora saremmo di fronte ad un altro esempio di endemica e ormai imbattibile corruzione all’italiana. E saremmo anche all’ennesima inchiesta che tocca quell’Ncd di Angelino Alfano e Maurizio Lupi, ministri dell’Interno e delle Infrastrutture, che per inseguire sogni di governo, hanno mollato le battaglie «garantiste» di Berlusconi per schierarsi con quella sinistra storicamente vicina ai magistrati anche quando sbagliano (al netto di un premier che ha voluto la norma sulla responsabilità civile delle toghe), senza con questo riuscire a creare una classe dirigente, soprattutto locale, coerente con il nuovo percorso filo-magistrati. Vogliamo ripeterlo: un buon orologio regalato al figlio del ministro e un vestito donato al ministro stesso, non hanno nulla di penalmente rilevante. Forse è solo malcostume italico. Occorre, anzi, stare attenti alla potenza degli schizzi di fango, che in passato hanno rovinato la vita a persone innocenti, inducendone alcuni a togliersela. Così come sarebbe il caso di riflettere sulla puntualità con cui, quando in parlamento si parla dell’opportunità di inasprire le pene sulla corruzione, ecco l’inchiesta sui presunti corrotti; e quando si discute di allungare i tempi della prescrizione, ecco la sentenza su caso Eternit che assolve gli imputati proprio per l’eccessiva lunghezza del processo. Valutare tutto e rimanere vigili, ma senza condannare qualcuno prima di una sentenza. Ercole Incalza per 14 volte è stato indagato, per 14 volte prosciolto. Inorridiamo pure ma un po’ di prudenza non guasta.
APPALTI PUBBLICI. IL BANDO DI GARA: UN CAMPO MINATO.
Le clausole del bando di gara: vero campo minato, scrive Giovanni Gioffré su “Altalex”.
SOMMARIO: 1. Parte generale – 2. Regole procedimentali - loro applicazione – 3. Le clausole - 5. Approvazione del bando di gara - 4. Requisiti ulteriori del bando - 6. Modalità di presentazione delle offerte - 6.1. Modalità di confezionamento del plico – 6.2. Sigillatura – 6.3. Sigillo con la ceralacca recante un'impronta – 7. Modalità di recapito alla stazione appaltante – 7.1. Modalità di recapito - spedizione mediante servizio postale – 7.2. Modalità di spedizione - la raccomandata – 7.3. Modalità di spedizione - presentazione a mano - 8. Capacità economica e finanziaria - fatturato – 8.1. Entità del fatturato - 9. Attribuzione di notevole peso ad un determinato parametro - 10. Documento di identità scaduto - 11. Arrotondamento del calcolo - 12. Dilazioni di pagamento – 13. Conclusioni - Appendice (massimario delle sentenze).
1. Parte generale. Preliminarmente, prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici decretano o determinano di voler contrattare, in conformità ai propri ordinamenti, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte ai sensi dell’art. 11, comma 2 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici). La scelta del contraente che la pubblica amministrazione si appresta a fare e con cui concludere un contratto di appalto per la realizzazione di lavori pubblici, si realizza attraverso una serie procedimentale interamente regolamentata da norme pubblicistiche preordinate alla ricerca del migliore contraente possibile sia dal punto di vista soggettivo (con riferimento ai requisiti soggettivi, alle capacità tecniche, organizzative e finanziarie) sia dal punto di vista oggettivo, con riferimento alla qualità dell'offerta formulata, in relazione alla economicità e quindi al buon uso del pubblico denaro, nel rispetto dell'articolo 97 della Costituzione “buon andamento imparzialità della pubblica amministrazione”. In considerazione della finalità pubblicistica cui sono predisposti tali principi che, come prima accennato, possono sintetizzarsi nell'esigenza di individuazione del "giusto" contraente, al loro rispetto è vincolata sia la Pubblica Amministrazione che il concorrente il quale è chiamato a fare offerte serie e rispettose delle regole del bando di gara. A fronte di tale obbligo comportamentale che incombe sui concorrenti si giustifica il potere conferito dalla legge alle stazioni appaltanti, nel rispetto delle specifiche norme e di quelle altrettanto specifiche contenute nella lex specialis di escludere i concorrenti dalla partecipazione alla gara. Per quanto precede appare evidente che i principi di cui si è appena detto si comincia ad osservarli e a metterli in pratica principiando da quello strumento che è il bando di gara le cui clausole sono un vero e proprio “campo minato”. Anche se non esiste una definizione esaustiva del bando di gara esso è stato definito quale “atto amministrativo a carattere normativo e costituisce lex specialis della procedura, rispetto alla quale l’eventuale jus superveniens, di abrogazione o di modifica di clausole, non ha effetti innovatori”. Il bando di gara, secondo l’orientamento di parte della dottrina assume la caratteristica di “invito ad offrire”. In base alle condizioni prescritte dal bando le imprese rispondono all’invito con la loro offerta che viene confezionata in relazione alle clausole previste dal bando di gara. La serie di regole fissate dal codice dei contratti costituiscono il contenuto obbligatorio minimo dal quale non è possibile derogare. Sul punto si tenga presente che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che i requisiti indicati dagli artt. 13, comma 1 e 14 comma 1, del D.Lgs. n. 157/95, confluiti negli artt. 41 e 42 del codice dei contratti pubblici, rappresentano requisiti minimi indispensabili per provare la capacità economica e tecnica dell’impresa aspirante all’aggiudicazione del contratto. Accanto alle regole cosiddette obbligatorie possono essere previste una serie di disposizioni poste in essere dalle stazioni appaltanti. Le ragioni che inducono le stesse amministrazioni appaltanti a introdurre ulteriori clausole nel bando di gara, e di cui si dirà dopo, possono essere diverse. La facoltà della quale si discute però non è illimitata perché incontra dei limiti rappresentati dalla necessità che dette clausole o ulteriori requisiti, rispetto a quelli previsti dalla legge, non siano eccessivi in rapporto all'oggetto dell'appalto. La stazione appaltante, nel caso faccia uso del suo potere discrezionale aumentando i limiti previsti o diminuendoli o nel caso voglia valorizzare i requisiti tecnico organizzativi invece di quelli economico-finanziari ecc., deve motivare adeguatamente l’esercizio di tale potere considerato che la motivazione costituisce uno strumento di verifica essenziale onde evitare che lo stesso potere sconfini nel mero arbitrio a scapito dei principi della ragionevolezza razionalità, adeguatezza e congruità. Frequentemente il bando di gara contiene clausole che comminano l’esclusione per quelle ditte che non si adeguano alle prescrizioni in esso contenute e che non sempre sono ritenute legittime dalla giurisprudenza. Per evitare tali rischi occorre vagliare le clausole attentamente perché in presenza di prescrizioni dichiarate illegittime da parte della giurisprudenza vengono travolti gli effetti del contratto eventualmente sottoscritto esponendo l’ente pubblico a pesanti censure e conseguentemente al possibile pagamento di cospicui risarcimenti per danni. A tale proposito si evidenzia che i pronunciamenti del giudice amministrativo in merito a clausole ritenute illegittime con conseguente annullamento delle procedure in tutto o in parte sono oramai numerosissimi e la tendenza sembra destinata a continuare. Non di rado dunque le clausole “ulteriori” danno luogo a contenzioso e che saranno l’oggetto del presente contributo.
2. Regole procedimentali - loro applicazione. Occorre evidenziare che il rispetto delle clausole assume particolare rilevanza ove semplicemente si consideri che poi sono lo strumento attraverso il quale si procede all’aggiudicazione del contratto. La stazione appaltante, in occasione della predisposizione delle norme che regolano la procedura di una gara di appalto è obbligata ad indicare in modo estremamente chiaro i requisiti richiesti alle imprese, che si accingono a partecipare alle gare, onde evitare la mortificazione del principio della massima concorrenza che sta alla base del pubblico interesse caldeggiato e sancito dalla normativa nazionale e comunitaria. Una volta stabilite le regole che governeranno la procedura di gara non è possibile cambiarle né integrarle "in corso d'opera", specie dopo l'apertura delle buste, magari con una "interpretazione autentica" da parte della pubblica amministrazione. Nel merito occorre sottolineare che il principio della massima partecipazione opera solo nel caso in cui, appunto, le clausole siano di incerta interpretazione.5 In tale eventualità occorre prediligere quella che favorisce la più ampia partecipazione alla gara. Inoltre secondo giurisprudenza costante, vale il principio secondo il quale le regole procedimentali della gara non possono essere disapplicate né dall’Amministrazione appaltante né dalla Commissione di gara. L'introduzione di clausole in un bando di gara deve essere sempre rispondente alle finalità che si intendono perseguire attribuendo perciò alle medesime il significato più confacente alla natura e all'oggetto del contratto secondo quanto stabilisce l'articolo 1369 del codice civile. In ogni caso occorre dare prevalenza alle espressione letterarie contenute nelle clausole con esclusione di ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare pretesi significati impliciti potendosi in tal modo vulnerare l'affidamento dei partecipanti e la par condicio fra di essi. Ci sembra utile evidenziare che una clausola può apparire e indubbiamente appare, chiara e pacifica a chi è abituato a questioni riguardanti procedimenti ad evidenza pubblica per l'aggiudicazione dei contratti. Può non essere così per i non "addetti ai lavori" i quali forse, svolgendo altre attività sono abituati a conoscenze "differenti". Quando le prescrizioni del bando di gara sono chiare ed espressamente sanzionano con l'esclusione il mancato rispetto delle clausole in esse contenute l'amministrazione appaltante è obbligata a dare alle stesse, nel corso del procedimento di gara, puntuale applicazione. Infatti in tale sede la stazione appaltante è tenuta ad applicare e ad osservare essa stessa, in modo incondizionato, le clausole inserite nella lex specialis in ordine ai requisiti di partecipazione, ovvero alle cause di esclusione dalla gara, non essendovi spazio per valutazioni di carattere discrezionale sulla ricorrenza dei presupposti di carattere soggettivo od oggettivo come predeterminati, essendo quelli, e non altri, funzionali alla realizzazione dell’interesse pubblico, (scelta del miglior contraente possibile in relazione allo specifico oggetto del contratto) che la stessa P.A. deve perseguire attraverso la procedura concorsuale. D’altro canto, solo la puntuale osservanza delle prescrizioni del bando, ancorché le stesse siano ulteriori rispetto a quelle previste dalle leggi di settore, ma pur sempre ricollegabili in via diretta all’interesse pubblico da perseguire, è idonea a consentire la realizzazione della par condicio nei confronti di tutti i partecipanti alle gare per la stipula dei contratti con la P.A. La rigorosa previsione e applicazione delle clausole in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione ai pubblici appalti è controbilanciata dall’interesse della stessa P.A. di circoscrivere la gara alle sole imprese munite dei necessari presupposti funzionali all’esecuzione delle obbligazioni contrattuali. Infine va precisato che il procedimento per la scelta del "giusto contraente" da parte della Pubblica Amministrazione, anche se articolato in diverse fasi, ha carattere unitario e si conclude con l'aggiudicazione definitiva8 o, in assenza di offerte valide, con la dichiarazione di "gara andata deserta." Nella seconda ipotesi, valutati i motivi per i quali l'esperimento di gara non è andato a buon fine, l'amministrazione appaltante può procedere ad un nuovo esperimento di gara.
3. Le clausole. Le condizioni generali di partecipazione alle gare di appalto sono fissate attraverso clausole o prescrizioni che sono predisposte da un soggetto appaltante per regolare uniformemente i suoi rapporti contrattuali. Le clausole delle quali si discute hanno valore regolamentare e impegnano sia la Pubblica Amministrazione che le imprese concorrenti. Nella pubblica amministrazione le clausole generali trovano riscontro in quelle contenute nei capitolati generali o speciali-tipo i quali, giusta definizione contenuta nell'articolo 45 R.C.S. contengono le condizioni che possono applicarsi indistintamente ad un determinato genere di appalto o contratto. In generale sono da considerarsi illegittime quelle clausole del bando di gara che aggravano ingiustificatamente il procedimento ai sensi dell'articolo 1, comma 2 della legge n. 241/90 ponendo a carico dei concorrenti, a pena di esclusione oneri non necessari. Sul punto occorre evidenziare che diverse sono le clausole che i giudici di prime cure e d’appello hanno ritenuto illegittime per varie motivazioni. Così ad esempio è stata considerata illegittima quella clausola che prescrive l'apposizione sul plico anche l'indicazione del giorno fissato per la gara perché aggrava la procedura stessa.10 Quella secondo la quale non è possibile prevedere nel bando di gara la possibilità che la commissione giudicatrice proceda alla suddivisione dei criteri in dettagliati sotto conteggi. Non è possibile inserire nel bando la clausola che vieta la partecipazione alle imprese che hanno un contenzioso in atto con la stazione appaltante atteso che, in tale ipotesi, l’Amministrazione, con l’inserimento nella lex specialis di tale clausola finisce suo tramite, per conculcare, in forma surrettizia, il diritto delle ricorrenti di perseguire giudizialmente la tutela dei loro diritti ed interessi legittimi, incidendo in modo irragionevole sulla loro libertà negoziale e di impresa, fatta parimenti oggetto di garanzia costituzionale. Tra le clausole che prevedono l'esclusione non può essere inserita quella secondo la quale: “sarà esclusa l’impresa che si è resa gravemente colpevole di false dichiarazioni in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara.” In effetti così come è formulata la clausola ha una portata molto più ampia di quella che la legge richiede. Infatti, l’interpretazione che si potrebbe dare a tale clausola sarebbe: "che mai la ditta o società rappresentata si è resa gravemente colpevole di false dichiarazioni" traducendosi pertanto in una situazione giuridica perpetua. Nel merito, così come formulato l’articolo 75 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 il quale, nel disporre al comma 1 lett. h) la esclusione delle imprese "che nell'anno antecedente alla data di pubblicazione del bando di gara hanno reso false dichiarazioni, in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara," ha inteso fissare una scansione temporale riferita "all'anno antecedente alla data di pubblicazione del bando di gara…….." temperando così l'efficacia interdittiva delle “false dichiarazioni” rese al solo anno antecedente quello della pubblicazione del bando e ciò per non addivenire ad una sorta di "esclusione perpetua" dell'impresa. Il bando può contenere la clausola che impone di rendere dichiarazioni circa l’assunzione di determinati impegni. Nel qual caso la clausola va osservata da parte delle ditte partecipanti e non può ritenersi surrogata dalla accettazione generica di tutte le clausole contenute nel capitolato speciale. Né vale la circostanza che la ditta partecipante abbia sottoscritto in ogni sua pagina il capitolato speciale necessitando espressamente la dichiarazione per come prescrive il bando. E’ appena il caso di evidenziare che qualora tali requisiti vengano a mancare, non è consentito alla P.A. ammettere alla competizione le offerte che ne siano carenti. Tale comportamento sarebbe lesivo dell’interesse degli altri concorrenti provvisti di tutti i requisiti ed esporrebbe l’ente a sicura censura. La stazione appaltante non conserva alcun margine di discrezionalità in ordine alla necessità, da parte dei partecipanti, di esibire i documenti pretesi, ostandovi il principio di tutela della par condicio, né può disapplicare la disposizione specificamente data, salvo naturalmente l’esercizio del potere di autotutela. Allorquando la pubblica amministrazione voglia introdurre regole più restrittive e requisiti di partecipazione non previsti dalla legislazione, fermo restando il suo potere discrezionale, è necessario che siano osservati i principi di proporzionalità e adeguatezza ed è tenuta a raccordare le stesse clausole all'oggetto dell'appalto.
4. clausole o requisiti ulteriori del bando. Prima di addentrarci con la dovuta attenzione nel “campo minato” delle clausole ulteriori, o prescrizioni del bando di gara, vale la pena fare qualche riflessione sul perché le amministrazioni appaltanti avvertono l’esigenza di introdurre ulteriori requisiti, anche più severi, nella lex specialis in aggiunta a quelli minimi previsti dalla legge. L'esigenza di ulteriori requisiti più severi è dettata dalla necessità di ancorare l'affidabilità astratta di una impresa al contestuale possesso dei requisiti richiesti dal bando anche al fine di tutelare meglio l’interesse pubblico. Requisiti che poi possono essere accertati con diversi strumenti in sede di gara. La Pubblica Amministrazione, nel costruire un bando di gara di un pubblico appalto, là dove inserisce disposizioni ulteriori rispetto al contenuto minimo previsto ex lege, esercita un potere che rientra nell'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione Pubblica appaltante ed è attinente al merito dell’azione amministrativa. Va però puntualizzato che tale potere deve essere esercitato secondo criteri non discriminatori, di logicità, ragionevolezza e al generalissimo principio di proporzionalità rispetto all'oggetto dell'appalto e non costituire una indebita limitazione dell'accesso alla gara delle imprese presenti sul mercato in violazione dei principi di concorsualità e di ampia partecipazione ai quali devono uniformarsi le procedure ad evidenza pubblica. Ovviamente quanto fin qui esposto circa l'interesse pubblico alla più ampia partecipazione, trova un chiaro e invalicabile limite nelle disposizioni del bando di gara. Allorquando infatti l'amministrazione autolimita la propria discrezionalità fissando chiari requisiti di partecipazione la stessa si priva momentaneamente del proprio potere discrezionale essendo essa obbligata alle norme che si è dato. Così non è possibile pretendere, attraverso la lex specialis, né tantomeno in un momento successivo alla relativa pubblicazione ulteriori prescrizioni che in qualche modo possano ingiustificatamente comportare la indebita esclusione di imprese. Il limite all'inserimento di tali ulteriori requisiti, ovviamente, secondo consolidata giurisprudenza, è rappresentato dal rispetto dei principi della par condicio, della massima partecipazione, della ragionevolezza, logicità e proporzionalità in relazione all'obiettivo perseguito che è la ricerca del "giusto" contraente. In ossequio ai principii di cui si è detto la P.A., nel perseguimento dei fini istituzionali, deve adottare la soluzione idonea e adeguata comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti. Quindi non è possibile inserire clausole che aggravano ingiustificatamente la procedura amministrativa e che risultano in contrasto con i principi di cui si è detto. Brevemente, come già accennato, occorre evidenziare che in sede di compilazione del bando di gara è necessario precisare quali sono i poteri attribuiti alla commissione significando nel contempo che in nessun caso è consentito alla commissione di gara di inserire clausole aggiuntive a quelle previste dal bando. Nello specifico la commissione può essere legittimata ad introdurre elementi di specificazione e prevedere sottovoci delle categorie principali già definite, ove ciò occorra, per una più esatta valutazione delle offerte. Gli ulteriori requisiti di cui si discute possono riguardare più segmenti facenti parte dell'unica procedura della gara di appalto tra i quali ricordiamo: il confezionamento del plico contenete la documentazione richiesta dal bando e l’offerta economica propriamente detta, le diciture da apporre sul plico e sulle buste interne (mittente, destinatario, dicitura "offerta per la gara del………..”, ecc. ecc.) la sigillatura, la modalità di presentazione - spedizione mediante servizio postale, mediante servizio di posta celere; personalmente a mano al protocollo dell'ente (auto prestazione), requisiti di partecipazione quali la capacità economica e tecnica; peso preponderante; fatturato; localizzazione. L’eventuale inserimento di requisiti aggiuntivi devono essere previsti all'insegna della massima partecipazione. Infine, costruito il bando con la previsione di quelle regole che governeranno la gara occorre avere ben chiaro che giammai la lettera di invito, la dove prevista, possa apportare correzioni alla lex concorsualis.
5. Approvazione del bando di gara. Con l'entrata in vigore del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, c.d. T.U.E.L.) viene sancita definitivamente la separazione della gestione dalla politica anche se a volte si registrano dei ripensamenti da parte di quest’ultima più o meno marcati. Nel merito secondo il disposto dell'articolo 107 del T.U.E.L. la competenza per l'approvazione del bando di gara è attribuita ai dirigenti. Nei Comuni sprovvisti di figure dirigenziali, dai responsabili di servizio ai sensi del successivo art. 109. Tale competenza è stata loro attribuita dalla legge 15 maggio 1997, n. 127, conosciuta come Bassanini bis, attraverso la modifica del terzo comma dell'articolo 51 della legge n. 142/90, disposta dall’art 6, che ha attribuito loro tutte le competenze ivi elencate indicativamente e quindi ogni responsabilità in tema di procedure d'appalto a partire dall’approvazione del bando. Il bando di gara è pacificamente revocabile, in presenza di motivi di interesse pubblico, fino al momento prima dell’aggiudicazione, e senza che ciò comporti alcun diritto ad indennizzo. E’ opportuno che di tale eventualità ne sia data notizia nel bando stesso.
6. modalità di presentazione delle offerte.
6.1. Confezionamento del plico. Con il bando di gara la pubblica amministrazione appaltante chiede alle imprese interessate di proporre le proprie offerte. Il bando di gara detta le regole di confezionamento del “plico” contenente l'offerta economica e la documentazione di rito. Giova ricordare che il bando deve prevedere esplicitamente la esclusione di quelle imprese che omettano di osservare talune delle clausole del bando. Tra le ulteriori formalità che l'amministrazione appaltante può prescrivere legittimamente vi è quella, che ormai è diventata la regola, di tenere separati i documenti di gara dall'offerta economica. È prescritto quindi che l'impresa introduca i documenti di gara, le eventuali giustificazioni e l'offerta economica propriamente detta in buste separate. Le buste opportunamente sigillate e, se prescritto dal bando, controfirmati sul lembo di chiusura, dovranno essere racchiuse in una busta che in senso tecnico prende il nome di "plico" da presentarsi a cura dell’impresa, alla stazione appaltante. L'esigenza di tenere separati i due momenti di accesso alla gara dal vaglio dell'offerta è determinata dalla necessità di evitare che l'offerta stessa possa influenzare le condizioni della gara stessa minando il principio della par condicio tra i concorrenti. Nel merito è stato sostenuto che: “Va esclusa da una gara pubblica di appalto un’impresa che, in violazione di quanto prescritto dalla lex specialis, abbia omesso di presentare l’offerta economica in busta separata e sigillata; in tal caso, infatti, si configura la violazione del principio di segretezza dell’offerta e del corretto procedimento di gara, atteso che il mancato inserimento in apposita busta rende immediatamente palese l’offerta, prima ancora dell’esame degli altri elementi, con la conseguente preclusione della possibilità di salvaguardare l’imparzialità del suddetto esame, in quanto potenzialmente influenzabile dall’avvenuta conoscenza dell’offerta complessiva medesima.” L’esclusione dalla gara va disposta anche se tale sanzione non sia stata espressamente prevista dal bando. Un simile effetto, infatti, in un procedimento strettamente informato ai principi di segretezza delle offerte e di correttezza delle valutazioni relative alle offerte di partecipanti, deve farsi derivare da ogni violazione delle norme di gara che comporti in qualche modo la mancata applicazione degli criteri posti a presidio della par condicio dei partecipanti e, quindi, della trasparenza ed imparzialità nello svolgimento della procedura. Dopo la fase dell'inserimento dei documenti e dell'offerta economica dentro il "plico" il bando prevede normalmente come completare il "rito" del confezionamento procedendo all’apposizione delle diciture prescritte, alla "sigillatura" e alla controfirma sul lembo di chiusura.
6.2. Sigillatura. Quello della sigillatura è un segmento del modo di presentazione delle offerte di cui, spesso, si è occupata la giurisprudenza la quale, per la verità, come si vedrà di seguito, in più di qualche occasione, è stata un po' “ondivaga” facendo sorgere qualche perplessità. Fatta questa breve premessa va detto che già l'articolo 75 del Regio Decreto 23 maggio 1924, n. 827 prevedeva, testualmente, che “le offerte per essere valide devono pervenire in piego sigillato non più tardi del giorno precedente a quello in cui si tiene l'asta”. Il sigillo di cui si discute si intende solitamente ceralacca o materiale plastico. Circa il modo di sigillare le buste interne contenenti i documenti di rito e l'offerta economica, e quindi la busta grande contenente il tutto, sono state sostenute tesi diverse da parte della giurisprudenza e non di rado in contrasto tra loro. Anzitutto va precisato che la stazione appaltante deve indicare le modalità di sigillatura sia della busta principale (cosiddetta busta esterna ) e sia di quelle interne contenenti i documenti di rito prescritti dal bando e l’offerta economica. Là dove siano state indicate con chiarezza le modalità di sigillatura a pena di esclusione vige la regola generale della esclusione dalla gara per quelle imprese che non abbiano osservato le prescrizioni della lex specialis. Il Consiglio di Stato, a tale proposito ha sostenuto che qualora il bando non sia chiaro circa la prescrizione della specifica modalità della chiusura della busta “l’uso di un sigillo di ceralacca non è indispensabile affinché sia impedita la manomissione della busta contenente l'offerta; tale finalità può essere ottenuta anche grazie alla firma apposta dai rappresentanti dell’impresa sui lembi di chiusura”. Con successiva decisione il Consiglio di Stato si è pronunciato nel senso che “è illegittima l’esclusione di una ditta che ha presentato la propria offerta ed i documenti ad essa allegati in buste sigillate nei lembi con la ceralacca ma prive della sottoscrizione dei lembi richiesta dal bando di gara. Se è vero, infatti, che l’Amministrazione ha la facoltà di richiedere il doppio sistema di garanzia (ceralacca e firma), è anche vero che, una volta osservata la formalità relativa alla ceralacca, la omissione della controfirma sui lembi, specie in assenza di una specifica comminatoria di esclusione, non è in grado di pregiudicare interessi pubblici essenziali, e quindi dà luogo ad una mera irregolarità.” Dalle due massime sopra citate una riflessione appare necessaria: il Consiglio di stato nella Sentenza n. 3272/2002, citata in nota n 26, sostiene la non indispensabilità della ceralacca affinché siano impedite manomissioni della busta contenente l’offerta essendo sufficiente la firma apposta dai rappresentanti dell’impresa sui lembi di chiusura. Nella successiva Sentenza n. 4941/2005 il Giudice d’appello afferma che sebbene il bando preveda la sottoscrizione dei lembi di chiusura della busta da parte dei rappresentanti dell’impresa è da considerarsi illegittima in l’esclusione di una ditta che ha presentato la propria offerta ed i documenti ad essa allegati in buste sigillate nei lembi con ceralacca ma prive della sottoscrizione dei lembi di chiusura. E’ da considerarsi, altresì, illegittima in assenza di una specifica comminatoria di esclusione sostenendo dunque che il sigillo a ceralacca è sufficiente a garantire gli interessi pubblici essenziali. Evidentemente il Consiglio di Stato ha mutato orientamento ritenendo superflua la sottoscrizione da parte dei rappresentanti dell’impresa considerando soddisfatte le condizioni richieste dal bando con l’uso del sigillo a ceralacca apposto sui lembi di chiusura. Tuttavia il Consiglio di Stato sembra rivedere ulteriormente il suo precedente orientamento circa l’importanza della controfirma sui lembi di chiusura della busta e confermando la funzione del sigillo a ceralacca che è quella di evitare manomissioni delle busta stessa. Infatti nella massima che segue il Giudice d’appello sostiene: “nel caso in cui il bando di gara prescriva espressamente che i plichi contenenti le offerte debbono essere sigillati con ceralacca pressata a caldo col timbro dell’impresa, prevedendo l’esclusione nel caso di mancanza di chiusura e sigillo, non può essere esclusa dalla gara una ditta la cui offerta sia pervenuta in busta nella quale il timbro sul sigillo è regolarmente impresso ma non compiutamente leggibile, ove il bando stesso preveda anche la controfirma sui lembi di chiusura della busta, atteso che in tale ipotesi il sigillo ha la sola funzione di evitare abusive manomissioni delle buste con eventuali indebite sostituzioni del contenuto originario e tale scopo può dirsi raggiunto anche con un sigillo con timbro illeggibile”.
6.3. Sigillo con la ceralacca recante un'impronta. Circa il modo di apporre il sigillo una ulteriore prescrizione che un bando può prescrivere, è quella che prevede la sigillatura con ceralacca "con impresso un segno non facilmente contraffabile." Solitamente il segno è il sigillo della stessa impresa che viene impresso sulla ceralacca mancando il quale, secondo il TAR Lazio, un'impresa può essere esclusa da una gara. A tale proposito, a nostro avviso, la previsione di un sigillo impresso a caldo sulla ceralacca, è da ritenersi superfluo. Tale convincimento trova conforto con quanto sostiene il TAR Puglia. Infatti secondo il primo giudice pugliese la prescrizione di un sigillo impresso a caldo sulla ceralacca costituisce un inutile appesantimento della procedura posto che “ai fini dell’ammissibilità ad una gara pubblica, non è necessaria l’apposizione sulla ceralacca di un segno di riconoscimento, ancorché richiesto, a pena di esclusione, dal bando di gara o dal capitolato, atteso che il verbo «sigillare» è ormai comunemente usato nel linguaggio comune non nel suo significato etimologico di apposizione di un sigillo, ma in quello, estensivo, indicante una chiusura ermetica tale da impedire ogni accesso o rendere evidente ogni tentativo di apertura”. Il Consiglio di Stato, opportunamente, ha sottolineato che la verifica della documentazione prescritta va effettuata tenendo conto della evoluzione dell'ordinamento in favore della semplificazione e del divieto dell'aggravamento della procedura e non con lo spirito della caccia all'errore ad ogni costo. Nelle due massime che precedono sia il Consiglio di Stato che il Tar Puglia oltre a giurisprudenza maggioritaria emerge chiaramente il richiamo a non appesantire la procedura, in ossequio all'articolo 1, comma 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e a tenere conto soprattutto dell'interesse pubblico che sta alla base dell'azione amministrativa. Nel merito si può dunque legittimamente sostenere che il sigillo in generale così come sostenuto dalla prevalente giurisprudenza serve a garantire che non vi siano manomissioni dei plichi con la conseguente sostituzione di documenti o aggiunte o, ancora peggio, sostituzioni di offerte economiche. Dalle previsioni di cui all'articolo 75 del Regio Decreto 23 maggio 1924, n. 827 sono passati diversi lustri e la sigillatura con ceralacca può essere sostituita con quella altrettanto efficace del nastro adesivo trasparente da apporre sui lembi di chiusura ivi compresi quelli di fabbricazione opportunamente controfirmati dal legale rappresentante. Si ritiene di dover includere anche i lembi di chiusura di fabbricazione perché, come giustamente fatto rilevare in giurisprudenza, quei lembi possono facilmente essere aperti con il vapore. Si può verificare che i sigilli a ceralacca si possono facilmente rompere e andare distrutti accidentalmente. Nel qual caso, di fronte ad una precisa comminatoria di esclusione prevista dal bando di gara delle offerte che dovessero pervenire prive dei sigilli a ceralacca, ci si chiede se sia giusto escludere una o più ditte da una gara di appalto perché prive dei sigilli a ceralacca in considerazione del fatto che “nelle gare d’appalto, l’offerta deve pervenire assolutamente integra, affinché ne sia garantita la segretezza, a salvaguardia dell’oggettività e della serietà della procedura”. Conclusivamente, non si può certamente negare che efficaci sistemi di sigillatura giovano a soddisfare legittime esigenze di trasparenza e imparzialità e sono giustificate dalla necessità di assicurare la custodia e l’integrità delle buste contenenti l'offerta economica tenendo presenti da un lato la circostanza che si tratta di operazioni che si possono svolgere, per legge, in più sedute distanziate nel tempo e dall'altro, la notoria possibilità di aprire e chiudere agevolmente i lembi pre incollati delle buste all'uopo comunemente usate. Nel merito riteniamo che forse è assolutamente ozioso rammentare che una pratica del genere rientra comunque nell’ambito della patologia ed è penalmente apprezzabile. A nostro sommesso avviso riteniamo che un sistema efficace di sigillatura, che non aggrava la procedura e che pertanto possa essere prescritto, sembra essere quello che prevede la firma sui lembi di chiusura con la sovrapposizione del nastro adesivo trasparente su tutti i lembi di chiusura lasciando al libero apprezzamento delle imprese se servirsi anche del sigillo a ceralacca quale ulteriore garanzia a loro favore.
7. Modalità di recapito del plico alla stazione appaltante. Circa il modo di recapito del plico, che costituisce un altro segmento della procedura di partecipazione alle gare d'appalto non poche sono state le controversie a risolvere le quali è chiamata la giurisprudenza. Le stazioni appaltanti non di rado esercitano la loro facoltà di prevedere ulteriori clausole inserendo quelle prescrizioni che ritengono più opportune anche per quanto concerne la modalità di recapito dei plichi contenenti le offerte alle stazioni appaltanti. Tra le modalità di consegna più in uso si ricordano quella effettuata mediante il servizio postale, servizio di postacelere, a mano direttamente al protocollo. Nel prevedere le modalità di consegna il bando deve chiaramente prevedere la comminatoria dell’esclusione in caso di inosservanza delle clausole imposte, mancando le quali è illegittimo escludere quelle imprese che non vi ottemperino.
7.1. Modalità di recapito - spedizione mediante servizio postale. Un'altra previsione che spesso viene inserita nel bando è quella che prevede il recapito dell’offerta esclusivamente tramite il servizio postale nelle forme della raccomandata a.r. senza prevedere forme alternative. Nel merito è stato detto che la previsione del bando di gara che impone ai partecipanti, a pena di esclusione, di fare pervenire l’offerta entro un certo termine, solo mediante il servizio postale, senza consentire altre modalità equipollenti, è illegittima in quanto aggrava immotivatamente le condizioni di partecipazione alla gara. Di diverso avviso è il TAR Puglia il quale ha sostenuto la legittimità della clausola del bando di gara che prevede a pena di esclusione che le offerte debbono essere presentate tramite il servizio postale (raccomandata o servizio di postacelere) con esclusione di strumenti equipollenti. Una via mediana è rappresentata dall’orientamento del Consiglio di Stato il quale sostiene che la previsione della consegna esclusivamente a mezzo del servizio postale non può dirsi illegittima in assoluto potendo essere legittimamente inserita nel bando di gara allorquando è previsto un congruo termine per la presentazione delle offerte.
7.2. Modalità di spedizione - la raccomandata. La Pubblica Amministrazione appaltante può prescrivere la presentazione dell’offerta mediante la raccomandata scegliendo tra i due prodotti postali: la raccomandata a.r. o la raccomandata semplice. Anche sull’argomento ha avuto modo di pronunciarsi la giurisprudenza parte della quale si è pronunciata pro raccomandata a.r. altra parte ritiene che la prescrizione di tale mezzo come esclusivo sia da ritenere illegittimo. Tra i sostenitori della raccomandata a.r. va citato il Consiglio di Stato il quale ha sostenuto la legittimità di quella clausola del bando che impone il recapito dell’offerta mediante raccomandata ritenendo tale metodo né una formalità arbitraria né superflua. E’ stato detto che l'interesse pubblico sotteso alla prescrizione dell'uso del servizio raccomandato per la trasmissione dei plichi contenenti le offerte, che oggi è il mezzo prevalente previsto nei bandi di gara, va senz'altro riconosciuto nell’esigenza dell'amministrazione di conseguire pubblica certezza circa gli estremi della spedizione (data di invio, identificazione del mittente è data della ricezione) e di attribuire l'esclusivo compito di registrare e documentare tali informazioni al servizio postale pubblico. Sul punto pensiamo che sia condivisibile la clausola che prescrive quale mezzo di recapito quello del servizio postale mediante la raccomandata semplice. A nostro avviso va detto che la prescrizione della raccomandata a.r. in effetti si traduce in un appesantimento della procedura ove si consideri che l’avviso del ricevimento risponde ad una finalità di esclusivo interesse del mittente ai fini della eventuale prova della tempestività dell’offerta. La disposizione di che trattasi è stata ritenuta illogica, aggrava la procedura in quanto l'avviso di ricevimento costituisce un vero elemento di prova dell'avvenuto invio a favore dell'istante ma dal punto di vista dell'amministrazione a nulla rileva. Si può legittimamente sostenere che se mai, l'invio dell'offerta mediante a. r. costituisce un onere a carico dei privati ma non un obbligo. Va evidenziato che le esigenze dell'amministrazione possono essere soddisfatte anche da altre forme infatti il Consiglio di Stato non chiude ad altre possibilità di recapito. A tale proposito è stato sostenuto dal giudice d’appello che anche quando il bando di gara prevede la presentazione mediante il servizio raccomandato non esclude la possibilità di presentazione mediante altre forme quali ad esempio il servizio di postacelere dato che lo stesso, “per come regolato dal vigente ordinamento postale, è idoneo a garantire le esigenze di documentazione degli estremi della spedizione ed è da considerare sostanzialmente equipollente al servizio raccomandato, avendo la capacità di soddisfare in egual misura gli interessi dell’Amministrazione.” Si fa osservare che il servizio di cui si discute è stato istituito con decreto ministeriale 28 luglio 1987, n. 564 ed è stato assoggettato al medesimo regime dei servizi postali e di telecomunicazioni. Esso comprende la registrazione delle essenziali informazioni relative alla spedizione (identità del mittente e del destinatario e date di invio e di ricezione) e risulta affidato al servizio postale pubblico.
7.3. Modalità di spedizione - presentazione a mano. E’ stato sostenuto che in assenza di apposita previsione della sanzione di esclusione, anche se il bando prevede la consegna mezzo servizio postale la stessa può avvenire a mano personalmente, mediante corriere privato non potendosi disporre legittimamente l'esclusione a carico di quella ditta che non ha osservato la prescrizione del bando. Sul punto occorre evidenziare che la presentazione diretta (autoproduzione) è la regola generale nelle gare d'appalto e costituisce espressione di un principio di libertà che non può essere derogata dal bando di gara. Per quanto precede deve considerarsi illegittima quella clausola del bando di gara che non consente la consegna diretta dell'offerta. Infatti tale prescrizione, oltre a dimostrarsi irragionevole, e in evidente contrasto con l'articolo 8 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 recante “attuazione della direttiva 97/67/CE concernente le regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio”43 secondo cui è consentita senza l'autorizzazione la prestazione di servizi postali da parte di persona fisica o giuridica che è all'origine della corrispondenza (auto prestazione) oppure da parte di un terzo che agisce esclusivamente in nome dell'interesse dell'autoproduttore. Nel merito va sottolineato che a prescindere dalla modalità di consegna effettivamente scelta il plico deve essere presentato entro l’ora indicata nel bando (tradizionalmente, entro le 12:00 del giorno fissato per la presentazione delle offerte., non potendosi ritenere che nel caso di consegna diretta del plico questa possa essere effettuata comunque entro l’orario di chiusura degli uffici (ore 14:00). A tale proposito si rammenta che il termine ha natura decadenziale.
8. Capacità economica e finanziaria - fatturato. Come sì è già avuto modo di dire è consentito alla stazione appaltante di inserire ulteriori clausole anche più rigorose e restrittive di quelle previste dalla legge a condizione però che siano rispettati alcuni principi fondamentali, più volte richiamati, di proporzionalità e ragionevolezza. La ratio sottostante la individuazione da parte della stazione appaltante di requisiti relativi al possesso di pregresse esperienze, in grado di evocare una astratta affidabilità dei concorrenti va combinata con la più generale ratio che presiede alla stessa esistenza delle procedure concorsuali. La breve premessa di cui sopra trova fondamento ove si pensi alle prescrizioni di un bando di gara che riguardano il fatturato o più in generale la capacità economica e finanziaria. La norma non stabilisce in modo tassativo quali sono i requisiti da richiedere ai partecipanti alle gare di appalto lasciando tale determinazione alla ragionevole discrezionalità delle singole amministrazioni. Le prescrizioni di cui si parla, si è detto, devono necessariamente raccordarsi con l'oggetto dell'appalto e non costituire una deleteria limitazione dell'accesso alla gara delle imprese presenti sul mercato. I requisiti economico finanziari, ad esempio, nell'ambito delle concessioni di lavori pubblici, sono considerati quali indicatori della vitalità attuale e della effettiva capacità operativa dell'impresa (lett. a, art. 98, D.P.R. n. 554/99) nonché della sua affidabilità sotto il profilo finanziario (lett. b); la richiesta dunque del possesso di un adeguato fatturato tende ad ottenere tale assicurazione. I requisiti tecnico-organizzativi previsti dalla stessa norma sono indici rilevatori dell’astratta idoneità dell'impresa a realizzare l'intervento oggetto dell'affidamento in concessione. Va ricordato che i requisiti indicati all'articolo 13, primo comma del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157 attuativo della direttiva comunitaria CEE/92/50, oggi articolo 42 del codice dei contratti sono da considerarsi requisiti minimi indispensabili per provare la capacità economica e finanziaria dell'aspirante "aggiudicatario di un appalto pubblico di servizi". Circa i modi di dimostrare il possesso del fatturato richiesto va detto, secondo quanto sentenziato dal Consiglio di Stato, che l'articolo 13 del D.Lgs. n. 157/95 confluito nell’art. 42 del D.Lgs. n. 163/2006, prevede tra l'altro che le imprese concorrenti possono dimostrare la propria capacità finanziaria ed economica anche con una dichiarazione concernente il fatturato globale di impresa e l'importo relativo a servizi identici a quello oggetto della gara realizzato negli ultimi tre esercizi. Dunque “l'amministrazione in applicazione di tale norma può quindi chiedere che la capacità economico finanziaria sia dimostrata dalle imprese partecipanti ad una gara con l'indicazione del fatturato relativo agli ultimi tre anni”. Il TAR Piemonte sostiene la illegittimità di quella clausola del bando che prescrive solo il fatturato globale. Secondo il primo giudice piemontese l'articolo 42, lettera c) del decreto legislativo 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici) ormai impone che, per la dimostrazione della capacità economica e finanziaria delle imprese partecipanti, l’Amministrazione appaltante richieda una dichiarazione concernente sia il fatturato globale dell’impresa, sia l’importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara, realizzati negli ultimi tre esercizi; tale norma, pertanto, obbliga le Amministrazioni appaltanti a parametrare la capacità economica e finanziaria sul fatturato specifico, riferito ai servizi analoghi a quelli oggetto di gara, e non limitato al fatturato globale. E’ pertanto illegittima la clausola di un bando di gara che, in violazione dell’art 41, lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006, richiede la prova del solo fatturato globale, omettendo quello specifico riferito ai servizi oggetto della gara. Anche il TAR Lecce ha sostenuto la illegittimità della previsione di un fatturato globale negli ultimi tre esercizi finanziari e di importo particolarmente elevato o comunque eccessivo rispetto all'importo a base d'asta, all'oggetto dell'appalto ed alle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione attraverso l’esperimento di gara. Il Giudice di prime cure sostiene infatti che le previsioni sproporzionate rispetto all'oggetto del contratto si risolve in una ingiustificata limitazione della platea dei possibili concorrenti con evidente violazione dell'articolo 42 comma 3 del decreto legislativo 163/2006 il quale riproduce la formulazione dell'articolo 44 comma 3 della direttiva CE 31 marzo 2005/18/4/CE secondo cui le informazioni sulla capacità tecnica e professionale dei fornitori e dei prestatori dei servizi non possono eccedere l'oggetto dell'appalto. Il TAR Emilia-Romagna considera possibile indicare alternativamente il fatturato ovvero il volume di affari contemporaneamente il primo giudice non ha trascurato di pronunciarsi sulla portata delle prescrizioni del bando ritenendo illegittima la clausola che impone la dimostrazione del possesso di un fatturato globale di impresa realizzato nel triennio pari ad un importo equivalente ad oltre diciassette volte il prezzo a base d’asta.
8.1. Entità del fatturato. Avuto riguardo dunque ai requisiti di ammissione l'entità del fatturato è stata e continua ad essere oggetto di contestazione e quindi motivo di apprezzamento da parte della giurisprudenza. Il contenuto precettivo dell'articolo 42 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 il quale prevede i vari requisiti che debbono essere valutati ai fini della determinazione della capacità economico e finanziaria delle ditte partecipanti alla gara è quello di imporre alla pubblica amministrazione appaltante, ai fini del rispetto della trasparenza nonché del rispetto dell'altro non meno importante principio della par condicio dei singoli partecipanti, la preventiva determinazione degli elementi in base ai quali essa procederà ad effettuare la verifica dell'affidabilità economico finanziaria delle imprese partecipanti rispetto al servizio che intende appaltare. Volendo cercare di individuare il punto di equilibrio tra “razionalità non sindacabile” e “illogicità censurabile” potremmo dire che sia l'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici sia il Giudice Amministrativo ritengono congrua e non limitativa dell'accesso alla gara la richiesta di un fatturato nel triennio pregresso, sino al doppio dell'importo posto a base d'asta. A tale proposito il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la clausola del bando che prevede la richiesta del possesso di un fatturato realizzato nel triennio pari all'importo dell'appalto. Il Giudice Amministrativo d’Appello ritiene che la previsione di siffatti requisiti, finalizzati alla verifica di una esperienza maturata nel settore di riferimento risulta coerente con l'interesse pubblico perseguito dalla Pubblica Amministrazione. Risulta anche conforme al dettato dell'articolo 13, comma 1, lettera c) del D.Lgs. n. 157/95 - corrispondente ora all’art. articolo 42, del D.Lgs. n. 163/2006 - laddove riferisce il fatturato necessario a comprovare la capacità economica dell'impresa “ai servizi identici a quello oggetto della gara” intende evidentemente valorizzare l'acquisizione da parte della concorrente di una peculiare perizia acquisita nell'esercizio della medesima attività appaltata. E’ stata, altresì, ritenuta legittima la clausola che prevede il possesso di un fatturato da parte delle imprese partecipanti pari a 1,50 volte l'importo posto a base d'asta realizzato mediamente negli ultimi tre anni. Legittimamente si può confermare quanto detto precedentemente che la richiesta del possesso di un fatturato fino al doppio maturato nel triennio si da ritenere legittima. Al contrario è ritenuto illegittimo l’operato della Pubblica Amministrazione appaltante quando per la partecipazione alle gare d’appalto prevede il possesso di un fatturato molto elevato. Sul punto è stato sostenuto che il potere discrezionale concesso alla Pubblica Amministrazione di prevedere requisiti di partecipazione più restrittivi deve essere esercitato nell’osservanza dei principi di non discriminazione. Pertanto è stato ritenuto illegittimo il bando che richieda ai concorrenti per la partecipazione alla gara un fatturato superiore al doppio del corrispettivo presunto dell’appalto medesimo, con conseguente illogica ed irrazionale sproporzione tra i criteri di filtro di partecipabilità alla gara e l’oggettiva tipologia della gara; più in generale va osservato che la necessaria libertà valutativa di cui dispone la P.A. appaltante nell’ambito dell’esercizio della discrezionalità tecnica che alla stessa compete in sede di predisposizione della lex specialis della gara, deve pur sempre ritenersi limitata da riferimenti logici e giuridici che derivano dalla garanzia di rispetto di principi fondamentali altrettanto necessari nell’espletamento delle procedure di gara, quali quelli della più ampia partecipazione e del buon andamento dell’azione amministrativa. Ancora il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimità la prescrizione del bando che richiede il possesso di un fatturato nell'ultimo triennio di importo pari a sette volte l'importo posto a base d'asta. Un'altra clausola ritenuta illegittima è quella che limita la partecipazione alla gara alle sole imprese con un bilancio in attivo nell'ultimo quinquennio senza prevedere strumenti ulteriori o alternativi per la dimostrazione del requisito come quelli elencati dall'articolo 42 del D.Lgs. n. 163/2006. A tale proposito si evidenzia, come si è più volte ripetuto, che sebbene le amministrazioni appaltanti abbiano la facoltà di introdurre ulteriori clausole, facoltà riconosciuta anche dal diritto comunitario, la clausola censurata è stata ritenuta incongrua e irrazionale nella misura in cui conduce alla meccanicistica esclusione delle imprese che hanno riportato una perdita di esercizio relativamente ad uno solo degli ultimi cinque anni ed escludendo ogni altra possibilità di valorizzazione di ulteriori indici di valutazione idonei a suffragare un complessivo giudizio di capacità economica ed affidabilità quali i bilanci decisamente in attivo in tutti gli anni successivi, la pregressa esperienza maturata in servizi analoghi con le pubbliche amministrazioni, le dichiarazioni bancarie, le dichiarazione dei redditi o le dichiarazioni IVA. In effetti una società nell'ultimo quinquennio può ben presentare almeno un bilancio con il segno "meno" senza per questo essere ritenuta ragionevolmente inaffidabile o "economicamente incapace". Va evidenziata che la perdita di esercizio in uno degli anni dell'ultimo quinquennio può avere cause diverse quali operazioni societarie di espansione mediante incorporazione delle controllate ed avere una gestione economica complessiva assolutamente più che sana. Nel caso in ispecie il prevedere la clausola di cui si discute risulta illogica, discriminante e sproporzionata rispetto allo specifico servizio oggetto dell'appalto che finisce con il restringere il potenziale numero degli aspiranti immotivatamente. E’ stata, altresì, ritenuta illegittima quella prescrizione del bando (come già accennato in precedenza) che richiede alle imprese partecipanti il possesso di un fatturato globale realizzato negli ultimi tre anni equivalente a oltre diciassette volte il prezzo base d'asta. Sul punto, posto che l'amministrazione appaltante deve accertarsi se effettivamente l'impresa partecipante sia in grado di onorare la sua offerta, non si può fare a meno di chiedersi che senso abbia la previsione del possesso di un fatturato pari a diciassette volte l'importo base d'asta. Tale pretesa del bando di gara è sicuramente da ritenersi eccessiva e confliggente con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità. Continuando nella presente rassegna, Il TAR del Lazio, ha ritenuto illegittima la clausola del bando di una gara relativa a forniture di prodotti innovativi (nella specie si trattava di una gara per la stipula di un accordo quadro della durata di cinque anni per la fornitura di n. 100 autobus elettrici a batteria innovativa ad alta capacità con manutenzione full service) che richieda, per la partecipazione alla gara stessa, il possesso da parte delle imprese di un fatturato non proporzionato e che non tiene in debita considerazione la reale struttura del mercato di che trattasi (fornitura di autobus elettrici ad alta tecnologia e relativo servizio di manutenzione), il quale costituisce un settore nuovo che solo di recente si sta aprendo alla concorrenza in ragione dell’ingresso di nuove imprese. Tra le prescrizioni ulteriori ritenute illegittime è stato annoverato anche quella che prevede quale requisito di partecipazione, il possesso, in capo ai concorrenti, di un patrimonio netto di importo particolarmente elevato, e/o comunque eccessivo rispetto alle finalità perseguite dalla P.A. con l’espletamento della procedura di evidenza pubblica; tale requisito di partecipazione, infatti, appare incongruo, sia perché il suddetto fine può essere comunque perseguito con la previsione di un importo, relativo al requisito in questione, sensibilmente inferiore a quello indicato nel disciplinare di gara, sia perché, conseguentemente, suscettibile di escludere dalla gara imprese di pulizie di dimensioni medie e quindi di restringere in modo irrazionale il potenziale numero dei partecipanti.
9. Attribuzione di notevole peso ad un determinato parametro. In materia di appalti pubblici l’art. 81 del codice dei contratti precisa i criteri in base ai quali sarà selezionata l’offerta pervenuta all’amministrazione appaltante. I criteri di cui si parla sono il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa. I successivi art. 82 e 83 precisano che l’offerta economicamente più vantaggiosa tende a conferire rilievo oltre che la prezzo del servizio, alle caratteristiche oggettive della prestazione alcune direttamente indicate dalle suddette norme, altre ancore suscettibili di essere inserite dalle stesse amministrazioni appaltanti ma sempre riconducibili alla valorizzazione della qualità intrinseca della prestazione offerta. L’offerta economicamente più vantaggiosa è istituto di origine comunitaria e rappresenta il metodo di aggiudicazione degli appalti pubblici che anziché collegarsi all’automatica valutazione della convenienza economica su base meramente quantitativa, si fonda sulla comparazione tra il dato economico e quello tecnico cosi da consentire un penetrante e concreto potere di valutazione delle offerte. Per quanto precede è censurabile quel bando di gara per il conferimento di servizi pubblici che, per la determinazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa conferisce notevole peso alle esperienze pregresse, al fatturato, nonché alle dimensioni aziendali. A tale proposito non va sottaciuto che attribuendo un notevole peso alle esperienze pregresse, fatturato, nonché le dimensioni aziendali, si finisce col premiare qualità soggettive del soggetto proponente che possono certamente avere rilievo nei limiti segnati dall'oggetto dell'appalto, quali indici dimostrativi della capacità economica e tecnica dei concorrenti ma che non possono assumere rilievo di parametro indicativo della qualità della proposta. Il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’art. 83 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 tende in modo tassativo a premiare il merito tecnico dell'offerta oggettivamente considerata per cui la sua corretta applicazione richiede che gli elementi di valutazione prescelti siano tali da evidenziare un maggior pregio della proposta contrattuale che dovrà essere resa in favore dell’amministrazione appaltante. Dopo quanto appena detto si ricava che è illegittima la previsione del bando di gara che attribuisce un rilevante punteggio per elementi che nulla hanno a che fare con il metodo tecnico dell'offerta e che attengono invece all'esperienza professionale acquisita del concorrente che sicuramente ha il suo peso ma che non rileva ai fini della qualità dell'offerta. La regola “aurea” del metodo dell’offerta economica più vantaggiosa è quella di non attribuire maggior importanza ad un singolo elemento ma di combinarlo con gli altri in modo tale da assicurare all’amministrazione il migliore risultato possibile da un lato e dall’altro di consentire ai partecipanti di confidare in una uniforme valutazione delle offerte. Nel merito va sottolineato che la giurisprudenza ha censurato la clausola contenuta nel capitolato speciale di appalto che riserva il punteggio al possesso della sola certificazione UNI EN ISO 9002 senza ammettere la possibilità di documentare forme alternative e senza consentire all'eventuale seggio di gara, vincolato dalle prescrizioni di gara, di valutare certificazioni alternative. Così anche è stata censurata quella previsione del bando che attribuisce un maggior punteggio “per pregresse esperienze” in quanto detto parametro è più attinente alla fase di ammissione e nulla ha a che vedere con la qualità dell’offerta. Analogamente è stata censurata quella clausola del bando che prevede un maggiore punteggio per la qualità organizzativa.
9.1. Peso preponderante - Inserimento di un tipo di marchio o prodotto. Un'altra clausola che non deve essere inserita nel bando di gara è quella che fa espressa menzione di prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza se non in casi eccezionalissimi di cui si dirà dopo. Il divieto già stabilito in via generale dall'articolo 8, comma 6 del D.Lgs. n. 358/1992 è oggi ribadito dall’art. 68, comma 13, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (codice dei contratti). Va detto subito che tale divieto non è assoluto ma relativo. A tale proposito il Consiglio di Stato ha stabilito doversi ritenere legittima l’indicazione di un determinato prodotto nel bando a condizione che tale indicazione sia adeguatamente giustificata nella esigenza che la fornitura di che trattasi debba soddisfare e non produca l’effetto di favorire o escludere determinati fornitori o prodotti. Viceversa se la motivazione non è coerente con il principio di logicità, ragionevolezza, proporzionalità il bando che non prevede la possibilità di fornitura di prodotti equivalenti è censurabile anche perché non è rispettoso delle ragioni del pubblico interesse finalizzato alla ricerca del "giusto" contraente che implica necessariamente il rispetto del il principio della par condicio e quindi della libera concorrenza. Nell'ambito della manutenzione del parco macchine, ad esempio, coerentemente con quanto precede, mentre è illegittima la previsione del bando di gara che limita la partecipazione alle sole officine specializzate di una determinata fabbrica automobilistica è perfettamente legittima la previsione della fornitura di prodotti originali che può essere assicurata dalle officine meccaniche partecipanti alla gara, in condizioni di libera concorrenza.
9.2. Peso preponderante - Limitazioni territoriali. Un'altra clausola che sovente capita di leggere nel bando di gara è quella relativa alla territorialità. E’ stato detto prima che la stazione appaltante gode di un ampio potere discrezionale, tuttavia il bando che contenesse delle clausole preferenziali per quelle ditte operanti sul territorio non potrebbe non essere considerato illegittimo perché violerebbe i superiori valori della parità di trattamento tra i concorrenti e della proporzionalità dell’azione amministrativa facendo un uso distorto della discrezionalità amministrativa. Sul punto, sono da condividere gli orientamenti più recenti della giurisprudenza, in base ai quali i bandi di gara non possono stabilire limitazioni territoriali ai fini della partecipazione alle gare, a pena di illegittimità. Nel caso in esame, la clausola eventualmente inserita nel bando presenterebbe evidenti elementi di contrasto con i principi di libera concorrenza e di par condicio degli operatori del mercato, poiché la suddetta clausola limita la partecipazione alla gara soltanto ai soggetti aventi tale requisito soggettivo, peraltro del tutto sganciato da qualsiasi elemento di ragionevolezza, né motivato in relazione a specifiche finalità del servizio da rendere. Tali clausole sono state censurate più volte dalla giurisprudenza. A tale proposito il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimo il requisito previsto in un bando di gara che prevede l'attribuzione di un maggiore punteggio nei confronti delle imprese locali partecipanti perché capace di determinare discriminazioni tra ditte concorrenti finendo con il privilegiare le imprese locali in contrasto con la normativa comunitaria è nazionale. Riteniamo necessario evidenziare che tali clausole sono ritenute illegittime in quanto in conflitto con i principi di derivazione costituzionale e comunitaria che vietano ogni discriminazione. Inoltre ingiustificatamente restringono il campo della concorrenza e violano il principio comunitario della libera prestazione dei servizi. Nel merito è stata ritenuta illegittima quella clausola del bando che pretende, quale requisito di partecipazione, che le imprese abbiano la sede legale nel territorio nel quale ha sede la stazione appaltante. Tale disposizione in buona sostanza risulta essere limitativa del principio della libera concorrenza e di quello della par condicio e non costituisce in alcun modo indice di un servizio di migliore qualità. Inoltre, non è ammissibile la clausola che impone che ogni impresa partecipante abbia una sede stabilmente operativa nel territorio comunale perché il requisito in questione presenta una connotazione squisitamente oggettiva a carattere meramente organizzativo. Non è nemmeno ammissibile la clausola del bando che accorda un maggior punteggio all'offerta presentata da impresa avente sede legale da almeno un anno nel comune della stazione appaltante atteso che tale clausola finirebbe col comportare una discriminazione a carico di quelle imprese che non sono localizzate in ambito comunale e avvantaggerebbe le imprese già localizzate; tale provvedimento violerebbe il principio della non discriminazione. A proposito della localizzazione delle imprese partecipanti perfino la Corte Costituzionale si è pronunciata nel merito di norme che discriminano le stesse imprese sulla base di un elemento di localizzazione territoriale. Il giudice delle leggi ha stabilito che le norme contenute in leggi regionali che discriminano le imprese con un elemento di localizzazione territoriale contrasta con il principio di uguaglianza nonché con il principio in base al quale la regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose e non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro. Il Giudice d'Appello ha ritenuto viceversa legittima la clausola del bando che limita la partecipazione alle sole imprese aventi sede nella regione nella quale dovrà essere svolto il servizio a condizione però che l'inserimento di tale clausola sia giustificato da esigenze prettamente organizzative della stazione appaltante.
10. Documento di identità scaduto. L’allegazione della fotocopia, sia pure non autenticata, del documento di identità dell’interessato vale a conferire legale autenticità alla sua sottoscrizione apposta in calce ad una istanza o ad una dichiarazione, non rappresenta un vuoto formalismo ma semmai si configura come l’elemento della fattispecie normativa diretto a comprovare oltre alle generalità del dichiarante, l’imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione di una determinata persona fisica. A quanto appena detto si deve aggiungere inoltre che l'obbligo di produrre copia del documento di identità risulta inderogabile in considerazione della sua introduzione quale forma di semplificazione, né è data possibilità di regolarizzazione o integrazione del documento mancante, nel rispetto anche della par condicio tra i concorrenti. A tale proposito va opportunamente sottolineato che la portata delle disposizioni del bando di gara come lex specialis è tale da ritenere impossibile la integrazione di documentazione non presentata in sede di gara poiché secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le prescrizioni contenute nel regolamento di gara esigono che le stesse siano puntualmente osservate senza che in capo alla stazione l'appaltante rimanga un potere discrezionale residuale. Ciò premesso va evidenziato tuttavia che durante il riscontro della documentazione prescritta dal bando, in sede di gara, qualora venga presentato un documento di identità scaduto o altro documento che presenta una qualche irregolarità formale è in facoltà della pubblica amministrazione consentirne la regolarizzazione. Sul punto, riteniamo, occorre fare una distinzione nel senso che una cosa è la omessa presentazione di un documento preteso dal bando a pena di esclusione, altra cosa è una mera irregolarità riguardante un documento prescritto dalla lex specilis, regolarmente presentato e per il quale è consentito all’amministrazione appaltante invitare le imprese a completare o a chiarire certificati, documenti o dichiarazioni presentate. La discrezionalità accordata alla P.A. appaltante prevista in generale dall’art. 6, legge n. 241/90 rientra comunque in quei limiti in cui l'integrazione non sia riferita agli elementi essenziali della domanda, rispetto ai quali devono essere rispettati i principi della par condicio e l'osservanza dei tempi procedimentali. Pensiamo a quelle clausole che prevedono la presentazione di autodichiarazioni che in sede di gara risultino in qualche modo irregolari come ad esempio la presentazione di un documento di identità scaduto in quanto trova applicazione l'articolo 38, comma 3 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Oppure la documentazione relativa alla cauzione provvisoria richiesta dal bando, nel caso in cui comunque risulti che le polizze presentate a tal fine erano del tutto complete e corrispondenti ai requisiti indicati, menzionando la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale e l’impegno a rilasciare garanzia per la cauzione definitiva. Orbene nel caso specifico per il responsabile del procedimento è un adempimento dovuto, consentire la loro regolarizzazione prevista dall’art. 71 del T. U. delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa - D.P.R. n. 445/00. Sul punto il Consiglio di Stato puntualizza che “La previsione della «lex specialis» della gara recante la comminatoria di esclusione in caso di irregolarità anche di un solo documento richiesto non è idonea ad escludere la facoltà dell’Amministrazione di richiedere la regolarizzare la documentazione incompleta.” In quest’ultimo caso occorre precisare che i requisiti prescritti dal bando devono essere posseduti dall’impresa, e dalla stessa dimostrati, al momento della scadenza del termine prescritto dal bando di gara, oltre il quale non è possibile richiedere né ricevere chiarimenti ed integrazioni, giacché una eventuale sanatoria comporterebbe la violazione del principio della parità di trattamento tra le imprese partecipanti alla gara.
11. Arrotondamento del calcolo. Un altro dei motivi che è causa di contenzioso nei pubblici appalti è originato dall’arrotondamento. A tale proposito il TAR della Campania-Napoli ha avuto modo di precisare che nel caso di offerte espresse in euro, in ossequio alla circolare del Dipartimento delle Entrate n. 291/1998, i loro importi devono essere arrotondati al centesimo per eccesso se la frazione non è inferiore ad 0,05 euro e per difetto se la frazione è inferiore a tale ammontare. Anche l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici con deliberazione del 29 aprile 2002, n. 114 ha evidenziato che “è opportuno che la «lex specialis» contenga esplicita disciplina relativa al numero di cifre decimali che saranno considerati dopo la virgola……”. Nel caso in cui il bando di gara non preveda esplicita disciplina, non possono essere posti limiti alle offerte proposte dai concorrenti con la conseguenza che il calcolo della media dovrà essere effettuato con un numero di cifre decimali pari al maggior numero di cifre proposto dai concorrenti. E’ appena il caso di evidenziare che nella fase di individuazione dell'offerta più bassa e delle offerte ricadenti automaticamente oltre la soglia di anomalia, alla commissione di gara è inibito procedere ad arrotondamenti nel calcolo delle medie e della soglia di anomalia ove il bando non provveda alcunché. Questo perché nella fase di esclusione dell'offerta anomala ogni arrotondamento costituisce una deviazione dalle regole matematiche da applicare in via automatica. Il comportamento della commissione, qualora provvedesse ad effettuar arrotondamenti, ipotesi non prevista dal bando, è da ritenersi illegittimo perché l’iniziativa della stessa commissione si pone come una modifica del bando di gara ad essa precluso così come più volte precisato in giurisprudenza amministrativa. Sicché questi ultimi sono consentiti solo se espressamente previsti dal bando di gara. In mancanza di tali precisazioni si deve escludere che l'amministrazione appaltante possa procedere ad arrotondamenti. Va inoltre detto che qualora la lex specialis preveda l’arrotondamento alla seconda cifra decimale solo per il calcolo dei ribassi, la stazione appaltante non può applicare la stessa regola per la determinazione della soglia di anomalia delle offerte procedendo all'arrotondamento alla seconda cifra decimale della media dei ribassi, della media degli scarti e della stessa soglia di anomalia.
12. Dilazioni di pagamento. Con il D.Lgs. n. 231/2002 "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali" è stato introdotto, con l'articolo quattro, il termine di pagamento previsto in trenta giorni. Quindi vi è un termine già stabilito dalla legge e non è dato all’amministrazione appaltante alcuna possibilità derogatoria. Sul punto, il solito Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la clausola che prevede una dilazione per i pagamenti superiore al termine di trenta giorni come stabilito dall'articolo 4 del D.Lgs. n. 231/2002 prima citato, perché introduce un indebito vantaggio per l'amministrazione considerato l'automatismo della decorrenza degli interessi di mora per come stabilito dall'articolo quattro avanti citato. La clausola eventualmente presente nel bando produrrebbe uno squilibrio nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione nella esecuzione del contratto che sono posti sostanzialmente sullo stesso piano di parità. Sulla stessa scia del Consiglio di Stato, il TAR Lazio, ha ritenuto illegittime le clausole del bando che consentono l'osservanza dei termini di pagamento di decorrenza degli interessi moratori e del saggio degli interessi diversi da quelli stabiliti negli articoli 4 e 5 del D.Lgs. n. 231/2002 considerate gravemente inique.
13. Conclusioni. In buona sostanza la pubblica amministrazione appaltante quando ritiene di dover inserire clausole ulteriori, legittime, ragionevoli, non sproporzionate e rispettose anche del principio della non discriminazione si preoccupa di verificare come riteniamo giusto che sia che l'impresa aggiudicataria sia nelle reali condizioni di eseguire effettivamente la prestazione richiesta dal bando di gara. C’è da dire inoltre che la giurisprudenza del giudice amministrativo è ferma nel sostenere il principio secondo il quale le formalità prescritte nel bando di gara devono trovare applicazione quando siano dirette ad assicurare un particolare interesse dell'amministrazione ovvero la par condicio dei concorrenti mentre la stessa formalità non si giustifica e diventa mera irregolarità qualora le finalità perseguite risultano egualmente ed integralmente soddisfatte. D’altro canto l’imposizione di clausole inutili può comportare un danno per la stessa amministrazione che di fatto limita la platea dei partecipanti. Infine va sottolineato la procedura di una gara di appalto deve essere pensata avendo sempre presente che deve essere osservato il criterio della “ricerca della miglior offerta” per il perseguimento del pubblico interesse. Le clausole del bando di gara possono essere un vero e proprio campo minato ove si consideri che la loro deflagrazione è costituita dall’annullamento della procedura in sede giurisdizionale con la conseguenza che in simile ipotesi viene travolto il contratto eventualmente sottoscritto. Nel merito La Corte di Cassazione ha sentenziato che “L'annullamento in sede giurisdizionale del verbale di aggiudicazione di una gara di appalto pone nel nulla l'intero effetto-vicenda derivato dall'aggiudicazione, a cominciare quindi dal contratto di appalto che vi è insito o che, ove stipulato in successivo momento, non ha alcuna autonomia propria e non costituisce la fonte dei diritti ed obblighi tra le parti, ma, assumendo il valore di mero atto formale e riproduttivo, è destinato a subire gli effetti del vizio che affligge il provvedimento cui è inscindibilmente collegato e a restare automaticamente e immediatamente caducato, senza necessità di pronunce costitutive del suo cessato effetto o di atti di ritiro dell'amministrazione, in conseguenza della pronunciata inefficacia del provvedimento amministrativo «ex tunc», travolto dall'annullamento giurisdizionale”.
COME PARTECIPARE AD UNA GARA DI APPALTO PUBBLICA.
Come partecipare ad una gara di appalto pubblica, scrive Cesario Migliaccio su “Lavoro e Finanza”. Alla gara di appalto pubblica possono partecipare tutte quelle ditte che hanno i requisiti che prevede il bando di concorso. La ditta che si aggiudica i lavori, sarà quella che offre il prezzo più vantaggioso (più economico per le tasche dell'emittente pubblico). La legge di riferimento in materia di gare d'appalto è il Decreto Legislativo 163/2006 (entrata in vigore il 1° luglio 2006), o anche chiamato "Codice dei contratti pubblici" cioè il regolamento Dpr 207/2010 che ha sostituito il precedente regolamento d'attuazione, Dpr 554 del 1999 (Regolamento Merloni). Vediamo come fare e quali certificati portare per partecipare alla gara e cercare di aggiudicarsela. Se siete titolare di una ditta che cerca degli appalti per poter lavorare, dovete partecipare ai bandi di concorso messi a disposizione della vostra regione di appartenenza e partecipare alle gare di appalto. La gara è una procedura amministrativa dove attraverso dei bandi pubblici, si cercano delle ditte capaci di eseguire dei lavori su opere pubbliche. Il procedimento si attua in varie fasi che seguirete passo passo. Prima di tutto viene pubblicato un bando al quale voi parteciperete se siete interessati, poi avverrà la gara con la relativa aperture delle buste contenenti una vostra autocertificazione e la verifica dei documenti consegnati. Infine ci sarà la gara pubblica per verificare le offerte economiche delle varie ditte. Per avere una maggiore probabilità di vincita, si devono seguire i seguenti: valore tecnico dell'opera, il prezzo più basso, valore estetico dell'opera, costi di manutenzione, costi di gestione, caratteristiche dell'opera, e il tempo previsto (tempo necessario per realizzare l'opera). Ricordate che per partecipare alla gara dovete attenervi scrupolosamente alle istruzioni che vengono date nel bando, altrimenti il minimo errore, la pena sarà l'esclusione dal bando. Il bando prevede un'autocertificazione che compilerete in tutte le sue parti e dovete essere in possesso di tutti i requisiti che essa richiede. Firmate ogni pagina dell'autocertificazione e non dimenticate di allegare la fotocopia di un documento di identità valido.
COME PRODURRE LA DOCUMENTAZIONE NECESSARIA PER LA GARA.
Come produrre la documentazione necessaria per partecipare ad una gara, scrive Antonio Tomasetto su “Lavoro e Finanza”. Con la gara d'appalto qualsiasi ente pubblico affida le opere da realizzare o la gestione di servizi specifici ad una determinata impresa costruttrice, indicata con il nome di appaltatore, ad un gruppo do imprese, o invece ad un Consorzio. L'assegnazione dei vari appalti viene attribuita sulla base di fattori diversi tra loro, tra i quali il tipo di realizzazione dell'opera, le sue dimensioni e altre svariate motivazioni. Per la selezione della ditta che andrà a effettuare il lavoro, ovviamente gli enti pubblici sono predisposti a favorire quella che offre un prezzo più vantaggioso. Tuttavia per poter partecipare ad una gara una società (o un consorzio quando se ne prevede la possibilità) deve produrre una specifica documentazione. Vediamo insieme con questa semplice guida come produrre la documentazione necessaria per partecipare ad una gara.
1 Senza dubbio l'aspetto formale è davvero molto importante quando si partecipa ad una gara e gli adempimenti sono elementi essenziali affinché non si venga esclusi in partenza. In particolare si deve fare riferimento a quanto indicato dall'ente appaltante all'interno del bando di gare, avvisi vari e capitolati. Questa serie di documenti contengono di norma gli adempimenti fondamentali che tuttavia sono sostanzialmente gli stessi, quanto meno di carattere generale.
2 Ovviamente nei documenti messi a disposizione non è indicato cosa scrivere. Tuttavia vengono sicuramente fornite alcune indicazioni generiche e determinate istruzioni su come produrre la documentazione necessaria per partecipare alla gara. In particolare le gare devono essere presentate nei termini indicati all'interno di tre buste differenti, chiuse e controfirmate solitamente da legali rappresentanti delle società nei lembi di chiusura. Devono essere sigillate tramite ceralacca e inserite in un busta più grande secondo quanto indicato nella documentazione di gara.
3 Più precisamente la prima busta (A) deve contenere la "documentazione", ovvero tutti gli specifici dati richiesti all'interno del bando riguardanti sia la società che i suoi amministratori. Diversamente la seconda busta (B) dovrà contenere l'offerta tecnica, ossia un'indicazione molto dettagliata di come e cosa si intende fare, le risorse impiegate, le varie fasi di lavoro, etc. ApprofondimentoCome Scrivere un'offerta Tecnica per una gara (clicca qui) L'ultima busta (C) deve riportare l'offerta economica, nella quale saranno indicate le tariffe e l'importo complessivo che viene richiesto in cambio delle prestazioni.
GARE PUBBLICHE E L'AFFIDAMENTO DIRETTO.
Il 60% dei contratti pubblici viene stipulato in affidamento diretto e non con gara d'appalto, per un 34,66% dell'importo complessivo. E metà dei comuni capoluogo ha usato l'affidamento diretto nell'80% dei casi. Sono i dati del monitoraggio svolto dall'Anticorruzione guidata da Cantone, che segnala "una criticità" per "l'utilizzo eccessivo di tale procedura". I dati, estratti dalla Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici, si riferiscono alle procedure, di importo superiore a 40mila euro, effettuate nei venti comuni capoluogo di Regione nel quadriennio 2011-2014, da cui è stato poi estrapolato il dato nazionale. Per ciascun comune e per ciascuna tipologia di contratto (lavori, servizi e forniture) è stata calcolata la percentuale di contratti pubblici affidati con procedura negoziata, in termini di numero e di importo, rispetto alla totalità dei contratti pubblici attivati nello stesso periodo. In gran parte dei comuni capoluogo di Regione il ricorso alla procedura negoziata quale metodo di scelta del contraente è diffuso - spiega l'Authority - tant'è che circa la metà di tali comuni nel periodo 2011-2014 ha utilizzato tale criterio per l'affidamento di più dell'80% del numero di contratti, corrispondente a più di un terzo della spesa complessiva sostenuta per l'esecuzione di lavori e l'approvvigionamento di beni e servizi. I dati segnalano inoltre un aumento rispetto alla rilevazione effettuata nel quadriennio 2007-2011.
COME SI VINCE UN APPALTO PUBBLICO IN ITALIA?
Come si vince un appalto in Italia? Da Libero del 6 giugno 2014. Per vincere un appalto pubblico in Italia non basta sapere fare bene il proprio lavoro. Vincere un appalto è di per sé un lavoro che costa ore passate a compilare moduli, scartoffie e a studiare la normativa. E non è sufficiente studiarla una volta per tutte: negli ultimi otto anni queste norme sono state modificate centinaia di volte e per altre migliaia di volte sono state interpretate da sentenze o circolari amministrative. Da anni numerose associazioni di categoria accusano questa situazione di essere divenuta un labirinto del quale è difficile trovare una via d’uscita. Si tratta di associazioni che in ogni caso avrebbero da guadagnarci da una semplificazione, ma nelle ultime settimane, mentre nuove inchieste della magistratura hanno colpito appalti e concessioni enormi, come quelle EXPO e MOSE, a queste voci se ne sono aggiunte parecchie altre che è difficile accusare di avere un interesse nella semplificazione. Raffaello Cantone, presidente dell’Autorità nazionale contro la corruzione ha dichiarato in questi giorni che presto sarà introdotta una normativa più semplice e anglosassone: «Il nuovo Codice degli appalti verrà riscritto completamente e le attuali 600 norme verranno ridotte di due terzi». Dichiarazioni simili sono state fatte anche da Riccardo Nencini, vice-ministro dei trasporti. Ma le critiche più dure sono arrivate proprio dalla procura di Venezia, e in particolare dal procuratore aggiunto Carlo Nordio:«Se io dovessi dare un suggerimento al presidente del Consiglio che è giustamente preoccupato di quanto sta accadendo gli direi di lasciar stare le pene, le leggi penali, i nuovi reati, ci sono già, le pene sono già stratosferiche. Al primo ministro direi: non fate nuove leggi. Paradossalmente: diminuite le pene ma rendetele più efficaci e concrete, e soprattutto prevenite il reato semplificando le procedure». Ma da dove arriva tutta questa complessità? Prima di tutto dal Codice dei contratti pubblici, a volte chiamato anche Codice degli appalti, che è composto da 273 articoli, 38 allegati e che è diviso in 1.500 commi. A questo si aggiunge il Regolamento di Attuazione del codice degli appalti, che aggiunge altri 350 articoli. In tutto, gli articoli da rispettare sono i 600 di cui ha parlato Cantone. Da quando è entrata in vigore nel 2006, il codice è stato modificato 564 volte e i suoi articoli sono stati oggetto di sentenze e pareri amministrativi per seimila volte. Naturalmente non basta conoscere a menadito tutti questi articoli e le relative modifiche per sapere esattamente come muoversi nel mondo degli appalti pubblici. Spesso questi articoli rimandano a loro volta ad altre norme e leggi, che possono essere piuttosto complesse. Ad esempio, il Testo unico sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro da solo è lungo 735 pagine. A questo bisogna aggiungere che enti diversi hanno una modulistica diversa per partecipare agli appalti. I moduli vanno compilati senza sbagliare nemmeno una virgola. Basta un errore relativamente piccolo e in caso di contenzioso il giudice può stabilire che l’ente non è tenuto a pagare un lavoro svolto. A questo vanno aggiunti altri adempimenti, come ad esempio il DURC, il documento con cui si attesta la regolarità contributiva dell’impresa (che, almeno ultimamente, è diventato più facile da ottenere) e i certificati antimafia. Tutta questa mole di burocrazia è un costo in tempo e denaro per qualunque impresa, ma i gruppi più grandi – o le realtà piccole abituate a lavorare con un particolare committente – possono ammortizzare i costi e risolvere in parte i problemi. Per le piccole e medie imprese, che non possono permettersi consulenti o impiegati addetti soltanto a svolgere le pratiche burocratiche e rimanere al passo con i cambiamenti della normativa, spesso è semplicemente impossibile affrontare i costi che derivano dall’espletare questa burocrazia. Ma c’è anche un altro problema che deriva da questa incredibile complessità, come ha fatto notare il procuratore Nordio. Con delle leggi così bizantine è relativamente facile per un ente committente creare un bando di appalto complicatissimo, perfettamente corretto dal punto di vista legale, ma costruito in modo da far vincere soltanto l’impresa degli amici ed eliminare per qualche cavillo tutti i concorrenti. Il volume della normativa italiana non ha paragone negli altri grandi paesi europei. In Francia il Code des marchés publics è composto da 294 articoli, la metà di quelli italiani. Inoltre la procedura per ottenere un appalto in Francia si svolge completamente su internet, tramite un unico portale, con procedure standardizzate e impiegati esperti che seguono la pratica dall’inizio alla fine. Da quando è entrato in vigore la sua ultima versione, nel 2006 (cioè lo stesso anno del suo equivalente italiano) è stato modificato soltanto una volta. Nel Regno Unito ci sono due codici principali, per un totale di cento articoli, che sono stati modificati dal 2006 ad oggi soltanto due volte: nel 2008 e nel 2011.
COME TRUCCARE LEGALMENTE UNA GARA D'APPALTO?
Come truccare una gara d'appalto legalmente scrive E.Georgiakis su “Psicopolis”. Manuale per sindaci ed assessori inesperti (gli altri lo sanno già) della seconda e terza Repubblica.
1. Le caratteristiche dell'appalto. Per semplicità, chiamiamo qui appalto ogni richiesta pubblica di partecipazione all'assegnazione di un finanziamento o un lavoro. Ogni appalto contiene caratteristiche vincolanti di partecipazione. E' possibile sia inibire la partecipazione a quegli enti che non possiedono tali caratteristiche o assegnare punteggi più alti agli enti che le possiedono. Le caratteristiche possono essere ragionevoli, ma anche molto fantasiose. Eccone solo alcune:
la natura statutaria dell'ente (si possono riservare appalti solo a cooperative o solo ad associazioni o solo a società);
il possesso di un bilancio, nell'anno o nel triennio precedente, superiore a X euro;
la presenza di x dipendenti regolarmente assunti da x mesi o anni;
l'esistenza di una sede legale nella città o nella Regione, da un tempo predefinito;
l'esistenza di una sede operativa in regola con tutte le norme di igiene, sicurezza, agibilità;
il possesso di un'esperienza precedente nello stesso settore, o addirittura esattamente uguale a quella appaltata;
l'obbligo di una cauzione più o meno elevata da versare insieme alla presentazione dell'appalto.
Tutti questi caratteri vanno dimostrati con documentazione da consegnare. E naturalmente questa documentazione può essere passata al vaglio severamente o "discrezionalmente", tanto nessuno controllerà i controllori (salvo che in casi rarissimi). Il controllo severo è riservato ai partecipanti ignoti od ostili, che possono essere non ammessi alla gara anche per cavilli formali. Il controllo discrezionale consiste in tanti piccoli accorgimenti. Gli amici possono consegnare il tutto prima al funzionario amico e avere il tempo di effettuare correzioni; se sono privi di una qualche caratteristica, possono ottenere una deroga. Ecco un esempio reale. Molti appalti richiedono l'uso di sedi operative in regola dal punto di vista normativo. Un ente "amico" che vince molti appalti nel settore della formazione professionale, realizza i corsi in una cantina buia priva di ogni requisito: come ci riesce? Allegando una dichiarazione di lavori in corso per la "messa in regola" della sede. Nessuno dei funzionari amici va a controllare come mai i lavori sono in corso da oltre dieci anni. E se proprio gli amici mancano di una qualche caratteristica ? Allora basta che nessuno controlli a fondo la documentazione. Gli amministratori locali più esperti scelgono prima chi deve vincere un appalto e delineano il capitolato "ad personam", il che limita vistosamente il numero dei partecipanti alla gara. Se, per esempio, un ente amico possiede alcune caratteristiche di quelle richieste dal capitolato, e non altre, a quelle possedute viene assegnato un punteggio più alto, oppure quelle non possedute vengono omesse dalla gara. Se malgrado questo, arrivano concorrenti inaspettati, a costoro viene riservato un vaglio più stringente in modo che molti vengano non ammessi alla gara. Per esempio, se il capitolato richiede la presenza di almeno n.5 dipendenti, gli amici possono anche allegare un'autodichiarazione sostitutiva, a tutti gli altri viene richiesta una prova documentale dei pagamenti INPS effettuati.
2. Gli ostacoli formali. Anzitutto il bando di gara va tenuto il più possibile segreto: solo gli amici ne conoscono l'esistenza con largo anticipo. Gli altri devono scovarlo su siti web mai funzionanti, su bacheche esposte in posti pubblici ma accessibili solo in certe ore e alla fine di labirintici corridoi, su gazzette o pubblicazioni che in genere sono fatti circolare due giorni prima della data di scadenza per la presentazione. In certi casi il bando viene inviato, ma a pagamento. In secondo luogo i tempi vengono calcolati in modo che la scadenza avvenga nel mese di agosto o nel mese di dicembre, comunque a ridosso di vacanze, ponti o festività. Questo trucchetto non riguarda gli amici, avvisati molto in anticipo, ma gli estranei che trovano difficoltà al loro interno (molti operatori sono in vacanza), sia all'esterno, che deve fornire l'infinita documentazione richiesta. In terzo luogo, chi controlla che la scadenza sia rispettata? Un usciere o un funzionario che possono sempre chiudere un occhio (per gli "amici") su richiesta dell'assessore o del sindaco. Oltre ai trucchi sulla pubblicità e la data di scadenza, sono decine i trucchetti formali usati per eliminare partecipanti sgraditi. Eccone una lista contenuta:
la domanda di partecipazione può essere inoltrata solo via web, da un sito che funziona pochissimo;
la documentazione deve essere inviata in 5-10 copie, firmate in ogni pagina;
la busta contenente domanda e documentazione deve essere chiusa con ceralacca;
la somma richiesta per il servizio appaltato deve essere espressa in lettere e non in numeri;
ogni foglio della proposta deve avere una marca da bollo, ovviamente annullata con firma;
i curricula degli operatori dell'ente che partecipa, devono essere in "formato europeo".
I creatori di questi capitolati possono poi sempre affidarsi alle ambiguità semantiche, in modo che una regola formale possa essere interpretata erroneamente da chi non gode di spiegazioni preventive. Ottenere delucidazioni sul capitolato d'appalto a volte è impossibile, a volte è difficilissimo (le domande di chiarimento vanno formulate per iscritto a qualcuno che può anche rispondere un giorno prima o un giorno dopo la scadenza del bando). Chi non è fra gli amici può essere escluso dalla gara perchè manca una firma su una delle 100 pagine della documentazione; o perchè la somma offerta per l'appalto è scritto in numeri e non lettere (ho assistito alla esclusione di un partecipante che aveva scritto 350.500 coi numeri e trecentocinquantamila in lettere - omettendo i cinquecento finali); o perchè manca una marca da bollo o perchè una marca da bollo non è stata annullata con firma.
3. La commissione giudicante. Ogni gara d'appalto prevede una commissione giudicante, che deve controllare che la domanda sia ineccepibile, ma soprattutto che l'offerta (il progetto) sia compatibile col bando e della migliore qualità. Qui il trucco è molto semplice: basta che la commissione - i cui nomi sono sempre segreti- sia composta da una maggioranza di fedeli dell'assessore o del sindaco. A volte non serve neppure una maggioranza: è sufficiente che la commissione abbia un presidente con un certo potere, e dei membri facilmente asservibili. In nessun appalto del settore immateriale le commissioni giudicanti sono note, nè sono tenute a rendere pubblici i criteri di giudizio. Le commissioni sono scelte dall'ente appaltante, e raramente contengono professionisti esperti nel settore oggetto dell'appalto. Nei casi in cui ciò avviene, si tratta di professionisti subalterni o ricattabili, ben lieti di accontentare il politico di turno. Il quale spesso non deve neppure segnalare il vincitore desiderato. Si sa che la tal cooperativa è nella cordata del sindaco e la talaltra associazione è nella cordata dell'assessore. I commissari faranno autonomamente la scelta più gradita a chi comanda, il quale sarà lieto di affidare loro premi, prebende, aiuti nel prossimo futuro (se non l'ha già fatto prima). La commissione giudicante può decidere di assegnare l'appalto ad un ente perchè il suo progetto è migliore, senza dover dire perchè. Oppure può utilizzare il criterio economico, e dare la vittoria al progetto che costa meno. Oppure premiare un partecipante perchè presenta le migliori credenziali, senza dover dire perchè sono migliori. Il criterio e le motivazioni restano segreti, quindi tutto è legalmente possibile.
4. I controlli in itinere. Abbiamo già visto quale libertà offrono i controlli preventivi, ed in fase giudicante. Legalmente, è possibile favorire gli amici e ostacolare i nemici, nella fase di presentazione ed in quella di valutazione dei partecipanti alla gara. Ma il bello deve ancora venire. Una gara in genere offre al vincitore o ai vincitori (nei casi di assegnazione di fondi) del danaro in cambio di una qualche attività. Chi vince deve realizzare un progetto o gestire un servizio, secondo le specifiche indicate del capitolato di gara. Ma chi e come controlla che tutto ciò avvenga veramente? Dipende. Sei il vincitore è un "amico", non controlla nessuno. Vinci l'appalto, e fai quello che vuoi/puoi senza dimenticare di mostrare gratitudine verso l'assessore e il sindaco. Puoi non fare del tutto o in parte quello che la gara richiedeva, puoi chiedere varianti in itinere (o farle, senza chiedere), puoi non pagare nessuno dei collaboratori o fornitori, puoi non avere nessun fruitore del servizio appaltato, puoi fare male il servizio richiesto: salvo tragedie, sei praticamente insindacabile. Questa gratitudine può essere mostrata in tanti modi. Evitando quello più rischioso, cioè dare un bell'assegno o regalare un viaggio a Parigi, puoi sdebitarti assumendo la figlia del cugino dell'assessore, o facendo assumere la "fidanzata" del sindaco in un ufficio che ti deve un favore, o offrendo all'assessore stesso una bella consulenza non al tuo ente (troppo rischioso!) ma ad un ente che a sua volta regala all'assessore che gli ha fatto vincere un appalto, una consulenza al tuo ente. In molti casi non sono nemmeno necessari questi scambi: per chi comanda è sufficiente sapere che l'ente che vince un appalto non sarà mai fra i critici delle sue scelte; o credere che, in caso di elezioni, i capi, gli operatori, gli utenti dell'ente appaltatore (e le loro famiglie) voteranno "come si deve". Se invece hai vinto la gara senza essere un "amico" deve rendere conto prima e dopo di ogni azione che fai nell'espletamento dell'appalto. Non puoi fare la minima variazione senza essere prima formalmente autorizzato. Se qualcuno dei tuoi operatori o degli utenti o dei fornitori fa arrivare una lamentela all'ente appaltante, rischi la sospensione dell'appalto o, anche peggio, il mancato pagamento del servizio. Se i partecipanti previsti al servizio appaltato erano 15 e sono invece 12, rischi una decurtazione del compenso. Se invece di 15 sono 7, rischi l'azzeramento del compenso. A Milano si è sviluppata una nuova professione: il partecipante ai corsi finanziati dall'Unione Europea. Gli enti che non sono abbastanza "amici" strapagano i partecipanti e consentono loro di iscriversi a 2/3 corsi contemporaneamente (omettendo di registrare le assenze). Così un giovane che accumula 2/3 diarie ottiene un quasi-stipendio. Al contrario, un ente formativo abbastanza "amico" mi ha offerto di realizzare un corso aziendale, senza andarci davvero: nelle ore in cui si fingeva il corso "on the job" i dipendenti svolgevano il loro lavoro normale. Alla mia perplessità, la risposta fu: "Tanto nessuno mi controlla!". Dunque, se sei "amico" la tua vita sarà semplice. Se non lo sei, impari (legalmente!) che non ti conviene partecipare ad altre gare indette da quell'assessore o quel sindaco.
5. Anticipi e rendiconti. Se tutti i trucchi sopra descritti non funzionano abbastanza, per punire gli estranei e beneficiare gli amici, c'è la madre di tutti i ricatti: il danaro. Quasi tutti i capitolati, specie quelli che implicano grandi spese per l'appaltatore, prevedono l'erogazione di un anticipo che dovrebbe essere versato dopo l'aggiudicazione e prima dell'inizio dell'attività. Qui la differenza fra gli "amici" e gli altri è notevole: i primi ricevono l'anticipo tempestivamente, i secondi anche sei mesi dopo. Lo stesso vale per tutte le tranches di pagamento che l'appalto prevede. Quelli che non sono "amici" ricevono i pagamenti mesi dopo le scadenze, e senza alcun interesse. Così imparano a non partecipare ad appalti che dovrebbero essere assegnati ad altri. Il trucco finale riguarda i rendiconti. Le gare nel settore immateriale prevedono quasi sempre che i pagamenti vengano effettuati a fronte di giustificativi regolari. L'ente assegnatario per venire pagato, deve presentare le fatture pagate ai fornitori, le ricevute di pagamento al personale, i biglietti dei treni presi, gli scontrini degli eventuali pasti consumati e tutto quanto speso per realizzare il progetto o gestire il servizio oggetti della gara. Tutto ciò che ha un giustificativo formale, essendo previsto dalla gara, viene pagato: il resto viene detratto. Questa regola, che non si capisce come mai valga per le gare immateriali ma non per quelle relative a case, strade o discariche, apre voragini interpretative, grazie al fatto che la normativa fiscale ed amministrativa è un labirinto deciso da legislatori ubriachi. Questo nel migliore dei casi, cioè quelli in cui il funzionario preposto ai controlli sia in buonafede. Per cui si possono aprire infiniti contenziosi (che durano mesi nei quali il danaro dovuto non viene erogato): l'iva deve o non deve esserci? quali fatture devono essere "bollate"? il treno in prima classe si può prendere? perchè il tale operatore è pagato di più di un altro? come si dimostra che la segretaria ha lavorato 100 ore o 200 ? gli interessi pagati alla banca per i ritardi dei pagamenti da parte dell'appaltante sono rimborsabili? e via di seguito. Tutti questi problemi non riguardano gli "amici". I quali possono anche non presentare niente, come giustificativo. Chi dovrebbe controllare? Oppure possono presentare giustificativi errati, incompleti, palesemente falsi: basta che chi è preposto al controllo del rendiconto riceva un caloroso invito, dall'assessore o dal sindaco, a pagare in ogni caso e subito. Il controllo sull'erogazione del danaro è il trucco finale. Se non sei fra gli "amici", ma sei riuscito a superare i trucchi iniziali, gli ostacoli formali, la commissione giudicante, difficilmente superi la "prova dei soldi", ed impari finalmente che non devi partecipare mai più ad una gara pubblica o devi diventare un vero "amico" di qualcuno che conta.
N.B.: Con le opportune modifiche gli stessi trucchi si possono applicare per truccare i concorsi pubblici, le gare per i finanziamenti.
COME TRUCCARE GLI APPALTI PUBBLICI NEL SETTORE SOCIALE.
Come manipolare gli appalti nel settore sociale, continua “Psicopolis”. Manuale per funzionari, dirigenti e amministratori locali. Più o meno come l'Italia del dopoguerra è stata la continuazione del fascismo sotto altre forme, la Seconda Repubblica è la continuazione della Prima, in forme autorizzate dalla Legge. Le tangenti, il voto di scambio, il clientelismo sfacciati degli Anni Ottanta erano basati sull'arbitrio, e dunque sul rischio che correva chi li praticava. Infatti alcuni (una esigua minoranza, per la verità) è stato scoperto e punito o svergognato. Oggi si è trovato un modo più maturo e sofisticato per praticare lo stesso sport nazionale -interclassista, interpartitico e interregionale-: la gara d'appalto. L'appalto, nelle sue diverse formule, è un sistema per ottenere, in modo del tutto legale, tangenti, voto di scambio, clientelismo. In queste pagine dimostreremo la tesi enunciata, citando gli infiniti esempi che le Gare d'Appalto offrono ogni giorno in Italia. Questo non significa affatto che TUTTI gli Appalti sono truccati. Al contrario, il meccanismo degli Appalti permette in modo manifesto e legale quello che dieci anni fa era ottenuto in forma nascosta e illegale. E' possibile trovare qua e là, qualche Ente appaltante che agisce in perfetta buona fede, perché gli operatori onesti non sono del tutto scomparsi. Tuttavia non è chiaro se si tratta di onestà o di semplice assenza di conoscenze. Queste pagine vogliono fare chiarezza, fornendo a tutti un elenco di trucchi, regolarmente applicati. In modo che sarà più facile distinguere fra gli appaltatori davvero onesti, che pur conoscendo i trucchi non li applicano, e quelli che non li applicano solo per mancanza di conoscenze.
PREMESSA. Una premessa di ordine socio-politico si impone. I fenomeni degenerativi della Prima Repubblica erano in parte fondati sull'avidità personale di molti operatori della politica, che rubavano a titolo puramente personale. Questi erano i casi migliori, che possiamo attribuire all'atavica debolezza umana, e che naturalmente non sono affatto scomparsi. Per un'altra parte invece la cosa era peggiore: le illegalità erano compiute per il Partito, con la deliberata volontà di alterare l gioco democratico. In questi casi non si è trattato solo di furti economici, ma della sottrazione della democrazia. I furti per il Partito erano motivati dalla espansione geometrica che dagli Anni Sessanta aveva registrato la burocrazia politica. I partiti erano diventati direttamente pervasivi e possedevano in proprio molta parte delle risorse pubbliche. Le critiche che si svilupparono contro il "collateralismo" di certe organizzazioni, specie cattoliche, non erano motivate - questo si capisce bene oggi- dalla volontà di dare autonomia alla società civile, ma dal desiderio di rendere le organizzazioni civili collaterali ad entità diverse. Oggi i partiti si sono snelliti, perciò non dominano più la società in via diretta, ma in via indiretta mediante forme di collateralismo strettissimo. Non si tratta più di far arrivare danaro ai Partito, per pagarne le spese crescenti, ma di far arrivare benefici alle organizzazioni della società civile che sono legate a doppio filo coi Partiti, in forme di collateralismo organico ben più stretto di quello che esisteva negli Anni Settanta. I Partiti non devono più rubare per avere soldi e quindi consenso: basta che "comprino" il consenso foraggiando in modo strategico questa o quella porzione di società. La forma dell'Appalto consente questo in forma del tutto legale.
TRUCCO N.1: il controllo dell'informazione. Il primo trucco è praticato su larga scala. Lo Stato, le Regioni, le Provincie ed i Comuni deliberano forme di finanziamento o gare di vario genere ogni giorno. L'iter di ogni deliberazione è per solito lungo: proposte, discussioni di Giunta o di Consiglio, mediazioni, delibera, iter formale della delibera, pubblicizzazione, e scadenza per la presentazione delle domande da parte degli appaltanti. Per tutta la durata di questo iter, dirigenti, funzionari e Amministratori conoscono bene la situazione e sanno come più o meno andrà a finire. Il primo grande trucco è che gli "amici" sono informati dell'iter quasi al suo nascere, mentre gli estranei vengono informati solo il giorno dopo della pubblicazione, quando mancano pochi giorni alla scadenza per la presentazione delle offerte. I primi hanno tutto il tempo di prepararsi, gli altri no. Tutta la vicenda può andare avanti in forma naturale, ma, legalmente, non è difficile procurare qua là qualche ritardo in modo da lasciare più tempo a disposizione degli "amici". Basta che la pubblicizzazione slitti di qualche giorno, che la delibera venga trascritta in ritardo su Internet, che l'Albo cui viene affissa sia collocato in posizione poco visibile. Se la delibera viene a conoscenza di estranei che ne vogliono copia, è facile ostacolarne l'acquisizione: l'addetto è fuori stanza o addirittura in vacanza, la copia deve essere pagata, l'ufficio non fa fotocopie e la delibera deve essere consultata sul posto, la delibera viene inviata ma con parti mancanti. Quando poi la delibera arriva in possesso dei possibili gareggianti, si apre il grande capitolo delle interpretazioni. Nessuna delibera dice tutto e in modo inequivoco. Gli "amici" possono chiedere delucidazioni di prima mano all'Amministratore, al dirigente o al funzionario: anzi, in molti casi sono costoro che fanno quello che nelle aziende si chiama "insider trading", chiamando gli "amici" e illustrando loro ogni risvolto della delibera ancor prima che sia presa. Gli estranei devono leggersi la delibera e cercare di interpretarla. Davanti ai numerosi dubbi interpretativi che sorgono, gli estranei devono rivolgersi ai funzionari che: sono fuori stanza o addirittura in vacanza, non sanno rispondere e chiedono di essere richiamati, forniscono in buona o mala fede informazioni errate. Molte Gare richiedono l'inserimento di informazioni relative al territorio: numero di utenti potenziali, tipi di servizi simili esistenti, strategie amministrative dell'Ente Locale, ricerche pregresse. Tutte queste informazioni sono pubbliche, in teoria. In pratica ne dispongono solo gli "amici", che possono arricchire la presentazione della loro proposta; mentre gli estranei, essendone privi, verranno il loro progetto giudicato "con scarsi riferimenti alla realtà territoriale". Tutto ciò è perfettamente legale, giustificabile formalmente in mille modi ragionevoli, ma in sostanza consente di operare una precisa selezione fra gli "amici" da favorire e gli estranei da ostacolare. A volte questo meccanismo è sottile, a volte è smaccato ed evidente. Quando fra la pubblicizzazione della delibera e la scadenza ci sono solo 5/6 giorni, e la partecipazione è condizionata ad un numero di azioni che richiedono settimane quando non mesi, è evidente che chi partecipa è stato informato molto prima.
TRUCCO N.2: la selezione esplicita dei partecipanti. Non sono rari i casi di Gare ad invito. I più smaccati sono i casi di Gare riservate a concorrenti invitati dall'inizio. L'Ente appaltante decide di far partecipare alla gara solo 3 o 4 organizzazioni, che ricevono così un invito. Questo meccanismo già consente di effettuare una selezione a priori, invitando solo gli "amici". Ma è facile aggiungere al Trucco n.2 il Trucco n.1: si invitano 4/5 enti a gareggiare, ma solo uno di questi è aiutato con la tempestività dell'informazione, la accuratezza delle interpretazioni, la trasmissione di dati aggiuntivi. In qualche caso l'appaltatore dispone di un finanziamento che decide di assegnare tramite Gara, non al ribasso, bensì a progetto. Gli invitati devono fare un progetto su parametri di impegno, ma restando all'oscuro di quale sia il tetto di spesa preventivato, che non viene detto nella lettera di invito. Il totale del finanziamento è di pubblico dominio, ma solo gli "amici" vengono informati subito di quale sia. Gli estranei devono cercarsi la informazione sulla somma disponibile dalle fonti pubbliche, disperse, lacunose, non aggiornate; oppure, se non c'è tempo, fare una proposta alla cieca che sarà facilmente giudicata troppo alta o troppo bassa.
TRUCCO N.3: la partecipazione riservata a categorie. Molte gare del settore sociale e immateriale operano dall'inizio una selezione dei partecipanti: cooperative sociali di tipo A o B, Onlus, Centri di Formazione riconosciuti. A volte le selezione è ancora più stretta. Può venire richiesto che i partecipanti alla Gara siano iscritti ad Albi o Registri della Regione (la logica leghista negli appalti vince da sempre). Oppure si può mettere, come condizione obbligatoria alla partecipazione, che il concorrente all'appalto abbia una sede nel Comune appaltante. Questo Trucco, perfettamente legale, restringe il numero dei partecipanti alla Gara a pochissime unità. Combinando poi i Trucchi 1, 2 e 3 si riesce facilmente a restringere la rosa dei candidati al giro degli "amici".
TRUCCO N.4: la selezione attraverso sbarramenti economici. Se i trucchi 1,2 e 3 non bastano, ecco la famiglia n.4 degli "sbarramenti legali". Non solo si possono fare gare "a invito"; non solo si possono selezionare a priori le categorie di partecipanti: si può effettuare un ulteriore selezione con una serie di sbarramenti di carattere economico. Per fornire il Capitolato necessario a partecipare all'appalto, si può richiedere una somma. Come condizione per entrare nella Gara, molti Enti chiedono una cauzione: per solito pari al 5% dell'ammontare. La somma resta bloccata non solo per tutto il periodo delle procedure fino alla proclamazione del vincitore, ma anche per parecchi mesi successivi. I motivi adducibili sono l'iter burocratico o l'assenza dei funzionari. Se il funzionario preposto va in maternità o malattia, possono passare mesi prima che la cauzione di un concorrente perdente sia restituita. Il tempo raddoppia o triplica (si arriva ai 9 o anche 12 mesi) se qualcuno dei concorrenti fa un ricorso per irregolarità. Il sistema delle cauzioni anticipate scoraggia coloro che non hanno "rassicurazioni" sulla vittoria. Scoraggia le partecipazioni a più Gare d'Appalto, specie per le piccole imprese o cooperative immateriali. Tant'è che stanno crescendo nel settore vere e proprie multinazionali, che avendo miliardi alle spalle possono permettersi di fare anche 20 gare simultaneamente.
TRUCCO N.5: la selezione dei partecipanti mediante clausole discrezionali. In certi casi i trucchi precedenti non sono sufficienti a garantire con sicurezza chi vincerà l'appalto. Allora è possibile ricorrere alle varie forme del Trucco n.5: le clausole di partecipazione. Qui il campo della discrezionalità è infinito e ci sono Enti appaltanti, che manovrando bene questi trucchi, in piena legalità, arrivano a fare Gare mirate ad personam. Vediamo un elenco delle clausole uscite dalla creatività degli appaltanti:
certificare fatturati miliardari nei precedenti tre anni;
dimostrare di avere fatturato centinaia di milioni nei triennio precedente, ma nello stesso tipo di servizio appaltato (il che è paradossale nei servizi innovativi o sperimentali);
dimostrare di avere in organico un certo numero di dipendenti regolarmene assunti (anche se la gara è per servizi stagionali);
dimostrare di aver fatto lo stesso tipo di servizio per un ente uguale all'appaltante;
allegare elenco nominativo, nonché curriculum, degli operatori che saranno impiegati nella realizzazione dell'appalto (anche se il lavoro inizierà 6/8 mesi dopo);
dimostrare di avere già stipulato accordi o convenzioni con Enti territoriali (operazione che notoriamente richiede anni);
allegare contratto di affitto e piantina, dei locali a norma di cui si dispone nel Comune appaltante;
dimostrare di essere in grado di gestire servizi che comprendono pulizia, gastronomia, pullman, educazione, animazione e psicoterapia (quando è noto che le società immateriali che gestiscono servizi a 360 gradi, in Italia, sono pochissime);
se la Gara ammette la partecipazione di una Associazione Temporanea di Impresa, dove più servizi si uniscono, basta chiedere che ognuna delle imprese alleate abbia tutte le caratteristiche sorpraelencate. Naturalmente non sono obbligatorie, ma possibili. Non si trovano mai tutte insieme o con la stessa formula. Il trucco consiste in questo. Scegliete chi dovrà vincere la Gara e poi stendete il Bando di Gara in modo da chiedere ai partecipanti tutte le caratteristiche già in possesso del Vostro "amico". Se il Vostro "amico" è abbastanza ricco, o se lo aiutate a prepararsi in modo da avere speciali caratteristiche (per esempio con dei locali a norma di legge, che il Comune stesso può dare a prezzo irrisorio) ecco che la regolare vittoria è assicurata.
TRUCCO N.6: Le norme opzionali (almeno 2 partecipanti / cifra massima e minima). Il capitolo delle norme opzionali è interessante. L'appaltante può mettere o non mettere nel Bando di Gara alcune regole, a seconda che preveda o no di far vincere qualcuno.
TRUCCO n.6/a- Si fa un bando pieno di clausole ostacolanti, col codicillo che, se i partecipanti saranno meno di 3, la scelta avverrà per chiamata. Così siete sicuri di poter annullare la Gara e affidare l'appalto a chi volete.
TRUCCO n.6/b- In nome dell'urgenza molte regole possono essere addomesticate, legalmente. Ottenere l'urgenza è facile: basta che l'Ente decida la cosa in ritardo.
TRUCCO n.6/c- nel codice amministrativo esiste una norma che impone nelle Gare d'Appalto di escludere sia l'offerta più alta sia la più bassa, per evitare che vinca il partecipante più costoso, ma anche quello che fa un ribasso sospetto. Raramente questa norma è riportata nei Bandi di gara, così pochi la conoscono e l'Ente appaltante può applicarla o meno, a seconda di chi vince. Naturalmente, non applicarla è irregolare - non illegale- ma pochi lo sanno e nessuno farebbe mai una causa amministrativa per questo. Quindi se il Vostro "amico" è l'offerta più alta o più bassa, fate finta di niente. Se il Vostro "amico" occupa in graduatoria un posto fra il secondo o il penultimo posto, tirate fuori la norma e il gioco è fatto.
TRUCCO n.6/d- Simile al precedente, ma più astuto. In alcune Gare viene esplicitamente dichiarato che ogni più piccolo errore formale sarà motivo di esclusione; in altre questo non viene dichiarato, ma in base alle esigenze degli "amici" è possibile utilizzare questa logica oppure chiedere correzioni o integrazioni il giorno dell'apertura delle offerte o anche dopo. Esistono Gare nelle quali vengono esclusi candidati perché la loro busta è chiusa con la colla o il nastro adesivo, ma senza ceralacca; i curricula non sono firmati; il numero della Gara sulla busta aveva un'imprecisione; la cifra offerta, riportata 5 volte, manca di uno zero in una delle copie, per evidente errore di battitura; e così via per infiniti dettagli. Esistono invece Gare nelle quali c'è meno severità formale, anzi è previsto che correzioni e integrazioni possano venire chiesti durante o dopo l'apertura della buste. Questa discrezionalità va giocata con astuzia, e in due modi. Un primo modo è quello di farcire il bando di trappole formali, poi concordare fra chi deve vincere e un funzionario una disamina preventiva (2/3 giorni prima) con tutto il tempo per le rifiniture. Un secondo modo di decidere l'applicazione della severità formale, solo se si constata che il candidato "amico" è a posto e altri concorrenti no.
TRUCCO N.7: I criteri e la Commissione di Valutazione. Il Trucco n.7 è il più solido, il più leale, il meno contestabile. E' applicabile solo nelle Gare che non siano solo al ribasso, cioè la maggioranza delle gare del settore sociale/immateriale. Anzitutto si tratta di inserire nel Bando i criteri di Valutazione che saranno usati dalla Commissione nell'assegnazione del punteggio, stando attenti di lasciare un'ampia percentuale a indicatori discrezionali. Il prezzo più basso per esempio vale 30 punti su 100, 30 punti vengono dati alla qualità del progetto presentato, 20 punti ai curricula dell'impresa o degli operatori, altri 20 punti all'innovatività o al numero di connessioni territoriali previste. L'importante è che il prezzo costituisca una porzione inferiore alla metà dell'intero punteggio. In secondo luogo si tratta di nominare una Commissione di Valutazione addomesticata. Non è necessario avere il controllo su tutti i membri. Basta inserire un funzionario o dirigente fedele ed esperto di procedure di Gara, insieme a 2 o 3 membri del tutto incompetenti del contenuto della gara (per esempio, un funzionario amministrativo o dell'anagrafe per valutare un progetto educativo) e magari 1 membro che ne sa qualcosa ma che lavora come consulente (quindi è molto disponibile o ricattabile) per l'Ente appaltante. Il gioco è quasi fatto: il membro fedele e competente, pilota la Commissione, i membri incompetenti seguono, ed il membro che ne qualcosa può opporsi, ma non gli conviene e comunque ha solo il suo voto. A questo punto è sufficiente pilotare i criteri discrezionali - in piena legalità- a favore del candidato che deve vincere. Sul prezzo la questione non si può discutere tanto (salvo ricorrere o meno al Trucco 5/b) ma come si può contestare una valutazione di soli 3 punti ai curricula o di ben 30 punti (il massimo) alla qualità del progetto? Nessuno può farlo (v.Trucco n.7) e quindi gli "amici" vincono.
TRUCCO n.8: Esito della Gara. Questa batteria di trucchi non serve tanto a manipolare la Gara, quanto a coprire la Commissione di Valutazione che lo fa. In primo luogo l'esito della Gara, a parte il nome del vincitore, viene mantenuto ignoto per parecchio tempo; oppure reso pubblico solo dietro richiesta scritta o a pagamento; oppure reso pubblico parzialmente, con lettere molto stringate del tipo "…non avete vinto…." Oppure "ha vinto l'impresa x". Di graduatoria di parla raramente e con difficoltà. In secondo luogo, le motivazioni dei punteggi non vengono quasi mai rese pubbliche, oppure vengono comunicate in forma stringata del tipo: "i curricula presentati sono sembrati poco adeguati….". Perché? Perché quelli del vincitore erano più adeguati ? Non viene mai detto. Il verbale esteso della Commissione di Valutazione o non esiste o è più difeso dei piani del Pentagono. D'altronde, se la Commissione valuta, in modo legalmente discrezionale, che i curricula di un partecipante valgono poco mentre quelli di un altro molto, come si può contestare? Per una verifica, qualcuno ha provato a presentare allo stesso Ente due progetti simili con gli stessi curricula: in un caso la valutazione ottenuta è stata bassa e nell'altro altissima, per progetti simili e lo stesso appaltante!
TRUCCO n.9: Il controllo post e la rendicontazione. Ecco l'ultima serie, per ora, di trucchi utile a manipolare gli appalti. In genere, una Gara riguarda un servizio o un progetto da realizzare in un tempo da 3 mesi a 3 anni. Nel periodo indicato il vincitore deve realizzare ciò che era richiesto dalla gara e ciò che ha promesso vincendola. Nella fase di attuazione l'Ente appaltante ha due compiti: controllare l'esecuzione e pagare la somma messa in Gara. Questo lavoro può essere fatto in modo fiscale, ossessivo, anche asfissiante, oppure in modo amichevole, delegante, distratto. I pagamenti possono esser puntuali e fluidi o intermittenti e ritardati. Poiché ogni Capitolato prevede multe per mancanze dell'appaltatore e non per l'appaltante, si possono comminare sanzioni fino alla interruzione della convenzione e dei pagamenti, oppure si possono chiudere due occhi ed effettuare pagamenti anticipati. Tutto ciò è legale e discrezionale. Ma non si tratta solo di fare favori ad imprese vincitrici "amiche", tartassando eventuali vincitori sgraditi fino a scoraggiarne ogni velleità di ulteriori rapporti con l'Ente. Il trucco n.8 è più sottile e viene preparato fin dal Bando iniziale. Si tratta di mettere a punto un Bando scoraggiante, talmente farcito di clausole e richieste da inibire la partecipazione di molti possibili concorrenti, a volte addirittura un Bando che, puntualmente rispettato, porterebbe il vincitore a perdere danaro sonante. In questo modo vengono tenuti lontani tutti i partecipanti estranei, e la Gara resta aperta solo all'impresa "amica" che dall'inizio sa con certezza che le clausole capestro, le regole disincentivanti, le verifiche e le sanzioni annunciate, non saranno mai davvero messe in atto. Per esempio, si chiede che il partecipante elenchi i nomi di 20 operatori con Laurea. Il concorrente estraneo pensa che la richiesta sia seria e ne verrà controllata l'applicazione durante il lavoro, quindi può non imbarcarsi nella Gara. Il concorrente "amico" sa che può elencare 20 laureati a caso, con la certezza che poi al loro posto, potrà far lavorare parenti ed amici senza alcun diploma, colla complicità benevola dell'Ente appaltante. Oppure, il Bando chiede che l'attività venga svolta in una sede a norma di Legge. L'estraneo che non ha tale sede, non partecipa, oppure si precipita ad affittarne una con costi altissimi. Il concorrente "amico" può limitarsi a dichiarare di avere una sede a norma e poi realizzare l'attività nella sua cantina, con la garanzia dell'assenza di controlli e sanzioni. E così via all'infinito, con l'italica creatività.
AZZERAMENTO DELLA NORMATIVA O NUOVE PROPOSTE? FORSE IL SORTEGGIO?
Azzerati i 600 articoli del codice degli appalti e del suo regolamento e «armonizzata» la legge obiettivo sulle grandi infrastrutture strategiche alle regole generali sugli appalti, nascerà una nuova disciplina degli appalti pubblici che salvi 200 articoli, un terzo dell'attuale. Le nuove regole prenderanno spunto dall'attuazione delle direttive Ue 2014/24 (appalti) e 23/2014 (concessioni) e conterranno una rivoluzione radicale per il settore: un paletto generale di concorrenza con "gare sempre" per appalti e concessioni «salvo casi espressamente previsti» per stroncare la selva delle deroghe, una razionalizzazione e una «centralizzazione» delle stazioni appaltanti, un «miglioramento delle condizioni di accesso al mercato degli appalti e delle concessione pubbliche» per le Pmi, «una riduzione degli oneri documentali» a carico dei soggetti partecipanti alle gare, una «revisione» delle Soa e del sistema di qualificazione, l'introduzione del débat public alla francese per la consultazione dei cittadini e del territorio sui progetti, un rafforzamento del dialogo competitivo precedente alla fase della gara con la partecipazione dei «portati qualificati di interessi», l'introduzione di metodi di risoluzione delle controversie alternative al rimedio giurisdizionale anche per la fase della gara e dell'aggiudicazione, strumenti finanziari innovativi e incentivi per il project financing e per la partecipazione dei capitali privati. È una riforma a 360 gradi che mantiene l'annunciato obiettivo della semplificazione e dell'eliminazione dei mille rivoli in cui si nascondono deroghe e ostacoli burocratici quella contenuta nel testo di delega messo a punto ieri dalla «commissione Nencini».
Corruzione, incompetenza e burocrazia negli appalti: cambiare le regole o proporre altro? Si chiede Sandro Brunelli su "L'Huffingtonpost.it". Il presidente dell'Anac (Autorità nazionale anticorruzione) Raffaele Cantone nell'ultima udienza innanzi alla Commissione lavori pubblici del Senato ha fatto il punto su diverse questioni meritevoli di attenzione per l'iter legislativo della legge delega per la riforma degli appalti. Tra i vari punti portati all'attenzione dal magistrato uno ha destato particolarmente la mia attenzione. Si tratta dell'affermazione dello stesso Cantone, suffragata da dati ovviamente, per cui in alcuni comuni italiani, stante uno dei disposti del decreto sviluppo del 2011 (dl 70/2011) che ha raddoppiato la soglia di importo sotto la quale è possibile affidare lavori con procedure semplificate, il livello di appalti fiduciari, ossia affidati senza l'espletamento di una gara formale, arriva a coprire il 90% dei contratti per servizi e lavori pubblici. È evidente che questo significa basare il rapporto di fornitura su base spesso relazionale ancor prima che secondo logiche successive (qualità del servizio, economicità dello stesso, tutela della concorrenza, ecc. ecc.). Alcune considerazioni, anche ovvie, pare d'uopo effettuare. La situazione descritta da Cantone è riscontrabile per lo più nei piccoli e medi comuni. Magra consolazione visto che il numero di comuni che supera la soglia di medio è pari a 14 su 8047 totali. Il fil rouge è molto chiaro nella sua logica di fondo e segue lo schema per cui se l'affidamento è diretto allora si può azionare un sistema di relazioni, o di rete di conoscenze se si preferisce, il che non sempre va di pari passo con l'esigenza di avere un servizio il più vicino possibile ai canoni dell'economicità (ossia efficace e che al contempo minimizza i costi per l'amministrazione, e quindi efficiente). Approfondendo un minimo la tematica emerge però che questo modus operandi non è poi così malsano come appare. Nei mesi scorsi ad esempio sono stato a fare formazione in tema di prevenzione dell'illegalità e della corruzione in diversi piccoli o piccolissimi comuni del Nord-Italia. Ed è lì che, oltre quanto si può logicamente immaginare, confrontandomi coi dipendenti comunali che frequentavano i corsi da me tenuti emergono con forza questioni e dati di fatto che sui tavoli istituzionali fanno fatica ad essere ben rappresentati. Una prima questione è quella che riguarda le reti di comuni o le comunità montane. Si tratta, ce ne sono tante, di aree non molto vaste con caratteristiche territoriali, sociali e demografiche omogenee dove ci sono pochissimi dipendenti per ogni comune e dove, appunto, si uniscono le forze, a volte con successo, altre meno, per fornire un'offerta di beni e servizi pubblici, o a carattere prevalentemente pubblico, di più elevato standard. Sono questi i comuni dove puoi trovarci il dipendente (tralasciamo il suo inquadramento) factotum, quello che fa i ponti tra cittadini ed amministrazione per quasi ogni evenienza (dalle buche in strada, all'efficientamento della raccolta differenziata, alla spola con la polizia locale per il rilascio dei contrassegni agli invalidi). E a volte si concentra tanto ma tanto potere nelle loro mani che alla fine però, se gli si va a dare una quantificazione monetaria ci si accorge che relativamente poco potrebbero rubare (ma esistono molte eccezioni, sia chiaro). E sono sempre questi individui che con amore o no, merito o no, buona fede o no si adoperano nella sostanza per il funzionamento (ora corretto, ora no) della macchina amministrativa. Così tessono relazioni, contattano le imprese locali, i fornitori, gli amici, gli amici degli amici. Insomma fanno più i public relator loro che tanti giovani ventenni di fuori le ambite discoteche di tante affollate città italiane. Ed è in questi casi allora che i casi di malamministrazione non sono la risultante del fenomeno corruttivo quanto, piuttosto, della sfortunata monarchia o oligarchia di chi è chiamato a gestire nella sostanza l'andamento dell'ente locale. Addirittura lo stesso fenomeno corruttivo talvolta si insinua in modo subliminale andando a colpire le finanze dell'ente locale facendo leva sul grado di competenza, inadeguato, di chi è chiamato a decidere sulla validità di offerte per le quali si affida al buon senso o alla bontà delle relazioni in essere piuttosto che su basi più oggettive. Il problema allora non credo sia quello di un ringessamento o maggior ingessamento del tessuto normativo, anche se può rappresentare la misura estrema da considerarsi più congrua, quanto quello di passare al vaglio, ed ecco perché, di nuovo, abbiamo bisogno di un'autorità nazionale anticorruzione forte ed adeguatamente dimensionata in termini di risorse umane, che possa controllare l'operato dei piccoli enti locali quando, spesso, avventatamente e seppure in buona fede, affidano le forniture di beni e servizi su base fiduciaria. Restrizioni normative rischiano di produrre effetti nefasti: maggior controllo ex ante che si sostanzia in un allungamento dei tempi di affidamento dei lavori con conseguenti disagi per le comunità locali. Al cittadino, in fin dei conti, interessa che il servizio ci sia e che sia efficace. L'efficienza la dobbiamo ricercare tramite un attento monitoraggio delle dinamiche che portano ad affidare, non nello strozzamento burocratico delle pratiche d'affidamento dove comunque chi vuole delinquere e remare contro lo Stato, e quindi contro la collettività può comunque riuscire a farlo. Metaforicamente: non possiamo portare la luce al centro della terra per cercare l'oro nero se i costi sono superiori ai benefici che l'illuminazione può portare, o se troppi operai devono perire nelle opere di trivellazione. Di converso, possiamo però cercare fonti energetiche alternative: quelle che si rinnovano, quelle che danno lavoro, quelle che tengono aria, terra e mare più puliti: le nostre città, le nostre finanze, il nostro futuro a tendere.
E cambiano le regole sugli appalti, scrive Vincenzo Bisbiglia su “Il Tempo”. Da oggi in poi le aziende partecipanti agli appalti del Comune di Roma verranno sorteggiate. Proprio così: sarà la casualità a decidere quali ditte, fra quelle iscritte in un apposito albo fornitori, saranno invitate all’apertura delle buste. E questo dovrà valere anche per le municipalizzate. È la novità più importante e, se vogliamo, originale fra le nuove direttive sulle gare d’appalto presentate ieri mattina dall’assessore capitolino alla Legalità e Trasparenza, Alfonso Sabella. Il magistrato, chiamato in Giunta dal sindaco Ignazio Marino all’indomani dell’esplosione dello scandalo di Mafia Capitale, ha varato un nuovo modus operandi per l’affidamento dei servizi. Il meccanismo somiglia a una sorta di gioco a premi. Il Campidoglio provvederà ad accreditare un certo numero di aziende all’interno di un albo fornitori. Nel momento di svolgere la gara, un cervellone elettronico procederà all’estrazione di un numero prestabilito di soggetti, alla presenza di un pubblico ufficiale esterno all’amministrazione (che dovrà restare sconosciuto, per evitare turbative d’asta). Successivamente verranno inviate le raccomandante (sotto un unico numero di protocollo) alle imprese, che poi procederanno alla loro offerta. Le aziende sorteggiate per la prima gara, quindi, non potranno essere estratte per gli appalti successivi, finché non ricomincerà il giro. Il sorteggio non è l’unica novità. Arriverà, infatti, anche un albo per i soggetti delle commissioni giudicatrici, anche questi sorteggiati a rotazione. Alle aziende, poi, verrà richiesta anche una dichiarazione sui finanziamenti effettuati, nell’anno precedente, a partiti o esponenti politici. Stop, quindi, alla pubblicazione e svolgimento di gare nel mese di agosto. Altra novità riguarda i lotti, a cui verrà posto un tetto massimo (ancora stabilire). Per Marino, «con queste nuove norme sarà davvero difficile eludere le regole». Ma Sabella avverte: «Le regole servono, ma ci vogliono anche gli uomini. La criminalità è sempre un passo avanti a noi». Intanto, mentre ieri mattina sindaco e assessore hanno consegnato all’Autorità Anti Corruzione una black-list di 120 appalti «sospetti», per lo più riferibili a Sociale e Lavori Pubblici, ora si scopre che nel 2014 soltanto Dipartimento Mobilità, Polizia Locale e Gabinetto del Sindaco hanno ottemperato all’obbligo di legge di pubblicare su internet le loro determinazioni dirigenziali, appena 205 in totale. Di tutti gli altri atti, che dovrebbero essere alcune migliaia, non c’è traccia. L’ex assessore Fabrizio Ghera (oggi Fdi), ha rivelato anche che «nell’anno appena conclusosi sono state bandite solo 8 gare ad evidenza pubblica» in tutto il Comune, mentre sul fronte dei lavori pubblici «in 18 mesi è stato effettuato solo un bando con procedura aperta». Piccoli e grandi scandali, inchieste che si susseguono da anni, alcune delle quali già in odore di prescrizione e che quindi non finiranno nemmeno in tribunale, arresti eccellenti, mazzette per pilotare appalti: ecco la piovra pubblica.
I DINOSAURI DELLA BUROCRAZIA.
I dinosauri della burocrazia che non vogliono cambiare. In un libro Corrado Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo». Non solo: un viaggio nella cancrena dell’immobilismo, scrive Andrea Garibaldi su “Il Corriere della Sera”. Corrado Giustiniani, per 25 anni inviato speciale de «Il Messaggero», ha scritto un libro sui Dinosauri che non sono animali estinti, anzi. Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo» nel Paese dove «i cittadini sono i peggio serviti». Giudizio generale, che fotografa un «sistema», senza condannare chi lavora con scrupolo. Secondo i dati di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, segretari generali, capi di gabinetto, capi dipartimento dei ministeri guadagnano due volte e mezzo i loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi. Nell’agosto del 2014 «The Economist» ha scritto: «Per guadagnare 136 mila euro l’anno una ricerca su Internet rivelerà che tu debba essere il direttore dell’information technology in una società inglese, il governatore dello Stato di New York o un usciere del Parlamento italiano». Il «caso dinosauri» ha un altro aspetto, oltre a quello economico: «Qual è il cuore della questione burocratica in Italia? L’assenza della cultura del risultato», ha detto il giurista Sabino Cassese. Nel libro Giustiniani annota: «Per allacciarsi alla rete elettrica in Germania sono necessari 17 giorni, in Italia 124. Per un permesso di costruzione in Finlandia bastano 66 giorni, in Italia 234». Nell’anno 2009 Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione del governo Berlusconi, fece approvare un decreto «per favorire la produttività, l’efficienza e la trasparenza del pubblico impiego». Prevedeva premi per i migliori. Solo che l’applicazione delle norme non sempre corrisponde agli intenti. In molti casi gli obiettivi per ottenere i premi erano stabiliti dalle stesse amministrazioni. Prendiamo gli Esteri. L’Ufficio comunicazione viene premiato, scrive Giustiniani, se distribuisce almeno 10 mila rassegne stampa (fatte compilare, peraltro, da una società esterna) o esegue almeno 100 accrediti per giornalisti stranieri. La Direzione per la promozione del sistema Paese, che ha il compito di catalogare le opere d’arte nelle ambasciate, si dà metà del premio se visita almeno tre ambasciate in un anno e l’altra metà se le visite guidate alle collezioni della Farnesina staccano almeno 500 biglietti. Gratifiche per il minimo del proprio dovere. I dirigenti pubblici italiani guadagnano in media poco meno di 300 mila euro l’anno. Uno dei provvedimenti del governo Renzi è stato l’imposizione di un tetto a 240 mila euro lordi, prendendo come limite le retribuzioni più basse nel pubblico impiego, moltiplicate per dieci. Positiva inversione di tendenza, dunque, e Giustiniani ne segnala altre. Ecco gli avvocati dello Stato, che non possono più sommare gli alti stipendi alle parcelle obbligatorie che le amministrazioni da loro difese dovevano versare. Ecco, per gli stessi avvocati dello Stato, il divieto di partecipare ad arbitrati. Ecco i tagli alle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato. Ed ecco, di contro, i ricorsi contro i tagli, quasi duemila nei due rami del Parlamento. Cambiamenti faticosi, da queste parti.
Dinosauri, burocrati che ci affossano. Tra proteste e proposte, un viaggio nell'Italia dei privilegiati, scrive Marzia Apice su “L'Ansa”.
CORRADO GIUSTINIANI, "DINOSAURI. Nessuna riforma ci libererà dai superburocrati di Stato" (Sperling & Kupfer, pp.206, 17 euro). "Li ho chiamati dinosauri nella speranza che si estinguano. Ma poiché hanno 50 anni di media, credo che dovremo aspettare". La prende con ironia il giornalista Corrado Giustiniani, mentre racconta all'ANSA del suo ultimo libro, chiamato per l'appunto "Dinosauri" (Sperling & Kupfer) in riferimento ai tanti burocrati che affollano le strutture dello Stato lasciando per lo più irrisolti i problemi dei cittadini. Stipendi alti, anzi i più alti del mondo nella Pubblica Amministrazione, a fronte di un Paese che oltre alla crisi economica ci mette del suo in tema d'inefficienza, servizi al cittadino inesistenti, per non parlare di corruzione, opacità e lentezze, e commissioni d'inchiesta che si risolvono in una bolla di sapone lasciando ogni cosa inalterata. Iniquità e ingiustizia dilaniano l'Italia, gravandola di una zavorra che sembra essere il primo ostacolo verso la tanto agognata ripresa. "Il problema - spiega il giornalista - è senza dubbio culturale, ma non solo. In Italia, ci sono persone che diventano ricche con i soldi pubblici, che hanno bonus e privilegi pur non raggiungendo i traguardi: questo non è più accettabile, e non si tratta di essere qualunquisti, perché la generazione dei giovani rischia di non avere un futuro". "Se i politici fissano gli obiettivi, i dirigenti pubblici hanno autonomia di realizzazione", continua, "è così dal '93, e non può essere sempre colpa degli altri se non si ottengono risultati. La vittoria di un concorso pubblico non può essere una giustificazione a vita. E' ora che gli uffici divengano fabbriche in cui produrre, come ha ben esemplificato Sabino Cassese". Snello nella struttura e nel linguaggio, appassionante come un'inchiesta, il libro prende per mano il lettore e lo trascina in un viaggio nelle storture italiane, raccontando dati e storie, citando nomi e fonti, enumerando alcuni di quei 70mila fortunati (tra giudici costituzionali, ambasciatori, avvocati dello Stato) che sembrano avere diritto a tutto, senza dover rendere conto del proprio operato. Se è senz'altro necessario agire su più fronti, anche "cambiando la cultura giuridica predominante nella scelta dei candidati dei concorsi - afferma ancora - a tutto discapito della chiarezza nel linguaggio con cui si scrivono i provvedimenti", forse la riforma della pubblica amministrazione targata Renzi-Madia "potrebbe addirittura far sperare in qualcosa di buono". "Ora c'è lo slogan delle riforme anche se non sempre sono una panacea - precisa - i tempi di risposta sono lunghi, ammesso che si riesca a penetrare in tutti i settori. In ogni caso, il ruolo unico della dirigenza e la maggiore mobilità dei dirigenti senza più paletti tra amministrazioni diverse sono un'opportunità, ma la precarizzazione dei candidati con l'incarico a 3 anni li porterà a produrre di più, o li legherà maggiormente al carro della politica?". Una domanda che resta senza risposta, almeno in attesa che la riforma si realizzi, e a cui ne seguono almeno altre tre: come organizzare una Scuola della Pubblica Amministrazione davvero efficace? Perché non si riesce in Italia a "fare i giapponesi", ossia a copiare - visto che da soli non se ne esce - quello che di buono in materia di amministrazione di Stato accade negli altri Paesi? E ancora, perché non ci si ispira ai criteri di assunzione adottati dall'Ue? Un ginepraio di problemi, eppure, da noi non è sempre stato così. "Quando iniziai a fare il giornalista negli anni '70 pensavo, guardando le retribuzioni di allora, che un alto dirigente pubblico avrebbe dovuto guadagnare anche di più, proprio per il difficile lavoro che lo attendeva", racconta Giustiniani con amarezza, aggiungendo che "negli anni '90 c'è stato però un boom retributivo a cui non è corrisposto un miglioramento nei servizi. Ora è tempo di darci una regolata e cambiare verso la trasparenza".
La burocrazia italiana è un dinosauro famelico, scrive Silvano Guidi su “Resegoneonline”. Per le scartoffie che non producono reddito, ma anzi lo consumano, ogni impresa, in media, spende 7.000 euro l'anno. Sembra che il presidente del Consiglio incaricato, Matteo Renzi, ne abbia consapevolezza: la vera metastasi che rallenta lo sviluppo dell'Italia, il tumore pernicioso e silente che succhia e neutralizza le energie vitali del Paese si chiama "burocrazia". Ma sarebbe ancora meglio passare dal terreno astratto di "categoria", che tutti e nessuno colpisce, ai singoli burocrati, agli uomini e donne degli uffici (dal francese bureau, ufficio), agli addetti, con nome e cognome, che esercitano il potere appunto degli uffici (di infimo, basso, medio, mediocre, alto, altissimo, supremo livello). Sono personaggi di potere, interpreti e strumento di regole e procedimenti che solo loro conoscono e manovrano, facendone leva vessatoria, e incentivo alla corruzione, per qualunque cittadino costretto a sottostare alle forche caudine dei bizantinismi normativi. Dall'addetto ad un ufficio pubblico a cui ci si rivolge per una pratica fino al megafunzionario di ministero, che scivola a suo agio fra leggi e regolamenti, i burocrati rallentano, impastoiano, imboscano, negano, concedono; spesso con discrezionalità sacrale. Il vero potere è il loro. I tempi li decidono loro. I costi che derivano dalla loro azione li determinano loro (ma li paghiamo noi). La Cgia di Mestre (associazione molto quotata , per la serietà dei suoi studi, di artigiani e commercianti) ha messo a confronto i servizi alle imprese, offerti dalle amministrazioni pubbliche dei diversi Paesi di Eurolandia, per giungere alla seguente conclusione: la burocrazia italiana è tra le meno efficienti (al 15mo posto in UE e addirittura al 65mo nel mondo), ma in compenso è tra le più onerose, costando ad ogni impresa, in media, 7.000 € l'anno. La burocrazia italiana è pessima fornitrice di servizi (in Europa fanno peggio solo Grecia e Malta) ed è anche la peggiore pagatrice del Continente, tanto che parecchie aziende italiane sono fallite e falliscono non per debiti, ma per crediti non riscossi. Ricorda Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia: "Il 74 per cento degli artigiani e commercianti lavora da solo; pertanto la gestione degli adempimenti burocratici viene svolta direttamente dal piccolo imprenditore oppure, in alternativa, da un fiscalista a cui lo stesso artigiano o commerciante è costretto a rivolgersi. In entrambi i casi perdendo tempo e denaro supplementare". Flavio Briatore non ha peli sulla lingua e accusa: "Il vero problema dell'Italia è la burocrazia: un dinosauro famelico che ha generato infiniti altri piccoli dinosauri che sono ovunque. Bisogna semplificare leggi, in modo che ogni cittadino possa capirle. Oggi invece per capire le leggi servono gli avvocati. E la burocrazia famelica ha creato, a proprio uso e consumo, un linguaggio incomprensibile per giustificare la propria essenzialità e sopravvivenza". Quanti siano i superburocrati in Italia è stima evanescente: il vero potere nasconde se stesso. E questo potere, da domani, lotterà contro Renzi e i suoi ministri, per la gran parte giovani, neofiti e inesperti; e quando non inesperti non sufficientemente grintosi. L'esercito dei burocrati è silenzioso, felpato, inossidabile e guadagna molto, a volte moltissimo. Sono eminenze grigie (ma chissà quanti giovani dinamici professionisti farebbero meglio di loro!) che si scambiano i posti, si coprono a vicenda, occultano gli errori, appartengono alla stessa rete di protezione. Dai, Matteo! Dimostra che hai davvero capito da dove cominciare il ripulisti.
Meglio se taci, scrivono Guido Scorza ed Alessandro Gilioli. Siamo un Paese in cui per aprire un blog bisogna obbedire a una legge del 1948, altrimenti si rischia un processo penale; siamo un Paese in cui non puoi fare il giornalista se non hai la tessera dell’Ordine, ma per avere la tessera devi fare il giornalista. Siamo un Paese in cui un’autorità amministrativa può chiudere un sito web senza nemmeno passare da un giudice. Siamo un Paese insomma nel quale tutto sembra suggerire che «è meglio se taci». Lo scrivere, diffondere e fare informazione è disincentivato dalla paura dei processi, dalla minaccia di risarcimenti milionari, dalla confusione delle norme e dalla burocrazia. Nel loro viaggio, Gilioli e Scorza ci raccontano e spiegano questo paradosso attraverso casi concreti, vergognosi e grotteschi. Non solo per denunciarli, ma soprattutto per cambiare le cose. Nell’interesse della democrazia. La rete è libera. Libera per natura, per definizione, si pensa spesso. Perché chiunque può aprire un blog o postare quello che preferisce sui social network. Chiunque può leggere on line le opinioni più diverse, comprese quelle strampalate, eccentriche, assurde, complottiste, perfi no razziste e violente. Chiunque può caricare o scaricare un video a piacimento, compresi quelli pornografi ci o quelli in cui ci si fa esplodere con una cintura esplosiva; e c’è tutto, in Internet, dal Ku Klux Klan al Califfato islamico, dai teneri gattini al gruppo Facebook che invita all’omicidio di Justin Bieber. E così via...
“Meglio se taci”, contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia. Nel libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e Guido Scorza (avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it) il caos normativo in un Paese in cui chi fa informazione online è ancora soggetto alla legge sulla stampa del 1948. E dove il digital divide è aggravato per parte politica da una "radicata subcultura nemica della libertà della rete", scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Ordine e contrordine, uguale disordine. Eccolo l’iter normativo che regola l’informazione sul web in Italia, dove i blog rischiano ancora di essere condannati per il reato di stampa clandestina e chi pubblica notizie può incorrere nell’esercizio abusivo della professione. Perché “non è possibile fare il giornalista senza tessera dell’Ordine, ma per averla bisogna fare il giornalista”. Sono solo la punta dell’iceberg delle contraddizioni riordinate in “Meglio che taci” (Baldini&Castoldi), il libro di Alessandro Gilioli (L’Espresso)e dell’avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it Guido Scorza. Un’inchiesta che attraverso esempi di cronaca mostra come spesso l’interpretazione delle norme si traduca in censura, obiettivo condiviso da disegni di legge presentati in Parlamento che puntano a imbavagliare il web, ignorando che i provvedimenti validi nel mondo reale sono già estesi anche in ambito digitale. Molto lontano dal “far west” immaginato da deputati e senatori, tra i quali prevale “spesso una radicata subcultura nemica della libertà della rete“. Un caso in cui la difesa del diritto d’autore è diventato pretesto per censurare l’informazione è la vicenda del forfait di Gabry Ponte raccontata dall’emittente locale “Vera Tv Abruzzo”, che si è vista rimuovere i video su YouTube dove aveva ricostruito la vicenda. E poi c’è la vicenda di Carlo Ruta, blogger siciliano condannato per il reato di stampa clandestina in primo grado e in appello prima che la Cassazione precisasse che a un blog non è applicabile la legge sulla stampa del 1948. Non ultima la storia di PnBox, web tv di Pordenone che dava semplicemente voce ai cittadini, segnalata all’ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione. Un’accusa poi smontata davanti ai giudici: l’attività della web tv, hanno detto, “non è paragonabile a quella di un giornalista perché non prevede alcuna rielaborazione critica dei contenuti”. Stessa accusa anche per Pino Maniaci, direttore di TeleJato, tv antimafia di Palermo che dopo due rinvii a giudizio e altrettante assoluzioni, ha preso il tesserino dell’Ordine. Come se la “patente” da giornalista fosse la condizione indispensabile per denunciare fatti criminosi e infiltrazioni mafiose. E questo in cosa si traduce? Nel pagamento nel bollettino annuale all’Odg, che per Gilioli e Scorza è fatto di “burocrati e gabelle” e che “non ha più alcuna funzione se non quella di garantire stipendi, segretarie, uffici e brandelli di potere si suoi incravattati vertici”. Lasciando da parte i casi giornalistici, in Italia il 34 per cento della popolazione non ha “mai aperto un browser” in vita sua. In più, siamo penultimi in Unione Europea per velocità della connessione misurata. Il digital divide italiano però si spinge oltre i confini della banda larga e “della scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali”. Come? Ad esempio con il compenso per la copia privata promosso dal Mibac di Franceschini, che disincentiva l’acquisto di device digitali. Ed è anche il Paese dell’ostacolo al wi-fi, dove gli esercenti possono rischiare multe da migliaia di euro se mettono a disposizione della clientela alcuni tablet. Perché in base all’articolo 110 del testo unico che disciplina la messa a disposizione del pubblico di apparecchi da gioco – “il cui impianto originario risale a un regio decreto del 1931″ – sono equiparabili alle slot-machine. E se sul fronte trasparenza andasse meglio? Magari. Perché in Italia manca un Free of Information Act (Foia), legge che esiste dalla Svezia al Ruanda, per garantire ai cittadini una pubblica amministrazione trasparente. A dire il vero, ad annunciare un Foia nazionale era stato il governo Monti. Ma il testo non aveva nulla a che vedere con il modello Usa a cui avrebbe dovuto ispirarsi e ribadiva solo quello che le norme già prevedevano. Se esistesse, potremmo, ad esempio, conoscere nel dettaglio il contenuto del famigerato dossier Cottarelli sulla spending review. Proprio quello che né Palazzo Chigi né il Ministero dell’Economia allo stato attuale riescono a trovare. Oltre i confini nazionali, poi, rimangono aperte le domande sulle policy arbitrarie di Facebook e Google, big player che godono di potere incontrastato sul mercato virtuale e che decidono anche quali notizie possono pubblicare gli utenti. In occasione della diffusione del video della decapitazione di James Foley, ad esempio, Dick Costolo di Twitter ha avvisato che la pubblicazione degli immagini avrebbe potuto causare la sospensione dell’account. Questioni in cerca di sintesi e risposte, che coinvolgono Europa e Stati Uniti. Senza spingersi tanto oltre, però, possiamo limitarci al recinto italiano. Per vedere che anche dentro i nostri confini c’è già – e ancora – molto da fare. Alessandro Gilioli, alla faccia della rete libera, scrive Ilaria Bonaccorsi su “Left”. Meglio se taci. Alessandro Gilioli, giornalista de L’espresso, e Giulio Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie, nel loro ultimo libro “istigano” alla rivoluzione, quella per la libertà d’informazione che passa per «un accesso libero, non discriminatorio e neutrale alla rete». Una rivoluzione già in atto, di cui protagonisti sono «tanti ragazzini pieni di estro, genio, creatività che all’estero danno vita a piattaforme di informazione dal basso, citizen journalism e whistleblowing in stile Wikileaks» ma che in Italia, raccontano i due autori, avrebbero gettato la spugna, patteggiato la minore delle pene possibile e rinunciato ad esprimersi. Troppo duro lo scontro contro il dinosauro a tre teste (malapolitica, tv e giornalismo della carta) che non ha intenzione di estinguersi, né di evolversi, e sbatte la coda per sfasciare tutto. Un colpo è, per esempio, l’ultimo ddl che riforma la legge sulla stampa, approvata al Senato e in discussione alla Camera. Per capire se è veramente l’ennesima «legge bavaglio», ne abbiamo parlato con Alessandro Gilioli.
Il dubbio che questo ddl possa essere una difesa contro tanto pessimo giornalismo le è mai venuto?
«Certo che sì: la nostra categoria è sputtanata almeno quanto quella dei politici e l’Ordine renderebbe miglior servizio al Paese se si autodissolvesse, dato che serve solo a perpetuare se stesso e a mettere recinti alla libera comunicazione. La battaglia invece è per non far retrocedere ulteriormente un Paese che è già al 49° posto nel mondo per libertà di espressione: non per difendere una categoria scarsamente stimata».
Una delle cose che prevede questa riforma è che in caso di diffamazione non ci sia più il carcere per i giornalisti, ma multe fino a 50mila euro. Eppure giuristi e cronisti sono arrivati a dire: #meglioilcarcere. Perché?
«La nuova norma è stata pensata per mettere al sicuro politici e potenti del-l’economia non “dai giornalisti”, ma dalle critiche in genere, anzi soprattutto da quelle dei semplici cittadini, sui social o nei blog. I giornalisti assunti in un’azienda non temono più di tanto quelle multe, che vengono pagate dagli editori che sono assicurati; al contrario, i cittadini che non hanno le garanzie dei giornalisti assunti si troveranno in una condizione di maggiore fragilità. Lì scatterà l’autocensura».
Altro punto contestato del ddl è il diritto all’oblio: chi crede di essere oggetto di diffamazione potrà scrivere a siti web e persino a motori di ricerca, chiedendo di eliminare quei contenuti ipoteticamente diffamatori.
«Sul diritto all’oblio la soluzione più intelligente mi pare quella indicata dal Garante per la Privacy, nel 2013, quando ha proposto di non cancellare nessuna notizia, anche se superata dai fatti, bensì di aggiornarla. Quindi se uno scrive che il signor Y è probabilmente un ladro e poi il signor Y viene prescritto o assolto, non si cancella l’accusa ma la si integra con un visibile “update”. Tutte le altre formule di diritto all’oblio, in questa legge così come nella sciagurata sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che delega il potere di cancellazione a Google, sono violazioni del diritto alla conoscenza, alla cronaca, alla storia».
Ma le risposte vanno date. Le regole della comunicazione da noi sono ferme al 1948. Chi deve farlo e come?
«Contemperare il diritto alla privacy e all’onorabilità con il diritto di cronaca e di opinione non è facile, ma nemmeno impossibile. Pensare che la strada giusta sia quella penale, nel 2015, è fuori dal tempo. Oggi il patrimonio più importante per ogni cittadino è la reputazione: tanto quella di chi ha diritto a non vedersi attribuire pubblicamente fatti che non ha commesso, quanto quella di chi scrive le sue opinioni, sia giornalista o no. Quest’ultimo perde ogni autorevolezza e credibilità se viene identificato come “bufalaro”: quindi il modo migliore per contemperare i due diritti sarebbe semplicemente un sistema di rating (pubblico) che classifica sia chi scrive sia chi fa causa contro chi scrive. Dopo la quarta o quinta volta che un giudice stabilisce che Tizio è un bufalaro chi crederà più a quello che scrive Tizio? Dopo cinque o sei volte che Caio fa causa per diffamazione e il giudice gli dà torto, che reputazione avrà Caio, se non quella di chi tenta di censurare? Oltre questo scenario forse futuribile, già da subito si possono bilanciare meglio le cose. Ad esempio, se il querelante ha torto, alla fine paga lui, fino all’ultimo euro, rimborsando anche i danni morali di chi ha dovuto perdere il sonno per difendersi da un’accusa infondata».
Nel libro ripetete che «un “freedom of information act” sarebbe un antidoto contro le mazzette». Ma che l’unica cosa che si percepisce in Italia è un «ostruzionismo burocratico regolamentare». Domanda retorica: un’informazione poco trasparente serve a una politica poco trasparente?
«Un Freedom of information act costringerebbe alla più assoluta trasparenza su appalti e gare, e quindi sarebbe un colpo contro la corruzione a ogni livello. Ma, certo, è un po’ come con il famoso tacchino che difficilmente è felice quando arriva il Thanksgiving: non tutta la politica è così entusiasta di una norma che abbatte la corruzione».
Anche la rete non è un’oasi di libertà. facebook, twitter e google sono i padroni, noi gli ospiti. Da una parte loro garantiscono la comunicazione, dall’altra si riservano diritti e poteri assoluti.
«Siamo talmente imbevuti di mentalità proprietaria e privatista da considerare normale che Facebook ci possa censurare perché “tanto è un’azienda privata”. Sciocchezze: l’iniziativa privata non può prescindere dall’interesse pubblico. E l’articolo 21 della Costituzione non può essere calpestato da presunte policy aziendali e da censori che spesso non capiscono gli stessi contenuti perché scritti in altre lingue. Nel libro abbiamo raccontato tre o quattro casi di censura esilaranti, per la loro stupidità. Ma non c’è molto da ridere, se le corporation del web diventano i nuovi poliziotti della Rete».
A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? Sulla carta lo decidono l’editore e il direttore, ma è giusto che riguardi anche un intermediatore di contenuti altrui?
«Se l’intermediatore non ha responsabilità per i contenuti immessi da altri, com’è giusto e com’è stato stabilito a livello Ue, non si capisce perché poi debba avere il potere di filtrare e censurare contenuti. Se usa questo potere, assume implicitamente la responsabilità di quanto fa apparire e contraddice quella non responsabilità a cui tutti gli intermediatori tengono moltissimo. È una questione da risolvere con norme nazionali o internazionali che siano cogenti e rispettino i principi di libertà costituzionale: nessun intermediario, in nessun Paese, può essere più censorio delle leggi del Paese in questione. Ad esempio, in Italia: nessuna censura preventiva e la possibilità di oscurare un contenuto solo su decisione della magistratura, che valuta sentendo le parti e concedendo appelli. Sono principi di base. Oggi Fb, Twitter o Youtube invece sono allo stesso tempo poliziotti, giudici e legislatori».
«La poca democrazia dei network può indebolire quella della società reale», denuncia il filosofo Peter Ludlow. Sta accadendo questo?
«Ludlow fa presente che se ci abituiamo a pensare che è lecito e normale essere censurati da un’azienda digitale, disimpariamo a considerare la libertà d’espressione un valore inalienabile e rischiamo di finire per considerare accettabile essere censurati in genere. Temo non abbia torto».
Le cinque cose peggiori di quello che definite il bestiario della regolamentazione anti-digitale italiana?
«Più che di regolamentazione anti-digitale, anche se poi molte norme impattano soprattutto sulla rete, parlerei di norme contro la libertà d’espressione, che ci dicono appunto “meglio se taci”. Tra le varie brutture ci sono senz’altro la norma del 1948 sulla stampa clandestina, che oggi non so se fa ridere o piangere; il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica, che è frutto del combinato tra l’articolo 348 del Codice penale e la legge sull’Ordine del 1963; la legge 41 del 1990, che è il contrario esatto di un Freedom of information act; il regolamento Agcom sul copyright, che rende il nostro Paese l’unica democrazia al mondo in cui un’autorità amministrativa e di nomina politica può oscurare dei siti Internet. Poi ovviamente ci sono infinite regole minori che, interpretate in modo stupido, producono risultati tragicomici. Nel libro raccontiamo la vicenda del titolare di una piadineria di Asti che è finito nei guai per aver messo a disposizione dei clienti quattro tablet: gli è arrivata la Finanza contestandogli di gestire “apparecchiature atte al gioco d’azzardo”, perché ovviamente con i tablet si può “anche” andare sui siti di scommesse.»
CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.
"Corruzione a norma di legge", piaga italiana. Nel libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi la ricostruzione dell'intreccio che tra controllati e controllori, il quadro di un fenomeno che è oggi più grave di quanto non fosse all'epoca di Tangentopoli: allora le norme venivano violate, oggi sono state "aggiustate" per permettere gli abusi, scrive “La Repubblica”. La lobby delle Grandi opere affonda l'Italia, recita il sottotitolo del libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge (Rizzoli) dedicato alla palude e al malaffare che per due decenni, con gli scandali del MoSE di Venezia, dell'Expo di Milano o dell'Alta velocità hanno inquinato il Paese durante la Prima e la Seconda Repubblica, allungando i tempi e gonfiando a dismisura i costi di realizzazione. Ed è assai chiaro il messaggio che fa da filo conduttore alla ricostruzione del fitto intreccio che ha legato controllori e controllati lungo il percorso delle Grandi opere. Oggi la corruzione è perfino più grave che in passato e questo avviene perché, se con Tangentopoli gli imprenditori che avevano violato le leggi potevano essere perseguiti, ai nostri giorni punire i responsabili è diventato assai più arduo. Poiché sono le stesse leggi a essere state "aggiustate" a monte per permettere il vantaggio dei privati a discapito dello Stato, chi corrompe non viola norme, ma le usa e sfrutta per il proprio tornaconto. Una desolante realtà di fronte alla quale la giustizia ha le armi spuntate e che potrebbe essere combattuta soltanto dai cittadini e dalla politica. Ma come fare per promuovere e dar corso alle Grandi Opere necessarie al Paese, evitando il sistema corruttivo che ha imperversato negli ultimi vent'anni e cambiato la percezione che i cittadini hanno della politica, mai stata come ora al minimo del gradimento? Innanzi tutto, rispondono Giorgio Barbieri, giornalista, e Francesco Giavazzi, economista, la politica dovrebbe radicalmente cambiare il modo d'intendere il suo ruolo e dunque impedire (e non promuovere) quelle leggi ad hoc che finora hanno permesso i tornaconti privati, a tutto svantaggio dell'interesse pubblico. E qui entrano in gioco i cittadini che, con il loro voto, possono pretendere di sostenere solo chi s'impegna contro la "corruzione delle leggi". Inoltre, suggeriscono gli autori, le imprese dovrebbero potersi assicurare presso una compagnia privata così come le "gole profonde", che denunciano la corruzione, dovrebbero poter contare su una rete di protezione efficiente e reale. Infine, è dovere di chi controlla qualità e costi delle Grandi opere essere finalmente del tutto indipendente dalla politica.
Perché la vicenda del MoSe è emblematica della corruzione diffusa?
«Perché meglio di ogni altra dimostra che la corruzione più grave, cioè quella che più costa ai cittadini, non è quella che avviene tramite violazione delle leggi, di cui per lo più si occupa la stampa, bensì quella che avviene per "corruzione delle leggi". Leggi ad hoc, come la legge del 1984 che creò il concessionario unico, ovvero assegnò buona parte dei lavori di salvaguardia della laguna di Venezia (18 miliardi di euro di oggi) ad un monopolista. Costui, il Consorzio Venezia Nuova, in questi 30 anni ha realizzato lavori per il MoSE per oltre 6 miliardi (in euro di oggi), con un sovrapprezzo per lo Stato, e quindi per i cittadini, che supera i 2,4 miliardi di euro. La "corruzione" della legge è più ambigua della "violazione", perché nel primo caso nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state "corrotte", cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l'interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non ha armi e che può essere combattuta solo dalla politica e dai cittadini».
Tutti gli scandali da Tangentopoli in poi...
«Gli imprenditori sono usciti dall'esperienza di Tangentopoli con danni giudiziari limitati e una lezione: per non cedere tutta la rendita della corruzione ai politici occorre trattare da una posizione di forza, costruendo un'unica impresa monopolista per eliminare la possibilità che il politico tratti con altri. Di qui nasce l'idea del consorzio di imprese che tratta con politici e amministrazioni come fosse un'unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l'imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori. Non a caso nel Consorzio Venezia Nuova si ritrovano gli stessi imprenditori attivi al tempo di Tangentopoli. Trattando da una posizione di forza si può anche fare in modo che i benefici ottenuti non siano sanzionati dalla legge, e così evitare il rischio della prigione. I politici sono quindi pagati per ottenere non solo una parte della rendita, ma anche leggi che la rendano "legale". Durante Tangentopoli politici e imprenditori violavano le leggi, e infatti in molti sono finiti in prigione. Con il MoSE tutto diventa legittimo perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale».
Come uscire dall'ennesima palude che ha coinvolto la Prima e la Seconda repubblica?
«Il libro si chiude con tre proposte concrete. 1: richiedere che, per partecipare a un appalto, le imprese si assicurino con una compagnia privata, come avviene negli Stati Uniti. In Italia una legge in questo senso esiste, ma i decreti attuativi non sono mai stati scritti. 2: la creazione di un'efficiente rete di protezione per le "gole profonde", ossia chi denuncia sospetti episodi di corruzione, ma anche di ogni altra forma di comportamento illegale. 3:. l'indipendenza dalla politica di chi deve controllare qualità e costi. Ma queste misure non risolvono il problema più grave, che è la corruzione delle leggi. Questo è compito esclusivamente della politica. L'amara vicenda che ha travolto il Mose di Venezia può però trasformarsi in un'occasione affinché politica e cittadini, con il proprio voto, trovino l'antidoto affinché simili casi di corruzione delle leggi non si ripetano».
Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.
La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto. Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente". Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.
Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:
2 maggio: Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro.
16 aprile: Maurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.
11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.
3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.
1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.
31 marzo: Silvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.
27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.
27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro.
26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione.
19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.
3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura.
Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati.
28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.
27 febbraio: Filippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.
21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".
28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.
23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari.
16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze.
14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.
Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.
Leggi sbagliate, non solo gli uomini. Nel libro di Barbieri e Giavazzi, l’analisi di due tipi di corruzione: le tangenti e quelle norme scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna. Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole. È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole. Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare». «Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”». Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova». Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario». Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio. L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti». Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa». Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».
In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.
MAFIA E MAZZETTE.
La corruzione è l'arma della mafia. I clan comprano politici e funzionari e quando la mazzetta non basta usano la violenza. Calano gli omicidi e aumentano le indagini per riciclaggio. Ecco i numeri di chi è in carcere per questi reati e le interdittive fatte per Expo e per la ricostruzione post terremoto in Abruzzo, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. È la corruzione l'arma utilizzata dalle mafie, che avanzano in silenzio inquinando la politica locale, nazionale e l'economia. I boss mettono da parte i kalashnikov per armarsi di mazzette o della forza intimidatoria per corrompere. E non è una buona notizia, anzi: questa metamorfosi ha già segnato un’evoluzione micidiale, capace di stringere in una morsa letale economia e istituzioni italiane. Nel numero dell'Espresso in edicola si racconta l'avanzata delle mafie a colpi di mazzette e accordi corruttivi. Gli omicidi dei clan continuano a calare e hanno un profilo sempre più basso. A Palermo lo scorso anno c'è stato un solo omicidio riconducibile a Cosa nostra. Allo stesso tempo però cresce la penetrazione finanziaria delle cosche, che investono e muovono capitali infiniti.
Mafia, ecco chi comanda in Italia. Nella relazione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberto uno spaccato delle organizzazioni criminali che soffocano il Paese: da Cosa nostra alla 'ndrangheta, dalla camorra a mafia Capitale. Un fenomeno che si estende da nord a sud con infiltrazioni nel mondo della politica e degli affari. L’allarme rosso nasce da tante inchieste in giro per il Paese che fanno vedere come la mafia è cambiata rispetto a vent’anni fa, soprattutto sulla penetrazione negli affari dell’Italia centro-settentrionale: dai cantieri della ricostruzione dell’Abruzzo e dell’Emilia a quelli dell’Expo milanese. Ed è frutto di un calcolo semplice: mentre i vecchi metodi violenti provocano allarme e condanne pesanti, con le tangenti si rischia pochissimo. I dati che “l’Espresso” pubblica in esclusiva rivelano che a fine febbraio su quasi 60 mila persone detenute in Italia, solo 522 sono state arrestate per corruzione. E solo la metà sta scontando sentenze definitive: gli altri hanno speranze concrete di evitare il verdetto grazie alla prescrizione che divora i processi. Il modello è Massimo Carminati, il “Cecato” che ha visto lontano, quando parla della “terra di mezzo”, la zona grigia tra i “vivi” e i “morti”, tra i colletti bianchi e i criminali di strada, dove «tutti si incontrano». C'è anche la ricostruzione dell’Abruzzo, un’occasione d’oro per le joint venture delle cosche. La prefettura dell’Aquila ha bloccato 37 imprese, interdette perché ritenute colluse o oggetto di ingerenze mafiose: undici hanno sede nel Nord, 19 nel Centro (di cui 12 a L’Aquila) e sette nel Sud. Si traccia una mappa che fa capire come capitali e interessi mafiosi si siano infilati nella pancia di aziende locali, diventate i cavalli di troia dell’espansione. Lo stesso fenomeno si è registrato con l’Expo: delle 46 interdittive per sospette infiltrazioni criminali, con contratti per un valore vicino ai cento milioni di euro, solo undici hanno riguardato ditte meridionali. Le interdittive dei prefetti fanno meno paura degli ordini di arresto. Sono misure amministrative, non si rischia il carcere: l’imprenditore può fare ricorso al Tar, che spesso accoglie gli appelli.
L'invasione su tutto il territorio nazionale delle mafie - la loro potenza criminale oltre alla forza di infiltrazione nell'economia legale e nella politica - viene descritta nella relazione annuale svolta dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberto, e dalla Direzione nazionale antimafia. I magistrati di via Giulia hanno puntato ad aggiornare e comprendere meglio come le varie organizzazioni mafiose, sia quelle tradizionali (Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita e criminalità organizzata pugliese), sia quelle di matrice straniera, si siano strutturate sul territorio. Altro aspetto analizzato dai magistrati riguarda l'opera di coordinamento delle indagini, sia fra le procure italiane, sia fra queste e quelle straniere, poirché sempre più spesso vengono individuati interessi dei clan all'estero. Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende faliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione. La Dna approfondisce anche temi sulla configurazione delle relazioni tra le varie mafie, la perdurante forte centralità del controllo del territorio nelle sue diversificate modalità e manifestazioni, le sempre più frequenti commistioni con fenomeni di criminalità organizzata non tradizionalmente mafiosa. Ad esempio: la criminalità economica e quella terroristica.
COSA NOSTRA. Per quanto riguarda la mafia siciliana, in particolare quella fra Palermo, Trapani e Agrigento, i tanti arresti e i sequestri di beni che hanno colpito gli affiliati non hanno innescato un processo «di “balcanizzazione” dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra e un suo inarrestabile declino». I magistrati confermano «che la città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo, dando concreta attuazione alle linee strategiche da essa adottate in relazione alle mutevoli esigenze imposte dall’attività di repressione continuamente svolta dall’autorità giudiziaria e dalla polizia giudiziaria». Palermo, com’è invisibile la mafia. I vecchi boss di Palermo sono tutti all’ergastolo. E in città comandano picciotti sommersi, silenziosi e inesperti. Che vogliono accreditarsi agli occhi dei padrini con azioni eclatanti . Continua ad emergere, come dato fondamentale delle linee strategiche dell’agire di Cosa nostra, «il continuo e costante tentativo di ristrutturare e fare risorgere le strutture centrali di governo dell’organizzazione criminale, in particolare la commissione provinciale di Cosa nostra di Palermo, pesantemente colpite dalle iniziative investigative e processuali». Dalle indagini emerge come, a più riprese, Cosa nostra abbia tentato di rinnovarsi attraverso una conferma delle sue strutture di governo, a cominciare da quelle operanti sul territorio di Palermo, «a conferma che anche nei momenti di crisi Cosa nostra non rinuncia all'elaborazione di modelli organizzativi unitari e a progetti volti ad assicurarne la sopravvivenza nelle condizioni di maggiore efficienza possibile». I magistrati segnalano «che l’assenza in Cosa nostra palermitana di personaggi di particolare carisma criminale in stato di libertà, seppure latitanti, non ha riproposto la violenta contrapposizione interna tra famiglie e mandamenti del passato». «Allo stato deve piuttosto registrarsi una cooperazione di tipo orizzontale tra le famiglie mafiose della città di Palermo, volta a garantire la continuità della vita dell’organizzazione ed i suoi affari. Tra questi in particolare devono segnalarsi un rinnovato interesse per il traffico di stupefacenti e per la gestione dei “giochi” sia di natura legale che illegale. In tal modo l’organizzazione mafiosa nel suo complesso sembra, in sintesi, aver attraversato e superato, sia pure non senza conseguenze sulla sua operatività, il difficile momento storico dovuto alla fruttuosa opera di contrasto dello Stato ed aver recuperato un suo equilibrio». Grande importanza viene data dalla Dna alla cattura della totalità dei grandi latitanti di mafia palermitani che «ha certo costituito un segnale fortissimo della capacità dello Stato di opporsi a Cosa nostra demolendo il luogo comune della impunibilità di alcuni mafiosi e la conseguente loro autorevolezza e prestigio criminale; in ciò risiede la speciale importanza, a Palermo e in tutta la Sicilia occidentale, di tale attività investigativa». Da qui l'attenzione sull'ultimo grande latitante di mafia: «Ancora si sottrae alla cattura Matteo Messina Denaro, storico latitante, capo indiscusso delle famiglie mafiose del trapanese, che estende la propria influenza ben al di là dei territori indicati. Il suo arresto non può che costituire una priorità assoluta ritenendosi che, nella descritta situazione di difficoltà di Cosa nostra, il venir meno anche di questo punto di riferimento, potrebbe costituire, anche in termini simbolici, così importanti in questi luoghi, un danno enorme per l’organizzazione». L'attenzione della procura nazionale è rivolta anche alle inchieste dei colleghi della Dda di Caltanissetta, a cominciare dall'impegno che richiede «l’indagine in corso nei confronti di Salvatore Riina, anche a seguito della registrazione dei suoi colloqui con Alberto Lo Russo, intrattenuti nella struttura detentiva Opera, di Milano». I pm di via Giulia analizzano le intercettazioni di Riina scrivendo: «Del tutto inaspettatamente, il capo mafia ha preso a parlare apertamente, intrattenendo il compagno di detenzione sui più disparati temi: dalla sua storia criminale, all’ideazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, a quelle commesse nel 1993/94 nel continente, al processo cosiddetto “Trattativa” in corso avanti la Corte d’Assise di Palermo, alle reiterate minacce di morte rivolte al magistrato Di Matteo. L’indagine ha ovvie connessioni con quelle condotte sulle stragi. L’investigazione, inoltre, ha determinato anche il monitoraggio di soggetti vicini a Riina, con indubbi risvolti penalmente rilevanti nei loro confronti ed in via di compiuto accertamento». Indagini sono dunque in corso su questo punto. Come pure sui numerosi esposti anonimi in cui si rivelano attentati ai danni di magistrati di Palermo: «Particolare considerazione investigativa merita il tenore delle dichiarazioni intercettate in carcere a carico di Salvatore Riina, che ha esplicitamente ipotizzato l'eliminazione fisica del pm Di Matteo e non ha lesinato parole di minaccia nei confronti di chiunque svolga attività di contrasto allo strapotere di Cosa nostra». Altro procedimento che per la Dna «merita menzione» è quello sul “Protocollo fantasma”. «Trattasi di un esposto anonimo nel quale oltre a varie vicende, in gran parte di competenza della Ddda di Palermo, riguardanti processi anche risalenti nel tempo ed appartenenti alla storia del contrasto giudiziario a Cosa nostra, emergono notizie di reato a carico di ignoti, asseritamente appartenenti alle forze dell’ordine, che avrebbero per conto di una non meglio specificata entità, spiato alcuni magistrati, impegnati in delicate attività di indagine».
'NDRANGHETA. Per quanto riguarda la ‘Ndrangheta, i magistrati confermano il dato della tendenziale unitarietà dell'organizzazione criminale. Quindi l’esistenza di una sorta “consiglio di amministrazione della holding” che elegge il suo “Presidente”. «Del resto era difficilmente ipotizzabile che ad amministrare centinaia di milioni di euro, a governare dinamiche economiche, lecite ed illecite, in decine di comparti diversi e che attraversano, non solo l’Italia, ma buona parte del pianeta (dall’Australia al Sud America, dall’Europa al Nord America passando per tutti i possibili paradisi fiscali ), potesse essere questione affidata allo spontaneismo anarcoide di gruppi criminali disseminati e slegati, di decine e decine di cosche locali, sorta di piccole monadi auto-referenziali. Regole e riconoscimento reciproco, cui conseguono ordine e coordinamento, erano e restano indispensabili». Sotto il profilo degli interessi, le indagini hanno evidenziato, per ciò che riguarda le cosche a Reggio Calabria «la particolare capacità della ‘ndrangheta cittadina di inserirsi nella gestione delle società miste – pubblico/privato – attraverso cui vengono forniti i principali servizi pubblici alla cittadinanza. In particolare, attraverso una serie concatenata di prestanome, la ‘ndrangheta ha il controllo totale delle quote di spettanza del partner privato e, attraverso la sua capacità collusiva ed intimidatoria, riesce a condizionare la parte pubblica». Le indagini svolte dalla Dda di Reggio Calabria hanno evidenziato la posizione di assoluta primazia della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di stupefacenti, traffico che ha generato, e continua a generare, imponenti flussi di guadagni in favore della criminalità organizzata calabrese che reinveste, specie nel settore immobiliare, i proventi di questa attività. «Traffico consentito anche e soprattutto dal controllo totalizzante del Porto di Gioia Tauro, ove attraverso una penetrante azione collusiva, gli ‘ndranghetisti riescono a godere di ampi, continui, si direbbe inesauribili, appoggi interni. Giova, sul punto, evidenziare che il Porto di Gioia Tauro, proprio grazie alla situazione che si è appena segnalata, è divenuta la vera porta d’ingresso della cocaina in Italia». Fra giugno 2012 e luglio 2013 quasi la metà della cocaina sequestrata in Italia (circa 1600 chili su circa 3700 complessivi) è stata intercettata a Gioia Tauro.
'NDRANGHETA AL NORD. Le indagini condotte dalla Dda di Milano, hanno confermato il predominio di organizzazioni criminali di origine calabrese nel territorio «a discapito di altre compagini associative, come quella di origine siciliana». La 'ndrangheta, dopo anni di insediamento in Lombardia, «ha acquisito un certo grado di indipendenza rispetto all’organizzazione di origine, con la quale ha continuato comunque ad intrattenere rapporti». I suoi appartenenti vivono al Nord ormai da più generazioni, ed hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali. Dal rosso al noir, il lato oscuro dell'Emilia raccontato dai pentiti. Felice, ricca, solidale. La regione roccaforte della sinistra perde pezzi, e scopre l'altra faccia della luna. Una zona grigia governata da un potere criminale che gode di complicità politiche e imprenditoriali. Così, secondo alcuni collaboratori di giustizia, è cresciuta a dismisura la 'ndrangheta emiliana. «La presenza sul territorio lombardo di strutture ‘ndranghetiste e il radicamento nella struttura sociale e negli assetti economici lombardi dà ragione della serie innumerevole di episodi di intimidazione, accertati dall’inizio del 2006, in qualche modo riconducibili al fenomeno mafioso. Ne è emerso un quadro inquietante, costituito da un imponente numero di fatti intimidatori, tutti caratterizzati dall’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo), dal fatto che ad essere colpite sono state quasi sempre cose e raramente persone (salvo che per l’usura), e dalla tendenziale non elevata intensità dell’atto intimidatorio. I fatti delittuosi, alcuni rimasti a carico di ignoti, testimoniano della condizione di assoggettamento e omertà generata dal sodalizio, del pervasivo controllo del territorio operato dalle “locali”».
'Ndrangheta, 117 arresti in Emilia Romagna. Associazione mafiosa, usura e riciclaggio. Un'operazione dei carabinieri di Modena, Reggio Emilia e Bologna ha portato all'arresto nella notte di 117 persone e al sequestro di beni per svariati milioni di euro. Gli stessi episodi intimidatori e le stesse reazioni delle vittime si registrano anche in Piemonte dove sono ormai radicati i clan calabresi e dove la Dda di Torino ha celebrato numerosi processi ottenendo numerose condanne per mafia. Le ultime definitive in Cassazione per il processo “Minotauro”.
A Genova le indagini hanno confermato la presenza nella zona di alcune "locali" della `ndrangheta. «Tali strutture allo stato sembrano essere attive specie, ma non solo, nel ponente ligure con un consolidato insediamento di esponenti criminali legati in qualche misura alla 'ndrangheta in grado di condizionare l'operato di alcuni amministratori locali e di incidere sulle attività imprenditoriali segnatamente svolte da quelle piccole o medie imprese che costituiscono il tessuto economico prevalente dell'intera area». La sentenza, che può definirsi “storica”, perché è la prima emessa in Liguria che riconosca sul territorio la sussistenza di locali di 'ndrangheta sul territorio ligure, in particolare nel ponente, è stata emessa il 7 ottobre 2014».
A Bologna le indagini durate oltre due anni, e che hanno visto anche l'applicazione di un magistrato della Direzione nazionale antimafia, «hanno consentito di accertare l'esistenza di un potere criminale di matrice ‘ndranghetista, la cui espansione si è appurato andare al di là di ogni pessimistica previsione, con coinvolgimenti di apparati politici, economici ed istituzionali. A tal livello che oggi, quella che una volta era orgogliosamente indicata come una Regione costituente modello di sana amministrazione ed invidiata per l’elevato livello medio di vita dei suoi abitanti, oggi può ben definirsi “Terra di mafia” nel senso pieno della espressione, essendosi verificato quel triste fenomeno cui si era accennato nella relazione dello scorso anno, quando si era scritto di una “infiltrazione che ha riguardato, più che il territorio in quanto tale con una occupazione “militare”, i cittadini e le loro menti; con un condizionamento, quindi, ancor più grave”».
Ed ulteriormente grave, spiegano i magistrati, «è da ritenersi il fatto che tale realtà non si è creata come effetto di un “contagio” delle terre emiliane dovuto alla presenza della ‘ndrangheta negli altri territori dell’Italia settentrionale, in cui importanti indagini pregresse hanno svelato l’esistenza di quel tipo di delinquenza organizzata (leggasi buona parte della Lombardia, Piemonte e Liguria); bensì per ragioni ed in forza di dinamiche criminali distinte rispetto a quelle che hanno riguardato quei territori e proprie della Regione stessa. Sicché in Emilia la ‘ndrangheta parla l’accento della zona di Crotone che si fonde con quello locale, ed è specificamente riferibile, almeno per quanto è stato accertato attraverso la citata indagine, al potente sodalizio mafioso di Cutro facente capo a Nicolino Grande Aracri. E l’influenza di questo si estende anche ad altri territori della limitrofa Lombardia (sostanzialmente corrispondenti all’area di competenza del Distretto di Brescia) e del Veneto, in cui sintomaticamente non si riscontra la massiccia presenza di quella che è stata definita la ‘ndrangheta unitaria di matrice reggina».
CAMORRA. Ciò che viene individuato come riconducibile al fenomeno denominato Camorra «è l’insieme di quei, più o meno ampi, gruppi organizzati ed internamente strutturati secondo una dimensione gerarchica e che operano essenzialmente in Campania; che perseguono strategie di controllo del territorio ove sono insediati e, talvolta, dei traffici illeciti che travalicano tali confini; che agiscono con il metodo dell’intimidazione e della violenza anche per infiltrarsi nel settore economico e nel sistema politico locale; che, in definitiva, perseguono programmi di intensa ramificazione di interessi di tipo criminale in ambiti territoriali più o meno ampi». Carmine Schiavone, il pentito di Gomorra tra realtà e finzione. E' morto il boss dei Casalesi che si era pentito negli anni '90. Da collaboratore di giustizia per primo parlò dei veleni sversati in Campania. Ritenuto attendibile nelle aule di giustizia, meno per le ultime dichiarazioni rilasciate a tv e giornali. Per i magistrati «la Camorra non è un’entità assimilabile dal punto di vista delle forme di manifestazione né a Cosa nostra né alla ‘ndrangheta». Il controllo camorristico sul territorio «si manifesta significativamente anche egemonizzando l’offerta di un determinato servizio e vincendo ogni resistenza attraverso il patrimonio d’intimidazione che il clan è in grado di esprimere. La posizione di illecito monopolio, in tal modo acquisita, determina un’alterazione nel mercato costringendo coloro che lo richiedono a corrispondere somme notevolmente superiori agli standard di mercato rilevati in altri territori per analoghi servizi». Altro settore da tempo eletto dalle organizzazioni camorristiche ad uno degli ambiti entro i quali appare più conveniente reinvestire profitti criminosi è quello delle agenzie di scommesse, tanto che «su questo terreno spesso si formano e consolidano alleanze o, viceversa, si consumano sanguinose rotture». La gestione criminale del gioco on-line si muove nel solco tracciato dall’analoga gestione della distribuzione delle macchine utilizzate per il video-poker.
CRIMINALITA' ORGANIZZATA PUGLIESE. I clan pugliesi sono variegati, «essendo del tutto inappropriata l'identificazione dell'associazione mafiosa comunemente nota come “sacra corona unita” con tutta la criminalità di tipo mafioso operante sul territorio della regione». Per i magistrati della Dna c'è «la convinzione che la “Sacra Corona Unita” sia un'organizzazione mafiosa estremamente localizzata, sicuramente in contatto, tramite suoi affiliati e per la realizzazione di proficui affari delittuosi, con altre organizzazioni o gruppi criminosi anche stranieri, ma senza una tendenza espansionistica al di fuori del territorio di appartenenza». La “Sacra Corona Unita”, per quello che risulta dalle più recenti acquisizioni processuali, non è la “mafia pugliese”, ma piuttosto la “mafia salentina”, atteso che nelle altre provincie della Regione «non è stata segnalata la presenza di gruppi facenti parte della organizzazione mafiosa in esame e dalle indagini in corso presso la Dda di Lecce e dalle più recenti dichiarazioni dei collaboratori emergono solo occasionali contatti fra componenti dei gruppi criminali delle altre provincie pugliesi ed appartenenti alla “Sacra Corona Unita”». Nonostante ciò, per gli inquirenti, «la delineata “territorialità” della Sacra Corona Unita non è significativa di una minore importanza o di minore pericolosità dell'organizzazione mafiosa, tenuto conto della dinamicità mentale e del senso degli affari più volte dimostrate dai rappresentati di tale sodalizio: basti considerare come la Scu abbia subito colto, con proficui risultati, l'occasione che le si presentava dalla vicinanza geografica con i territori dell'Est dell'Europa, sviluppando, da molti anni, proficui rapporti di affari, di scambi economico – criminali e di collaborazione con le organizzazioni criminose operanti su tali territori». La ricerca del consenso da parte della popolazione resta tuttavia il principale obiettivo dell’attività dell’organizzazione, tenendo anche conto del «non secondario intento di evitare che clamorosi episodi criminosi possano attirare le attenzioni delle forze dell'ordine e dell'autorità giudiziaria, con conseguente rischio per il normale procedere degli affari gestiti dalle organizzazioni stesse, che costituiscono la fonte primaria di reddito per gli affiliati a tali organizzazioni». Essendo poi in atto i reinvestimenti dei capitali illeciti derivanti dalle attività criminose tradizionali della consorteria criminosa - in primis il traffico di stupefacenti, poi il gioco d'azzardo, l'usura - e dovendosi avvalere, a tale scopo, di persone formalmente esterne all'associazione, «si è deciso di “evitare i rituali di affiliazione di persone che hanno disponibilità economiche per evitare che questo “aspetto formale” possa danneggiarli e per tenere riservata la loro partecipazione al clan”». La caratteristica della criminalità organizzata del distretto di Bari - con le peculiarità della mafia operante nell'area foggiana - «è la atomizzazione in una pluralità di sodalizi, ciascuno strutturato in un clan, con organizzazione interna di tipo verticistica, imperante in porzioni territoriali circoscritte che nella città di Bari corrispondono ai quartieri cittadini». Riguardo la mafia foggiana la Dna evidenzia «come la stessa stia vivendo un processo di trasformazione qualitativa che così può schematizzarsi: instaurarsi di rapporti di collaborazione e di mutualità tra la “mafia della pianura” (area di Foggia città) e la “mafia dei montanari” (area garganica); instaurarsi di rapporti tra mafia foggiana e mafia casertana (clan dei Casalesi); infiltrazione nelle maggiori attività amministrative ed economiche (aziende municipalizzate; aziende vitivinicole; settore turistico alberghiero; settore movimento terra ed energie rinnovabili)».
LA MAFIA A ROMA. Se sul territorio laziale sono dunque presenti le articolazioni di tutte le organizzazioni mafiose tradizionali, che si dedicano al riciclaggio e al reinvestimento dei capitali illecitamente accumulati, vi è poi un altro fenomeno, «del tutto peculiare alla realtà della Capitale, rappresentato da organizzazioni che sono state qualificate dalla Dda come associazioni di stampo mafioso ma che non fanno riferimento ai sodalizi tradizionali del sud Italia, essendo, per così dire, autoctone». In una città come Roma, una città di servizi e di attività terziarie, gli affari più lucrosi si fanno appunto attraverso l’acquisizione e il controllo di questi servizi, e dunque attraverso l’infiltrazione sistematica nei settori economici e commerciali e nei servizi pubblici, e dunque negli appalti pubblici. L'associazione capeggiata da Carmine Fasciani, che opera ad Ostia, era impegnata nel traffico di stupefacenti, nelle attività di usura ed estorsione, ma soprattutto nel controllo di numerose attività commerciali e nella gestione degli stabilimenti balneari sul litorale. Nel centro di Roma invece c'è l’associazione capeggiata da Massimo Carminati, che si dedica alla corruzione, all’usura, alle estorsioni, al commercio di armi, ma soprattutto all’acquisizione di appalti in vari settori in favore delle società controllate dall’organizzazione. L’indagine ha messo in evidenza uno spaccato delle istituzioni romane davvero sconfortante e preoccupante». L’organizzazione capeggiata da Carminati è stata definita dagli inquirenti con il nome di “Mafia Capitale”. «Si tratta di un’organizzazione mafiosa, del tutto peculiare, che opera su due fronti: un fronte prettamente criminale in cui essa agisce con atteggiamenti esplicitamente minatori e violenti per realizzare estorsioni, recupero crediti, per “convincere” chi non intende sottomettersi e in cui utilizza il potere e la forza di intimidazione che deriva dalla storia criminale del suo capo, dai suoi legami con la banda della Magliana e con l’eversione nera, dai numerosi coinvolgimenti in procedimenti relativi a gravissimi fatti dai quali peraltro è stato sovente assolto. Su tale versante il prestigio criminale di Carminati è alimentato anche da articoli di stampa o libri che ne celebrano il passato delinquenziale, circostanza di cui lo stesso si compiace ritenendola funzionale ai suoi scopi, in ciò marcando la differenza rispetto ai capi delle mafie tradizionali; un fronte per così dire imprenditoriale, trattandosi di un’associazione che opera in una città che ha le caratteristiche già ricordate, che comportano la necessità di limitare l’uso della forza e di altri metodi violenti. Su tale versante perciò l’associazione privilegia lo strumento della corruzione rispetto a quello dell’intimidazione, al quale comunque ricorre in caso di necessità». Di fatto, avvalendosi del legame con alcuni personaggi dell’estrema destra romana divenuti negli anni importanti personaggi politici o manager pubblici, e attraverso alcuni esponenti del mondo imprenditoriale, «l’organizzazione di Carminati ha potuto condizionare pesantemente il contesto politico ed amministrativo romano, determinando la nomina di personaggi “graditi” in posizioni strategiche quali quelle di presidente e di capo segreteria dell’assemblea capitolina, di presidente della Commissione per la Trasparenza del consiglio capitolino, di direttore generale, consigliere di amministrazione, dirigente dell’azienda municipalizzata AMA; ottenendo l’allontanamento e la sostituzione del direttore del dipartimento per i servizi sociali del Comune di Roma in quanto non “sensibile” alle esigenze del sodalizio; intervenendo nelle elezioni comunali di Sacrofano, paese alle porte di Roma». In tal modo il sodalizio ha costituito quello che i pm definiscono «un capitale istituzionale, consistente in un articolato sistema di relazioni arrivato a coinvolgere i vertici delle istituzioni locali, grazie al quale ottenere appalti o accelerare pagamenti, o comunque individuare fonti di arricchimento in favore delle aziende controllate, e realizzare così ingentissimi guadagni». Grazie a tale capitale istituzionale, costantemente alimentato da un imponente circuito corruttivo, «l’organizzazione è riuscita ad ottenere, per le imprese da lei controllate (società cooperative sociali e ditte operanti nel movimento terra e nello smaltimento dei rifiuti), solo per quanto fin qui accertato, affidamenti particolarmente redditizi dal Comune di Roma e dall’Ama, tra i quali quelli nella gestione dei campi nomadi, delle strutture riservate agli stranieri e ai minori non accompagnati, gli appalti nella raccolta dei rifiuti, nella manutenzione del verde pubblico e nella raccolta delle foglie. Parimenti il sodalizio è riuscito ad ottenere lo sblocco di fondi destinati alle citate cooperative sociali interferendo sulla programmazione del bilancio di Roma capitale e ad orientare l’assegnazione dei flussi di immigrati verso le strutture gestite dalle cooperative controllate». Altro obiettivo del sodalizio è l’acquisizione di attività economiche ed imprenditoriali, che esso realizza sia offrendo forme di protezione con l’obiettivo di entrare in affari con gli imprenditori, sia erogando finanziamenti allo scopo di acquisire poi il controllo dell’impresa. Le mafie tradizionali si atteggiano diversamente al sud dove il linguaggio delinquenziale ed il messaggio criminale passano necessariamente attraverso minacce, intimidazioni, richieste estorsive e atti di aggressione fisica che giungono fino all’omicidio, rispetto al nord, dove gli interessi della mafia sono soprattutto i grandi appalti, dove gli strumenti utilizzati sono prevalentemente la corruzione, il condizionamento delle istituzioni, lo scambio elettorale, e dove il messaggio intimidatorio può non essere esplicito. Questo concetto spiegano i magistrati della Dna «non può evidentemente applicarsi tout court alle organizzazioni autoctone di cui si tratta, che non fanno riferimento ad una realtà criminale più ampia e radicata, che spendono il loro personale prestigio criminale e non quello costruito in un diverso territorio».
MAFIE STRANIERE. Emergono i gruppi criminali di matrice nigeriana che «non perseguono strategie di accentuata conflittualità con le cosche mafiose o di tipo mafioso presenti sul territorio e che anzi, nel mantenere saldo un radicato potere di tipo “politico” sul territorio medesimo, consentono ai gruppi stranieri (e quindi anche a quelli composti, in tutto o in parte, da cittadini nigeriani) di svolgere i propri traffici in condizioni di relativa tranquillità ove da essi ne derivino comunque vantaggi di natura economica». La criminalità organizzata rumena si caratterizza, da un lato, per le proprie straordinarie conoscenze tecnologiche ed informatiche, il che la pone ai primi posti nelle statistiche relative al fenomeno del cyber crime transnazionale e, dall'altro, per la grande flessibilità organizzativa e mobilità operativa, tanto da essere considerata una tra le forme di criminalità itinerante più pericolose e diffuse in Europa. L’analisi della criminalità di origine cinese in Italia rileva una sempre maggiore capacità organizzativa dei gruppi. I reati commessi dai cittadini cinesi nel nostro Paese, in ragione della loro natura transnazionale, sono capaci di incidere significativamente sul nostro sistema economico-finanziario. La gestione illegale dei flussi migratori e la conseguente possibilità di sfruttare manodopera a costi irrisori, la contraffazione e il contrabbando sono in grado sia di turbare il regolare andamento del libero mercato, sia di arrecare un serio danno all’erario, sotto il profilo dell’evasione fiscale e contributiva. Le principali attività illecite poste in essere sono il contrabbando e la contraffazione di merci. I reati di contraffazione, contrabbando e riciclaggio non esauriscono le manifestazioni di criminalità delle comunità cinesi radicate sul nostro territorio. Sono ancora numerosi i casi accertati di reati in materia di immigrazione clandestina e sfruttamento del lavoro e della prostituzione. Anche il traffico illecito di rifiuti sta assumendo proporzioni allarmanti. Una particolare attenzione investigativa è riservata al flusso verso la Cina delle enormi disponibilità finanziarie delle comunità cinesi al fine di verificare se tali rimesse siano collegate ad attività di tipo lecito o meno, non solo dal punto di vista valutario, ma anche nella prospettiva di possibili attività legate all’evasione fiscale o a veri e propri casi di riciclaggio di proventi illeciti. E’ sempre più elevato e concreto il rischio di stabili collegamenti della criminalità cinese con le mafie autoctone radicate nel nostro territorio.
Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.
Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato. Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.
Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro - di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.
La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.
La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni, con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.
Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9 cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).
In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.
Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività. Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.
In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza". La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.
In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.
"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".
Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?
"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".
Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?
"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".
Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.
"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".
Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?
"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".
Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?
"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".
Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà - ripeteva Carminati a Riccardo Brugia - ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie.
Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro.
'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo. Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.
La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.
Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.
Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.
DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.
RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.
D. Sapeva già tutto?
R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.
D. Come si sapeva?
R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.
D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?
R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.
D. E da questa unione cosa è nato?
R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.
D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?
R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?
R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.
D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?
R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.
D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?
R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.
D. In che senso?
R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.
D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?
R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.
D. Come mai proprio gli appalti?
R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.
D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?
R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.
D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.
R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.
D. Cioè?
R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.
D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?
R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.
D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.
R. Esattamente.
Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.
CORRUZIONE. LA GRANDE IPOCRISIA.
Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.
ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.
Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.
Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.
DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.
RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.
D. Sapeva già tutto?
R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.
D. Come si sapeva?
R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.
D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?
R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.
D. E da questa unione cosa è nato?
R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.
D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?
R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?
R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.
D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?
R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.
D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?
R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.
D. In che senso?
R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.
D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?
R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.
D. Come mai proprio gli appalti?
R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.
D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?
R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.
D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.
R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.
D. Cioè?
R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.
D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?
R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.
D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.
R. Esattamente.
Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Giuliano Amato al Quirinale? Craxi disse: è quello che si è comportato peggio. Giancarlo Perna ha ricostruito la storia politica di Giuliano Amato, dal legame con Bettino Craxi alla Corte Costituzionale. Ritratto spietato di un personaggio eminente di cui si parla come possibile Presidente della Repubblica, scrive Blitz quotidiano. “Giuliano Amato al Quirinale” scatena il pungiglione di Giancarlo Perna su Libero. Quello di Giuliano Amato, avverte Giancarlo Perna, è”un nome che spunta sempre quando è vacante una poltrona. Non è mai il primo a essere fatto, ma è immancabile. Amato era già stato in lizza nel 1999 e nel 2006. A volerlo al posto di Carlo Azeglio Ciampi era nientemeno che Papa Wojtyla. Sette anni dopo, fu Berlusconi a candidarlo per il centrodestra nel tentativo di bloccare Giorgio Napolitano. In entrambi i casi, Amato fu sconfitto senza fare una piega e continuò a navigare”. Rinunciando a analizzare “le sue tecniche di sopravvivenza” Giancarlo Perna ne tenta una casistica: “Pur restando a sinistra, ha strizzato l’occhio ai cattolici, si è mostrato comprensivo con Berlusconi, ha dato una mano alla destra collaborando con Gianni Alemanno sindaco di Roma. Di qui, le simpatie sparse che si è conquistato. Compensate dalle diffuse diffidenze per questo volteggiare tra gli opposti. Amato ha avuto un cursus impareggiabile. A volte è in auge, altre in ombra ma sempre in possesso di una poltrona, grande o piccola che sia. L’importante per lui è sedere su qualcosa. [...] È l’uomo delle emergenze, il commissario straordinario che si chiama al capezzale di un organismo in coma. È stato premier (due volte, 1992 e 2000), ministro del Tesoro e dell’Interno, vicepresidente della Convenzione che ha varato la Costituzione Ue, giudice della Coorte costituzionale dal 2013. Va aggiunto che, salito prestissimo alla cattedra di Diritto Pubblico, Giuliano è stato, per unanime riconoscimento, il costituzionalista principe della sua generazione. [...]Come ex parlamentare (cinque legislature) riceve novemila euro mensili, più altri ventiduemila tra vitalizio di ex docente e l’indennità di ex presidente dell’Antitrust (è stato anche questo, me ne ero dimenticato!). Un totale di 31mila euro lordi al mese, più di mille al giorno, l’ideale per suscitare l’ira popolare. Stufo di essere preso di mira, Amato ha precisato di tenere per sé solo i ventiduemila euro - che netti sono la metà - e di dare ai poveri i novemila di ex parlamentare (…) “All’origine dei suoi successi non ci sono solo le capacità” tuona Perna: “La sua strada è costellata anche di inquietanti bugie e odiosi voltafaccia. Ripercorriamoli. Quando fu premier la prima volta dichiarò: «Con questo concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Oggi, ventitre anni e cinquanta incarichi dopo, stiamo ancora parlando di lui. Poi si mise all’opera e ci scippò nottetempo i soldi dai conti correnti bancari il 10 luglio 1992. Una randellata sul rapporto di fiducia tra cittadino e stato. Più indicativa la sua storia con Craxi. Prima che Bettino diventasse segretario nel ’76, lo osteggiò da sinistra (Giuliano militò anche nel Psiup). Quando poi i craxiani vinsero, scrisse ai suoi amici Stefano Rodotà e Franco Bassanini: «Piuttosto che fare politica con questi cravattari sarebbe meglio ritirarsi a vita privata. Noi invece non ci ritireremo». Infatti, dopo un anno era già prostrato ai piedi di Bettino di cui fu per un quindicennio il caudatario, condividendone le tresche al governo e nel Psi. Quando Craxi fu soprannominato Ghino di Tacco, Amato fu detto Ghino del taschino per sottolinearne la soggezione. Il nomignolo si aggiunse a quello di Dottor Sottile che si era guadagnato per l’abilità manovriera e l’acume spaccacapello di cui era dotato. Quando poi, con Tangentopoli, voltò le spalle a Craxi con la frase «non immaginavo tanto marciume» (lui che sapeva tutto), fu detto il Cobra (…)
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: vi racconto il giorno delle monetine a Craxi, quando nacque l'antipolitica. Vent'anni fa: la folla livorosa davanti all'Hotel Raphael, l'ascolto tv impazzito, il discorso alla Camera, tra polizia e telecamere, moriva il craxismo e si chiudeva la Prima Repubblica. L’episodio delle monetine contro Craxi all'Hotel Raphael (30 aprile 1993, vent’anni ieri) viene evocato e ritrasmesso di continuo perché resta il principale simbolo di un decennio, l’iconografia del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: eppure le vere ricostruzioni storiche, al di là di raffazzonati copia/incolla giornalistici, latitano. Persino il discorso alla Camera pronunciato il giorno prima in un silenzio tombale (discorso citatissimo e poco letto) viene ancor oggi confuso con un altro del luglio precedente, e questo per la semplice ragione che Craxi, il 29 aprile 1993, lo riprese testualmente. Furono i giorni dell’assedio all'Hotel Raphael e del linciaggio come estetica rivoluzionaria, forse la nascita ufficiale dell’antipolitica. Craxi scrisse il suo discorso a Monte Mario, a casa di un’amica. Il discorso pareva funzionare, ma il calcolo dei voti pro e contro non lasciava scampo. Antichi favori andavano nella direzione di un appoggio segreto dei Radicali e della parte di Rifondazione comunista legata ad Armando Cossutta e al Manifesto, ma non bastava. Mancavano almeno 58 voti. Il 29 aprile Craxi si affacciò nell'Emiciclo vestito di blu e con una cartellina rosa sotto braccio. Dopo il suo discorso, il voto fu una scheggia: la voce del presidente della Camera Giorgio Napolitano scandì la concessione di sole due autorizzazioni a procedere su sei, fatto che viene sempre trascurato: sì alle indagini per corruzione a Roma e per finanziamento illecito a Milano, no per corruzione «in luogo non accertato» e per il reato di ricettazione. C'era una logica, non era «un’assoluzione» come si è sempre detto. Ma lo spettacolo stava per cominciare: striscioni, mazzi di volantini gettati tra i banchi, un deputato leghista che incrociò le braccia simbolizzando le manette, pugni battuti sui banchi, e grida, «Ladri di regime», «Mafiosi», il presidente della Camera che ordinò di sgomberare le tribune, e tafferugli, risse tra parlamentari. Tutti i volantini e i cartelli di protesta erano già stati preparati, dunque preventivati. Il democristiano Francesco D’Onofrio fece capire che i voti a favore di Craxi erano giocoforza venuti anche dall’opposizione, e Gianfranco Fini perse la calma: «Se dici queste cose sei un mascalzone, siete dei ladri che avete difeso altri ladri». Più tardi annuncerà una lettera al procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli in cui esprimerà «solidarietà e sincero apprezzamento», e soprattutto auspicherà che sia superato «l’inammissibile scudo dell’immunità parlamentare». In quelle ore, del resto, lo chiesero un po’ tutti. La sinistra ritirò il sostegno al governo Ciampi alle 20 e 22: il nuovo Consiglio dei ministri non si era neppure insediato. Il verde Francesco Rutelli era stato ministro dell’Ambiente per poche ore, tanto che il premier Carlo Azeglio Ciampi sarà costretto a un rimpasto prima ancora di aver ricevuto la fiducia dalle Camere. Presto il voto segreto per le autorizzazioni a procedere verrà abolito, e i lavoratori, il 1° maggio, l’unica festa vorranno farla a Craxi. Dirà Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del senato: «Noi della sinistra consentimmo che venisse cancellato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, strumento a tutela dell’autonomia del potere politico rispetto al potere giudiziario. E si aprì la strada alla mattanza di partiti di governo. Avevamo una sponda al Quirinale, e l’ansia di raccogliere i frutti sul piano elettorale era tale che facemmo in modo che quel Parlamento venisse sciolto anticipatamente». Eppure, quel 29 aprile, Bettino Craxi ancora non sapeva che cosa l’avrebbe atteso l’indomani. Cenò all’hotel Raphael, tranquillamente, con pochi fedelissimi e con la donna che amava. Sembrava tutto normale. Più volte raccontato o più spesso mostrato, il racconto del giorno successivo riposa anche sui ricordi della giornalista che raccolse quelle immagini ormai celebri, la giornalista Rai Valeria Coiante: «Eravamo a Piazza Navona, c’era la manifestazione del Pds, facevo le mie interviste di routine. Arriva la notizia: negata autorizzazione a procedere per Craxi. Si avvicina il collega Fabrizio Falconi del Tg4: «Andiamo al Raphael, si sta radunando un sacco di gente». C’eravamo solo noi, quel giorno, io col mio operatore e lui col suo. A un certo punto il cordone dei poliziotti mi allontana dall’operatore, io comincio a dargli istruzioni col microfono, lui era in cuffia, era l’unico modo per comunicare con lui in quel casino: «Rimani sempre acceso, prendi tutto, fammi quelli coi cartelli e con le mille lire... ». La folla urlava sempre di più, un mare di persone si riversava nel vicolo stretto, la polizia infilava i caschi e parava gli scudi. Craxi esce dal portone, esplode un boato, «Eccolo eccolo» urlo nel microfono, mi abbasso e supero il cordone di polizia, corro verso la macchina di Craxi. Vengo investita da una tonnellata di metallo vario in tondini, monete, «stanno tirando di tutto! Pezzi di vetro, monete, tirano di tutto!»...La sera, in montaggio, mentre ero lì che assemblavo il pezzo e pulivo la pista audio, entra in sala Gianni Minoli (allora creatore del celeberrimo Mixer e direttore di Raidue) . «Fammi vedere», dice. «Aspetta, sto levando l’audio e sto mettendo gli effetti». «No, fammelo vedere così». Va be’, penso io, la voce la levo dopo. «Ok, è incredibile. Perfetto. Va bene così, non toccare niente». «Ma sembro ‘na pazza... fammi levare almeno dove sfondo i livelli». «Non se ne parla, va in onda così». Quel filmato fece sette milioni di telespettatori al primo passaggio». Largo Febo, cioè la piazzola davanti al Raphael, in realtà è un buco che le immagini di repertorio restituiscono ogni volta molto più grande: non è che ci stia tutta questa folla, tra auto e polizia e telecamere. Eppure, oggi, a sentir le testimonianze, erano tutti lì. C’erano quelli del Msi, della Lega, c’erano i reduci di un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, passarono di lì anche molti studenti del Liceo Mamiani che erano in corteo: nell'insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era «l’Italia». Il che, tutto sommato, era drammaticamente vero.
IPOCRISIA ITALICA. E' TUTTO UN VOTO DI SCAMBIO. ERGO: SIAM TUTTI MAFIOSI.
Il voto di scambio è il voto dato a un candidato in cambio di favori leciti o illeciti, ovvero quando l'elettore non agisca motivato da scelte politiche disinteressate, ma corrotte da un tornaconto o una promessa da parte del candidato o di chi lo rappresenta. È praticato talvolta da organizzazioni criminali e cosche mafiose d'intesa con gruppi politici: questa fattispecie è detta scambio elettorale politico-mafioso. È possibile distinguere tra un voto di scambio c.d. "legale" ed uno "illegale". Il voto di scambio "legale" è frutto del clientelismo politico e consente, a chi ne usufruisce, di vedere soddisfatta una propria richiesta legittima in cambio del voto. Si pensi ad un campo destinato all'agricoltura che diventa edificabile, in seguito alla modifica del PGT. Se tale modifica di destinazione d'uso è fatta nel rispetto delle norme vigenti non determina alcun reato, ma consente al proprietario del terreno di vedere legalmente accresciuto il proprio patrimonio personale. In cambio il politico guadagna il consenso di quell'elettore. Il voto di scambio "illegale" è quello in cui un politico offre in cambio del voto qualcosa che non è legittimato ad offrire. Per esempio un posto in un'Amministrazione pubblica con un concorso pubblico addomesticato o il condono di un abuso edilizio non condonabile o il cambio della destinazione d'uso di un immobile in violazione alle norme del PGT. In Italia il voto di scambio non è di per sé una fattispecie di reato autonoma, tranne che nel momento in cui possa essere ascritto a soggetti a cui possa essere contestata attività di cui all'art 416 bis del codice penale italiano. Il voto di scambio può manifestarsi in un rapporto diretto fra politico ed elettore e/o con l'interposizione di interessi di organizzazioni mafiose, in cambio di denaro o di una raccomandazione per un posto di lavoro. La norma non opera nessuna distinzione e sanziona nel solito modo il mero voto di scambio mediato dal coinvolgimento di associazioni mafiose e quello diretto fra politico ed elettore, in assenza di associazioni mafiose, o senza che l'elettore abbia conoscenza di persone all'interno dell'organizzazione mafiosa, ovvero dell'esistenza di un meccanismo violento di coercizione del voto, delle assunzioni clientelari e dell'aggiudicazione di appalti. Nel solito modo è punita qualsiasi violazione della legge per ottenere un voto, sebbene siano reati di ben differente gravità: il falso in un concorso pubblico per un'assunzione clientelare nella pubblica amministrazione; il falso nelle gare di appalto pubbliche per aggiudicare gli appalti a imprese che fanno assunzioni clientelari; il concorso esterno in associazione mafiosa, sempre per imporre l'assunzione di persone e l'aggiudicazione di appalti ad imprese, segnalati dagli eletti che ricorrono alla mafia, o al contrario segnalati dalle organizzazioni criminali.Nel caso di una forma di associazione, il voto di scambio può analogamente avere luogo per ottenere finanziamenti o appalti pubblici, se queste incentivano una convergenza di "massa" per i voti dei loro iscritti. Il 16 aprile 2014 il senato ha approvato in definitiva la modifica dell'art 416 che disciplina le sanzioni penali sul voto di scambio politico-mafioso, che prevede una riduzione della pena del 40% e una maggiore aleatorietà delineata per la fattispecie del reato di scambio. Il nuovo testo dell'articolo 416-ter prevede che chiunque accetti la promessa di procurare voti in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità (cancellato il termine ''qualsiasi'' riferito ad altre utilità) è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. Hanno votato a favore della riforma: Sel, Scelta civica, PI, Autonomie, Gal, Ncd, Fi, e Pd. Lega Nord si è astenuta. Contrario il M5S. Voto di scambio e ricatto occupazionale. A volte si tratta di vere e proprie somme di denaro di piccola entità, specialmente per le elezioni minori (comunali o provinciali). Più spesso si tratta di favori meno palesi da individuare. Da quando, ad esempio, esistono leggi che permettono contratti di lavoro di tipo flessibile (a tempo o collaborazione), chi ha il potere di offrire lavoro, cioè imprenditori o anche amministratori al potere desiderosi di ricevere la conferma del loro mandato, usano assumere, o promettono solo di farlo prima delle elezioni, ingenti numeri di giovani con contratti precari, così da forzarli al voto per loro in cambio della conferma del lavoro. Questo ovviamente poteva accadere anche in passato da parte di chi opera nel nero ed è molto più frequente in realtà di forte disoccupazione, per lo più al sud. In questo caso il "voto di scambio" è legato ad un più generale ricatto occupazionale che permette, grazie alla disoccupazione, di acquisire grandi poteri sulla pelle, e grazie a volte alla complicità, di chi abbia bisogno. Voto di scambio e organizzazioni criminali. Altre forme più gravi, quanto efficaci, di "voto di scambio" sono quelle per cui viene sfruttata, nel corso di consultazioni elettorali, l'influenza che gli ambienti mafiosi esercitano su gran parte della popolazione per far confluire i voti su una determinata parte politica che ha favorito, con leggi o con la concessione di appalti per la costruzione di opere pubbliche, lo sviluppo delle attività imprenditoriali della mafia. Questo fenomeno ha avuto inizio alla fine degli anni cinquanta del XX secolo quando il fenomeno mafioso cominciò ad assumere le caratteristiche tipiche di una azienda multinazionale e si è radicata nel settore delle costruzioni e della finanza internazionale. Questo ovviamente può avvenire anche in maniera meno grave, attraverso gruppi che hanno una qualsiasi influenza, imprenditori, enti religiosi, sindacati, associazioni; ciò che però rende l'atto illegale e spregevole è l'abuso di potere teso a elargire favori, spesso illegali, in cambio del voto o anche la coercizione al voto da parte di chi ha, non un'influenza, bensì un potere sociale che gli permette il ricatto. Il rilevamento illecito del voto. Detto questo, il problema del "voto di scambio" è sempre quello di riscontrare oggettivamente che quella persona in particolare abbia votato quel partito, uomo politico preciso, il che sarebbe teoricamente impossibile grazie al voto segreto. In realtà di metodi ce ne sono diversi, specialmente grazie alla preferenza, in cui si scrive il nome del candidato e lo si può scrivere in modo riconoscibile e alla presenza di tanti seggi che delimitano molto il loro àmbito, da quando però esistono e sono così diffusi apparecchi fotografici di piccole dimensioni e digitali, quindi senza meccanismi rumorosi, il "voto di scambio" è diventato semplicissimo da effettuare. L'elettore corrotto entra nel seggio elettorale, segna la scheda e la fotografa con il telefono cellulare o la fotocamera, poi mostra la fotografia al politico o chi per lui che gli elargirà il favore richiesto. Per questo motivo, durante Governo Prodi II, stabilì con decreto il 1º aprile 2008 regole severe e pene esemplari fino all'arresto per chi si reca a votare munito di una fotocamera inclusa quella del telefono cellulare.
Venduti all’estero per 80 denari, scrive Danilo Ruberto. Il dato elettorale del 25 maggio 2014 conferma un dato conclamato: basta promettere e si riceve un voto. L’allarmante vendita alle lobby straniere e gli 80 euro. Mentre in Europa vincono gli Euroscettici e avanza la destra, in Italia stravince. C’era una volta un sindaco di Firenze, eletto segretario del Partito Democratico, che aveva promesso di non ricoprire la carica di Presidente del Consiglio qualora ce ne fosse stato bisogno. C’erano una volta in Italia i figuranti, o prestanome, i cui fili erano mossi dall’alto. Oggi c’è Matteo Renzi, ad esempio, che sta festeggiando il 40 % alle Elezioni Europee, con un partito più vicino al neo liberismo che alla sinistra. Se qualcuno domani metterà per iscritto la storia già scritta, il titolo di questo capitolo non potrà non essere: "Venduti per 80 denari". E l’inizio di questo capitolo, magari scritto in tedesco, non potrà che iniziare così: “C’erano una volta gli italiani che si vendettero alle lobby per 80 denari“. Il dato elettorale del 25 maggio afferma chiaramente che l’italiano ha bisogno di qualcuno che gli prometta qualcosa. Soldi, programmi in tv e quant’altro. Non sapendo però che quell’assegno mensile sarà recuperato in altro modo. C’era una volta Matteo Renzi che, andando ad Amici (Mediaset), risultò simpatico ai giovani italiani col suo giubbotto di pelle e l’aria di uno che il giorno prima era stato nel pub a divertirsi con i compagni (non “quei” compagni). Chissà cosa avranno da festeggiare oggi nelle sedi del PD. Forse intoneranno Bella Ciao mentre continueranno a intascarsi i rimborsi elettorali (con un referendum che di fatto li aveva abrogati), regalando qualche miliarduccio alle banche europee. Oltre a comprare altri F35 magari li lucideranno pure. Per non farsi trovare impreparati e disordinati, non si sa mai. Forse torneranno ancora a parlare di Enrico Berlinguer, facendo rivoltare il comunista nella tomba. E dall’alto penserà: "Ma io cosa ho a che fare con questi"? L‘Italia è in svendita alle multinazionali non italiane. Solo che molti non lo sanno. E peggio ancora non sanno di essere neo liberali di destra. Poichè il Pd con la sinistra non ha nulla a che fare. Nemmeno lontanamente. Per non dimenticare nemmeno che presiede un governo sedendo in Parlamento con la destra italiana, quella dichiarata, quella che ce l’ha per iscritto nel proprio simbolo di partito. Chi ha memoria storica conosce, chi non ce l’ha pensa sia che Renzi sia l’alternativa a Silvio Berlusconi , e che il suo partito (che con Romano Prodi consegnò l’Italia all’Euro) sia la sinistra. Enrico Berlinguer, perdona loro perché sanno quello che fanno.
Quel voto di scambio che uccide la democrazia. Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro. Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati, scrive dal canto suo Roberto Saviano su "La Repubblica", che da buon comunista ha altro modo di intendere il voto di scambio. Una parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi. Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi. In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere. Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne. Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia. Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni. Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti. La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifiuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro). Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare. Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo. Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto! E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica. In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta. Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?
Meno male che c'è qualcuno che a modo suo dice la verità. Show del leader del Movimento Cinque Stelle che prima passeggia nello studio di Porta a Porta, poi risponde alle domande del conduttore. "Siamo dentro un'associazione a delinquere di stampo legale: destra e sinistra si sono spartiti il Paese. Gli 80 euro? Sono solo la depravazione del voto di scambio. Napolitano? Non rappresenta più la Repubblica". Poi dice che vuole processi online per politici, giornalisti e imprenditori, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 maggio 2014. E’ una mossa politica, ha spiegato entrando negli studi di via Teulada 21 anni dopo l’ultima volta. E Beppe Grillo l’intervista a Porta a Porta se l’è giocata proprio così: come un’ulteriore opportunità per far conoscere anche al pubblico di Rai1 e in particolare a quello di Bruno Vespa cos’è il Movimento Cinque Stelle, cosa propone quello che altrove viene definito come Hitler o come un buffone. “Quello del 25 maggio è un voto politico – ribadisce più volte il leader dei Cinque Stelle – O noi o loro. Noi non siamo originali. Non diciamo cose nuove. Ma qui la questione è decidere tra chi è sincero e chi non lo è”. Ancora una volta: tra chi dice le stesse cose da 20 anni e non le fa e chi propone di rovesciare tutto, cambiare tutto, risanare tutto. Nessuna parolaccia, a differenza delle performance sui palchi delle piazze riempite ancora nelle ultime settimane, ma il bagaglio degli argomenti è lo stesso: “Spazziamo via la spazzatura storica dei partiti politici”, mentre “Napolitano non rappresenta più la Repubblica”. E ancora: “Siamo dentro un’associazione a delinquere di stampo legale: destra e sinistra si sono spartiti il Paese”. O noi o loro, appunto. “Da resettare, bisogna mandarli a casa tutti ma solo dopo aver verificato prima se hanno rubato”. E’ una mossa politica e quindi, a fianco dell’invito a scegliere “noi o loro” (gli onesti contro i disonesti, “basta compromessi” sottolinea), prova anche a spiegare le sue grida, la sua agitazione, la sua rabbia che in questi due-tre anni è stata quella che ha portato il Movimento Cinque Stelle a essere il primo partito del Paese. ”Io risulto uno che grida – ammette – E’ vero, sono arrabbiato, a volte esagero ma è una rabbia che ha unito in un bel sogno 10 milioni di italiani, non siamo andati in giro a far a botte con la polizia o a sfasciare le vetrine”. ”La mia rabbia è una rabbia buona: questo non è un partito, è un sogno, è un piano B”. Il modo per dire basta, la via di fuga, l’uscita di sicurezza : o noi o loro. O noi o un partito violento o fascista di come ce ne sono – dice – in Grecia, in Francia, in Finlandia e via andando. L’intervista di Vespa a Grillo è insieme “storica” e sui generis. Intanto per il ritorno in Rai da dove Grillo era uscito nel 1993 da comico e monologhista e dov’è rientrato come leader politico e quasi-monologhista. Poi perché – da showman – prima di mettersi seduto sulla poltrona, fa sudare Vespa per svariati minuti. Ma soprattutto perché il leader dei Cinque Stelle si concede questa volta proprio al programma diventato negli anni il simbolo del dialogo perpetuo tra centrodestra e centrosinistra, dell’immagine del “tutti amici”, dell’inciucio. “Se qualcuno mi avesse detto qualche tempo fa che sarei venuto qui da te lo avrei querelato” sintetizza, appunto, Grillo, rivolgendosi a Vespa, quello che una volta chiamava “l’insetto” dal quale dover salvare la Rai. Invece il confronto tra i due scivola via serrato, in una gara di dialettica, tra la tendenza al “faccio tutto io” di Grillo e diversi scambi ironici: “Bevi, non ti bagnare e calmati” gli fa Vespa, “Con te davanti non ci riesco a rilassarmi, la tua è una finta calma” gli risponde l’altro. Il presentatore di Porta a Porta ha in mano l’intervista dell’anno – è la riproposizione con altri colori della sfida Santoro-Travaglio vs Berlusconi – ma non soffre certo di piaggeria per il “lusso” di avere “l’inintervistabile” lì in studio: se la gioca, non molla un centimetro e qualcuno fa notare che si è ricordato come si fa diversamente da altre occasioni (dalla scrivania di ciliegio in poi). “Perché ti approfitti delle persone meno informate – interviene a un certo punto Vespa – dicendo che si può fare un referendum per uscire dall’euro quando sai benissimo che non è vero?”. Ma domande e obiezioni sono accolte da Grillo che cerca di neutralizzarle nel merito, senza fare lo “sfasciacarrozze”, come direbbe Berlusconi. “Sull’euro devono decidere gli italiani e non quattro coglionetti” replica. Ma non rovescia il tavolo come a Palazzo Chigi alle consultazioni con Matteo Renzi. Gioca fino in fondo, a modo suo. Tanto che alla fine, mentre parte la sigla di coda, è lui, Grillo, a dare per primo la mano, una specie di “cinque”, a Vespa. “E’ stato corretto” dice il leader M5s alla fine del programma. “Ma il processo alla stampa bisogna farlo”. Sì, perché l’altra idea evocativa che fa rimbalzare di nuovo in questi ultimi giorni – dentro questo “o noi o loro” – è questa specie di “maxiprocesso” online da fare a politici, imprenditori e politici che sono gli artefici “del disfacimento del Paese”. Ma in trasmissione non si vede il “plasticone” che Grillo ha preparato e portato negli studi di via Teulada prima della messa in onda di Porta a Porta. Cioè una miniatura del “castello di Lerici in cui ci sono anche delle segrete da cui spuntano dei signori: ci sono tutte le categorie, politici, imprenditori e giornalisti”. Un’iniziativa provocatoria che aveva suscitato durante la giornata la protesta indignata del Pd che aveva invocato perfino l’Agcom per una presunta violazione della par condicio. A sottolineare una volta di più che quella di Grillo è stata una “mossa politica”, necessaria a 5 giorni dal voto, soprattutto ora che il Pd vede girare sondaggi strani, dai risultati controversi, ambigui, forse temibili. Chissà, forse proprio l’intervista alla pari con Vespa potrebbe essere stata la zampata finale per dare di nuovo al Movimento Cinque Stelle il primato nazionale (sia pure in uno scenario di consistente astensionismo). “Siamo già primi” assicura Grillo, più volte. Anzi: quella dei Cinque Stelle sarà una “marcia trionfale“, perché “l’ebetino è già finito” (“cioè Renzi” sottotitola ogni tanto Vespa per chi potrebbe non capire). “Non possiamo perdere” insiste. La riprova, aggiunge, sarà venerdì prossimo, il 23, in piazza San Giovanni. “Lì vedremo se perdiamo le elezioni” provoca. L’ultima volta la piazza era piena e non era il primo maggio, ma il 23 febbraio 2013. Qualche giorno dopo Pierluigi Bersani avrebbe cominciato la sua via crucis prima della Waterloo per l’elezione al Quirinale, le sue dimissioni e l’inizio del governo delle larghe intese perfino con Berlusconi. Altro carburante per il serbatoio del “non partito” diventato sogno.
Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.
Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?
"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento. Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto. Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta più la politica, contano solo le lobby e gli affari. L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non a un paese moderno e occidentale".
Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…
"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica Procura di Milano".
Che opinione si è fatta?
"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".
Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?
"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini. A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela, con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".
Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?
"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato. La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare, ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".
È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?
Tutti si definiscono giornalisti, pochi lo sono veramente. Testimonianza “Per fatto personale”, scritta da Filippo Facci. "Alla fine del mio «Di Pietro, la storia vera» c’è un fuori-capitolo che racchiude alcune peripezie personali che ho sempre omesso di raccontare. Non farlo neppure stavolta sarebbe stata reticenza."
Avevo ventiquattro anni e volevo fare il giornalista. Nel gennaio 1991 vantavo già tre o quattro querele e fu allora che incontrai Antonio Di Pietro per la prima volta. Avevo cominciato presto, e dal giornaletto in cui spadroneggiavo, a Monza, approdai a delle collaborazioni con «l’Unità» e con «la Repubblica». Tuttavia le querele giungevano scientificamente solo al giornaletto che mi dava da vivere e che perciò dovetti lasciare.
Di Pietro lo conobbi appunto per una querela: era in toga e me l’indicarono; gli rivolsi un saluto formale che lui non ricambiò. Non gl’importava nulla di quella causa, lo si capiva. Sembrava mestamente annoiato dalle sciocchezze e dalle querele di me giornalistucolo, e quella sua burocratica indolenza non me la sarei più schiodata dalla mente. La querela non ebbe seguito.
Finito il militare, i miei contatti con «l’Unità» e con «la Repubblica» erano saltati. Mi ero sposato l’anno prima, a ventitré anni, ed ero disoccupato: l’unico contatto che riuscii a procurarmi fu con la redazione milanese dell’«Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. A me importava solo di fare il giornalista.
Mi diedi da fare. Di Pietro lo rividi nel dicembre 1991 quando mi mandarono a intervistarlo con la testuale premessa che era «amico nostro». L’incontrai di nuovo seguendo Mani pulite: l’«Avanti!» era ritenuto il giornale dei ladri e lo chiamavano «la gazzetta degli avvocati», e tra una diffidenza e l’altra i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere; avevano mandato avanti me perché secondo il mio caporedattore ero un «cane sciolto».
Ma un cronista dell’«Avanti!», al tempo, aveva poche alternative tra l’essere considerato un cane sciolto o l’essere considerato un cane. Ricordo quando entrai nella sala stampa del palazzo di giustizia e tutti uscirono, come capitò anche a un cronista del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi scriveva in pool, poi, un collega mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Lo scrisse pure.
In tutto questo la situazione si era fatta ancora più complicata perché la sede romana dell’«Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano – ciò che era – e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva anche il tentativo di isolarci e di toglierci peso. Io formalmente neppure esistevo: non avrei potuto neanche stare in redazione; il direttore di allora, su cui non esprimo un’opinione perché non ho l’immunità parlamentare, si chiamava Roberto Villetti e ogni tanto telefonava da Roma per sincerarsi che io fossi rimasto a casa o scrivessi comunque da fuori, quando invece in redazione praticamente ci dormivo. A un certo punto, in un periodo in cui peraltro non arrivava più una lira perché le tangenti erano finite – questo l’avrei appreso poi – Villetti prese a togliermi anche la firma dagli articoli: ma neppure sempre, a giorni alterni, quando capitava. Pensai di aggirare l’ostacolo ricorrendo alla doppia firma col mio caporedattore milanese, Stefano Carluccio, un amico: ma a un certo punto il direttore risolse togliendo solo la mia firma e lasciando quella di Carluccio sotto articoli che però avevo scritto io.
Nell’insieme: lavoravo da abusivo per il giornale dei ladri, ero disprezzato dai colleghi e da chiunque in quel periodo sapesse dove scrivevo, completamente gratis, in teoria non potevo neppure entrare in redazione e sotto i miei articoli c’era la firma di un altro. Però c’era la salute.
Continuai a seguire Di Pietro e Mani pulite anche quando l’atmosfera si fece ancora più elettrica e quando due persone che conoscevo, inquisite, si suicidarono. Scrivere sull’«Avanti!» certo mi forzava a guardare le cose da un punto di vista speculare, ma probabilmente c’entrava anche il mio carattere e un’età in cui avevo davvero poco da perdere. In ogni caso il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva. Mi venne naturale raccogliere del materiale su cui lavorare: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo, ne discutevo sino a tarda notte.
Continuai a occuparmi di Di Pietro anche quando l’«Avanti!» chiuse i battenti e rimasi a spasso. Era la fine del 1992. Fu un brutto colpo, soprattutto perché ormai ero catturato dagli avvenimenti. La redazione era chiusa ma spesso ci dormivo dentro perché a casa c’era qualche problema. Presi a indagare, feci domande in giro, raccolsi ritagli di giornale. Un paese intero invocava manette e io intanto fingevo di fare il giornalista come di consueto: assumevo informazioni, le ordinavo, le assemblavo, ne parlavo: solo che, il giorno dopo, non usciva nessun mio articolo. Mi limitavo a ingrassare e limare un mio libro impossibile, una sorta di rivisitazione della carriera di Di Pietro e della sua inchiesta devastante. Non avevo nient’altro da fare, né di nient’altro m’importava.
Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, l’anno delle bombe a Milano e a Roma, delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Antonio Di Pietro. Un sondaggio, tra «abbastanza», «molta» e «moltissima», gli attribuiva il 90 per cento della fiducia degli italiani. Neppure certi suicidi eccellenti avevano scosso l’opinione pubblica: il 60 per cento degli italiani riteneva che l’uso della carcerazione preventiva andasse bene così. Neppure quel clima da carboneria e la mia vocazione di bastiancontrario mi divertivano più: ero pur sempre un ragazzo di ventisei anni che voleva fare il giornalista. Cercai di defilarmi.
Scrivevo. Il libro era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, quasi quattrocento pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno perché ero un perfetto sconosciuto, ma nondimeno perché era il periodo che era. Sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni » l’icona del magistrato più amato dagli italiani troneggiava su un titolo cubitale: Di Pietro facci sognare.
Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli: fu poco prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, all’inizio del 1993. Non dirò nulla di lui. Conobbi altre persone tra le più care, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili.
Il mondo delle persone normali, a poco a poco, mi perse. Sfumarono amicizie e affetti, il matrimonio era ormai consunto, mio padre intanto leggeva il forcaiolo «Indipendente» di Vittorio Feltri. Poi, un giorno di aprile, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro mi disse che uno scritto come il mio in Italia non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che – verificai poi – conteneva 4 milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno.
A metà luglio il settimanale «Il Sabato» pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come «calunnie» come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l’impressione che l’estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d’allarme. Presto un altro episodio l’avrebbe terribilmente superato.
Il mio ex caporedattore, Stefano Carluccio, mi convinse a fare causa all’«Avanti!» così da ottenere almeno il praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di fare l’esame da giornalista professionista. All’Ordine della Lombardia c’era Franco Abruzzo, ritenuto vicino a quel che rimaneva del Psi. La mia causa fu accolta. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul cosiddetto «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, anche se l’enfasi della titolazione avrebbe potuto indurmi a migliori consigli. Fui soddisfatto del mio lavoro, ma tempo dopo appresi che mi avevano bocciato. Diedi di nuovo l’esame scritto e scelsi l’analisi di un decreto legge sulla giustizia, il Decreto Gargani. Presi il voto più alto di tutta la sessione. Preparai l’orale e intanto non combinavo granché.
Nel dicembre 1992 avevo conosciuto l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, ex amicone di Antonio Di Pietro, e mi aveva già confidato qualche notevole aneddoto su Tonino, Ninì come lo chiamava lui. Passavo a trovarlo nella ridicola speranza che potesse aiutarmi a trovare lavoro e mi dava udienza anche perché era avvolto da una solitudine impressionante. Un giorno mi mostrò un faldone pieno di appunti infarciti di correzioni illeggibili, voleva una valutazione. La forma faceva abbastanza schifo e glielo dissi, ma gli proposi di fare un libro intervista purché corredato di domande e risposte vere. Pillitteri aveva lottizzato e piazzato giornalisti ai più alti livelli, ora aveva me. Ci mise un po’ ad accettare. A lavoro finito, l’ex sindaco mi favorì due appuntamenti con due editori, ma andò male. Nel febbraio 1994 tentai di mia iniziativa con la romana Newton Compton e sorpresa: accettarono. Mi posero dei tempi di consegna strettissimi così da uscire entro le elezioni del 27 marzo. Ero sbalordito.
L’esame orale da giornalista fu sempre in febbraio. Si doveva discutere una tesina scelta dal candidato e rispondere a un po’ di domande. I commissari sbirciarono il voto dello scritto e si compiacquero. Ma poi, di fronte a una commissione composta da magistrati e giornalisti, cominciai a discutere la tesina «Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite» perché ero fatto così. Anche un po’ scemo, a riguardarmi oggi, ma ero uno che non mollava mai. Gli altri aspiranti professionisti sgranarono gli occhi di fronte all’harakiri e l’esame non fu piacevole, durò almeno il doppio del consueto e anche la camera di consiglio si protrasse per un’ora secca. Fui promosso col minimo dei voti, grazie, appresi, a un commissario che poi venne a cercarmi.
Ero finalmente un disoccupato professionista e pensai che l’importante fosse non fermarsi. Cominciai a girare da un avvocato all’altro per raccogliere varie storie di malagiustizia, mia vecchia passione di quando sedicenne militavo nei Radicali. Cercai di condensare queste storie in un altro volume in cerca di fortuna. Ogni tanto ripensavo all’improbabilità di quell’editore straniero, tutte le stranezze, i contanti senza ricevuta, neppure un numero telefonico o un indirizzo dove rintracciarlo. Era sparito e pensai che potesse essere normale in un periodo in cui nulla lo era.
Un vecchio amico di mio padre lavorava alla neonata «Voce» di Montanelli, e provai lì. Erano in overbooking, ma il tizio mi procurò un appuntamento con Maurizio Belpietro, vicedirettore del «Giornale ». Quest’ultimo mi accompagnò dal capo della cronaca di Milano, Daniele Vimercati, e gli propose di mettermi alla prova. Ma non mi chiamò mai. Era un ottimo giornalista, era vicino alle posizioni di Bossi e io ero uno che aveva lavorato all’«Avanti!» da abusivo.
Un mattino mi segnalarono uno dei tanti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia col titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da Anonimo giornalista. Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, Anonimo giornalista ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno.
Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di venire scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza.
Il libro intervista con Pillitteri, Io li conoscevo bene, uscì a marzo inoltrato. «Panorama» ci dedicò un’intera pagina e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero». Spesso neppure mi nominavano, ma fui contento anche se dell’argomento principe del libro, Antonio Di Pietro e certi suoi legami imbarazzanti, preferirono non parlare.
Già lavoravo ad altro: la raccolta delle storie di malagiustizia mi appassionava. In luglio, nei giorni del disgraziato Decreto Biondi, il mio amico Luca Josi mi propose di presentarle sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se propriamente non c’era il libro e non c’era l’editore; diceva che si poteva contrapporlo a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste, invocavano ogni volta esempi e casi concreti.
Nella saletta di un hotel romano, non certo grazie a me, intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Uscì un trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera». Fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo tal Roberto Maggi, già editore di Sgarbi con la sua Larus di Bergamo. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere ». Disse che il libro gli interessava molto ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra.
In settembre, dopo ripetuti rinvii, Maggi si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare La Costituzione italiana: diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro con prefazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe editato anche due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Roberto Maggi cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché era un liberale, e la cosa incredibile è che io credetti anche a questo. Continuai a lavorarci. Non ero cretino: ero di mente lineare, poco incline al barocchismo e al retroscena, figlio di mezzi tedeschi, soprattutto crederci era gratis.
Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu il 3 febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio di Maggi, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata da Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse, almeno. Rimasi malissimo.
I primi di giugno 1995 ero a Monza a giocare a pallacanestro. Non possedevo un telefono cellulare e sul bordo del campetto d’un tratto comparve mio padre: mi disse che mi stavano cercando urgentemente dal «Giornale», quotidiano che intanto lui era passato a leggere. Finii la partita e solo molto più tardi, da una cabina del telefono, appresi che Di Pietro era stato inquisito a Brescia, e mi proposero di scrivere un articolo tipo «io l’avevo detto» sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista a Pillitteri. Dovetti precipitarmi al «Giornale» con la canottiera ancora madida di sudore e ricordo l’orrore negli occhi di Vittorio Feltri che allora se la tirava con l’eleganza british-campagnola. Scrissi un affresco sul reticolo di amicizie discutibili dell’eroe nazionale. Il giorno dopo, più di un quotidiano fu costretto a inseguirmi. «L’Unità», circa il libro intervista con Pillitteri, scrisse di «veleni», e «la Repubblica» che «il pamphlet rischia di diventare un best seller che pare già depositato agli atti dell’inchiesta di Brescia». Il best seller mi fruttò in tutto 1.081.623 lire. Cominciai a scrivere sul piccolo quotidiano «L’Opinione» grazie a una raccomandazione di Pillitteri, ma stavano per addensarsi nubi davvero nere.
Procure e redazioni, al tempo, erano invase da scritti anonimi contro la magistratura milanese, e si prospettava l’ombra di un Mister X che fungesse da suggeritore dei cosiddetti veleni indirizzati contro Di Pietro. Il clima da spy-story era a mille. Il 3 luglio 1995 sul «Giornale» lessi questo titolo: Mister X era già in un libro di due anni fa. Sottotitolo: Un memoriale anonimo pubblicizzò tutti i veleni e gli omissis del gruppo di Mani pulite. Testo: «Oggi andrebbe a ruba. Allora, nel maggio 1993, circolò per il tribunale come i samizdat clandestini del dissenso russo. Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet di 192 pagine, raccontava già tutto. Gli anonimi e i Mister X che sono venuti dopo avevano alle spalle quel superdossier».
Avevo la certezza che non sarebbe finita lì. Ebbi l’irrazionale sensazione che qualcuno mi stesse cercando. Non mi trovò la Spectre, ma Stefano Zurlo del «Giornale». Mi telefonò e mi chiese esplicitamente se Mister X fossi io. Negai. Per giorni. A un mio generalizzato timore si accompagnava la consapevolezza che la storia dell’inglese che scippa i libri dei giovani cronisti era incredibile, nel senso di poco credibile.
Cedetti, ovviamente. La verità per la verità interessava relativamente, lo sapevo bene: la scoperta di un ingenuo Mister X probabilmente avrebbe potuto smentire chi prefigurava dei potenti burattinai di centrodestra dietro la diffusione dei dossier anonimi. Decisi di correre il rischio. Al «Giornale» incontrai Maurizio Belpietro per la quinta volta in una quinta veste diversa: prima ero stato un imberbe che cercava lavoro, poi l’autore di un libro intervista con Pillitteri, poi l’autore di un libro inesistente su casi di malagiustizia, poi un giocatore di basket avvolto da un alone non propriamente di mistero, ora un Mister X di ventotto anni che viveva al quartiere Giambellino. Gli chiesi come avessero fatto ad arrivare a me e mi rispose che mi aveva riconosciuto dalla foto di bambino stampata dietro il dossier.
«Il Giornale», il 24 luglio, aprì la prima pagina con uno spaventoso titolone: Ecco l’autore del dossier Di Pietro. Sottotitolo: Filippo Facci, un giovane cronista dell’«Avanti!», scrisse due anni fa un rapporto in cui anticipava le accuse all’eroe di Mani pulite. Si insisteva ancora col «samizdat clandestino del dissenso russo». Stavo per finire in un mare di guai. La Procura di Brescia mi convocò e mi interrogò per sei ore: il samizdat russo finì agli atti. Anche il libro intervista con Pillitteri era già finito agli atti. Vi finì anche la faccenda del libro sui casi di malagiustizia fermato dalla Larus. Mi chiesero del presunto editore inglese o irlandese e risposi che mi si era presentato come «Olinco» o forse «Holinko», non avevo mai visto il suo nome per iscritto. Gli inquirenti, com’era prevedibile, mi chiesero se avessi mai ricevuto altri dossier anonimi e gli consegnai quelli che avevo. Vollero sapere se li avessi utilizzati per scrivere il mio libro e li invitai a verificare che in qualche caso li avevo addirittura smentiti. Il giorno dopo, sul «Giornale»: Caso Di Pietro, cronista sotto torchio. Sottotitolo: Sei ore e mezzo senza neanche una pausa caffè. Pochi giorni dopo trovai la casa perquisita e devastata da chi cercava chissà che cosa. Non mancava nulla, a parte qualche documento poco significante. Sporsi denuncia alla polizia e fui interrogato di nuovo a Brescia.
Settembre coincise con propositi di rinnovata normalità: scrivevo sempre per «L’Opinione», mi concentravo sul lato oscuro di Antonio Di Pietro e setacciavo nuovi casi di malagiustizia. Ogni tanto, almeno una volta alla settimana, sentivo Craxi al telefono. Mi chiamava lui. Gli piaceva che io venissi praticamente dal nulla, per quanto poteva saperne.
Il 12 settembre 1995 sulla «Repubblica» uscì un articolone titolato Il Mistero Holinko. Sottotitolo: Salamone indaga su un libro contro Mani pulite. Un estratto: Chi è il signor Anthony Holinko? E chi si nasconde dietro la Marshall Ltd, casa editrice fantasma con sede forse a Dublino? La Digos bresciana sta indagando sul misterioso emissario dell’ancor più misteriosa Marshall, la casa editrice che nel ’93 pubblicò il libro Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet che in Italia circolò semiclandestino, spesso in fotocopie, e che anticipava alcuni dei temi recenti delle accuse contro Di Pietro. Il pm Salamone sta cercando di capire se esistono dei legami tra la casa editrice irlandese e un’altra entità oscura apparsa sullo scenario recente di Mani pulite, l’agenzia investigativa americana, ma con ufficio di corrispondenza a Parigi, che avrebbe svolto, per conto di chissà chi, lunghe indagini sul passato dello scopritore di Tangentopoli.
Brescia. Dublino. L’America. Parigi. Il Giambellino. Un mattino mi contattò l’ex mezzobusto del Tg2 Alda D’Eusanio, mai conosciuta prima. Disse che aveva letto le mie disavventure e mi elencò dei colleghi che le avevano parlato bene di me, tutti nomi però a me sconosciuti. La incontrai a Roma e mi spiegò che per il programma «L’Italia in diretta», su Raidue, avrei potuto fare dei servizi su casi di malagiustizia purché non trattassero di politici. Accettai e iniziai la trafila per il contratto. Pensai che potessero c’entrare Pillitteri o Craxi.
Il 14 settembre ero ancora a Monza a giocare a pallacanestro. Trillò il cellulare che mi ero finalmente procurato: era Craxi. Cercai di capire se c’entrasse con la faccenda di Raidue: «La conduttrice mi ha parlato di come si potrebbe trattare il tema del garantismo», gli dissi, omettendo nomi e cognomi come era d’uso. Ma non riuscii a capire.
La conclusione della telefonata, testuale, fu la seguente:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
In realtà c’era problema. Aspettando la Rai, mi ributtai sull’«Opinione » e su Di Pietro, tema che tirava molto. Furoreggiava l’inchiesta su Affittopoli e io mi ero fissato di trovare i dati sull’appartamento a equo canone che il Fondo pensioni Cariplo aveva concesso all’ex magistrato alla fine degli anni Ottanta. Ne avevo già scritto nel mio libro fantasma e nel mio libro intervista a Pillitteri, con tanto di indirizzo, ma la notizia non era mai deflagrata. Mi procurai lo schedario del Fondo pensioni Cariplo e un funzionario mi diede tutte le conferme del caso. Mi capitò di parlarne al telefono col mio amico Luca Josi. Sinché un mattino, per coincidenze varie, capii che «il Giornale» avrebbe probabilmente sparato la notizia l’indomani e mi prese il panico. Allertai il direttore dell’«Opinione», Arturo Diaconale, e scrissi l’articolo in un battibaleno. Nel tentativo di anticipare «il Giornale» telefonai a tutte le agenzie di stampa perché preannunciassero quel che «L’Opinione» avrebbe pubblicato, ma servì a poco. «Il Giornale» l’indomani sparò la notizia in prima pagina e quasi nessuno si accorse che sull’«Opinione» ne avevo scritto anch’io. Era il 22 settembre.
Il pandemonio fu il 29 settembre. Il pubblico ministero Paolo Ielo, al Tribunale di Milano, denunciò «campagne giornalistiche coordinate da Hammamet» e citò espressamente gli articoli che «il Giornale» aveva dedicato all’equo canone di Di Pietro: disse che la diffusione della notizia era stata pilotata da Craxi a Vittorio Feltri, e la riprova, aggiunse, ne era un’intercettazione telefonica tra Craxi e Luca Josi, il mio amico. Feltri venne additato come un robot craxiano e i telegiornali di mezzogiorno si scatenarono. Io ci misi poco a capire com’era andata davvero: io avevo parlato a Josi dell’articolo che stavo preparando per «L’Opinione» e lui probabilmente ne aveva fatto cenno a Craxi, ma le varie telefonate erano state intercettate e i magistrati avevano capito che si parlasse di un articolo per «il Giornale» anziché per «L’Opinione». Passai una mezz’ora disperata: che fare? Esporsi di nuovo? Temevo per il mio contratto con la Rai.
Mi esposi, chiaro. Telefonai al «Giornale» e feci pure fatica a farmi ascoltare. Il giorno dopo, morale, ecco un’altra intervista dove spiegavo tutta la dinamica. Vittorio Feltri titolò il suo editoriale Esigiamo pubbliche scuse e però scrisse così: «Filippo Facci, e non un mio redattore, ha attinto notizie da fonte socialista riguardo a Di Pietro … “L’Opinione” ha pubblicato la notizia in questione proprio su segnalazione di Luca Josi. Facci, che è persona onesta, ammette tutto ciò in un’intervista che riportiamo». Ma come? Era il contrario della verità: io nell’intervista non dicevo niente del genere, non avevo attinto a nessuna fonte socialista, avevo solo parlato a Josi di un articolo che stavo preparando. Ma niente da fare, Feltri ripeté le stesse cose al «Messaggero» e alla «Repubblica». In un’intervista al «Corriere della Sera» giunse a dire: «Avevo ragione. Abbiamo rintracciato Filippo Facci il quale ci ha confermato quel che sospettavamo». Cioè: adesso erano stati loro ad aver capito, e ad aver rintracciato me, ricettore di notizie provenienti da Hammamet.
Il robot craxiano ero diventato io. Telefonai al «Giornale» e l’indomani fu abbozzata una rettifica dallo stesso Feltri, ma era tardi: un altro delirante articolo di un cronista giudiziario, sempre e incredibilmente sul «Giornale» dello stesso giorno, mi citava tra gli «irriducibili collaboratori di Craxi» e cercava di dimostrare chissà che cosa con un collage di intercettazioni varie. Intanto «la Repubblica» titolava Craxi, il burattinaio e il «Corriere della Sera» È Craxi il segretario di Forza Italia. Tutti i giornali pubblicarono centinaia di intercettazioni tra Craxi e il resto del mondo. Altri telefonisti craxiani erano Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi, e giornalisti come Enrico Mentana, Emilio Fede e Bruno Vespa. Un altro telefonista, Alessandro Caprettini, direttore dell’«Italia settimanale», fu licenziato. Il mio ex compagno di scrivania all’«Avanti!» Luca Mantovani, portavoce del parlamentare di Forza Italia Vittorio Dotti, fu licenziato a sua volta perché aveva spedito a Craxi la copia di un’interrogazione parlamentare. Mancavo io.
Tra i telefonisti c’era anche Alda D’Eusanio, l’ex mezzobusto che mi aveva proposto il lavoro alla Rai. I giornali pubblicarono un’intercettazione dove lei diceva a Craxi «Sarò la tua voce» e l’associarono a un’altra intercettazione, questa:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
C’era problema. «L’Unità» del 5 ottobre deprecava il mio «contratto milionario» (66 milioni di lire lordi per un anno) e tre interpellanze parlamentari fecero il resto. Il contratto venne stracciato con il consenso del presidente della Rai Letizia Moratti. In sintesi: avevo dato una notizia vera, l’equo canone goduto da Di Pietro, e avevo perso il lavoro.
Nel giorno in cui «l’Unità» sanciva la fine di ogni mia velleità contrattuale, oltretutto, «Panorama» mi ritirava in ballo per il libro fantasma: un lungo e complicato articolo citava un dossier anonimo che avevo consegnato alla Procura di Brescia, uno dei tanti, e lo definiva «in stile Fbi». Si ritirava in ballo il samizdat russo o irlandese scritto al Giambellino. Il quotidiano «L’Indipendente» titolò Di Pietro spiato dai servizi segreti, citandomi.
Avevo ventott’anni, volevo fare il giornalista.
Nel periodo successivo divenni una specie di pendolare tra Milano e Brescia, nella duplice veste di cronista e di testimone. Di Pietro ormai era nel mio destino. Un’altra mia inchiesta sull’«Opinione», dopo una testimonianza che rilasciai sempre a Brescia, fece aprire un filone d’indagine contro l’ex magistrato per alcune sue presunte concussioni al ministero della Giustizia. Senza farla troppo lunga: mi sarebbe capitato di far iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati altre due volte.
Di Pietro mi seppellì di querele e mi denunciò anche per calunnia. In una memoria difensiva chiese di appurare i miei rapporti con Craxi e di inoltrare rogatorie internazionali in Irlanda. Quando si discusse il rinvio a giudizio per calunnia, pochi mesi dopo, l’udienza preliminare durò sei ore e io e Di Pietro sfiorammo lo scontro fisico. L’ex magistrato ce l’aveva in particolare col mio libro fantasma: «È da quel dossier» disse «che sono cominciati tutti i miei guai». Ma quel dossier, che diversamente da altri non era un dossier ma solo un disperato e tentato libro, diceva tutte cose vere. Cose che reggono, ancor oggi, la prova del tempo. Fui prosciolto.
L’aria cambiò lentamente, ma cambiò.
Le storie di malagiustizia che riuscivo a trovare, grazie al rinnovato garantismo berlusconiano e al mio buon rapporto con Maurizio Belpietro, ottennero spazio sul «Giornale». Presi a collaborare anche con «Il Foglio» di Giuliano Ferrara. Ogni tanto, per esempio su «Panorama», uscivano articoli imbarazzanti che mi esaltavano come «il cronista che sapeva troppo ». Un quotidiano di Trento, non trovandomi, e in mancanza d’altro, intervistò mio padre. Dopo vari tentativi nel 1996 riuscii a trovare un editore anche per il libro sui casi di malagiustizia, intitolato Presunti colpevoli: lo pubblicò Mondadori. Altri giornali si soffermarono sul mio caso e a dirla giusta fu «Il Foglio»: «Dopo tre anni di peregrinazioni, Filippo Facci ha trovato l’editore, ma più probabilmente le condizioni politiche». Era la verità. Le stesse condizioni politiche, un anno dopo, mi permisero di pubblicare una prima biografia su Antonio Di Pietro sempre per Mondadori. Temendo chissà che cosa, Di Pietro disse alla «Repubblica»: «So cosa vogliono fare, … chi lo fa. E ho preso le mie contromisure. Anzi vorrei dare un consiglio: chi sta realizzando la diffusione di un pamphlet che mi riguarda, ci pensi due volte».
Il libro uscì lo stesso. In autunno, davanti al palazzo di giustizia milanese, per la stupida legge dei corsi e ricorsi, ci fu una manifestazione del centrodestra in cui il libro fu addirittura agitato da qualche manifestante, o questo almeno lessi.
I primi di giugno 1999 ero di nuovo a Monza a giocare a pallacanestro quando un mio compagno di squadra mi disse che alla sua fidanzata, studentessa alla Cattolica, avevano chiesto di me durante un esame. Impossibile, dissi. Era vero. L’esame era Storia del giornalismo italiano e nel tomo intitolato appunto Storia del giornalismo italiano dalle origini ai giorni nostri, a pagina 366, c’era un capitoletto titolato «Le fonti e le disavventure delle notizie». Si parlava di «tre casi limite, espressione di tre diversi momenti della storia italiana: portano il nome di Zicari, Pecorelli e Facci».
Di Giorgio Zicari ricordavo che era talmente ben informato che l’accusarono di essere colluso coi servizi segreti, di Mino Pecorelli che ebbe la fama di ricattatore prima di essere preso a revolverate nel 1979. Il terzo ero io.
"Curiosa e ambigua la vicenda di Filippo Facci, un giovane di 26 anni nel 1993, che rimane disoccupato quando l’«Avanti!» chiude il 31 dicembre 1992. Il quotidiano del Partito socialista, fondato il 25 dicembre 1896 da Leonida Bissolati, viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli che distrugge la carriera politica di Bettino Craxi, costretto a fuggire in esilio nella sua villa di Hammamet, Tunisia. Facci è autore di un libro intervista al cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. S’intitola Io li conoscevo bene. Nel 1993, colleziona particolari e notizie su Antonio Di Pietro, ne escono centonovantadue pagine che documentano le amicizie pericolose del pubblico ministero più famoso d’Italia e simbolo del rinnovamento morale. Il dattiloscritto viene pagato 4 milioni da un oscuro personaggio, sedicente editore di una piccola casa editrice irlandese. Alcuni mesi dopo, pagine del libro iniziano a comparire sui quotidiani, ma il volume ancora non è stampato. Circolerà in seguito clandestinamente. I contenuti entreranno nell’inchiesta giudiziaria su Di Pietro che si concluderà a Brescia nel marzo 1996 con il proscioglimento dell’ex magistrato."
In autunno ricevetti qualche invito residuo a presentare la biografia su Di Pietro, e uno mi colpì in particolare: era del Rotary Club Milano Giardini, accanto al palazzo della stampa dove c’era la redazione dell’«Avanti!». Il giornalista che mi aveva invitato era lo stesso che anni prima aveva impaginato quel Di Pietro, facci sognare che troneggiava sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni». Fu lui a dirmelo. Quella sera, per farmi voler bene, dissi subito qualcosa che ripeto ancor oggi: «Negli anni di Mani pulite, la percentuale di italiani favorevoli ad Antonio Di Pietro ha oscillato tra il 90 e il 95 per cento. Se mi applaudite, ora, presumo che sia perché al tempo rientravate in quel residuo 5-10 per cento».
Nel maggio 2000, vagando per Milano in motorino, imboccai sparato via Giulio Uberti in netto contromano: un’auto blu dovette inchiodare e rischiò seriamente di mettermi sotto, la ruota anteriore del mio scooter si fermò a non più di un centimetro dal suo paraurti. Alzai il braccio per scusarmi. Mi avvicinai e vidi che alla guida c’era il pubblico ministero Paolo Ielo, autore peraltro di un paio di querele contro di me. Sembrava impietrito. Abbassò il finestrino e mi disse: «Facci, ma se poi ti mettevo sotto, chi ci credeva che era colpa tua?».
Antonio Di Pietro, per molti anni, rifiutò ogni invito in programmi televisivi dove fosse prevista la mia presenza. Ha cambiato atteggiamento dal 2005 in poi.
Dei colleghi che uscivano dalla sala stampa quando vi entravo io, ora, almeno quattro sono discreti amici. Il collega che mi accusò d’aver pubblicato dei verbali falsi è passato a scrivere gialli metropolitani, come in fondo faceva già allora. L’altro collega che m’accusò di aver favorito la fuga di un dirigente socialista ha sposato una mia amica.
Nel tardo agosto 2009, con il ritorno di Vittorio Feltri in via Negri, ho abbandonato «il Giornale» dopo quindici anni. Il collega che fece un collage di intercettazioni telefoniche sul «Giornale» e fece strappare il mio contratto, Gianluigi Nuzzi, oggi condivide il mio stesso incarico – inviato speciale a «Libero» – sotto il mio stesso direttore, Maurizio Belpietro.
Dal 1992 a oggi è passata una mezza generazione e ci sono giovani e meno giovani che di Antonio Di Pietro sanno a malapena che faceva il magistrato. Credo di aver scritto questo libro anche per loro.
APPALTI TRUCCATI, ITALIA MAGLIA NERA IN EUROPA.
Appalti truccati, l’Italia è maglia nera in Europa. Scritto da Francesco Rossi su “Diritto di Critica”. Un macigno sull’economia. L’Agenzia Europea Antifrode (Olaf) ha reso note le cifre sulla diffusione della corruzione negli appalti pubblici nei paesi europei, raccolte con la collaborazione di Price&Waterhouse. Il rapporto ha (purtroppo) confermato ciò che già si sapeva: l’Italia, in questa poco onorevole classifica, fa la parte del leone. Se nel vecchio continente le gare pubbliche “truccate” sottraggono all’economia reale circa 120 miliardi, ben 60 di questi pesano sul bilancio italiano. Una rilevazione che combacia perfettamente con quella fatta, qualche mese fa, dalla Corte dei Conti. Si tratta di un macigno che vale il 3% del Pil, e che aggrava i problemi di un’economia affossata da alti tassi di disoccupazione e pressione fiscale alle stelle.
Corruzione endemica. Tra i big continentali siamo il paese messo peggio, quello in cui la corruzione è ormai endemica, dietro di noi, in termini di trasparenza delle procedure, ci sono solo Ungheria e Romania. Sempre secondo l’Olaf, in Italia, una gara pubblica ogni dieci è viziata dalla presenza di una tangente. In Francia il dato scende al 3%, in Olanda precipita addirittura all’1%. In un’ideale scala di valutazione, dove 100 è la perfezione, noi totalizziamo 57 punti, francesi e olandesi ne portano a casa rispettivamente 91 e 97. In più, ulteriore aggravante, quasi il 40% delle frodi a danno del bilancio comunitario hanno il nostro marchio. Il fenomeno più diffuso è quello delle “gare fittizie” (il 63% di tutte le violazioni rilevate), dove il vincitore è già stabilito in partenza e gli altri concorrenti partecipano solo pro forma. Al secondo posto ci sono le assegnazioni in conflitto d’interesse, con l’appalto che finisce in mano ad amici o parenti. Il settore più colpito, sia a livello europeo che italiano, è quello dei corsi di formazione, dove il rischio corruzione sale al 28%, seguito dalle opere idriche e da quelle stradali.
Radici profonde. Oltre a fotografare la situazione, nel rapporto l’Agenzia Europea Antifrode prova anche a identificarne le cause. La prima imputata è la burocrazia tentacolare che da sempre affligge l’apparato pubblico italiano. La moltiplicazione delle autorizzazioni, dei permessi, degli uffici competenti, non fa che diminuire la trasparenza dei procedimenti. Poi c’è l’atavica debolezza delle attività di controllo e repressione delle frodi, dovuta anche alla scarsità delle risorse destinate allo scopo; una scarsa incisività che impedisce di intercettare la maggior parte delle tangenti. Infine, secondo l’Olaf, i dirigenti pubblici italiani sono tra i meno preparati e competenti quando si tratta di gestire strutture e procedure complesse, e questo ne aumenta la vulnerabilità. Ed in questo non aiuta il moltiplicarsi dei consulenti esterni, un fenomeno che alimenta la dispersione delle responsabilità e quindi del controllo. La corruzione in Italia, quindi, ha radici profonde, che affondano in alcuni dei più radicati “vizi” del nostro paese. In un momento di grave crisi economica, però, riuscire a recuperare parte del “tesoro” che le tangenti sottraggono all’economia reale equivarrebbe ad una vitale boccata d’ossigeno.
ITALIANI: CORROTTI E CORRUTTORI.
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata ieri a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità ( e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Budo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
APPALTO TRUCCATO? SE PROTESTI PAGHI IL PIZZO!
Appalto truccato? Se protesti paghi la tassa. Codacons e legali ricorrono alla Corte di Giustizia europea contro il contributo unificato dovuto da chi si rivolge al Tar per verificare la regolarità degli appalti pubblici, scrive Isidoro Trovato su “Il Corriere della Sera”. Per molti ma non per tutti. Il ricorso al Tribunale amministrativo regionale in tema di appalti pubblici ha un prezzo e non tutti possono permetterselo. In Italia infatti per proporre un ricorso al Tar in materia di appalti, la legge pretende il pagamento di un importo in tre scaglioni definiti a seconda del valore della base d’asta: 2 mila euro per appalti che valgono fino a 200 mila euro, quattro mila per quelli che vanno fino a 1 milione e 6 mila per quelli che superano questa soglia. Cifre che valgono per il primo grado perché per l’appello le quote da pagare vanno da 3 a 9 mila euro. La «tassa sul Tar» (come è stato ribattezzato il contributo unificato) ha sollevato polemiche e proteste da parte di avvocati amministrativisti e associazioni di consumatori (primo fra tutti il Codacons) finché, il Tribunale amministrativo di Trento non ha rimesso alla Corte di Giustizia Ue la compatibilità con il diritto comunitario. L’udienza si terrà l’11 febbraio «Attendiamo con fiducia — spiega l’amministrativista Maurizio Zoppolato — perché riteniamo che questa norma sia incompatibile con il diritto comunitario». Eppure la disposizione aveva una ratio evidente: porre un freno all’abuso di ricorsi al Tar che di fatto bloccano spesso le gare pubbliche al punto che qualcuno sostiene che negli appalti in Italia lavorano più gli avvocati dei muratori. «È un’esagerazione — spiega Zoppolato —. In realtà la grande maggioranza degli appalti non è oggetto di ricorso. Ma non è tanto questo che contestiamo, quanto il meccanismo che è stato creato: se per ricorrere contro un appalto da 80 mila euro che ritieni falsato o errato devi mettere in conto il pagamento di una tassa da 2 mila euro, oltre alle parcelle e alle spese vive, chiunque rinuncia. Diverso è il discorso per gli appalti che valgono milioni di euro. Non sembra esserci proporzione nella quantificazione del contributo». Probabilmente si punta all’effetto dissuasivo proprio per i ricorsi contro gli appalti meno costosi, che però sono quelli più numerosi. «Ma gli appalti minori sono proprio quelli a più alto rischio di trucco e alterazione — obietta Zoppolato —. Tra l’altro non bisogna dimenticare che i ricavi del contributo unificato non sovvenzionano la giustizia amministrativa e invece per sostenere la rapidità e l’efficienza dei ricorsi serve denaro. A questo punto non resta che sperare nell’intervento della giustizia comunitaria in modo da correggere una norma che non velocizza il sistema e non aumenta il controllo di legalità negli appalti pubblici».
ITALIA: UNA REPUBBLICA FONDATA SULLO SCANDALO.
Giancarlo De Cataldo: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma.
De Cataldo: "Giustizia, un'utopia da difendere". E' un’aspirazione che spesso non si realizza, ma bisogna continuare a lottare per vederla trionfare. Anche se la crisi economica ha inciso profondamente sui diritti e rimesso in discussione molte conquiste sociali. Il commento dello scrittore. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.
Strano, molto strano..., scrive Titta Sgromo su “L’Opinione”. Strano, “Il Giornale” non ha messo in prima pagina la davvero scandalosa vicenda che ha visto coinvolto il ministro Maurizio Lupi e altri politici, fra i quali quattro sottosegretari di aria renziana, dando l’impressione di non voler danneggiare l’Ncd o meglio infierire sui voltagabbana che comunque hanno tradito l’ex Cavaliere. La circostanza non è sfuggita a molti lettori che si chiedono il perché di tale atteggiamento anche perché Libero pone in risalto l’evento. Oltre la facile e scontata giustificazione del garantismo, lascia non poco perplessi tale atteggiamento. Si può essere garantisti sotto il profilo giudiziario ed io sono fra questi, ma non si può ignorare che sotto il profilo politico i fatti accertati sono molto gravi. Ma se solo facciamo riferimento a quanto è successo negli ultimi quattro anni, dal momento in cui Silvio Berlusconi per il ben noto complotto è stato defenestrato, si ha l’impressione netta che i tanti scandali che si sono succeduti hanno una indiscutibile matrice democristiana, se è vero che sono stati coinvolti Alfano, la Cancellieri, i protagonisti di Mafia Capitale, ed oggi Lupi con tutto l’entourage che è venuto allo scoperto. L’origine politica di tali personaggi la si individua nella vecchia e sempre presente strategia democristiana, che prevedeva (e tutt’ora prevede) lo sfruttamento delle risorse pubbliche attraverso la solita burocrazia. Tra non poco il pifferaio fiorentino che si proclama un giorno sì e l’altro pure il paladino dell’anticorruzione, si scoprirà non essere estraneo alla strategia che prevede il controllo delle opere pubbliche attraverso i burocrati, tipo Incalza, estremamente abili nel truccare gli appalti aggiudicandoli agli amici od agli amici degli amici. Senza dimenticare che il ministro Poletti era orgoglioso di farsi fotografare insieme a Buzzi ed altri in ricche manifestazioni conviviali. Si può dire che Tangentopoli non è finita, ma vi è una sostanziale differenza. A quell’epoca i massimi esponenti dei partiti condizionavano l’affidamento delle opere pubbliche alle tangenti che gli imprenditori versavano ai partiti, con particolare riferimento al Partito Socialista di Craxi, alla Dc di Forlani ed al Partito Comunista che, stranamente, come sostiene Guzzanti padre, fu salvato nonostante il coinvolgimento di Greganti, all’epoca il capo delle cooperative rosse, come lo era, fino a non molto tempo fa, anche l’attuale ministro Poletti. Con Tangentopoli furono azzerati tutti i partiti della Prima Repubblica, sia la Dc che il Psi, ma non il Pci e l’Msi, questi ultimi tutelati dalla Magistratura dell’epoca sotto l’egida di Borrelli e Di Pietro, successivamente sceso in politica. Oggi lo scenario è diverso e, caduto Berlusconi per i problemi giudiziari ben noti, il Pd ha visto realizzato il sogno inseguito dai cattocomunisti, cioè quello di esercitare il potere in un Paese dove, da sempre, la gente nella sua grande maggioranza è moderata. Entra in scena il sindaco di Firenze, pure lui ex democristiano, che illudendo la gente con la promessa di rottamare i vecchi comunisti, pur non essendo stato eletto dal popolo, con la complicità di Re Giorgio, guida un Governo del quale fanno parte i democristiani che hanno tradito Berlusconi. Siamo praticamente tornati agli anni Novanta, con una differenza riguardante il fine perseguito dai corrotti e corruttori, che è individuato nello sfruttamento delle occasioni che offrono le opere pubbliche, l’arricchimento personale e la conservazione di privilegi acquisiti ormai da tanti anni. Ma i democristiani sono in ogni caso fortunati e nel mentre scoppia lo scandalo politico, irrompe sulla scena il terrorismo islamico con la tragedia di Tunisi che è utile per far dimenticare la miseria umana di personaggi che definire squallidi è poco. Ma ciò preoccupa tutti noi ma non il democristiano di turno, il ministro degli Esteri Gentiloni, che durante la trasmissione Agorà ha sottovalutato l’evento tragico smentendo il titolo de “Il Giornale” che poneva l’attenzione sullo stato di guerra in cui siamo, sostenendo che l’Italia è un Paese tranquillo. Certo, tranquillo fino a quando non si verificherà un’altra tragedia sul suolo italico, suolo che dista da Tunisi un centinaio di chilometri soltanto. Per favore, liberiamoci una volta per tutte della cancrena democristiana, anche se appare una impresa impossibile constatando che i cattocomunisti un mese fa hanno eletto alla carica di Presidente della Repubblica un democristiano. È il caso di richiamare il vecchio detto: “errare è umano ma perseverare è diabolico!”.
Matacena, minacce dalla latitanza: "Se torno parlo e sono guai per tutti". Poi le critiche a Forza Italia, scrive “Libero Quotidiano”. "Furono portate delle tangenti con un aereo privato dalla Serbia in Svizzera. Un broker che conosco mise i soldi su tre conti correnti di tre importanti esponenti della sinistra italiana e mi consegnò quei numeri, che non sono l'unico a sapere". Il latitante Amedeo Matacena, ex parlamentare di FI, in una intervista all'Ansa e poi via Skype con il Fatto si dice pronto a vuotare il sacco. "Se dovesse succedere qualcosa a me o ai miei familiari", minaccia l'ex azzurro, "verrebbero consegnati e pubblicati in Italia i numeri dei conti correnti svizzeri sui quali sono state depositate le somme delle tangenti dell'affare Telekom Serbia. Ma so anche storie di politici di Forza Italia". Matacena ce l'ha con Davide Mattiello, componente Pd della commissione antimafia, che da mesi chiede che l'Italia si impegni per il rientro in Italia del latitante. "Non so per chi fa il ventriloquo", dice Matacena ribadendo: "Sanno che se dovesse accadere qualcosa alla mia incolumità verrebbero subito resi noti questi conti correnti". Gli avvocati e la moglie prendono le distanze sostenendo di non saperne nulla, ma l'ex parlamentare di Forza Italia ricorda insiste. Stando "ai servizi segreti", dice al Fatto, "questi soldi (diversi milioni di euro) sono stati portati in Svizzera con un aereo privato. Andate a chiedere a chi ha fatto le indagini". I nomi, puntualizza, "si possono ricavare dalle indagini fatte a suo tempo. Cercate di capire perché tante cose che riguardano la sinistra italiana sono state insabbiate nel corso degli anni. Non è successo niente nonostante fu istituita la commissione Mitrokin. Abbiamo avuto degli esponenti importanti della sinistra italiana, membri del Kgb che hanno fatto la spia in Italia, eppure non è mai stato aperto neanche un procedimento nei confronti di questa gente. So qual è la banca in cui sono state depositate le tangenti, ma al momento non lo rivelo. I servizi segreti sanno tutto. La cifra esatta della tangente non la dico ma è stata equamente divisa tra i tre politici della sinistra". Da parte sua Davide Mattiello si difende e attacca: "Sono convinto che Amedeo Matacena abbia tante cose da dire. Che le dica. Personalmente non ho niente da difendere o da nascondere. Non è a me che spaventa dicendo quelle cose", tuona con Lucio Musolino. "Lui parla di conti in Svizzera. Apprendiamo dal latitante Matacena che ci sarebbero tre conti di cui lui ha i numeri che riguardano delle tangenti. Benissimo, questa è una notizia criminis che va portata all' attenzione di una magistratura. Dal momento che il segreto bancario è da poco caduto, se è vero, la giustizia deve fare il suo corso. Se non è vero, è l' ennesimo comportamento intimidatorio di un uomo che, condannato per mafia, fa il latitante". L'ex esponente di Forza Italia non risparmia critiche al centrodestra da cui è stato candidato alla Camera nel 1994 e nel 1996. "A Palermo", ricorda, "testimoniai per due volte a favore di Marcello dell'Utri, la seconda anche se non ero stato ricandidato. A Caltanissetta, citato come teste da Berlusconi, testimoniai contro l'ex magistrato Caselli. Ma Fi mi ha usato come uno straccio vecchio. Sono stato sacrificato dal partito per dare in pasto alla stampa la notizia che il partito faceva pulizia nelle liste". Di qui, spiega, la mancata ricandidatura nel 2001. "L'unica persona che considero essere un uomo è Claudio Scajola", prosegue. "Furono lui e Berlusconi a decidere di non ricandidarmi nel 2001. Lo rividi anni dopo e fui ovviamente freddo. Lui se ne accorse e mi disse che riteneva di avermi fatto un torto nel non ricandidarmi. Poichè oggi nessuno dice 'ho sbagliato', se già qualcuno ammette una colpa per me merita stima". Quanto all'accusa che Scajola e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo, abbiano favorito la latitanza di Matacena, tentando di agevolare un suo spostamento in Libano", per il fatto è in corso un processo a Reggio Calabri, l'ex deputato azzurro non ha dubbi: "Il fatto non esiste. In Libano ammazzano le persone per 500 dollari e c'è un accordo di estradizione con l'Italia che negli Emirati Arabi non c'è. Perchè avrei dovuto tentare di andare in Libano?".
Politica e criminalità organizzata. L’arresto di Scajola e lo scoperchiamento del potere italiano, scrive Gad Lerner. Tra Scilla e Cariddi, fra le due rive dello Stretto: da una parte Amadeo Matacena (finito per caso a destra in Forza Italia) e dall’altra Francantonio Genovese (finito per caso a sinistra nel Pd). In comune il business dei traghetti con la società Caronte, ma non solo. Sono capoclan locali che con la loro dote di preferenze ottengono facilmente candidature al parlamento nazionale, usano i partiti come strumenti intercambiabili, entrano in relazione con i vertici dello Stato, ne ottengono protezioni e complicità. E’ in questo meccanismo che rimane impigliato oggi Claudio Scajola, a suo tempo ministro degli Interni e massimo dirigente organizzativo di Forza Italia. Un politico di razza, vecchio navigatore democristiano, a sua volta radicato su un territorio come il Ponente Ligure dove la ‘ndrangheta calabrese ha messo radici da parecchio tempo. Non è un caso che la magistratura abbia intercettato le manovre di Scajola per favorire la latitanza di Matacena nel corso di altre indagini sui rapporti fra il tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, e alcune famiglie della malavita calabrese. Stiamo assistendo allo scoperchiamento di una parte rilevante del potere italiano, costituito dall’intreccio fra politica in cerca di consenso e interessi malavitosi bisognosi di protezione e riciclaggio. Sotto l’ombrello del berlusconismo (ma non solo, e non solo a destra) episodi come quello che ha portato all’arresto di Scajola sono numerosi. Guarda caso anche Matacena voleva scappare in Libano, come Dell’Utri. E Berlusconi che subito dichiara “non ne sapevo niente, povero Claudio”, non vi ricorda il proverbio secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo?
In realtà sono rimasti identici solo i metodi dei magistrati e dei giornalisti, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Forse non vi siete accorti che nell'inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: sono sullo sfondo assieme a fisiologici referenti (tanti) che vengono consultati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette e pilotava appalti. È come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l'azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla. Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sé e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c'entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c'entrano niente su questioni che non c'entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.
Manette a gogò. Magistrati scatenati alla vigilia del voto. Arrestati in 20 tra cui Greganti e Scajola Sospetti di corruzione per l'Expo. L'ex ministro accusato di aver aiutato un latitante, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Tecnicamente parlando si tratta di una manovra diversiva. Come arginare la verità fangosa che sta emergendo sulle porcate commesse dai magistrati, prima fra tutte quella sulle illegalità della Procura di Milano nell'inchiesta Ruby? Semplice, una bella retata all'alba. Anzi due, perché - come diceva Totò - meglio abbondare. Così in poche ore finiscono dentro in tanti, nomi eccellenti ovviamente, altrimenti addio titoloni. Da ieri mattina sono in carcere, tra gli altri, a Roma l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola (accusato di intrattenere rapporti con la famiglia dell'ex deputato, oggi latitante, Matacena), a Milano, per tangenti, due ex politici (Stefano Frigerio e Primo Greganti, già coinvolti in Tangentopoli) e uno dei capi di Expo 2015. Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale. E, infatti, eccoli, più decisi che mai: un colpo al Pd (Greganti), uno a Forza Italia (Scajola), insomma una secchiata di merda sui due partiti che stanno cercando di riformare il Paese. Grillo ringrazia e guadagna ancora qualche punto. Lui ai magistrati non fa paura, anzi, è lo strumento ideale per fermare l'asse Renzi-Berlusconi che ha già annunciato la riduzione degli stipendi d'oro dei magistrati e la riforma della giustizia. Le procure mandano a Renzi un segnale chiaro, in stile onorevole Antonio Razzi versione Crozza: «Amico, attento, te lo dico un'ultima volta: fatti li cazzi tuoi». Può essere, lo vedremo, che tra gli arrestati ci siano ladri e malfattori. Però mi fa strano il tempismo e il clamore, perché la verità sarà accertata solo a urne chiuse. E viste le tante inchieste spettacolo finite nel nulla, la cosa preoccupa perché falsa le regole del gioco democratico. Dicono che Bruti Liberati, capo della Procura di Milano, abbia le ore contate e sia al centro di una guerra tra le fazioni di pm che si contendono potere e successione a suon di accuse e controaccuse. Ieri un suo vice, Robledo, si è rifiutato di firmare gli ordini di arresto e non ha partecipato alla conferenza stampa. C'è il terribile sospetto che la resa di conti finale tra magistrati stia avvenendo sulla pelle di veri, presunti o falsi delinquenti. In un Paese normale, una procura così messa, delegittimata, divisa e incarognita, sarebbe già stata commissariata. Questi sono un pericolo vero, più pericolosi del più pericoloso tangentista.
La settimana terribile dell'Italia. Prima settimana di maggio 2014. Bacchiddu, Scajola, Expo, Nuova Tangentopoli, Genny 'a carogna. Il paese sprofonda inesorabilmente, senza la forza di cambiare davvero. Anche per colpa nostra, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Una settimana da dimenticare sta finendo, specchio di una vecchia Italia. Un’Italia che non cambia. Che va in retromarcia. Che guarda indietro. Non è più questione di ricambio generazionale (quello finalmente un po’ c’è, anche se a ben vedere l’arroganza di certi giovani non è inferiore a quella di certi anziani). Il problema è nazionale. Siamo noi italiani, forse, che abbiamo qualche problema con la storia e con noi stessi. Non riusciamo a esser seri, a concentrarci sulle cose da fare, a renderci conto della gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, a prendere coscienza del declino che ci sta portando verso il baratro, del grado di inciviltà che viviamo nelle nostre città. C’è qualche tarlo che ci corrode, qualche virus che non vuol saperne di abbandonare la presa. Come si spiega altrimenti l’escalation di notizie da paura degli ultimi giorni? Siamo alla terzultima settimana prima del voto del 25 maggio che servirà a ridisegnare il Parlamento europeo, tornata importante anche per la politica nazionale. Forse, ci si poteva aspettare che prendessero il sopravvento temi concreti e veri. Non so: l’economia, l’istruzione, l’Europa. Invece ci siamo dibattuti e abbiamo dibattuto sul “caso Bacchiddu”, sulle spacconate di Genny ‘a Carogna, su Greganti 2 la vendetta, la corruzione dietro l’Expo 2015 e le lotte fratricide tra i magistrati di Milano, per finire coi fischi di Grillo all’Inno di Mameli. Tutte robe che non ci cambiano la vita, che ci distraggono dai veri problemi, che peggiorano terribilmente l’immagine dell’Italia e di noi italiani in Europa. Che scoraggiano irrimediabilmente le persone per bene ed esasperano chi già non ne può più. La Lista Tsipras riesce a far parlare di sé solo perché il meccanismo dei media e della politica si tuffa sulla foto accattivante di una bella ragazza e una brava giornalista, Paola Bacchiddu, che in un clic di (auto)ironia posta su facebook una propria istantanea balneare con la motivazione scherzosa di voler usare ogni mezzo, ora che il giorno cruciale del voto si avvicina, e quindi invita a barrare la lista “L’Altra Europa con Tsipras”. Apriti cielo. Si scatena la polemica su “chiappetta rossa”, la gogna del web, l’assalto del branco (a sinistra, a destra), il groviglio di considerazioni femministe e/o machiste…
Ed a proposito di questo..."Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro, scrive “Libero Quotidiano”. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista Se non ora quando aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
Tornando alla riflessione di Ventura...Poi, sabato, lo spettacolo immondo e barbarico di una sparatoria in piena Roma, con tifosi che si confrontano in un delirio di violenza finché dentro lo stadio un energumeno tatuato con maglietta che chiede la liberazione dell’omicida di un poliziotto alza il pollice fischiando di fatto l’inizio di una tristemente memorabile finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, sotto gli occhi e le bocche aperte, mute, delle più alte cariche di uno Stato ridicolizzato e impotente. Genny ‘a Carogna, imparentato con camorristi, detta legge. Le famigliole tremano. Renzi neanche s’accorge del tenore di quella maglietta insultante. E per finire, ecco l’ordalia giudiziaria come da copione: la raffica di arresti per presunte tangenti relative all’Expo 2015 di Milano accende i riflettori su un passato per nulla esaurito. Con l’aggiunta piccante di uno scontro interno alla magistratura per irregolarità additate dal procuratore aggiunto Robledo nell’assegnazione delle inchieste a chi non ne avrebbe avuto titolo. Come non bastasse, finisce in manette un ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola. E Grillo si tuffa sugli arresti con la goduria del capobranco che assapora un punto in più il 25 maggio, perché la rovina dell’Italia significa la sua apoteosi. Un Grillo che si mette fra gli ultrà dello stadio dicendo che anche lui avrebbe fischiato l’Inno d’Italia e che mette in campo tutta la sua finezza di analisi affibbiando le solite trito-comiche etichette agli avversari, dal “pregiudicato Berlusconi” (dimentico d’esser lui stesso condannato in via definitiva per omicidio colposo, senza neppure esser vittima di chissà quale persecuzione giudiziaria) a “Renzi ‘a Menzogna” che evoca “Genny ‘a Carogna”. Questo, dopo avere ravvivato malamente la campagna elettorale con parabole che hanno per protagonisti gli ebrei della Shoah e i lager (riferimenti privi di qualsiasi pietà umana). Mamma mia, che Italia è questa. Che paura. Che futuro ci aspetta.
Dell'Utri. Sette anni di reclusione. Condanna confermata, scrive “Il Corriere della Sera”. Il verdetto della Cassazione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri era atteso in serata del 9 maggio 2014. I giudici della Prima sezione penale si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere se confermare o no il verdetto d’appello: 7 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sostituto Procuratore Generale di Palermo Luigi Patronaggio ha già emesso un ordine di carcerazione per Dell’Utri. Il provvedimento verrà trasmesso al ministero della Giustizia che lo allegherà alla richiesta di estradizione alle autorità libanesi. Il caso giudiziario di Marcello dell’Utri dura da 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, aperto il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. «Vi è la prova», aveva scritto il collegio nella motivazione, «che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale». Quel verdetto era stato parzialmente corretto in secondo grado, in un processo assai più rapido del primo, iniziato il 16 aprile del 2010 e conclusosi il 29 giugno dello stesso anno quando la Corte di Appello, presieduta da Claudio Dall’Acqua, aveva ridotto a sette anni la pena per Dell’Utri, a fronte di una richiesta di 11 anni formulata dal procuratore generale Antonio Gatto. I giudici avevano ritenuto provati i rapporti tra Dell’Utri e la mafia fino al 1992 mentre lo avevano assolto «perché il fatto non sussiste» per i fatti successivi. Aveva però retto l’impianto accusatorio, ribadito anche oggi dal Pg della Cassazione, secondo cui Dell’Utri avrebbe fatto da mediatore tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, e lo avrebbe tra l’altro convinto ad assumere come stalliere ad Arcore il boss Vittorio Magano, morto di cancro in carcere.
E poi.....Scajola: io non so se ci rendiamo conto. Rischio di essere ripetitivo ma il rischio vale la candela, scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. Ogni volta che scriviamo, discutiamo e parliamo di criminalità organizzata, di programmi di protezione, di “utilizzo” di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia o di un’appropriata legislazione antimafia non possiamo non tenere conto che Claudio Scajola (ma anche con ruoli comunque apicali Cosentino, Dell’Utri, la lista è lunga e folta) sia stato non un politico qualsiasi ma un Ministro dell’Interno di questa Repubblica. Quindi sarebbe veramente ora che si trovi una narrazione che funzioni, un vocabolario leggibile per raccontare le mafia fuori da Corleone, Platì o Scampia e che arriva sempre ai punti più alti dello Stato. Perché Scajola (quello che aiuta un latitante a trasferirsi in Libano) e i suoi sodali sono gli stessi che decidono se e come vanno presi in considerazione e protetti coloro che denunciano e quindi mi pare normale che chiunque provi ad “raccontare” il terzo livello (come lo chiamava Giovanni Falcone) non possa sentirsi sicuro in questo Paese. E dovremmo trovare il coraggio di insegnarlo nelle scuole, farne memoria tutti i santi giorni in tutti i santi posti che frequentiamo bucando questa coltre di presunto “allarmismo” che ci rovesciano addosso ogni volta che si alza il tiro contro la politica. Penso, oggi, a chi si ritrova in pericolo per avere denunciato il malaffare e legge l’arresto di un ex responsabile della propria incolumità. Non lo so, mi viene da pensare questa cosa qui, oggi, prima di tutte le valutazioni politiche. Questa ferita qui che sta più profonda di tutti gli editoriali di stamattina.
8 maggio 2014. Arrestato l'ex ministro Scajola. Avrebbe favorito la latitanza dell'ex parlamentare Amedeo Matacena, condannato a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’ex ministro Claudio Scajola è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. Tra le otto persone finite in manette figurano anche alcune persone legate al noto imprenditore reggino ed ex parlamentare Amedeo Matacena, colpito da provvedimento restrittivo insieme alla moglie Chiara Rizzo e alla madre Raffaella De Carolis. A seguito della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (giugno 2013) Matacena si è reso latitante. Perquisizioni effettuate in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria e Sicilia, oltre a sequestri di società commerciali italiane, collegate a società estere, per un valore di circa 50 milioni di euro. L'arresto di Scajola è avvenuto in un noto albergo della Capitale. Appresa la notizia Silvio Berlusconi, ai microfoni di Radio Capital, ha manifestato il proprio dolore: "Non so per quali motivi sia stato arrestato, me ne spiaccio e ne sono addolorato". Il Cavaliere ha tenuto a precisare che non aveva avuto alcun sentore dell'inchiesta, tale da giustificare la mancata candidatura alle Europee del politico ligure nelle liste di Forza Italia. "Avevamo commissionato un sondaggio su di lui che ci diceva che avremmo perso globalmente voti se lo avessimo candidato, ma abbiamo capito che la sua candidatura ci avrebbe fatto perdere punti". In serata, intervistato dal Tg1, ha detto di non credere che la vicenda avrà ripercussioni sui risultati di Forza Italia. Perché è stato arrestato? Come ha rivelato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, l’ex ministro avrebbe aiutato l’ex parlamentare Matacena a sottrarsi alla cattura per l’esecuzione della pena. L’inchiesta è nata nell’ambito di una indagine su tutt’altro argomento, i presunti fondi neri della Lega Nord, in cui la figura chiave sarebbe il faccendiere Bruno Mafrici. Grazie a un’intercettazione gli inquirenti sono venuti a conoscenza di rapporti fra l’ex ministro e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. La donna, secondo quanto emerso, si sarebbe adoperata per ottenere l’aiuto dell’esponente politico ai fini del trasferimento del marito, in Libano. Dalle indagini sarebbe emerso il ruolo di un’altra persona che avrebbe lavorato al trasferimento di Matacena nel paese dei cedri. Si tratterebbe dello stesso personaggio che avrebbe avuto contatti con Marcello Dell’Utri ai fini di una sua fuga nel paese mediorientale. "Amedeo Matacena - ha detto il procuratore De Raho - godeva e gode tuttora di una rete di complicità ad alti livelli grazie alla quale è riuscito a sottrarsi all’arresto". Scajola, secondo l’accusa, avrebbe aiutato Matacena a sottrarsi alla cattura in virtù dei rapporti che ha con la sua famiglia. Matacena è un noto imprenditore, figlio dell’omonimo armatore, noto per avere dato inizio al traghettamento nello Stretto di Messina e morto nell’agosto 2003. La frase incriminata. Lo spostiamo in "un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche". È questa una delle frasi pronunciate da Scajola in una conversazione telefonica con Chiara Rizzo, moglie di Matacena. La telefonata risale al 12 dicembre del 2013 alle ore 12.12. Nella conversazione, sostiene il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, emerge che "alcuni soggetti si stanno attivando per spostare Matacena da Dubai verso altro Stato". Dialoghi cifrati. "Poi ti racconto un po' di cose anch’io perché Daniele è andato a fare un viaggio sulle isole e ci sta fino al 28, è andato in giro, capito?". Così Scajola avrebbe informato la moglie di Matacena sugli spostamenti del marito, latitante dopo la condanna definitiva a cinque anni e quattro mesi. Il riferimento era, secondo gli investigatori, allo spostamento programmato per il 28 agosto dello scorso anno, data in cui Matacena è stato fermato a Dubai. Questa conversazione dimostrerebbe "la piena consapevolezza dello Scajola in merito agli spostamenti del latitante". In quegli stessi giorni si parlava ancora della vacanza di Daniele. La Rizzo chiedeva all’ex ministro "ma lì?", e lui rispondeva "per dieci giorni" "Daniele il mio amico, sai chi è Daniele?". E ancora: "E' andato in vacanza con Adele per dieci giorni a fare i bagni su.... Secondo il gip "si intuisce che è in difficoltà a parlare in quanto non vuole rivelare la località". A questo punto Chiara Rizzo esclamava "aaa ho capito! E tu glielo hai detto?". Scajola quindi rispondeva: "Nooo, no! Cercavo di dirlo a te in modo che tu lo sai che se dovesse mai farti venire qualche idea me lo dici, hai capito bene?". "Dite alla mia famiglia che sto bene, che sono tranquillo, la verità emergerà". Lo ha detto SCajola ai propri difensori, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Gli inquirenti hanno perquisito a Imperia l’ufficio dell’ex ministro in viale Matteotti e la sua villa in via Diano Calderina. Si sarebbe interessata a Matacena anche la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Reggio Calabria. Il nome di Cecilia Fanfani era sulla lista dei passeggeri del volo proveniente da Dubai e diretto a Nizza il primo agosto dello scorso anno. Nei suoi confronti, e anche a carico del fratello Giorgio Fanfani, è stata disposta una perquisizione. Proprio a Dubai il 28 agosto scorso è stato fermato Matacena. Il rampollo della famiglia di armatori era appena giunto negli Emirati Arabi dalle Seychelles. Lì, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si era recato per incontrarsi con alcuni legali del posto "i quali - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - interessando i competenti uffici amministrativi, lo avrebbero assistito nelle operazioni di rinnovo del visto necessario al prolungamento della sua permanenza alle Seychelles". Di questa strategia sarebbero stati informati anche Carlo Biondi, figlio del politico Alfredo Biondi, ed Elvira Tinelli. A Cecilia Fanfani viene attribuita la scelta e la possibilità di usufruire dell’appoggio di uno studio legale per risolvere "il problema". Il fratello Giorgio Fanfani avrebbe presentato a Chiara Rizzo, moglie di Matacena, un avvocato. I figli di Fanfani non sono indagati e vengono definiti, nel provvedimento della Dda, "soggetti di interesse investigativo risultati in contatto e in rapporti anche di affari con gli indagati", insieme ad altre sette persone pure perquisite senza essere indagate.
Il patto Scajola-Matacena così la ’ndrangheta fece crescere Forza Italia. “L’ex ministro dell’Interno favorì gli interessi dei boss”. Ecco perché i pm volevano arrestarlo anche per mafia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano arrestare anche per favoreggiamento mafioso Scajola Claudio, nato ad Imperia il 15/01/1948, ivi residente, ex ministro dell’Interno? «Perché dopo la sentenza di condanna per concorso esterno di Amedeo Matacena lui è diventato la proiezione politico-istituzionale- imprenditoriale del primo che consapevolmente agevolava gli interessi della ‘ndrangheta nella sua composizione unitaria». Così scrivono i pm calabresi nella loro richiesta di custodia cautelare contro Scajola, erede in qualche modo — secondo loro — del potere economico e criminale del latitante eccellente riparato negli Emirati Arabi e in fuga verso il Libano. Una coppia al servizio di consorterie e cosche, logge, circoli segreti. Prima sicuramente uno, poi probabilmente anche l’altro. La proposta dei pubblici ministeri è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari «per mancanza di un supporto indiziario idoneo», ma nelle carte che hanno depositato ricostruiscono contro Scajola — oltre alle accuse di aver tentato di occultare il patrimonio di Matacena, di averlo soccorso nella sua dorata irreperibilità, di avere pianificato il suo spostamento da Dubai a Beirut — il “profilo” di Matacena, tutti i suoi affari e i suoi legami con l’ex ministro degli Interni e soprattutto una lontana vicenda che riporta alla nascita di Forza Italia. È nelle prime pagine del documento dei magistrati della procura firmato dal capo Federico Cafiero De Raho e dai sostituti Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, una mezza dozzina di fogli ripescati da un’indagine palermitana (la numero 2566/98 contro Licio Gelli + 13) finita nell’inchiesta sulla famigerata trattativa Stato-mafia e poi girata a Reggio. È il racconto di un pentito che ricorda un summit al santuario della Madonna dei Polsi — luogo sacro per la ‘ndrangheta, tutti i suoi capi ogni anno si riuniscono lì a settembre per stringere alleanze, dichiarare guerre, decidere strategie criminali — avvenuta qualche mese prima della fondazione di un nuovo partito. Siamo alla fine dell’estate del 1991, il pentito si chiama Pasquale Nucera, uno della ‘ndrina dei Iamonte di Melito Porto Salvo. Confessa Nucera: «C’è stata una riunione al santuario di Polsi nel comune di San Luca, nel corso del quale si parlò di un progetto politico...». C’erano tutti i capi più importanti della mafia calabrese. C’era Anche Amedeo Matacena, l’amico dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. C’era anche un misterioso personaggio «che parlava italiano con un accento inglese o forse americano». È stato identificato come Giovanni Di Stefano, un affarista che negli anni passati ha provato a comprarsi gli studios della Metro Goldwyn Mayer, un sedicente avvocato (è stato denunciato poi anche per esercizio abusivo della professione) che comunque è riuscito a difendere in aula gente come Saddam Hussein, il suo braccio destro Tariq Aziz, Slobodan Milosevic, il leader paramilitare serbo Zeliko Raznatovic meglio conosciuto come la “Tigre Arkan”. Questo personaggio, finito nelle pieghe delle indagini siciliane sulle stragi, era presente al santuario di Polsi e fu lui a parlare per primo di «un “partito degli uomini” che doveva sostituire la Democrazia Cristiana in quanto questo partito non garantiva più gli appoggi e le protezioni del passato». Parole testuali del pentito Pasquale Nucera, che in un secondo momento si dichiarerà anche agente del Sisde, il servizio segreto civile italiano. In due interrogatori, ricorda uno per uno tutti i presenti al summit: «Seppure defilato, c’era anche Matacena, “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace. Poi c’erano anche tutti i vari esponenti dei “locali” della ‘ndrangheta calabrese». Fa l’elenco: «Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino al cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Africo, parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti ed altri…». I pm riassumono in una trentina di pagine le attività oscure di Matacena e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Poi scrivono: «Emerge con univoca chiarezza dalle complessive acquisizioni, invero, che di tale rete di relazioni è membro di rilievo lo stesso Claudio Scajola, unitamente alle altre persone sottoposte ad indagine, il quale diviene funzionale nel complessivo panorama criminale oggetto di ricostruzione proprio in quanto interlocutore istituzionale proiettato verso una candidatura di rilievo alle prossime elezioni europee…». E riferendosi agli uomini e alle donne — compreso l’ex ministro degli Interni — che hanno protetto l’ex deputato latitante: «Nel caso in specie si comprende, quale dato di dirompente rilevanza, che l’attività di protezione svolta a favore del Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è più rivolta a suo esclusivo vantaggio ma diviene il passaggio necessario a proteggere lo strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema criminale nella sua componente riferibile alla ‘ndrangheta reggina, di cui il politico/imprenditore (Matacena, ndr) è ormai componente essenziale e non sostituibile». Hanno favorito Amedeo Matacena e favorendo lui e il suo “sistema” hanno favorito tutta la ‘ndrangheta. Anche Claudio Scajola. Ecco perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano il suo arresto con l’aggravante dell’articolo 7. Dopo la decisione negativa del giudice, il procuratore capo Cafiero De Raho ha già annunciato appello.
Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.
Da Scajola agli amici in Medioriente. Tutti i nomi dietro il "Circolo Matacena". Il decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria mette in luce un doppio binario diplomatico-finanziario per garantire la fuga dell'ex deputato Amedeo Matacena. Con personalità che vanno dalla massoneria alla politica. E l'arresto del già titolare dell'Interno è solo la punta dell'iceberg, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. La rete di Amedeo Matacena è impressionante. L'ex ministro Claudio Scajola è soltanto l'uomo più in vista di un network che spaziava fra l'Italia, il principato di Monaco e il Medioriente. Nel decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria emerge un doppio binario diplomatico-finanziario per mettere in sicurezza l'ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco come la Procura di Reggio Calabria riassume la situazione: “Nel corso delle indagini sono emersi continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e appartenenti a ambienti politici, istituzionali e imprenditoriali... La gestione di tali operazioni politiche, istituzionali ed economiche ha consentito alle persone sottoposte a indagini di diventare il terminale di un complesso sistema criminale, la gran parte di natura occulta e operante anche in territorio estero, destinato anche ad acquisire e gestire informazioni riservate fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione”.Poco dopo le 11 l'ex ministro Claudio Scajola ha lasciato la sede della Dia di Roma per essere portato in carcere a Regina Coeli, dove è in arresto per aver favorito la latitanza dell'ex deputato Amedeo Matacena. All'uscita dell'edificio Scajola ha mostrato un momento di evidente sorpresa per la presenza delle telecamere e fotografi che lo attendevano nel breve tragitto verso l'auto delle forze dell'ordine. Insomma l'operazione conclusa all'alba dell'8 maggio con l'arresto di Scajola, della sua segretaria Roberta Sacco, della moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e di altri cinque indagati è soltanto l'inizio. Indagato ma non arrestato risulta il trentanovenne Vincenzo Speziali junior, che in un colloquio con Scajola dice di sé: “io sono programmato per non sbagliare”. Speziali ha sposato la libanese Joumana Rizk, che risulta essere nipote di Amin Gemayel, ed è omonimo dello zio senatore ed ex presidente di Confindustria Calabria, oltre che presidente dell'aeroporto di Lamezia Terme su nomina di Giuseppe Scopelliti, governatore dimissionario e candidato Ncd alle Europee. Speziali senior è anche indagato per concussione all'Asp di Crotone. Molti degli amici del “circolo Matacena” sono semplicemente citati nei documenti della Dda reggina. Molti hanno cognomi storici o vicende giudiziarie alle spalle. Appena Matacena viene arrestato a Dubai, dove si è recato per rinnovare il visto di permanenza alle Seychelles nello scorso agosto, è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, ad attivarsi per trovare un legale italiano negli Emirati: Ottavia Molinari. La sorella Cecilia Fanfani è definita “buona amica” da Chiara Matacena. Al consulto legale partecipa anche Carlo Biondi, figlio dell'ex Guardasigilli e avvocato Alfredo. C'è poi Marzia Mittiga, moglie dell'armatore Manfredi Lefebvre d'Ovidio, anch'egli residente a Montecarlo come l'armatore Matacena. Marzia Lefebvre, secondo gli investigatori, ha prestato la sua mail per alcuni messaggi che Chiara doveva mandare al marito negli Emirati. Speziali junior è l'ufficiale di collegamento che organizza, l'11 febbraio 2014, l'incontro romano tra Chiara Matacena e Luigi Bisignani. Lo stesso giorno, Speziali pranza con un altro piduista, il livornese Emo Danesi, vicino all'Udc. Durante il pranzo, Speziali telefona a Scajola mentre l'ex ministro si trova al ristorante romano Le tamerici con Daniele Santucci e Giovanni Morzenti. Santucci, presidente dell'Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio, sarà arrestato il 14 marzo 2014 con l'accusa di peculato per 7 milioni di euro. Bisignani finirà agli arresti il 14 febbraio, tre giorni dopo l'incontro per l'affaire Matacena, per gli appalti di Palazzo Chigi. Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), è stato condannato in via definitiva per concussione nel febbraio 2013. Alla comitiva dell'11 febbraio di unisce a un certo punto anche l'ex deputata crotonese del Pd Marilina Intrieri. Ma l'aiuto più importante a Chiara Rizzo arriva sicuramente da Scajola. È lui che la moglie di Matacena chiama in lacrime alle 9 di mattina appena dopo l'arresto del marito a Dubai, il 28 agosto 2013, chiedendogli subito un incontro a Montecarlo. L'ex ministro glielo concede. Da lì in avanti le intercettazioni fra i due sono spesso criptiche, con il latitante che viene a volte indicato come “la mamma” oppure con il nome del figlio Athos. Quando poi, dopo una serie di incontri a Beirut e all'ambasciata romana del Libano, il circolo Matacena deciderà di tentare la carta dell'asilo politico sotto l'ombrello protettore di Amin Gemayel, Scajola parlerà al telefono di “scuola”. Peraltro, senza subito essere compreso da Chiara Matacena. Più complessa è l'articolazione del salvataggio economico. In previsione della fuga, Matacena organizza un reverse merger delle sue società (Amadeus con le sue tre motonavi, la finanziaria Solemar, la lussemburghese Xilo, la Mediterranea shipping, più le due liberiane Amshu e Athoschia) per evitare di essere coinvolto nel blocco dei beni. Anche la moglie subisce il blocco del suo conto al Monte dei Paschi di Siena per decisione della direzione a settembre del 2013. Il flusso di soldi, però, è proseguito.
Renzi: "No a dimissioni per gli avvisi di garanzia, non caccio gli indagati". Intervista al premier su Repubblica. "Lupi ha preso una decisione saggia". E alle accuse di d'Alema ("E' un arrogante") replica: "Lui sembra una vecchia gloria del wrestling", scrive Goffredo De Marchis su “La Repubblica”. I Due pesi e le due misure non esistono. "Ma stiamo scherzando? Ho sempre detto che un avviso di garanzia non può giustificare le dimissioni. E lo confermo". Significa che Matteo Renzi non chiederà ai sottosegretari indagati di lasciare il governo. E non lo farà con il candidato in Campania De Luca, condannato in primo grado. Dopo la settimana dell’inchiesta Grandi Opere che ha travolto Lupi, il premier e segretario del Pd risponde alle accuse di doppiopesismo nel rapporto tra politica e giustizia. Ma ieri mattina ha accolto a Ciampino le bare dei morti nell’attentato di Tunisi. "Per carità - dice - il Pd, l'inchiesta sulle infrastrutture, gli attacchi di D'Alema: tutto importante. Ma oggi penso soprattutto al dolore dei familiari delle vittime. La vicenda di Tunisi è terribile ma rafforza la nostra analisi: la comunità internazionale non può far finta di nulla su ciò che accade in Libia, perché lì pare sia nato l'attentato al Museo Bardo. Da qui al 17 aprile, quando incontreremo Obama, dobbiamo intensificare gli sforzi per verificare se la soluzione diplomatica è ancora in piedi o no".
Dopo le dimissione di Lupi, non tocca anche ai sottosegretari indagati? Cinque sono del Pd (Barracciu, Del Basso De Caro, De Filippo, Bubbico e Faraone) e uno del Ncd (Castiglione)?
"Assolutamente no".
Fa la faccia feroce con gli esponenti di altri partiti e perdona quelli del suo?
"Ho sempre detto che non ci si dimette per un avviso di garanzia. E se parliamo di faccia, le dico con sguardo fiero che per me un cittadino è innocente finché la sentenza non passa in giudicato. Del resto, è scritto nella Costituzione. Se si dice che è la più bella del mondo, poi bisogna almeno leggerla, altrimenti non vale. Quindi perché dovrebbe dimettersi un politico indagato? Le condanne si fanno nei tribunali, non sui giornali: è un principio di decenza oltre che di buon senso ".
Lupi però, dopo il pressing di Palazzo Chigi, non è più ministro.
"Il suo caso è diverso, non è nemmeno indagato. Ha fatto una valutazione giusta e saggia secondo me. Una scelta personale e molto degna: dare le dimissioni in politica non è così frequente".
Non può chiedere la stessa saggezza agli altri politici coinvolti nelle inchieste?
"Ho chiesto le dimissioni a Orsoni quando, patteggiando, si è dichiarato colpevole. Ho commissariato per motivi di opportunità politica il Pd di Roma nonostante il segretario locale fosse estraneo alle indagini. A suo tempo avevo auspicato il passo indietro della Cancellieri sempre con una motivazione strettamente politica. Altro che due pesi e due misure: le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia".
Questa "dottrina" non vale per De Luca, condannato e candidato governatore?
"Lui ha fatto una scelta diversa, considera giusto chiedere il voto agli elettori e si sente forte del risultato delle primarie".
Tanto vale allora cambiare la legge Severino.
"La modifica della Severino non è all'ordine del giorno, non è un tema in discussione".
La sua lotta alla burocrazia si è fermata davanti ad alcune porte. Ercole Incalza stava al ministero anche nell'anno del suo governo. Non è compito della politica fare piazza pulita prima dei magistrati?
"Incalza, che per me è un cittadino innocente fino a quando non sarà condannato, ha lavorato con noi fino alla scadenza del suo contratto. Fine 2014, punto. Indipendentemente dalle indagini, un eccesso di permanenza al potere negli stessi posti non è mai positivo. Ma la vera strada per combattere la burocrazia non è tanto la rotazione dei dirigenti, quanto la semplificazione. Rendere più trasparenti e comprensibili le decisioni della pubblica amministrazione, semplificare il codice degli appalti, mettere online in modo chiaro tutti i dati dei ministeri: questo consente il controllo sociale dei cittadini".
Don Ciotti dice: con la responsabilità civile dei giudici siete andati come razzi, con la legge anticorruzione siamo a carissimo amico.
"Voglio troppo bene a don Luigi per fare polemica con lui. Mi aspettavo però che ieri spendesse mezza parola sulla declassificazione del segreto di Stato o sul fatto che l'Autorità Nazionale Anti Corruzione fino a un anno fa non esisteva, era solo il comma di un articolo di legge, e Cantone era un giudice di Cassazione".
Resta il fatto che la lotta all'illegalità sembra un punto debole del suo governo.
"In questo anno abbiamo fatto molto e molto abbiamo proposto. Il raddoppio dei tempi della prescrizione sulla corruzione è un messaggio chiaro: non si pensi di fare i furbi e tirarla per le lunghe. L'autoriciclaggio e il falso in bilancio sono due nostre proposte di legge, che prima non c'erano. Sulla responsabilità civile dei magistrati trovo che sia un fatto di civiltà, di cui vado orgoglioso. Poi, intendiamoci, tutte le critiche vanno bene: non è un caso che la commissione Gratteri, che io ho istituito qualche mese fa, stia per formalizzare alcune proposte di cui stiamo discutendo con il ministro Orlando".
Ma la legge contro la corruzione arranca. Non lo dice solo don Ciotti.
"Si può essere a favore o contro un governo ma non si può essere contro la realtà: in un anno abbiamo sbloccato partite ferme da anni a cominciare da Anac, segreto di Stato, responsabilità civile. Su questi temi accetto consigli da tutti, ma non prendiamoci in giro. Il problema non sono le leggi, ma farle rispettare. Mandare in galera chi ruba sul serio e difendere gli innocenti che sono sbranati dal circo mediatico-politico del "si deve dimettere perché lo stanno indagando"".
Metterete un altro dirigente dell'Ncd alle Infrastrutture?
"Le valutazioni sul ministro si fanno al Quirinale".
Ha un identikit?
"Il ministro che verrà non è importante in una logica interna di partiti, ma sarà decisivo per far ripartire l'Italia. Vogliamo uno bravo, il colore della tessera non ci interessa. Perché la crescita non sia microscopica occorrono gli investimenti pubblici e privati. Non serve Keynes, basta la logica. Gran parte di questi investimenti passano da lì".
L'associazione proposta ieri da D'Alema sembra la premessa di una scissione.
"D'Alema ha utilizzato un lessico che non mi appartiene. Espressioni che stanno bene in bocca a una vecchia gloria del wrestling, più che a un ex primo ministro. Credo fosse arrabbiato per Roma-Fiorentina: ha capito che il vero giglio magico è sceso in campo all'Olimpico...Compito del Pd è cambiare l'Italia, sia che D'Alema voglia sia che D'Alema non voglia. E noi lo faremo".
È recuperabile il rapporto con i dissidenti?
"Una parte della minoranza ha questa simpatica abitudine di trattarci come usurpatori, come se fossimo entrati nottetempo al Nazareno scassinandolo. Prima o poi accetteranno il fatto che se ci siamo noi, e non più loro, è perché ci hanno scelto gli iscritti, ci hanno votato gli elettori alle primarie e ci hanno sostenuto gli italiani con una percentuale di consensi che non si vedeva dal 1958".
D'Alema arma la minoranza: deve assestarle dei colpi e lasciarle i segni. Potete stare nello stesso partito?
"Scommetto che non ci sarà alcuna scissione. Il Pd è un luogo aperto al confronto. Nessuno può pretendere di avere la verità in tasca. La mia proposta è quella di discutere e confrontarsi sul modello di partito, sull'identità della sinistra che cambia in Europa e in Italia. Cuperlo ha picchiato duro su di me ma ho apprezzato la sua analisi. Il dibattito ha bisogno di tutti. Non cacciamo nessuno. Da qui al congresso del 2017 abbiamo due anni per discutere di come irrobustire il Pd uscendo dalla logica dei talk e dei tweet e gustando la fatica di ascoltarsi".
Ha festeggiato la richiesta di archiviazione per suo padre Tiziano?
"Sono contento per lui. So quanto ha patito dal punto di vista umano. Ma i magistrati di Genova devono ancora pronunciarsi e dunque non ho titolo per parlare: rispetto il lavoro dei giudici sul serio, col mio silenzio. Penso solo che mio padre oggi avrà i titoli sui giornali perché la sua vicenda fa notizia".
Non le fa piacere?
"Ma tanta gente che viene indagata e poi assolta finisce stritolata dalle circostanze esterne. Non è colpa dei magistrati, che devono fare indagini. Non è colpa dei giornalisti, che devono dare notizie. Ma una soluzione va trovata perché le persone meritano di essere giudicate in tribunale e non dall'opinione pubblica".
Non è pura e semplice propaganda, ma qualcosa di più vasto e profondo, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. «Con Cantone alle Infrastrutture quale magistrato intercetterà mai il ministro?», insinuava un abile vignettista qualche giorno fa. L'utilizzo dei magistrati in politica, di cui la sinistra è antesignana (Casson, D'Ambrosio, Colombo eccetera - per lasciar perdere Di Pietro), ormai non è più soltanto la «bandierina» da sventolare all'opinione pubblica. Con Renzi è metodo di governo e paravento che concorre a rafforzare il potere e lo determina. Anche perché sempre si accompagna ad aspri contrasti con la categoria di cui il beneficiato fa parte. Non basti solo il Moloch anti-corruzione Raffaele Cantone, diventato suo malgrado il Mastro Lindo di ogni scandalo e corrutela (come l'Expo), o il potere che al ministero s'è ritagliato Mario Barbuto, già presidente della Corte d'Appello di Torino, o quello del sottosegretario Cosimo Maria Ferri. Sintomatico è il caso di Nicola Gratteri, Pm della Locride e superesperto di 'ndrangheta . Era già ministro della Giustizia quando Renzi salì al Colle. Fu soltanto una sfuriata del presidente Napolitano a impedirlo. «C'è una regola non scritta, ma sempre rispettata da tutti: i magistrati in servizio non possono andare alla Giustizia», sibilò il capo dello Stato tagliando con un frego il nome dalla lista. Ma il premier non si è dato per vinto e, all'interno della categoria, suscitando grandi contrasti e divisioni, oggi si dibatte su di un ministro-ombra alle spalle del travicello Orlando. Appunto Gratteri, che ha appena consegnato una relazione di 266 pagine con la sua proposta di riforma di cui non si conoscono i contenuti (e non si sa quanto ne verrà usato dal premier).
FAMILISMO E RACCOMANDAZIONE. LE COLPE DEI FIGLI RICADONO SUI PADRI.
Quando le colpe dei figli ricadono sui padri. Dallo scandalo Montesi alla laurea del Trota. Leader di partito «azzoppati» per le tribolazioni (talvolta presunte) della prole: dal «giallo» di Capocotta che fece finire la carriera di Attilio Piccioni alle intercettazioni di Lupi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”.
1. Lo scandalo Montesi e il musicista Piero Piccioni. Succede in politica (talvolta) che le colpe dei figli ricadano sui padri. Il caso dell'ormai ex ministro Lupi che si adopera per trovare un lavoro al figlio Luca è solo l'ultimo. La storia d'Italia vede infatti spesso ripetersi vicende di questo genere. Comportamenti al limite del lecito si mescolano a normali preoccupazioni per il futuro della prole. Però reso più comodo dalle relazioni paterne. Altre volte lo scenario è diverso: lo sgambetto (magari giudiziario) è per il figlio, ma a cadere è il potente genitore. Detta la linea il caso Montesi che vede l'ingresso ufficiale di dossier e foto osè nella lotta politica della Prima Repubblica. Moviola del tempo all'indietro, arriviamo al 1954: il povero Piero Piccioni - figlio dell’allora ministro degli Esteri, il potentissimo democristiano Attilio Piccioni - viene accusato della morte della ragazza trovata sulla spiaggia di Torvaianica, Wilma Montesi. Viene arrestato e l'assoluzione arriva dopo due anni, dopo che al processo vengono smontate le false testimonianze che lo hanno tirato in ballo. Nel frattempo però la carriera del padre, destinato a succedere a De Gasperi, termina con l'esplosione dello scandalo la cui regia - in realtà senza alcuna prova - verrà sempre intestata ad Amintore Fanfani. Piccioni figlio, musicista (morto nel 2014) avvia comunque una strepitosa carriera di compositore, accompagnando con le sue note quasi tutta la commedia all'italiana, lavorando con i grandi: Monicelli, Dino Risi, De Sica, Petri, per non parlare di Visconti e Rossellini.
2. Antonio Di Pietro a colloquio con i pm per sapere del figlio. A procurare qualche imbarazzo politico ad Antonio Di Pietro, ex giudice di Mani Pulite, senatore, ministro, fondatore dell'Idv, è stato il figlio Cristiano. Questi da consigliere provinciale - siamo attorno al 2009 - si spende al cellulare con il provveditore alle Opere pubbliche di Campania e Molise per chiedere (e ottenere) incarichi e consulenze per imprenditori vicini. Tutti finisce - è bene chiarirlo - con il proscioglimento. Sette anni dopo quei fatti, tutti i reati più gravi saranno demoliti dalla Cassazione che boccerà l'intero impianto accusatorio. Il giorno degli avvisi di garanzia per corruzione -siamo a Napoli nel 2009 - fuori dalla Procura si presenta Di Pietro che riesce in qualche modo a parlare con i magistrati che indagano «nell'assoluto rispetto del segreto istruttorio» chiarisce ai giornalisti che lo incalzano incuriositi. L'ex pm ripetè più volte di augurarsi un'indagine nei confronti del figlio, perché — disse — «sono un ex magistrato e so bene come funzionano le cose».
3. Cancellieri e la telefonata alla compagna di Ligresti. Qui non siamo davanti a una colpa della prole. Ma a preoccupazioni in qualche modo «indirette» dovute al lavoro del figlio. Che scivolano su Anna Maria Cancellieri, titolare dell’Interno nel governo Letta. Piergiorgio, appunto il figlio, lavorava per Salvatore Ligresti, chiamato a salvare la loro assicurazione, Fondiaria Sai. Il marito, Sebastiano «Nuccio» Peluso, farmacista, è sempre stato molto vicino al fratello di don Salvatore, Antonino, ex re delle cliniche. Però è lei, il ministro Cancellieri, a fare la telefonata che poi la imbarazza assai: alle 16.42 del 17 luglio 2013 chiama la compagna dell’amico Salvatore, appena messo in detenzione domiciliare nella sua villa di Milano nell'ambito dell'indagine sul caso Fonsai (anche le figlie Giulia e Jonella vennero ammanettate ) e si mette a disposizione: «Non è giusto, guarda, non è giusto... Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me».
4. Il “Trota”, laurea in Albania a sua insaputa. Renzo Bossi, 26 anni, è il figlio del senatur Umberto, ex leader della Lega. Quando al padre chiedono se Renzo sia destinato a divenire il suo delfino, lui risponde così:«Semmai il trota». Appunto: forte del soprannome indelebile, nel 2010 «il Trota» viene eletto al Consiglio regionale della Lombardia per poi dimettersi, nel 2012, coinvolto nello scandalo per appropriazione indebita di fondi provenienti dal finanziamento pubblico ai partiti. C'è poi la storia della laurea presa in Albania presa un anno dopo il diploma di maturità. Nel maggio 2012, durante un controllo della Guardia di Finanza a Roma nella cassaforte dell'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, viene trovato un diploma di laurea triennale in Gestione Aziendale, conseguito il 29 settembre 2010 presso la Facoltà di Economia dell'università privata Kristal di Tirana, in Albania. Secondo l'amministrazione della facoltà, Bossi si sarebbe iscritto ai corsi in direzione aziendale in lingua albanese a partire dall'anno 2007-2008, prima quindi di aver ottenuto il diploma di maturità. Laurea - tra l'altro comperata con i soldi del partito, è il sospetto - presa a sua insaputa. Tanto che Renzo ebbe a dire: «Mi dissocio completamente da quel diploma universitario. Non sono mai stato in Albania, non parlo l'albanese, non ho mai vantato titoli accademici e non sono mai stato a conoscenza di quel documento datato 2010».
5. Azzoppato Mastella, Prodi cade. Magari non lo si ricorda già più ma il secondo governo Prodi cadde nel 2008 (anche) perché Mastella era convinto di esser vittima di un complotto, dopo le accuse alla moglie e al figlio Pellegrino. Storie di presunte raccomandazioni sannite e una Porsche Cayenne pagata in modi che inizialmente parevano non regolari, «anomali», «senza traccia contabile». E venditore in odore di camorra. Tutto poi archiviato dal gip. L'auto venne pagata regolarmente dando in permuta una vettura usata (BMW X5) di proprietà della famiglia Mastella ed in altra parte sempre con modalità altrettanto lecite.
6. Lupi: “Non me la sono sentita di dire: restituisci il Rolex”. Pressioni, interventi, richieste. Sono decine le telefonate del ministro Maurizio Lupi allegate agli atti dell’inchiesta di Firenze che ha portato in carcere l’alto funzionario Ercole Incalza e l’imprenditore Stefano Perotti. E dimostrano come sia stato proprio l'ex titolare delle Infrastrutture (peraltro non indagato) a chiedere di trovare un lavoro al figlio Luca, da poco laureato in Ingegneria (110 e lode al Politecnico). 1300 euro netti al mese. Ma con cadeau a sorpresa prima dell'assunzione. Sull’ormai famoso Rolex, regalo ricevuto dal figlio di Lupi da Perotti per la laurea, l’ex ministro sostiene: «Se avessero regalato a me l’orologio non lo avrei accettato, non lo avrei accettato neanche dal mio migliore amico. Non me la sono sentita di dire a mio figlio di restituire il Rolex. Forse ho sbagliato. Non so. Ma con Perotti ci conosciamo da una vita».
Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli. Per un figlio, cambiò la politica italiana degli anni Cinquanta. L’undici aprile 1953, giorno della vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, presso Roma, venne rinvenuto il corpo senza vita di una ventunenne ragazza romana, Wilma Montesi, scomparsa due giorni prima. Rapidamente tutto precipita in uno scandalo di proporzioni enormi. Oltre a varia umanità, viene coinvolto Piero Piccioni. Piccioni era un musicista jazz (noto col nome d’arte di Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli, star del cinema, e figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e uno dei più influenti esponenti della Democrazia Cristiana. La Dc, che raccoglie quasi la metà dei voti elettorali, è dilaniata da lotte intestine: è il passaggio di potere che chiuderà l’era degasperiana. Piccioni è uno dei più accreditati eredi. È lui l’uomo che tutti ritengono sarà il prossimo presidente del Consiglio. Non andrà così: lo scandalo Montesi lo travolgerà, benché il figlio non avesse niente a che fare con quella dannata storia. Negli stessi giorni del delitto, era in corso la campagna elettorale per le elezioni politiche e l’opinione pubblica era incendiata sulla legge truffa, voluta a tutti i costi da De Gasperi, consistente nell’assegnazione del 65 percento dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50 percento più uno dei voti validi. Un premio di maggioranza che avrebbe dato alla Dc una sorta di potere assoluto. Si votò a giugno e vuoi anche per lo scandalo, la Dc non ci riuscirà solo per lo 0,8 percento dei voti (la legge verrà abrogata l’anno successivo). Ne trarrà vantaggio Amintore Fanfani, che tutti accrediteranno essere stato la “manina” che ha concentrato un fuoco di fila di accuse contro il giovane Piccioni. Fanfani, nel bene e nel male, plasmerà la politica economica italiana – le nazionalizzazioni, l’impulso all’industria di Stato, gli investimenti nel Mezzogiorno, l’edilizia popolare – di tutti gli anni Cinquanta e oltre. Non sarebbe successo se Attilio Piccioni non avesse fatto un passo indietro, sotto l’onda d’urto delle accuse contro il figlio. Fu, se così si può dire, uno “scambio”: il figlio – che non aveva colpe reali – ne venne fuori, lui perse il potere. E per un figlio fu costretto a dimettersi Carlo Donat-Cattin, potente democristiano piemontese ex-sindacalista – lo chiamavano il “ministro dei lavoratori” – osso duro per i denti della Confindustria. Marco Donat-Cattin era un militante di spicco di Prima linea, una delle organizzazioni armate, e aveva partecipato all’omicidio del giudice Emilio Alessandrini. Quando il generale Dalla Chiesa acchiappa Patrizio Peci delle Brigate rosse e lo fa cantare, quello fa tutti i nomi che gli venivano in mente, fra i quali quello di Donat-Cattin. È il 1980. Dalla Chiesa avvisa Cossiga, Cossiga chiama Donat-Cattin: sta per partire un mandato di cattura e la notizia diventerà pubblica, e in più i verbali di Peci stanno per essere pubblicati, una “manina” li ha allungati al quotidiano «Il Messaggero». Cossiga la racconterà poi così: «Verificai la notizia con il generale Dalla Chiesa. E avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato. E chiesi a Donat-Cattin di dire al figlio di consegnarsi e raccontare tutto quanto sapeva. Scoppiò a piangere. Mi disse che non sapeva dove fosse suo figlio». Il figlio è già lontano, in Francia. Carlo Donat-Cattin è vicesegretario unico della Dc, la solidarietà nazionale col Pci è già finita e lui è l’autore del «preambolo», un cambio di strategia democristiana che esclude qualsiasi accordo di governo coi comunisti. Cossiga ne parla con Berlinguer, che è il capo dei comunisti ma anche suo cugino. Berlinguer vuole la sua testa, poi cambia idea, chiede la testa di Donat-Cattin e Cossiga poteva restare dov’era. Il vero obiettivo di Berlinguer è escludere i socialisti dalla maggioranza. Cossiga non molla Donat-Cattin, che però presenterà le sue dimissioni, ritirandosi dalla vita politica, per il procedimento parlamentare relativo all’accusa, mai provata in alcun procedimento giudiziario, che avesse aiutato la fuga all’estero del figlio. Cossiga, presidente del Consiglio, fu sospettato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, accusa dalla quale venne poi scagionato dalla Commissione inquirente che decise, a maggioranza, l’archiviazione. Marco Donat-Cattin fu arrestato in Francia e estradato in Italia. Per un figlio, il leghismo celodurista si ammosciò. Forse per due, Riccardo e Renzo il Trota, Loro mettono a profitto il successo politico del padre, spendono e spandono, si tolgono capricci, ricevono incarichi, prebende, posti, denari. Non che lui, il padre, ne vada particolarmente fiero, chi meglio di lui ne sa i limiti? Però, proprio per quello, perché sa che nella vita non avranno che affanni meglio dargli una qualche sicurezza, è sangue suo, no? D’altronde, ce ne sono in giro tanti, di cazzoni e miracolati, che è riuscito a far eleggere, a portare in parlamento, a assicurargli stipendio e vitalizio, perché non a quei figli suoi? Meglio farlo alla luce del sole, poi. I leghisti si mandano giù tutto, figurarsi se qualcuno dice una parola. Finché scoppia lo scandalo e per fare fuori il Bossi lo attaccano dove più è debole. Dalla Prima repubblica alla Seconda o alla Terza, segui il figlio se vuoi fottere il padre. Sembra una regola. Che poi gli avranno pure regalato il rolex d’oro da diecimila euro, al figlio del ministro Lupi, ma adesso che è a New York, presso un grosso studio, “an American architectural, urban planning, and engineering firm”, come recita il loro sito, puoi scommetterci che non vedrà l’ora di disfarsene, di andare dal Pawnbroker, l’uomo del banco dei pegni – troppo pacchiano, roba da spacciatori sudamericani, da negri dell’hip hop, da russi arricchiti. Da italiani degli appalti pubblici. Che imbarazzo.
TERREMOTO '80. IRPINIA E BASILICATA: LA RICOSTRUZIONE INFINITA.
Terremoto 1980: la storia requisitoria di Pertini. Il terremoto che il 23 novembre 1980 colpì l’Irpinia e la Basilicata costituì un punto di svolta nell’organizzazione di un sistema di protezione civile in Italia, scrive “L’Ansa”, ripreso dal Quotidiano della Calabria”. Fu la "requisitoria" dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini – che parlò in tv dopo aver verificato di persona, tra le macerie, l’inefficienza dello Stato nell’ organizzazione dei soccorsi – che segnò un’ inversione di tendenza e determinò in pochi mesi l’elaborazione di un sistema di cooperazione tra Stato, Regioni ed enti locali sul quale si fonda oggi la struttura della Protezione Civile nazionale. Questo il testo integrale del discorso che Pertini fece agli italiani, in televisione, a reti unificate, il 27 novembre 1980. "Italiane e italiani, sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo, la disperazione poi dei sopravvissuti vivrà nel mio animo. Sono arrivato in quei paesi subito dopo la notizia che mi è giunta a Roma della catastrofe, sono partito ieri sera. Ebbene, a distanza di 48 ore, non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. È vero, io sono stato avvicinato dagli abitanti delle zone terremotate che mi hanno manifestato la loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia. Non è vero, come ha scritto qualcuno che si sono scagliati contro di me, anzi, io sono stato circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo non conta. Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. E i superstiti presi di rabbia mi dicevano: ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti, liberarli dalle macerie. Io ricordo anche questa scena: una bambina mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre e i suoi fratelli. Una donna disperata e piangente che mi ha detto 'ho perduto mio marito e i miei figli. E i superstiti che lì vagavano fra queste rovine, impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi erano. Ebbene, io allora, in quel momento, mi sono chiesto come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perchè non hanno funzionato? Perchè a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate? Non bastano adesso. Vi è anche questo episodio che devo ricordare, che mette in evidenza la mancanza di aiuti immediati. Cittadini superstiti di un paese dell’Irpinia mi hanno avvicinato e mi hanno detto: 'Vede, i soldati ed i carabinieri che si stanno prodigando in un modo ammirevole e commovente per aiutarci, oggi ci hanno dato la loro razione di viveri perchè noi non abbiamo di che mangiare. Non erano arrivate a quelle popolazioni razioni di viveri. Quindi questi centri di soccorso immediato, se sono stati fatti, ripeto, non hanno funzionato. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato rimosso giustamente dalla sua carica. Adesso non si può pensare soltanto ad inviare tende in quelle zone. Sta piovendo, si avvicina l’inverno, e con l’ inverno il freddo. E quindi è assurdo pensare di ricoverarli, pensare di far passare l’inverno ai superstiti sotto queste tende. Bisogna pensare a ricoverarli in alloggi questi superstiti. E poi bisogna pensare a una casa per loro. Su questo punto io voglio soffermarmi, sia pure brevemente. Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perchè l’ infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui. Quindi, non si ripeta, per carità, quanto è avvenuto nel Belice, perchè sarebbe un affronto non solo alle vittime di questo disastro sismico, ma sarebbe un’offesa che toccherebbe la coscienza di tutti gli italiani, della nazione intera e della mia prima di tutto. Quindi si provveda seriamente, si veda di dare a costoro al più presto, a tutte le famiglie, una casa. Io ho assistito anche a questo spettacolo. Degli emigranti che erano arrivati dalla Germania e dalla Svizzera e con i loro risparmi si erano costruiti una casa, li ho visti piangere dinanzi alle rovine di queste loro case. Ed allora: non vi è bisogno di nuove leggi, la legge esiste. Ecco perchè io ho rinunciato ad inviare, come era mio proposito in un primo momento, un messaggio al parlamento. Si applichi questa legge e si dia vita a questi regolamenti di esecuzione, e si cerchi subito di portare soccorsi ai superstiti e di ricoverarli non in tende ma in alloggi dove possano passare l’inverno e attendere che sia risolta la loro situazione. Perchè un appello voglio rivolgere a voi, italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal mio cuore, di un uomo che ha assistito a tante tragedie, a degli spettacoli, che mai dimenticherà, di dolore e di disperazione in quei paesi. A tutte le italiane e gli italiani: qui non c'entra la politica, qui c'entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perchè, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi".
23 novembre 1980: un terremoto devasta l’Irpinia. Trent’anni di promesse, sprechi e abbandoni, scrive Blitz quotidiano. Il 23 novembre 1980 un terremoto devastante dilaniò l’Irpinia: il bilancio drammatico fu di 2914 morti e 280 mila senza tetto. A distanza di 30 anni, poco o nulla è cambiato in quel lembo di Campania compreso tra le province di Avellino, Benevento e Salerno. Le promesse delle istituzioni non sempre sono state mantenute e tanti di quei terremotati sono ancora costretti a vivere nell’emergenza e nella provvisorietà. Irpinia come L’Aquila, un filo che lega i terremotati “di ieri” a quelli di “oggi”. Un reportage pubblicato dal settimanale Left ha raccontato in quali situazione sono costretti a vivere ancora gli abitanti delle zone colpite dal sisma. La ricostruzione in molti casi è stata solo “parziale”, anche se i soldi pubblici usati non sono stati pochi: “Oltre 60 mila miliardi di vecchie lire, pari a oltre 32 miliardi e 636 milioni di euro. Una ricostruzione ancora in corso – l’ultimo contributo quindicinale da 157 milioni e 500 mila euro è stato stanziato con la Finanziaria 2007″. Costi che furono di gran lunga inferiori ai finanziamenti stanziati per gli aquilani: “Nel primo anno in Irpinia lo Stato spese 7.889 euro per ogni sfollato, contro i 23.718 euro sborsati per ciascun senzatetto abruzzese nello stesso arco di tempo”. Ma il “pozzo senza fondo” degli aiuti diventò spesso per gli amministratori locali un “boccone ghiotto” per speculare: Tra appalti e subappalti, imprevisti geologici e varianti adottate in corso d’opera, i costi delle infrastrutture, e soprattutto della rete viaria, negli anni sono aumentati all’inverosimile. L’esempio più clamoroso è quello della superstrada Fondovalle Sele, costata ben 25 miliardi di lire al chilometro e terminata circa 20 anni dopo il sima. I tempi di realizzazione delle infrastrutture, infatti, sono stati biblici: basti pensare che a fine 2010 un’arteria come la Nerico-Muro Lucano, costata ad oggi più di 300 miliardi di vecchie lire, invece dei 26 previsti, non è ancora stata terminata. «Alcuni tratti sono tutt’ora in fase di progettazione – spiega il sindaco di Muro Lucano (Pz), Gerardo Mariani – e questi ritardi causano una continua lievitazione della spesa». Il danno per il Comune, secondo Mariani, è enorme: «Lo svincolo per Muro Lucano, ad oggi, non esiste e l’isolamento ha escluso il paese da ogni possibile piano di sviluppo: non solo industriale o commerciale, ma anche turistico». Nell’articolo pubblicato su Left è stata fatta una ricognizione della situazione attuale nei singoli paesi devastati dal terremoto.
Romagnano al Monte (Salerno). “Irrimediabilmente danneggiato dal terremoto dell’’80, il paese è stato ricostruito a 2 km di distanza, perdendo i connotati che lo rendevano familiare ai suoi abitanti. Quasi tutto, nel vecchio borgo, è rimasto fermo alle 19.34 di quel 23 novembre, prima che la scossa da 6,9 gradi della scala Richter scuotesse la terra. Attraverso gli squarci che si sono aperti nei muri delle case, si scorgono i segni delle vite interrotte, tra le macerie che hanno sepolto uomini e oggetti. Da qui se ne sono andati tutti, trapiantati nel nuovo paese che non ha né un barbiere né un bar. Tutti tranne la famiglia Catena-Brunner, che abita una villetta appena sotto il borgo. Alcuni li chiamano “i guardiani della città fantasma”, coraggiose vedette che hanno resistito aggrappandosi con le unghie al monte, come la vecchia Romagnano”.
Apice Vecchia (Benevento). “Un abitato fondato ai tempi dell’Antica Roma, con uno splendido castello dell’VIII secolo, su cui le calamità naturali si sono abbattute senza sosta. Reduce dal terremoto del 1930, fu gravemente danneggiato dal sisma del 1962, tanto che i tecnici del ministero dei Lavori Pubblici ne ordinarono l’evacuazione. A dare il colpo di grazia alle casupole in pietra fu però il sisma dell’’80, che obbligò anche gli ultimi “irriducibili” a trasferirsi nella new-town costruita a qualche chilometro di distanza. Da allora poco è cambiato tra questi vicoli rimasti fermi ai primi anni Sessanta. La natura si è presa una rivincita sull’uomo, riappropriandosi degli spazi che il paese le aveva strappato da secoli. Oggi, le piante si insinuano fra le travi divelte dei tetti, occupano le cucine e lambiscono gli oggetti dimenticati tra le macerie. Nel 2005, la provincia di Benevento, il Comune di Apice e l’Università Iuav di Venezia elaborarono un piano per il recupero del paese vecchio che avrebbe dovuto trasformarsi in “una Pompei del ‘900”. Un museo a cielo aperto sulla vita quotidiana nella provincia italiana del dopoguerra, che oggi però non ha ancora visto la luce. «Lo Iuav ha completato le rilevazioni sullo stato di fatto, dalla Provincia è arrivato un finanziamento di 700 mila euro per rilastricare alcune strade e mettere in sicurezza qualche edificio ma poi tutto si è fermato – spiega Pasquale Albanese, assessore ai Lavori Pubblici di Apice – Ora il Comune è in cerca di altri finanziamenti, vogliamo suddividere il centro in lotti e recuperarlo, ma ci vorrà molto tempo»”.
Angri (Salerno). “Restano almeno una cinquantina di famiglie nei prefabbricati fatiscenti di Fondo Caiazzo e di via Taverna del Passo. Una favela dove le storie dei terremotati (o dei loro figli, che hanno “ereditato” le strutture) si intrecciano a quelle dei moltissimi abusivi che hanno occupato i prefabbricati abbandonati, aspettando di ottenere gli alloggi popolari. Alcuni sono stati completati, altri sono in costruzione dagli anni ‘90″. “Nell’attesa si vive nel degrado, un po’ per inerzia un po’ per disperazione, riparati da tetti d’amianto ormai lesionati che, quando tira il vento, spargono le loro polveri ovunque. A ridosso dei prefabbricati, i bambini giocano nella discarica a cielo aperto, dove fino a un paio di anni fa c’era una scuola, tra “monnezza”, pneumatici, materassi, vecchie carcasse di auto e motorini. E amianto. Amianto dappertutto”.
Palomonte (Salerno). “Una quindicina di famiglie che vivono nei prefabbricati di lamiera ai piedi del centro. «Abito qui da 30 anni, ci ho cresciuto i miei due figli – racconta Carmine Perrotta, che in queste settimane sta ultimando la sua nuova abitazione – È stato difficile resistere così a lungo: le strutture dovevano durare solo 10 anni, per sopravvivere abbiamo dovuto rifare i pavimenti e isolarle come possibile, perché d’inverno si gelava e d’estate le lamiere diventavano un forno»”. “Intorno a lui, il paese è cambiato. Se alcuni edifici sono stati recuperati attraverso un lungo restauro conservativo, lo stradone che serpeggia nel vuoto appoggiato su ciclopici piloni di cemento ha sfigurato il profilo della montagna. Raccontando come il sogno di riscatto di queste terre si sia spesso tradotto in piani urbani, infrastrutture e grandi opere sovradimensionate rispetto alle reali esigenze del territorio”.
Bisaccia (Avellino). Il bellissimo borgo di origine medioevale era stato appena sfiorato dal sisma, ma il sindaco Salverino De Vito, che all’epoca era anche Ministro per il Mezzogiorno, riuscì ugualmente a farlo inserire in prima fascia e “regalò” così ai suoi concittadini un paese nuovo, proprio vicino al vecchio. Una new town progettata dall’architetto Aldo Loris Rossi, con una mastodontica chiesa in cemento più simile a un’astronave che a un luogo di culto. «La mia casa non era stata danneggiata, ma mi dissero che siccome quelle vicine potevano essere pericolanti, l’avrebbero demolita comunque – racconta Maria Castelluccio, che gestisce l’unico hotel di Bisaccia “nuova”, dove vive e lavora – Spostandoci qui hanno lasciato morire il centro storico, ma noi non l’abbiamo abbandonato e ci andiamo ogni giorno: gli anziani per la chiesa, i giovani per “lo struscio”. Quei pochi giovani che restano, intendo, perché qua non c’è lavoro e i ragazzi se ne vanno tutti al Nord».
Enzo Tortora usato per coprire la trattativa fra Stato e Camorra, scrive Valter Vecellio su “Il Garantista”. Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a Il Garantista, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora «cinico mercante di morte» e «uomo della notte». Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto. Per via del mio lavoro di giornalista al TG2 mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?». Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta. Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il TG2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino… Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? «Nulla». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? «Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato». Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: «Che non sia un’illusione». Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa.
Terremoto Irpinia, lo spreco è senza fine. Dopo 34 anni, ancora milioni per ricostruire. Il sisma che ha colpito Campania e Basilicata nel 1980 è costato oltre 47 miliardi di euro per la ricostruzione. Ma, nonostante la cifra, molte opere sono ancora incompiute. E il rischio, secondo una nuova denuncia, è che lo sperpero continui ancora a lungo, scrive Clemente Pistilli su “L’espresso”. Un'immagine degli effetti del sisma nel 1980 Se c'è un simbolo degli sprechi d'Italia, è forse il denaro speso per il terremoto dell'Irpinia. Uno scandalo che sembra destinato a non avere fine e che ora viene denunciato dallo stesso commissario governativo per la ricostruzione, quello che il governo Renzi aveva messo alla porta e che poi subito ha dovuto richiamare. Troppi ancora i progetti da ultimare ma, secondo l'ingegnere Filippo D'Ambrosio, responsabilità precise possono essere individuate tutte all'interno degli apparati ministeriali e di uno Stato che finanzia e poi si disinteressa di quanto sta accadendo da 34 anni in Campania e Basilicata. Un dossier pesante, quello consegnato dal commissario alla Presidenza della Camera dei deputati. E tutto ciò nonostante, in base a uno screening compiuto dallo stesso Ufficio studi di Montecitorio nel 2009, già all'epoca risultavano spese per il post sisma fatte dall'Italia non inferiori ai 47,5 miliardi di euro. Era il 23 novembre 1980 quando una scossa del decimo grado della Scala Mercalli causò la morte di 2.914 persone in 103 Comuni campani e lucani, distruggendo o danneggiando 362mila abitazioni. La macchina degli aiuti si mise in moto, ma da allora di denaro ne è stato bruciato tanto e la ricostruzione non è stata ultimata. L'ultima denuncia, in ordine di tempo, arriva appunto dal commissario D'Ambrosio, incaricato nel 2003 dall'allora ministro delle attività produttive Antonio Marzano, attuale presidente del Cnel, di completare infrastrutture iniziate e poi lasciate in stato di abbandono e di definire 64 progetti rimasti in larga parte sulla carta. Erano già passati 23 anni dal sisma e all'ingegnere, un funzionario dello stesso Ministero, vennero affidati un totale di 71 progetti, per un investimento di 4 miliardi e mezzo di lire. Ma la parola fine a quelle opere ancora non è stata messa. Nella relazione presentata alla Camera, aggiornata al 30 settembre scorso, il commissario sostiene che sono in corso, in Basilicata, i lavori per il secondo lotto della Nerico-Muro Lucano, un progetto da 22,7 milioni di euro, e quelli per il terzo lotto, per un valore di 24 milioni, che dovrebbero essere ultimati nel 2016. In Campania invece sono in corso quelli per il primo lotto della Lioni-Grottaminarda, opere da 70 milioni, per le quali l'ultimazione era prevista nel gennaio 2017 e che appare destinata a slittare. In corso poi, sempre in Basilicata, progetti per un'altra parte della Nerico-Muro Lucano, del valore di 8 milioni, per i quali è in corso la progettazione preliminare, per il recupero del viadotto Ficocchia e per quello del viadotto Farenga, oltre che per la frana in località Raccelle. In Campania, infine, in corso la progettazione esecutiva della Lioni-Grottaminarda, per 430 milioni di euro, dove solo il lotto comprensivo della galleria San Filippo, per il commissario, richiederà 5 anni di tempo dalla data di consegna dei lavori. E solo restando ai progetti principali. “Ancora spuntano dagli archivi ministeriali – precisa D'Ambrosio – situazioni sconosciute, contenziosi dimenticati”. Le responsabilità, secondo il commissario, sono piuttosto chiare: “Tale situazione di incertezza non è certamente imputabile ai singoli soggetti, bensì alla nota scarsa efficienza delle strutture amministrative, all'elefantiasi delle procedure, all'inutilità di alcuni passaggi burocratici comunque obbligatori”. D'Ambrosio denuncia l'"assenza di ogni giudizio da parte dell'Amministrazione, peraltro ripetutamente sollecitato, sull'operato dell'ufficio commissariale”. Per non parlare di “comportamenti ostruzionistici” da parte del Provveditorato alle opere pubbliche di Campania e Molise, alla “farraginosità delle procedure nelle strutture ministeriali” e ai “lunghi tempi di risposta da parte dell'Avvocatura generale dello Stato” sulle richieste di pareri legali e assistenza. Durante il governo Monti sono poi stati ridotti i fondi a disposizione dell'ufficio commissariale a 100 mila euro l'anno, ritenuti insufficienti, e tutto nonostante lo stesso ufficio, fino al 2011, abbia fatto risparmiare allo stato oltre un milione, facendo economia. “Evidentemente – sostiene D'Ambrosio – non hanno letto le oltre 60 relazioni redatte dal sottoscritto”. Il tentativo di tornare alla gestione ordinaria, concretizzatosi a marzo con la soppressione dell'ufficio da parte del governo Renzi, salvo ripristinarlo a luglio, avrebbe infine creato altri ritardi, tanto da far rischiare ora il “danno erariale”. D'Ambrosio ha chiesto 44 milioni per andare avanti ed è sicuro che, nel 2016, con la fine del commissariamento la situazione peggiorerà e le opere non saranno complete. Si continuerà così a spendere. Forse inutilmente.
1992. TANGENTOPOLI. L'ERA DI MANI PULITE.
1992, la serie tv di Sky su Tangentopoli. Un affresco dell’Italia di Mani Pulite, scrive Nanni Delbecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo la Magliana e Gomorra, arriva la fiction che affronta per prima questo periodo della storia del nostro Paese. E lo fa bene, come la Rai e meno che mai Mediaset certo non avrebbero potuto fare. Correva l’anno 1992, e in Italia nulla fu più come prima. Si intitola semplicemente 1992 la nuova serie di Sky, dieci puntate coprodotte con La7 e Wildside in onda dal 24 marzo, presentata in anteprima alla Berlinale davanti a una platea che non ha lesinato gli applausi e si è concessa qualche risata alle battute che non sarebbero dispiaciute alla Merkel (“In Italia non si fanno affari senza politica”, “Il libero mercato? Non conviene a nessuno”). Dopo la Roma della banda della Magliana e la Napoli di Gomorra tocca alla Milano di Tangentopoli: per la prima volta una fiction affronta il momento chiave della nostra storia recente mescolando vicende di fantasia ai protagonisti della cronaca, dopo tre anni di lavoro e decine di consulenze (non quella di Antonio Di Pietro, che ha preferito declinare). Si parte dal 19 febbraio, ossia dall’arresto del socialista Mario Chiesa da parte di Di Pietro (Antonio Gerardi), e mentre sullo sfondo si riavvolge il nastro dei mesi di Mani pulite con i suoi protagonisti (il pool dei magistrati milanesi, Giovanni Falcone, il leader referendario Mario Segni, Umberto Bossi e Marco Formentini, fino alla celebre “così fan tutti” pronunciato in Parlamento da Bettino Craxi), si sviluppano le storie di sei personaggi esemplari, tutti impegnati a volgere a proprio vantaggio il terremoto in corso. Il pubblicitario Leonardo Notte (Stefano Accorsi, primo ideatore di 1992) è impegnato a far sì che i soldi facili degli Anni Ottanta proseguano nel decennio successivo; il poliziotto Luca (Domenico Diele) mosso da questioni molto private diventa il braccio destro di Di Pietro, la bella Veronica (Miriam Leone) vuole che l’amante imprenditore l’aiuti a diventare “come Lorella Cuccarini”, l’ex militare Pietro Bosco (Guido Caprino) scoprirà quanto il cinismo possa pagare più del senso del dovere. Nell’affresco corale, alla American Tabloid, l’obiettivo zoomma sui due fenomeni destinati a cambiare l’Italia; la plateale avanzata della Lega Nord e la vellutata incubazione di Forza Italia. Da reduce di guerra, il soldato Bosco si scoprirà prima onorevole folgorato sulla via di Pontida, poi, una volta nella Roma ladrona, machiavellico seguace del Kevin Spacey di House of cards; una doppia metamorfosi capace di evidenziare quanto di grottesco e caricaturale ci fosse allora (e resti tutt’oggi) nel movimento leghista. E come il protagonista della serie è di fatto Accorsi, il suo personaggio rimanda al vero perno politico della narrazione, la gestazione della discesa in campo di Berlusconi nelle stanze della Publitalia di Marcello Dell’Utri (Fabrizio Contri). Una storia narrata per quello che fu, ovvero la trasformazione di un’azienda in partito politico. Nella visione di Dell’Utri, che ai suoi venditori regala von Clausevitz, la politica è la prosecuzione degli affari con altri mezzi e i politici, in fondo, sono la prosecuzione dei detersivi: bisogna persuadere gli elettori esattamente come si persuadono gli inserzionisti, e per questo al genio della pubblicità Accorsi assegna un compito ben preciso: “Dobbiamo salvare la Repubblica delle banane”. Fuori di metafora, Tangentopoli o non Tangentopoli, bisogna salvare il patto scellerato tra affari e politica. In 1992 convivono due piani di lettura; c’è la narrazione orizzontale, tipica delle serie televisive – caratteri complessi spianati su un tempo relativamente breve –, ma c’è anche l’autoritratto di un Paese che pesca nel profondo e nel rimosso, un’analisi dell’inconscio collettivo della seconda Repubblica. Più della regia apertamente mucciniana di Giuseppe Gagliardi (Accorsi ha un debito d’onore con gli Anni Novanta) il punto di forza dell’operazione è una sceneggiatura colta, drammatica eppure brillante, con punte di umorismo rare per la nostra fiction come il siparietto della scuola steineriana dove l’insegnante, una specie di Marianna Madia, mette in guardia Accorsi dalle “costrizioni plantari” e lo invita a togliersi le scarpe prima di entrare in aula. Non è in fondo così singolare che la Tv arrivi prima del cinema a parlarci di Tangentopoli, né che Sky arrivi prima della Rai (a Mediaset, onestamente , non si poteva chiederlo), e nemmeno che 1992 confermi ancora una volta la qualità della fiction Sky; era fatale che il fenomeno Berlusconi venisse una buona volta osservato – peraltro senza trarne giudizi – dall’unico sguardo internazionale possibile, quello del network di Rupert Murdoch. Correva l’anno 1992 e in Italia tutto doveva cambiare, perché tutto rimanesse com’era.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
A SINISTRA: PARTITO DI TASSE E MANETTE.
Partito di tasse e di manette. L'accanimento contro Berlusconi ecco dove e come ricorda quanto avvenuto con Bettino Craxi, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Ha ragione Paolo Guzzanti su «Il Giornale». Gli insulti a Silvio Berlusconi, che viene messo ancora una volta al bando solo per aver detto una frase forte, paradossale, ma che rende efficacemente l’idea della persecuzione alla quale è sottoposto lui e la sua famiglia, hanno radici nel lontano 1976. Dalle ingiurie del Pci e della sinistra estrema contro Bettino Craxi. Perché reo di aver portato al potere la sinistra anticomunista e di aver dominato un decennio di politica italiana, negli anni ’80, facendo ballare la Dc e il Pci, pur con il suo magro 12 per cento. Ma, come dice Gianni De Michelis nel libro «Il crollo del Psi» (Marsilio editore): «Bettino era dotato di una intelligenza politica laser, che travolgeva e stupiva ogni volta anche i più stretti e fedeli collaboratori (lo stesso ex potente e autorevole ministro degli Esteri compreso ndr)». Denunciò Stefania Craxi a chi scrive poche ore dopo la morte del padre tra le sue braccia (Hammamet, cinque della sera del 19 gennaio 2000): «Papà è stato ammazzato da un odio devastante». Disse suo fratello Bobo, tra le lacrime che scorrevano come una fontana, il giorno dopo nella Chiesa cristiana di Tunisi: «Caro papà, caro Monsieur le President, come tutti qui ti chiamavano, in segno di rispetto, tu te ne vai, vittima di una campagna d’odio senza precedenti!». Peccato, Bobo, poi prese altra strada, accompagnandosi con quella sinistra i cui esponenti suo padre, negli ultimi giorni di calvario all’Hopital Militare di Tunisi definì lucidamente: «I miei assassini». Chi scrive, da ex inviata speciale dell’«Unità», inviata speciale, in quei mesi tra il finire del 1999 e il 2000, in Tunisia per seguire il «Caso C», lo sa per certo. Il mio allora direttore (ultimo direttore in quel giornale dove non lavoro più dal 2000) Peppino Caldarola, uomo di sinistra ma intelligente, di vaste letture, dalemiano ma capace anche di riattaccare la cornetta del telefono al medesimo Massimo D’Alema, allora premier, su mia sollecitazione e soprattutto dietro mie informazioni esclusive sul grave stato di salute dello statista socialista, mi diede il via per un’intervista a Craxi. Rompendo un tabù, anzi abbattendo in quel giornale il muro di Bettino. Inviai le domande concordate con Caldarola, dove ad un certo punto mettemmo la parola «tecnicamente latitante» per i Pm (era l’unica forma di mediazione per far passare quell’intervista e non esere cacciati il giorno dopo). Craxi lesse, si rigirò sul suo letto d’ospedale e davanti a Bobo e al direttore di «Critica sociale» ( la rivista fondata da Turati) Stefano Carluccio urlò: «Io non dò interviste al giornale dei miei assassini, anche se lei (la sottoscritta) è una brava e coraggiosa donna». Aggiunse Stefania: «E Caldarola è una persona intellettualmente onesta». L’intervista non ci fu. Nonostante arditamente «Peppino» e la sottoscritta inviarono domande, dalle quali scomparì la parola «latitante». Ma ci fu un editoriale di «Peppino» che coraggiosamente diceva: fate tornare in Italia quell’uomo per essere curato e senza essere piantonato». D’Alema fu informato a Palazzo Chigi da «Peppino» a editoriale fatto, ma non ancora pubblicato. E dette il là con un sostanziale silenzio. Da Botteghe Oscure l’allora leader dei Ds, Walter Veltroni, non approvò. Ma non licenziò, forse per miracolo, Caldarola e la sottoscritta. Pochi mesi dopo, «L’Unità» venne chiusa, perché certamente gravata da ingenti debiti. Ma è un fatto che Caldarola non rientrò più come la sottoscritta e per nostra esclusiva volontà. Ognuno ovviamente per ragioni diverse e non solo per il caso Craxi, ma accomunati dal no al tunnel giustizialista. Questo forse fu l’ultimo piccolo tentativo (fatto più da due giornalisti che da D’Alema) di una sinistra riformista, antigiustizialista, di uscire dal tunnell nel quale si è cacciata con il fallimento del Pd, Matteo Renzi o non Matteo Renzi. Forse questo fu l’ultimo piccolo concreto tentativo di salvare la sinistra dal cancro dell’odio nei confronti dei suoi avversari. Quello per «Bettino» fu tale che il portavoce di Enrico Berlinguer, Antonio Tatò lo definì: «Un bandito, un avventuriero». L’epiteto più gentile quando Craxi era premier fu «il ciccione, il ladro, il cinghialone». Ci fu poi «il foruncolone», di cui secondo Antonio Di Pietro Craxi era malato (sic!). Era talmente un «foruncolone» che gli tagliarono, a causa del diabete, in una clinica tunisina alcune dita dei piedi. Il suo calvario non solo lo ha portato alla tomba del cimitero cristiano di Hammamet, ma ha messo a serio repentaglio l’Italia. Craxi in Tunisia era protettissimo dalla polizia di Ben Alì. E per muoversi ogni volta doveva viaggiare accompagnato da una sorta di discreto corteo di auto. Mi sono sempre chiesta: se un commando di un’altra nazionalità un bel giorno lo avesse rapito, allora sì che l’Italia sarebbe stata messa a rischio, essendo stato Craxi negli anni a Palazzo Chigi depositario di tutti i rapporti dei nostri servizi segreti. Doveva andare a S. Vittore? Aveva 59 anni quando scattò la campagna d’odio per via giudiziaria contro di lui. E in quegli anni in carcere ci si suicidava sotto i colpi di «Mani pulite». Prima di andare a Hammamet, Craxi passò per Parigi, dove, ricordò, «mi si aprì una ferita che mi spaccò il piede». Aveva un carico di condanne di oltre 20 anni. Ci sarebbe ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che toccò a lui, proprio allo statista che l’Italia la fece entrare nel G7. E c’è purtroppo ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che sta toccando al tre volte tre presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Vittima anche lui di una campagna d’odio senza precedenti. E senza che il Colle anche questa volta intervenga a difesa, neppure dalle ingiurie, di un leader che ha rappresentato l’Italia nel mondo, ha presieduto un G7 e un G8. Comparse una volta un manifesto del Pd che lo sfotteva per i capelli ripiantati. La nuca era ben messa in evidenza. Immagine inquietante. «Ma il Pd ormai è il Ptt». Cioè? Spiega un parlamentare che di centrodestra non è e Berlusconi non lo ha mai votato: «Partito di tasse e di manette».
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
2002. IL TERREMOTO IN MOLISE.
25 giugno 2002. Il terremoto del Molise. Crollò la scuola: 27 bambini e la maestra morti. Quella che vedo oggi non è più la cittadina di un tempo ma un ciclopico esperimento urbanistico, fatto con inaudito sperpero di denaro pubblico, scrive Barbara Spinelli su “La Repubblica”. Siamo abituati a parlare degli anni berlusconiani come di un’epoca di torbidi: torbidi nei palazzi di potere, nei rapporti tra esecutivo e magistratura, nei partiti che avrebbero potuto, se lo avessero voluto, fermare la degradazione della politica, il discredito terribile che oggi l’affligge. Siamo meno abituati a considerare le cicatrici che questi anni hanno lasciato sul corpo fisico dell’Italia, sul suo paesaggio, sull’idea che gli italiani si fanno delle proprie città, sul modo in cui le abitano. Sono sfregi profondi (si aggiungono a più antichi sfregi: il sacco di Palermo negli anni ’50-’70 fu l’acme) e in ampie zone d’Italia sono indelebili: ci hanno cambiato antropologicamente, nessun’alternanza riuscirà a eliminarli. Parlo delle ferite non rimarginate all’Aquila, città che ho visto rinserrata nei ponteggi, dopo oltre tre anni, come un prigioniero impietrito di Michelangelo. Parlo di San Giuliano di Puglia, dove sono andata per capire e vedere com’è iniziato questo strazio cui dovremo ormai dare il nome che merita: urbanicidio, rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate, riducendo in polvere la parola stessa che usiamo associare alla polis: il vivere urbano che incivilisce l’uomo, che lo rende conviviale, aperto al diverso. È stato Antonello Caporale a consigliarmi questo viaggio (“Vai lì, è lì che tutto è cominciato”) ed è lui a guidarmi nel borgo che Berlusconi ha rifatto, truccato, storto, e usato. Tutti ricordiamo il giorno in cui la terra a San Giuliano tremò. Era il 31 ottobre 2002, e alle 11.32 crollò la scuola: schiacciati dalle macerie, 27 bambini della prima elementare morirono con la loro maestra, Carmela Ciniglio. Ricordiamo l’orrore, poi la sera i fari e le telecamere che s’accesero per filmare l’arrivo del Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Non aveva telefonato a nessuno prima, neanche al sindaco Antonio Borrelli che nel sisma aveva perso la figlia. Aveva bisogno di telecamere e fu davanti a esse che promise la redenzione se non la resurrezione, da vero Re Guaritore. Ripetutamente usò l’avverbio prediletto: assolutamente. Assolutamente sarebbe sorta “una nuova San Giuliano”. Assolutamente avrebbe “realizzato un quartiere pieno di verde, con la separazione completa delle automobili dai percorsi per i pedoni e le biciclette”. Entro 24 mesi, assolutamente, gli abitanti avrebbero ricevuto “nuovi appartamenti funzionali, innovativi, costruiti secondo le nuove tecniche della domotica, in un ambiente verde”. Fu uno sgargiante teatro della morte, il filmato che Porta a Porta trasmise quella sera sul Premier in missione. Volti segnati dal dolore, occhi scintillanti, parole che promettevano miracoli in tempi perentoriamente dati per certi. E che visione alla grande! Una scuola già pericolante, mai collaudata dopo una ristrutturazione criminosa, era stata distrutta, le altre case avevano crepe ma erano intatte, e nonostante ciò un intero paese andava rifatto ex novo, come la mappa immaginaria di Borges che è così esaustiva da coprire per intero l’universo del reale, fino a sostituirlo e renderlo del tutto inutile, ininfluente. È la superfetazione dei terremoti denunciata da Antonello Caporale: letteralmente, l’affastellarsi di aggiunte ricostruttive decise in un secondo tempo, e superflue. Un pleonasmo. Conta la mappa, non la realtà con le persone che contiene. Nella sceneggiatura cominciarono a proliferare, accanto all’avverbio assolutamente, i diminutivi che nel 2009 all’Aquila avrebbero impregnato la neolingua delle disgrazie italiane: le casette, gli angioletti, i praticelli, e via vezzeggiando, trasformando la messa in scena del dolore in kitsch. La San Giuliano che ho visto non è la cittadina d’un tempo. È divenuta l’occasione di un ciclopico esperimento urbanistico, e un inaudito spreco di denaro pubblico che ancor oggi paghiamo. È stata invenzione di bruttura, disumanizzazione di una città, spudorata circolazione di denaro dello Stato a vantaggio di una cricca chiusa: le tre cose vanno insieme. Un paese minuscolo, di circa 1.000 abitanti, è stato metamorfosato in una sorta di metropoli: con fontane monumentali, con un parco della memoria che imita il memoriale dell’olocausto a Berlino, una scuola mastodontica che potrebbe ospitare migliaia di bambini e invece ne accoglie non più di 98. All’elenco si aggiungono altre assurdità: una piscina olimpionica (il paese è essenzialmente abitato da anziani), un Palazzo dello Sport, una strada di 700 metri attorno alla città costata 5 milioni di euro, un auditorium, un mega edificio per la succursale dell’università del Molise, un centro polifunzionale necessario all’accademia. L’università è accostata alla nuova scuola: la targa all’ingresso pomposamente certifica la destinazione dell’edificio, ma l’università qui non è venuta mai. Chi c’è qua dentro? Un call center. I quartieri, gli appartamenti ipermoderni, le grandi opere annunciati da Berlusconi sono tutti monumentali, tutti sconfinatamente sovradimensionati. Tutti pensati non per gli abitanti che hanno ricevuto quest’inattesa e misteriosa manna, ma per magnificare il taumaturgo, per far scena, come facevano scena Nerone o Pietro il Grande. Il vice del Re Guaritore è Guido Bertolaso, l’angiolone della Protezione civile. Ed ecco come si presenta la Nuova Gerusalemme molisana: nella città bassa la piazza 31 ottobre 2002, teatrale e fredda, le case disegnate e colorate con le sue forme bizzarre, che nulla hanno a vedere con il vecchio paese. La piazza è quasi sempre vuota, mi dicono in città: è dissuasiva. Ci sono scalinate in pietre pregiate, strisce pedonali non dipinte ma di marmo, e a ridosso della piazza una strada inutile, addirittura in porfido. Il visitatore, se non è guidato, difficilmente si raccapezzerà. Avrà l’impressione di una manna grandiosa ma misteriosa, appunto. Nessun mistero invece, come Caporale spiega perfettamente (Terremoti Spa, Rizzoli 2010, in particolare il capitolo su “teoria e pratica del terremoto infinito”). Sin da principio la strategia fu chiara, ineluttabile: perché il cataclisma possa essere convertito in occasione, occorre che il fabbisogno di soldi e di ricostruzione diventi infinito, che il numero di terremotati incongruamente lieviti, che i comuni sfasciati si moltiplichino ad libitum. L’area sismica andava estesa: perché più largo il cratere, più si spende, si specula e si scrocca. Michele Mignogna, condirettore del giornale Il Ponte online, mi ricorda i nomi della cricca che confezionò in vitro il modello emergenziale, ingrossando le spese e lucrando. In primis Claudio Rinaldi (nel frattempo indagato per abuso d’ufficio e corruzione: uomo di Bertolaso, amico di Balducci e Anemone. Bertolaso stesso. Michele Iorio, Presidente della Regione e Commissario alla ricostruzione (nel frattempo condannato in primo grado per abuso di ufficio, indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, concorso formale per reato reiterato, e per aver “esteso abusivamente l’area del cratere non avendone la competenza né la legittimazione”). È il paradigma dell’Italia che viviamo. I governi colpevolizzano gli italiani che vivono al di sopra dei loro mezzi, ma sbagliano bersaglio quando impudentemente pontificano. Sono loro che pur di sceneggiare e lucrare ci hanno fatto vivere sopra i nostri mezzi. È così quasi ovunque: in Campania dal terremoto dell’80, in Molise, in Abruzzo. Nel suo bel libro su camorra e immondezza campana, Tommaso Sodano racconta molto bene come malaffare politico e malavita, in combutta, abbiano fatto dell’Italia uno dei più corrotti, indebitati paesi del mondo. Non c’è calamità naturale, non c’è dramma dei rifiuti, che non diventi banchetto, robba da divorare, terra da stuprare, morte oscenamente trasfigurata in opportunità da presunti Uomini Nuovi. Le parole d’ordine dell’homo novus – scrive Sodano – sono “passato, disastro, cambiamento, novità, futuro”. Altro non fu il terremoto in Irpinia: “appalti agli amici e spreco di denaro pubblico”. (Tommaso Sodano, La Peste, Rizzoli 2010). Abbiamo visto come i diminutivi siano il marchio dell’homo novus. A chi visitasse San Giuliano consiglio uno sguardo sulla Fonte degli Angeli, in vetro di Murano e ceramica, ideata da Sabino Ventura e dalla giapponese Yumiko Tachimi. È installata nel patio nella nuova scuola “Angeli di San Giuliano”: ventisette obesi putti bianchi, ventri e sederi ridondanti, che ridono ebeti sotto gli spruzzi d’acqua. Chiara D’Amico, un’amica che viene dal vicino comune di Jelsi, mi guarda smarrita. Dice che non riesce a guardare, le si rivolta lo stomaco. I putti ricordano il Pegaso fatato Papo, che piace ai bambini in età d’asilo. A questo serve la struttura emergenziale. Nell’emergenza tutto è permesso, le leggi e normali gare vengono aggirate, il cittadino sgrana gli occhi, infantilizzato. Si formano piccole cerchie: sono gli invitati al banchetto. E quando finisce la fase dell’emergenza se ne apre un’altra subdolamente affine: la fase della “criticità” (Monti ha finito col chiuderla). Mi dice Michele Petraroia, ex segretario della Cgil, vicino all’associazione Libera di Don Ciotti, oggi consigliere regionale del Molise: “San Giuliano servì da cavia per il modello Berlusconi-Bertolaso. Un meccanismo preciso: il Commissario per la ricostruzione diveniva Presidente della Regione, la Protezione civile prendeva ogni potere esautorando gli amministratori locali, Palazzo Chigi accentrava le operazioni garantendo risorse. Il mezzo erano le ordinanze della Presidenza del consiglio, che fissavano i criteri di ricostruzione e la ripresa economica della zona, e grazie alle quali venivano eluse leggi e gare d’appalto. Solo grazie all’ultimo governo Prodi divenne obbligatoria la cosiddetta rendicontazione. Il piano è costato in dieci anni 1 miliardo di euro: un torrente spropositato rovesciato su zone che spesso non ne avevano alcun bisogno”. I comuni terremotati erano 25-30 (secondo altre stime 18). Divennero 84. Il risultato? “Una ricostruzione fermatasi al 35 per cento, le scuole non messe in sicurezza, il calo demografico, le imprese chiuse, lo spopolamento di San Giuliano”. Si parla poco degli architetti, che si sono prestati alla creazione delle città-cavia. Si parla poco dell’offesa, dell’umiliazione che il brutto secerne, soprattutto in un paese come l’Italia. L’urbanicidio è fatto anche di questo, e un giorno gli architetti dovranno ripensare la loro responsabilità. Tra le persone straordinarie che ho incontrato nel Molise, vorrei ricordarne una in particolare: è Don Antonio Di Lalla, parroco di Bonefro e delle annesse, fatiscenti casette provvisorie che ancora ospitano 10 famiglie di sfollati. Dirige un giornale indispensabile per chi voglia conoscere l’Italia che si oppone agli scempi: La Fonte – Periodico dei terremotati o di resistenza umana. Dice Don Antonio: “La domanda che dobbiamo porci è: che fine ha fatto tutto il danaro messo a disposizione? Il fatto è che si preferisce il superfluo – mentre parla penso alla domotica, alle strade in porfido, alla scuola abnorme di San Giuliano – ma si lascia incompiuto l’essenziale, in modo tale che si eterni questo clima di dipendenza nei confronti di chi distribuisce risorse. Ci sono stati sprechi enormi, ma i soldi sono stati dati per opere morte; opere fatte e chiuse (come l’università fantasma). Non per opere dove l’uomo ricominci il lavoro e la vita cittadina normale”.
6 APRILE 2009. IL TERREMOTO DELL'AQUILA E LA RICOSTRUZIONE.
"Terremoto, svelate le trame che hanno ricostruito l’Abruzzo", scrive Alessio Postiglione con un articolo pubblicato per Terra. Una verifica sulle società che hanno partecipato al progetto Case restituisce dati inquietanti. Legami con criminalità e politica. Negli appalti, in Abruzzo, qualcosa potrebbe essere andata storta. Per ora, l’attenzione della magistratura si è concentrata sul G8. Ma sono gli stessi appalti delle ricostruzione a meritare qualche considerazione in merito ai soggetti coinvolti: ci imbattiamo, infatti, in complicati intrecci, conflitti d’interesse, rapporti con ditte discutibili, imprenditori e dirigenti con disavventure giudiziarie. Ad incuriosirci particolarmente è il progetto C.a.s.e, Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili; 184 edifici, circa 4.600 appartamenti, capaci di resistere a nuovi sismi, immersi nel verde. Un progetto per una spesa totale di circa 710 milioni di euro. Secondo l’Ara, l’associazione per la ricostruzione dell’Aquila, troppi soldi spesi male. Il costo al metro quadro del progetto è pari a 2.850 euro, contro un costo di costruzione medio di un palazzo a norma antisismica pari a €.1.100,00/1.300,00 mq. Ma chi ha ricostruito L’Aquila? Sono 16 le ditte o consorzi che si sono aggiudicate l’appalto per la realizzazione dei 150 edifici del progetto C.a.s.e. Si tratta solo di un primo livello di indagine perché le norme emergenziali varate dopo il sisma hanno dato la facoltà alle imprese capofila di convocare le ditte subappaltanti senza bando; le nuove norme, inoltre, hanno anche derogato alla legge 163 del 2006 del codice dei contratti pubblici, prevedendo che si potessero affidare in subappalto lavori fino al 50% della commessa. Tra le aziende vincitrici, la ditta che si è aggiudicata il maggior numero di lotti (5), fa capo all’Associazione temporanea d’imprese Maltauro/Taddei. Proprio la Taddei, abruzzese, ha subappaltato alcuni lavori di ricostruzione all’Impresa Generale Costruzioni srl di Gela, già oggetto di 4 segnalazioni della Direzione Investigativa Antimafia che la individuavano come referente del clan mafioso dei Rinzivillo di Gela. Anche nel passato della vicentina Maltauro compaiono macchie legate all’aver operato in territori piagati dalla mafia edile: fu indagata per presunte tangenti a politici e funzionari per l’aggiudicazione della gara d’appalto per la realizzazione, alla fine degli anni ’80, del 1° e 3° lotto dei capannoni della zona artigianale di Villafranca, Messina. Enrico e Giuseppe Maltauro furono anche sotto inchiesta per le tangenti all’ex ministro socialista De Michelis per i lavori del raccordo autostradale con l’aeroporto Marco Polo di Venezia e per l’ampliamento della terza corsia della Venezia-Padova. Giuseppe Maltauro, nel “Veneto bianco”, era uomo vicino al presidente del Consiglio Mariano Rumor e alle gerarchie ecclesiastiche. La Maltauro, una volta chiusa la stagione di Mani Pulite, è diventata una degli attori di maggiore peso, in Italia, soprattutto nelle commesse militari: ha già lavorato a Sigonella, La Maddalena ed Aviano. Grazie all’ottimo rapporto Berlusconi-Gheddafi, ha anche recentemente sottoscritto una joint-venture con la compagnia aeronautica di Stato libica, Finmeccanica e AgustaWestland, oltre ad aver vinto un bando per la realizzazione ad Abou-Aisha, nelle vicinanze dell’aeroporto di Tripoli, di un centro-assemblaggio per gli elicotteri da guerra A109 Power. Un’altra ditta vincitrice di Case è la Raffaello Pellegrini Costruzioni, diretta, fra l’altro, dal presidente dell’associazione costruttori di Sardegna Maurizio De Pascale. Nelle oltre ventimila pagine di atti giudiziari relativi al caso “Protezione Civile”, inoltre, emerge che la Pellegrini era la subappaltata della Consortile Arsenale, riconducibile ad Anemone; mentre Guido Bertolaso, Mauro Della Giovampaola, il funzionario agli arresti accusato di aver favorito Anemone, e Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso, telefonavano con utenze intestate alla ditta diretta da De Pascale. La Pellegrini, negli anni scorsi, è stata anche coinvolta anche nella inchiesta sugli abusi edilizi relativi al Biochimico di Cagliari. Un’altra ditta vincitrice è la Angelo Antonio Costruzioni Generali srl., di Montefalcione, in Irpinia; Angelo Antonio è fratello di Giancarlo D’Agostino, proprietario della più grande Idrostrade Ingegneria. Giancarlo è stato più volte denunciato per reati come associazione a delinquere, truffa, falso in bilancio e bancarotta fraudolenta. Il suo nome emerge anche nell’ordinanza prefettizia relativa allo scioglimento del Comune di Fondi. La Idrostrade, secondo il magistrato, sarebbe “pertinente ad indagini” relative a reati come “associazione di tipo mafioso, omicidio, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, corruzione per atto contrario a doveri d’ufficio, violenza privata”. Un’altra ditta vincitrice di Case è la Sled che fa capo a Wolf Chitis, già in manette negli anni 90, dopo una breve latitanza, per gli appalti truccati della metropolitana di Napoli. Troviamo la ditta che fa capo agli abruzzesi fratelli Frezza, Armido e Walter. La loro impresa, fra l’altro, aveva firmato proprio i lavori dell’ospedale di San Salvatore, miseramente crollato durante il sisma. L’azienda è stata anche accusata, ingiuriosamente secondo i suoi legali, di aver costruito un garage, sotto al numero civico 79 di via venti Settembre, che sarebbe la causa del crollo del palazzo stesso, in occasione del terremoto. La CoGe Spa di Parma, insieme al Consorzio Esi, ha vinto un lotto per 2.095.720 euro. Nella CoGe, presieduta oggi come allora da Lino Mion, nel 1988, entrò, con una quota del 50%, Silvio Berlusconi. L’attuale premier, in seguito, si defilò; nella CoGe, tuttavia, sono passati sicuramente il fratello Paolo Berlusconi e, forse, il fratello del generale Mario Mori. Secondo una relazione della Dia del 1999, infatti, era il fratello dell’ex capo del Ros, attualmente sotto processo per la mancata cattura di Provenzano, quel tale Giorgio Mori presente nella proprietà della CoGe; ma un errore materiale nel documento della Dia rende ancora oggi oggetto di disputa questa attribuzione. Anche alla Donati-Tirrena-Dema sono stati affidati lavori per oltre due milioni di euro. Maurizio Donati, della Dema Costruzioni), ed Enrico Donati, della Tirrena Srl, sono finiti, l’anno scorso, sul registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta avviata dalla Procura di Larino sul progetto Silcra, relativo alle costruzioni post terremoto in Molise. Sempre affari, sempre terremoti. Maledettissimi ma profittevoli terremoti.
Terremoto, la santa truffa. Questo è il titolo dell’inchiesta di Giuseppe Caporale su “La Repubblica.” Due arresti nel capoluogo abruzzese. La fondazione "Solidarietà e sviluppo" aveva cercato di ottenere una dozzina di milioni dai fondi gestiti dal sottosegretario Giovanardi. Il sindaco Cialente che nel luglio del 2010 aveva lanciato l'allarme: "Avevo ragione io". L'imbarazzo del vescovato. Nelle tasche della Curia i soldi della ricostruzione. Così il vescovo D'Ercole raccomandava i progetti della Onlus "Solidarietà e sviluppo" che avrebbe truffato 12 milioni destinati al dopo sisma dal sottosegretario Giovanardi. Il gip chiede due arresti e scrive: occorrono altre indagini sul ruolo dei vescovi in questa storia. Il vescovo ausiliare dell'Aquila Giovanni D'Ercole si raccomandava al sottosegretario Carlo Giovanardi per ottenere i fondi del terremoto. Anzi, per farli ottenere ad una onlus ("Solidarietà e Sviluppo") fondata dalla stessa diocesi dell'Aquila, dietro la quale, secondo la Procura si nascondeva una truffa. Una truffa per sottrarre 12 milioni di euro dal bancomat miliardario della ricostruzione dell'Aquila. Una truffa per la quale ieri sono state arrestate due persone (tra cui il segretario generale della Onlus, Fabrizio Traversi nominato proprio dai vertici della diocesi) e indagate altre tre (compreso il sindaco di San Demetrio dei Vestini, Silvano Cappellini). L'obiettivo era quello di ottenere i "fondi Giovanardi", quelli che il sottosegretario era riuscito ad accantonare nel "decreto Abruzzo" per la ricostruzione. Fondi destinati a progetti "per la famiglia e per il sociale" sui quali ci fu uno scontro con il Comune dell'Aquila. Il sindaco Massimo Cialente riteneva che dovessero essere destinati in parte (circa tre) per ristrutturare un centro anziani (al quale, poi, vennero effettivamente assegnati) e a un'altra ristrutturazione (per nove milioni) di un complesso nel centro storico. Su questa fetta, invece, si erano accentrate le mire della fondazione di origine curiale "Solidarietà e Sviluppo" i cui progetti, però, risultarono non conformi alla normativa. Cialente lo disse pubblicamente e attaccò anche Giovanardi quando, nel luglio del 2010, sembrava che la onlus stesse riuscendo nei suoi intenti truffaldini. Proprio dalle affermazioni del sindaco è partita l'inchiesta. Giovanardi risulta coinvolto in quanto i progetti della Onlus facevano riferimento al suo dipartimento della famiglia. Lo stesso senatore si lamentava pubblicamente del fatto che questi soldi che non venivano spesi. E il secondo arrestato, Gianfranco Cavaliere, è proprio un politico legato a Giovanardi. E così, dalle intercettazioni si scopre che mentre pubblicamente Giovanardi si lamentava dei ritardi della ricostruzione e dell'assegnazione dei fondi, al telefono invece si dava da fare per farli ottenere alla onlus della Curia. Come si evince da una intercettazione tra lo stesso vescovo D'Ercole e Giovanardi. " Volevo soltanto dirti questo: siccome è ovvio che con questo nostro progetto probabilmente daremo fastidio a qualcuno, faranno un po' di questioni. Mi raccomando: tieni la barra ferma..." chiede D'Ercole. "Ma ti immagini! Ma io ho solo bisogno che voi... cioè, che chi mi può dare il disco verde che è il commissario di governo mi dica "spendi" e io vengo lì con i soldi cash..." risponde Giovanardi. E D'Ercole "Noi.. noi in settimana ti diamo tutti i progetti nostri, pronti". Giovanardi: "e certo.. bravo.. altro che carriole o non carriole.. scusami, altro che popolo delle carriole. Ce l'ho qua i soldi... che alla fine... veramente una cosa incredibile. Comunque, io aspetto ancora un po', poi risollecito il commissario, se magari tramite Cavaliere (uno degli arrestati, ndr) che è qua e poi dico "amico, io ho polemizzato con il sindaco, ma a me non mi fa mica (..) lo schieramento politico, eh! Se devo polemizzare con uno del Pdl ci penso due secondi, ma proprio non me ne può fregare di meno". Da notare che proprio D'Ercole si farà fotografare con il popolo della carriole all'interno del centro storico, mentre con la pala cerca di rimuovere le macerie. E Giovanardi a nome del dipartimento alla famiglia, nello stesso periodo, firmava anche una lettera di "congruità" per i progetti della Fondazione. Sollecitava poi anche il presidente della Provincia Antonio Del Corvo, affinché intervenisse. Ma l'appoggio del sottosegretario non era sufficiente, occorreva quello del commissario alla ricostruzione Gianni Chiodi - che seppure del Pdl - alla fine non appoggerà mai l'iniziativa. E la truffa così non andrà in porto. Eppure, i due arrestati avevano tentato in tutti i modi di raggiungere il loro obiettivo. Cavaliere al telefono parlava anche di come utilizzare i fondi del terremoto per la politica: "perché l'associazione Democratici Cristiani è un'associazione per gestire i 5 milioni di euro, parte dei 5 milioni di euro che Carlo (Giovanardi, ndr) c'ha sulla Fondazione". Scrive il giudice per le indagini preliminari Marco Billi nell'ordinanza di custodia cautelare: "il senatore Giovanardi, da quanto risulta al momento, è stato sostanzialmente "utilizzato" dagli indagati, i quali hanno saputo fare leva sulla evidente volontà dello stesso di utilizzare i fondi, strumentalizzandone gli interventi di carattere politico nel tentativo di convogliare tutti o parte dei fondi sulla loro fondazione. Si è visto come al sottosegretario venissero fornite informazioni sull'evolversi della vicenda sapientemente filtrate e distorte, per spronarlo ad assumere atteggiamenti utili per il conseguimento dell'illecito fine prefissato. Si può in proposito ritenere che proprio lo stretto collegamento di Cavaliere con Giovanardi (dovuto alla medesima matrice politica di riferimento) abbia fornito concrete possibilità operative agli indagati". Molto più dure le considerazioni del Gip sul ruolo della Curia e sui due vescovi dell'Aquila: "Si ritiene, in ogni caso, che il ruolo dell'arcidiocesi (ed il particolare dei vescovi Molinari e D'Ercole) debba essere ulteriormente approfondito nell'ulteriore corso delle indagini preliminari, al fine di accertare il livello di consapevolezza che gli stessi hanno avuto degli effettivi propositi degli indagati. Sotto tale profilo, infatti, è da rilevare che tanto l'associazione Aquila Città Territorio quanto la Fondazione hanno la propria sede presso la Curia arcivescovile aquilana, che l'arcivescovo Molinari ha partecipato al la Fondazione fin dall'atto costitutivo e che Molinari e D'Ercole hanno partecipato personalmente all'incontro di Palazzo Chigi del 17.6.10 con il sottosegretario Giovanardi, Chiodi (commissario alla ricostruzione, ndr) De Matteis (vice presidente del consiglio regionale abruzzese, ndr) e Cialente (sindaco dell'Aquila, ndr)". Quindi, seppure allo stato i due vescovi non sono indagati, il Gip sul loro ruolo nella vicenda chiede indagini più approfondite. Laconiche le considerazioni finali sul ruolo della stessa onlus della Curia da parte del giudice: "In nessuna di tali conversazioni si è potuto evidenziare un passaggio, un apprezzamento, una considerazione, una valutazione in ordine al merito dei progetti. I diversi progetti appaiono, infatti, considerati esclusivamente sulla base del relativo referente politico nonché sul grado di priorità che può essere loro riconosciuto in considerazione del possibile tornaconto economico e politico personale degli indagati. Manca, all'evidenza, una seppure generica e formale attenzione alle finalità concrete dei progetti, all'utilità per la popolazione, all'esigenza di creare una ragionata e consapevole scala di priorità delle esigenze, per utilizzare nel migliore modo possibile i fondi in esame. I diversi organi istituzionali coinvolti non sembrano operare in accordo tra loro né risulta esistente una struttura di raccordo tra gli stessi che possa comporre eventuali contrasti ed armonizzare le rispettive esigenze. Al contrario è evidente che tali organi operino in competizione tra loro ed il riferimento alla "guerra", seppure considerata politicamente, non appare troppo lontano dalla realtà". "Quel progetto è la cosa più bella". "Mi raccomando, tieni la barra ferma". Il primo luglio 2010, in occasione della partecipazione del senatore Giovanardi ad un evento a Campobasso, Traversi chiede al Cavaliere di recarsi nel capoluogo molisano per avvicinare il sottosegretario in relazione ai progetti della Fondazione. Il Cavaliere, pertanto, avvicina il sottosegretario e lo mette in contatto, utilizzando il proprio telefono cellulare, con Mons. D'Ercole. Si registra la seguente conversazione:
Senatore Carlo GIOVANARDI : "Come va?"
Monsignor Giovanni D'ERCOLE : "Mah, abbastanza bene.. a L'Aquila, come tu sai, la situazione è sempre più difficile .. più complessa, veramente complicata, diventa anche difficile lavorarci".
Sen Carlo GIOVANARDI: "Io ho avuto ieri una telefonata di Mantini (onorevole del Pd,)"
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "eh.."
Sen Carlo GIOVANARDI: "L'onorevole... e mi ha detto "guarda, benissimo, quel progetto di D'ERCOLE è la cosa.." dice lui, eh io.. quindi.. "più bella che è stata fatta la più intelligente" e dico "bhè, sono contento che tu condivida.."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Si, ma guarda: io voglio dirti solo questo. Noi abbiamo creato questo qui per fare in modo che si faccia qualcosa perché sennò non si fa nulla. Abbiamo messo in rete tutte le strutture possibili tutti i comuni, tutte le associazioni".
Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma dopo l'incontro di Palazzo Chigi, lo avete già fatto quest'incontro tecnico?
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "L'incontro tecnico sono andati a farlo oggi, stamattina. E io parto per l'Africa domani mattina. Volevo soltanto dirti questo: siccome è ovvio che con questo nostro progetto probabilmente daremo fastidio a qualcuno, faranno un po' di questioni. Mi raccomando: tieni la barra ferma".
Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma ti immagini! Ma io ho solo bisogno che voi.. cioè, che chi mi può dare il disco verde che è il commissario di governo mi dica "spendi" e io vengo lì con i soldi cash.."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Il commissario di governo troverà tutti i cavilli".
Sen Carlo GIOVANARDI: "E bhè, ho capito, e se trova tutti i cavilli io che posso fare, cioè..."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Vabbè, ma intanto dovrai dimostrare.."
Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma il commissario o il vice commissario?"
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "No, ma tutti e due a questo punto sono un po' .. sono un pochettino così, perché evidentemente la ragione di fondo è che siccome vedono che quello che dovevano fare loro non lo hanno fatto.."
Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma guarda.."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: ".. e lo fanno altri ..."
Sen Carlo GIOVANARDI: "Guarda, io ti dico: come sono venuto giù sei mesi fa a fare una conferenza stampa, io porto pazienza ancora un pò, poi torno a L'Aquila, chiamo tutti i giornalisti e dico "scusate, sono 13 mesi..."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Esatto.."
Sen Carlo GIOVANARDI: ".. vabbè, 14.. che cerco di spendere 12 milioni in contanti per L'Aquila e mi dovete ancora dire dove li posso spendere".
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Noi.. noi in settimana ti diamo tutti i progetti nostri, pronti".
Sen Carlo GIOVANARDI: "E certo.. bravo.."
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Tutto quanto.. dopo di che.."
Sen Carlo GIOVANARDI: "Altro che carriole o non carriole.. scusami, altro che popolo delle carriole. Ce lo hi qua i soldi .. che alla fine.. veramente una cosa incredibile. Comunque, io aspetto ancora un pò, poi risollecito il commissario, se magari tramite CAVALIERE che è qua e poi dico "amico, io ho polemizzato con il sindaco, ma a me non mi fa mica (..) lo schieramento politico, eh! Se devo polemizzare con uno del PDL ci penso due secondi, ma proprio non me ne può fregare di meno".
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Ecco, io ti dico soltanto questo: noi stiamo lavorando seriamente l'unico obiettivo è quello di fare in modo che tutto il territorio si metta in moto, perché altrimenti non..."
Sen Carlo GIOVANARDI: "E che si facciano le cose soprattutto".
Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Ma noi siamo pronti. Il progetto è operativo, in settimana tu avrai tutti i nostri progetti".
Sen Carlo GIOVANARDI: "Perfetto. Ok".
Si salutano.
«Da tempo, e ad arte, è stata fatta passare l'immagine di un sindaco litigioso, pronto a contestare "benefattori e buone proposte". Ora, fermo restando l'augurio agli indagati di poter dimostrare la loro estraneità ai fatti, credo che il mio "strillare" possa essere giudicato in modo diverso». A parlare è il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente , che ricorda il no del Comune all'ingresso nella Fondazione e che aggiunge di aver chiesto alcuni giorni fa, entrando nello specifico dei fondi Giovanardi, l'accesso agli atti, «perché quell'inspiegabile distribuzione a pioggia dei fondi», dice, «non rende giustizia ai terremotati che chiedono strutture e servizi sociali». Cialente racconta anche della sua convocazione in Procura, come persona informata sui fatti, avvenuta quasi un anno fa. E dell'attenzione dei magistrati nei confronti delle sue "pesanti" dichiarazioni pubbliche rivolte all'indirizzo di Giovanardi che, in più occasioni, aveva accusato il Comune di non aver presentato progetti da poter finanziare con i "suoi" 12 milioni. «La nostra idea era quella di utilizzare i soldi per fronteggiare l'emergenza sociale nei termini indicati dalla normativa» aggiunge Cialente. «Avevamo presentato, oltre ai progetti per i nuovi quartieri, due proposte importanti che riguardavano la ristrutturazione dell'Ex Ipab in centro storico, da trasformare in sede del welfare, e dell'ex Onpi. Sono andato a Roma per promuovere questi interventi, ma Giovanardi ha risposto che c'era il progetto di questa Fondazione nella quale, successivamente, ci è stato chiesto di entrare. Cosa che non abbiamo fatto anche perché il metodo del finanziamento a pioggia era del tutto inaccettabile. Si è voluto accontentare tutti e non fare nulla. E oggi, a distanza di 29 mesi dal terremoto, ciò che pesa è avere ancora tende per l'aggregazione nelle new town. Nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita dei terremotati.
Un'operazione, quella della Fondazione, discutibile. Ma non voglio entrare nel merito dell'inchiesta, di cui si sa poco. Posso solo dire di avere piena fiducia nella magistratura». L'assessore comunale Stefania Pezzopane rincara la dose. «Sui fondi Giovanardi» dice «la nostra richiesta è sempre la stessa. Chiarezza! Lo chiediamo da tempi non sospetti. Il sindaco, subito dopo la pubblicazione della graduatoria dei fondi, ha firmato una richiesta di accesso agli atti.
Abbiamo chiesto al commissario Chiodi di rendere noti i verbali della commissione, di far luce sui criteri in base ai quali sono stati assegnati i punteggi a ciascun Comune. Richieste su cui non è giunta risposta. La vicenda dei fondi Giovanardi "puzzava" sin dall'inizio. Il Comune dell'Aquila presentava progetti seri, ma nessuno andava mai bene. Oggi i cittadini delle new town, che si sono visti negare i progetti, capiscono come vanno le cose! Alla Fondazione Abruzzo solidarietà e sviluppo il Comune non ha mai aderito. Dopo i primi contatti e incontri con i vertici della Fondazione, il Comune decise di non voler essere della partita. Non riuscivamo a comprendere perché ci dovesse essere un organismo che facesse da intermediario, da filtro, tra i Comuni del cratere e i fondi statali. La nostra mancata adesione allora aveva provocato qualche mal di pancia. Sono fioccate critiche da alcuni amministratori e dai vertici della Fondazione. Abbiamo poi appreso della costituzione di cooperative sociali formate ad hoc per gestire le strutture finanziate con i fondi Giovanardi. Alla luce delle ultime vicende e considerato che la Fondazione, attraverso i suoi vertici, in più occasioni ha palesato il suo collegamento con il dicastero di Giovanardi e che lo stesso Fabrizio Traversi come l'attuale presidente della Fondazione, Pierluigi Pollini, si sono rappresentati come collaboratori del sottosegretario, chiediamo a Chiodi un gesto di coraggio: blocchi la graduatoria dei fondi».
Fondazione con prelati, medici e manager. Ecco tutti i nomi di «Abruzzo solidarietà e sviluppo». I sindaci: tregua con L'Aquila. Prelati e ingegneri, medici e manager, architetti e avvocati. Chiesa e mondo delle professioni, c'è di tutto nell'organigramma di «Abruzzo solidarietà e sviluppo». Ecco tutti i nomi della fondazione finita nel mirino della Procura che vuole vederci chiaro sulla destinazione dei fondi per il sociale (12 milioni) stanziati dal sottosegretario alla Famiglia Carlo Giovanardi. Nella battaglia con L'Aquila per il progetto migliore, 11 Comuni firmano la tregua.
LA FONDAZIONE. Coi vescovi Giuseppe Molinari e Giovanni D'Ercole ai vertici, la Chiesa schiera anche don Gino Epicoco, «ministro» della ricostruzione della Curia aquilana e un prelato ciociaro, Alfredo Di Stefano, che collaborò con l'arcidiocesi per l'idea della settimana liturgica. Tra i vicepresidenti della fondazione ci sono Angelo Taffo (Confartigianato) e Maurizio Ortu (presidente dell'Ordine dei medici). Tra i consiglieri ci sono Maurizio Papale (collegio periti industriali) e l'imprenditore Luciano Ardingo del gruppo Spee che si occupa, tra l'altro, di telemedicina e teleassistenza, indicate tra le attività della fondazione. A completare l'elenco degli Ordini ci sono anche Gianlorenzo Conti (Architetti) e Paolo De Santis (Ingegneri). C'è pure il manager Asl Giancarlo Silveri.
CHI C'È. Ecco tutti i nomi. Presidente: monsignor Giuseppe Molinari. Vicario: monsignor Giovanni D'Ercole. Vice: Gianfranco Cavaliere, Angelo Taffo, Maurizio Ortu, Stefania Lazzari Celli, Pierluigi Biondi, Silvano Cappelli. Segretario generale: Fabrizio Traversi. Direttore generale: Angela Maria Crolla. Consiglieri: Augusto Ippoliti, Florindo Zarlenga, Sergio Calizza, don Luigi Maria Epicoco, monsignor Alfredo Di Stefano, Luciano Ardingo, Maurizio Papale. Revisori: Giuseppe Cossari, Giuseppe Giovanni Petrolini, Marcello De Carolis. Garanti: onorevole Vincenzo Scotti, Giovanni Maria Fara, Rocco Colicchio. Collegio scientifico: Francesco Beltrame, Pierluigi Pollini, Vito Albano, Gianfranco Amicucci, Gabriele Anelli, Salvatore Anfuso, Francesco Antonetti, Dario Banaudi, Ezio Bonanni, Francesco Bonino, Diego Bosco, Eugenio Burnengo, Anna Maria Cappa Monti, Palmina Cappussi, Dario Ceccotti, Ernesto Chiacchierini, Gennaro Citro, Danilo Coletti, Gianluigi Condorelli, Gianlorenzo Conti, Giuseppe Cossari, Luigi De Notaris, Paolo De Santis, Marcello Di Certo, Alessandro Di Loreto, Elda Anna Rosa Fainella Verini, Fabrizio Fasani, Anna Maria Giorgi, Claudio Gorelli, Norbert Lantschner, Marco Malavasi, Aldo Mancurti, Luigi Mastrobuoni, Umberto Masucci, Walter Mazzitti, Vittorio Miori, Antonio Morgante, Roberto Museo, Amos Nannini, Maurizio Ortu, Antonello Pandiscia, Cinthia Pinotti, Giancarlo Silveri, Ciro Sindona, Ivano Spallanzani, Urbano Strada, Marco Villani, Francesco Nicola Zavattaro, Sergio Zoppi.
I sindaci di Acciano, Barisciano, Fagnano Alto, Fontecchio, Fossa, Ocre, Poggio Picenze, San Demetrio ne' Vestini, Sant'Eusanio Forconese, Tione degli Abruzzi e Villa Sant'Angelo si sono riuniti per firmare la tregua con Cialente «Troppe polemiche, L'Aquila collabori di più».
Abruzzo. Sisma L'Aquila: ecco come si muoveva la cricca delle Chiese. E già la chiamano la “cricca delle Chiese”, scrive "Prima da Noi". Emergono scenari molto preoccupanti dalle carte dell’inchiesta “Betrayal” (tradimento). Ieri cinque arresti e un nuovo ciclone giudiziario si è abbattuto sulla città terremotata che dal 6 aprile del 2009 non trova pace. E se un tradimento c’è stato bisogna ora capire se sia stata ai danni della Curia, ai danni dei fedeli o delle istituzioni della Repubblica. Sta di fatto che ieri hanno campeggiato le parole del procuratore Fausto Cardella che più volte ha parlato di «estraneità della Curia» ai fatti contestati e di «curia quasi ingenua» il che tecnicamente è vero visto che non figurano prelati indagati. Ma i fatti accertati attraverso una serie di prove acquisite, tra le quali intercettazioni telefoniche, dimostrano in maniera netta lo scopo finale, l’obiettivo e la tensione costante verso la possibilità di gestire “in proprio” le centinaia di milioni di euro destinati alle ricostruzioni delle Chiese. Così tre dei cinque arrestati ieri per reati di corruzione negli appalti per il recupero di beni culturali e ecclesiastici all'Aquila nel post-sisma, hanno partecipato al tentativo, mai riuscito, di far diventare la Curia arcivescovile del capoluogo abruzzese, soggetto attuatore, quindi ente abilitata a bandire gare per la ricostruzione dei beni danneggiati. Questo, come ha sottolineato uno dei due pm titolari dell' inchiesta, David Mancini, non per fare lobby legale «ma per ottenere in cambio incarichi, regalie e commesse per loro», una volta centrato il risultato, sul quale era impegnata da tempo anche la stessa Curia, di modificare il decreto Abruzzo da parte dell'allora presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta. Dalle intercettazioni sembrerebbe che a innescare il meccanismo affinchè la Curia fosse stazione appaltante sia stato lo stesso Luciano Marchetti (arrestato ieri, ai domiciliari) che illustrava al prelato gli scenari derivanti dalla modifica di una norma a livello governativo. L’idea era quella di trasferire attraverso il Cipe centinaia di milioni di euro alla Chiesa che poi avrebbe affidato direttamente i lavori alle ditte amiche o prescelte. Secondo quanto emerge Massimo Vinci, uno degli imprenditori arrestati ieri mattina, aveva firmato un accordo con il parroco dell’epoca, don Renzo Narduzzi, grazie ai suoi buoni uffici con il vice, don Stefano Rizzo. Mentre viene intercettato Vinci spiega come ha ottenuto l’incarico e cioè «accompagnando con la mano» il parroco «dissociato» che all’epoca secondo gli inquirenti non era capace di intendere e di volere. Purtroppo però quell’incarico valeva poco fino a quando non sarebbe cambiata la norma. Il tentativo, come si legge nell'ordinanza firmata dal Gip del tribunale dell'Aquila, Giuseppe Romano Gargarella, sarebbe stato avviato formalmente e Alessandra Mancinelli (funzionario della direzione regionale dei Beni culturali da ieri in carcere) che avrebbe preso «l'incarico dal vescovo ausiliario, monsignor Giovanni D'Ercole, di consegnare due buste contenenti la proposta di modifica: una diretta al presidente del Consiglio Letta, l'altra a Gianni Letta». «Se la Curia gestisce gli appalti per noi è fatta», dice Mancinelli a Marchetti, «a te Luciano andranno tutti gli incarichi, vedrai». Si delinea dunque un asse diretto e quantomeno un canale di comunicazioni con i più alti vertici istituzionali di governo. Una asse importante: «letta firmerà… e se palazzo Chigi fa questa cosa abbiamo fatto bingo! Abbiamo vinto!», esultava in un’altra intercettazione il costruttore Vinci. Della lettera diretta a Gianni Letta viene trovata una copia durante le perquisizioni negli uffici di uno degli indagati. La lettera è sottoscritta dai Vescovi della Conferenza Episcopale dell’Abruzzo e del Molise. Per l’Aquila, firma il vicario, monsignor d’Ercole appunto: «…Siamo persuasi che, riconoscendo alle Diocesi la piena titolarità della ricostruzione dei propri beni, si contribuirà ad armonizzare, nella chiarezza dei ruoli, l’iter stesso della ricostruzione, evitando confusione di ruoli e snellendo le procedure… », prosegue la missiva. I Vescovi allegano pure una proposta di modifica della legge: quella approntata da Marchetti. In seguito sarà Vinci (uno dei due imprenditori arrestati) a consegnare le due lettere a Marchetti (ex vice commissario dei beni culturali finito ai domiciliari, ndr), non prima di aver fotocopiato il documento che contiene anche l'appello dei vescovi abruzzesi e molisani affinché «la Curia dell'Aquila come successo in altre diocesi colpite dal terremoto», sia abilitata a fare appalti. «L'auspicata modifica normativa e il conseguente incarico che la Curia conferirebbe a Marchetti - secondo il gip - sono funzionali all'affidamento dei lavori della chiesa di Santa Maria Paganica, circostanza che consentirebbe a Mancinelli di ottenere dalla cordata Vinci-Cricchi la corresponsione della restante parte della tangente, ammontante a 180 mila euro». Non è però chiaro se le lettere siano giunte a destinazione ma gli investigatori ascoltano al telefono che la modifica è già varata dall’ufficio legislativo che aspettava solo di essere ratificata dalla conseguente delibera del Cipe. Nonostante la Curia compaia nelle carte, nessuno dei prelati è indagato. E nel corso della conferenza stampa per illustrare i dettagli dell'operazione l'argomento è stato tra quelli più discussi. Secondo l'altro pm, Antonietta Picardi, «si voleva considerare la Chiesa come una pertinenza della casa privata anche se la legge lo impedisce, di qui la necessità di modifica del decreto». Secondo quanto emerge dalla ricostruzione della Polizia e della finanza de L’Aquila il vescovo Giuseppe Petrocchi riteneva che la Curia non fosse in grado di gestire l’enorme emergenza generata dal terremoto o forse voleva starne lontano. Una posizione diversa sembra emergere invece da parte di monsignor Giovanni D’Ercole, da poco arrivato nella diocesi di Ascoli Piceno, già indagato e poi prosciolto nell’ambito di un’altra inchiesta sulla ricostruzione quella relativa ai “fondi Giovanardi”. «Il Comune de L’Aquila ha resistito ad alcuni tentativi di attacco», ha detto ieri il procuratore Fausto Cardelli riferendosi evidentemente ad alcuni tentativi di “contaminazione”. In effetti fu proprio il sindaco Massimo Cialente, quando ormai l’inchiesta della procura aveva già seminato diverse tracce, che scrisse addirittura al presidente Napolitano adombrando strane forze occulte che si muovevano intorno proprio alla ricostruzione delle Chiese. A dicembre pubblicammo la lettera integrale che innescò di fatto un braccio di ferro ed uno scontro senza precedenti tra Comune e Curia. Erano i mesi in cui Cialente all’improvviso puntò i piedi e si dimise e iniziò a lanciare accuse pesanti poi rientrate una volta ritrovato l’equilibrio interno alla sua maggioranza e rientrato in municipio. La lettera di Cialente era datata 11 dicembre 2013 ed aveva l’obiettivo di chiedere una intercessione affinchè con l’ennesima «rimozione» non si infliggesse un «ulteriore colpo mortale alla ricostruzione aquilana». Cialente si riferiva alla vicenda del direttore regionale del Mibac, Fabrizio Magani che era stato designato dal ministro Bray ad altra sede come Pompei. Nelle settimane precedenti il Pd locale si era mobilitato a favore di Magani e la senatrice Stefania Pezzopane aveva anche depositato una interrogazione. «Qui a L’Aquila siamo convinti che il dottor Magani venga rimosso in quanto ostacolo ad un disegno che si è tentato di inserire come norma di Legge, che vorrebbe la Curia, la più grande immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto». D’un tratto dunque viene confermata l’ipotesi secondo la quale una lettera della Curia aquilana inviata al governo chiedeva di diventare soggetto attuatore per gestire in totale libertà e senza effettuare appalti per la ricostruzione. Il governo tuttavia non ha mai recepito tale istanza e tali appalti sono poi stati gestisti dallo stesso Mibac. Qualche giorno dopo intervenne anche monsignor Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne e presidente della Conferenza Episcopale Abruzzese-Molisana. «In Conferenza Episcopale», spiegò Valentinetti, «abbiamo ritenuto giusto che le diocesi fossero riconosciute come soggetti attuatori. Ci è sembrato necessario – continua il presidente della Ceam – far sentire la nostra voce, e chiedere di poter avere il ruolo che ci spetta nella ricostruzione degli immobili ecclesiastici. Del resto, in situazioni analoghe, ovvero nella ricostruzione delle zone terremotate di Umbria e Marche e, più recentemente, dell'Emilia-Romagna, le diocesi sono state riconosciute come "soggetti attuatori, così come è già accaduto per gli enti religiosi dello stesso territorio aquilano e non solo». Nulla di strano, dunque, secondo l'Arcivescovo che, d'accordo con gli altri Presuli della Ceam, dice di essersi limitato a segnalare al Governo questa anomalia nel processo di ricostruzione degli edifici ecclesiastici delle zone terremotate abruzzesi, chiedendo che anche alla nostra regione venisse riconosciuto lo stesso statuto normativo concesso ad altre zone d'Italia. «Il fine è solo quello di poter disporre di regole chiare e condivise – ribadisce monsignor Valentinetti - che consentano un lavoro di ricostruzione rapido e trasparente». Certo, gestire in maniera diretta appalti e fondi costituisce un impegno gravoso e complesso, per questo la Curia aquilana intende avvalersi della collaborazione di altri enti istituzionali. «A questo fine – conclude il presidente Ceam - negli incontri avuti presso la Presidenza del Consiglio, e il Ministero per la Coesione territoriale, l’arcivescovo di L’Aquila ha chiesto a più riprese che venisse introdotta una nota alla legge per prevedere la possibilità di una specifica convenzione con altri enti (Provveditorato alle opere pubbliche, Direzione regionale beni artistici e ambientali, Comune) per assegnare loro la gestione dei fondi erogati e degli appalti».
A cena con la cricca, ora deve gestire i 2 miliardi per la ricostruzione de L’Aquila, scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Nella lista degli invitati «Raniero» è al numero 3, un piazzamento invidiabile se si considera che Berlusconi è al numero 40, “Angelo B.” al numero 20, “Questore Fi” al 31. Non è una colpa se i tuoi colleghi, conoscenti, magari amici, finiscono in inchieste giudiziarie accusati di corruzioni e di tangenti. Raniero Fabrizi, che sarà nominato a breve a capo dell’ufficio per la ricostruzione de L’Aquila (Usra) e dovrà gestire 2 miliardi di euro, conosce bene ed ha lavorato gomito a gomito con quella cricca finita cinque anni fa in alcune delle inchieste più grosse sulla corruzione e appalti milionari aggiustati. Rapporti “più che istituzionali” ed evidentemente anche di amicizia se quel “Raniero + moglie” al numero 3 della lista è davvero Fabrizi e, dunque, si può ipotizzare avesse un rapporto molto stretto con alcuni di quegli invitati alla festa. Se non altro con Fabio De Sanctis, altro esponente del sodalizio di Angelo Balducci, ex provveditore alle opere pubbliche della Toscana e organizzatore della cena (a casa sua) insieme alla moglie, amanuense del documento trovato durante una perquisizione. Fabrizi è stato indagato nella prima fase della inchiesta di Pescara Mare-Monti che si è occupata di una parte della cricca e che vede a processo alcuni esponenti della famiglia Toto, l’attuale governatore Luciano D’Alfonso e Fabio De Sanctis. Nella inchiesta pescarese Fabrizi è passato subito dalla parte opposta disconoscendo alcune firme su documenti che lo accusavano per aver agevolato il commissario Valeria Olivieri nell’ambito dell’appalto della strada mai costruita a Penne. Con ogni probabilità la stessa procura (pm Gennaro Varone) lo chiamerà a testimoniare nel processo che stenta a partire –a causa di una sequela di errori di notifiche che va avanti da oltre un anno. Fabrizi dunque in quella occasione dovrebbe nuovamente disconoscere quelle firme ed incastrare l’architetto Carlo Strassil arrestato nel 2010 e oggetto dell’attenzione nell’inchiesta abruzzese. Il caso ha voluto che mentre in Italia divampava lo scandalo del «sistema gelatinoso» la piccola procura pescarese accendeva una luce su quella stessa cricca che ha comunque operato in Abruzzo fin dal 2000. Così gli uomini della Forestale che indagavano trovarono un appunto manoscritto con nomi eccellenti e in parte confluiti nell’inchiesta della “cricca”. “La lista degli invitati”, dunque, è un documento molto importante ma non dal punto di vista penale perché racconta un pezzo di vita di quel gruppo che poi i giornali e le procure hanno chiamato “cricca”. A quella cena erano invitati moltissimi esponenti delle istituzioni insieme ad imprenditori. Il documento ha una strana storia e sembra quasi che sia uno scherzo beffardo del destino: quella cricca che da molto tempo ha operato indisturbata in Abruzzo, anche prima del 2006 e che ha “spopolato” nelle varie emergenze, nei “grandi eventi” (anche come i “Giochi del Mediterraneo”?) e nelle tragedie come il terremoto ed i vari G8, è stata poi “inchiodata” e smascherata da un documento rintracciato per caso della Forestale di Pescara nel corso di una perquisizione di oltre un anno e mezzo fa a Roma a casa di Fabio De Santis. E pensare che quella indagine era nata per un esposto “innocuo” del Wwf su -in fondo- 'piccole violazioni ambientali (lo sforamento di un ponte in costruzione nella riserva naturale di Penne) per poi diventare qualcosa di grosso, fino a ricostruire e svelare intrecci e interessi dietro una delle più note incompiute della zona, la “Mare monti”. Alla cena della cricca organizzata da Fabio De Sanctis (chissà se poi effettivamente tenutasi) sono stati invitati anche i Cuccioletta, Patrizio e Paolo, uno provveditore delle opere pubbliche del Veneto e l’altro imprenditore. “Fusi e Verdini” sono tra parentesi, il primo imprenditore della Btp con stretti contatti con l’Abruzzo anche prima del 2006 poi vincitore di appalti nel post terremoto. Come detto c’era anche la scritta Berlusconi che potrebbe essere proprio l’ex presidente del Consiglio. «Emblematica risulta la partecipazione alla cena dei signori Cuccioletta n.43 e n. 44 della lista», si legge nel verbale di perquisizione stilato dalla Forestale, «che permette di valutare in un'ottica diversa l'affidamento della consulenza per la risoluzione delle interferenze della statale SS.81 alla Archingroup srl. Fino a oggi questo risultava un affidamento voluto solo da Carlo Strassil mentre, con molto probabilità, era un favore di De Santis Fabio all'amico Cuccioletta Paolo». La Archingroup di Paolo Cuccioletta, in realtà sarebbe un mero prestanome dello stesso Strassil, secondo la procura di Pescara. La società sarebbe servita per far confluire una serie di consulenze e per movimentare una serie di cifre dalla destinazione non sempre chiara insieme ad altre società sempre riconducibili a Strassil come la Cra Spa o la R&L, gestita e di proprietà di Sergio Strassil, figlio di Carlo. Già Strassil, la figura di raccordo della Cricca in Abruzzo…Un articolo del Corriere della Sera di Manuele Bonaccorsi si domanda se è opportuno che un professionista con un curriculum inappuntabile, e pare anche molto esperto e preparato, sia poi l’uomo giusto per gestire quel fiume di denaro che rischia di straripare inondando L’Aquila ed il suo cratere che attende ancora appalti per la ricostruzione che a sei anni è ancora appena agli inizi. E’ opportuno, si domanda il Corriere, visto che «nella sua lunga carriera si è trovato più volte a lavorare braccio a braccio con gli uomini della cosiddetta “cricca della Ferratella”: Angelo Balducci, Fabio De Santis, Mauro Della Giovampaola, e poi il supercommissario Guido Bertolaso, tutti finiti sotto processo per il “sistema gelatinoso” nato intorno ai grandi eventi della Protezione civile, sgominato dalla magistratura nel gennaio del 2010». «Fabrizi», scrive ancora il Corriere, «proviene dal Consiglio Superiore dei Lavori pubblici, di cui è tutt'ora componente. Massimo organismo tecnico del ministero di Porta Pia, il Consiglio è stato presieduto per anni da Angelo Balducci, figura centrale del sistema corruttivo scoperto dai magistrati 5 anni fa. E proprio insieme a Balducci, Raniero Fabrizi è stato a capo della Struttura tecnica di missione per il G8 della Maddalena. Un grande evento costato quasi mezzo miliardo di euro. Soldi buttati al vento, perché il G8 poi si tenne a L'Aquila, lasciando inutilizzate gran parte delle opere. Con un lungo e costoso strascico di richieste di risarcimento allo Stato». Il ruolo di Fabrizi, emerge dall’articolo, è sempre stato border line cioè in continua relazione “funzionale” con i personaggi della cricca e soprattutto con Angelo Balducci suo “capo” e spesso da questi nominato in ruoli decisori e decisivi. Fabrizi è stato capo anche nel 2008 a capo della Struttura tecnica di missione per il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia dove sono girati comunque milioni di euro in appalti e non sempre tutto è andato liscio. Fabrizi ritorna anche nell’inchiesta della scuola dei Marescialli di Firenze (ma senza mai essere indagato anche se emerge nelle intercettazioni) altro appalto additato dalla procura di Firenze come pilotato a favore della Btp di Riccardo Fusi, imprenditore disposto a pagare gli uomini che contano. Il Corriere poi riporta la storia di quella strana perizia sulla casa del «potente dirigente pubblico, Filippo Patroni Griffi», poi ministro del governo Monti, una perizia firmata proprio da Fabrizi che certificava «quasi pericolante». «La perizia di Fabrizi», si legge nell’articolo, «gli permette di acquistare ad appena 177mila euro un appartamento nel pieno centro di Roma, che vale almeno 5 volte tanto. In effetti nel 2012, Patroni Griffi - divenuto ministro della Pubblica Amministrazione del premier Mario Monti - rivende quell'immobile a “rischio crollo” a ben 800mila euro. “Allora non sapevo neppure chi fosse Patroni Griffi”, ribatte Raniero Fabrizi. Speriamo che a L'Aquila faccia più attenzione». E dopo l’articolo del Corriere il deputato abruzzese, Gianni Melilla ha interrogato il Ministro sulla opportunità di questa delicatissima nomina. In fondo non è la prima volta che a capo di una struttura importantissima che gestisce l’emergenza e la ricostruzione arrivano personaggi “illustri”, magari poi lambiti da inchieste penali con sospetti gravissimi e che poi, per varie ragioni non sempre chiarite, si sgonfiano… E’ il caso dell’architetto Gaetano Fontana accusato di corruzione e che da tempo ha tirato un sospiro di sollievo…
GRANDI EVENTI. G8, LA MADDALENA E LA LA CRICCA DEGLI APPALTI.
La Guardia di Finanza ha confiscato beni per un valore di 13 milioni di euro, appartenenti all'ex Provveditore alle Opere Pubbliche di Roma e presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Angelo Balducci, e a componenti della sua famiglia, scrive L'Huffington Post. Balducci, con altri funzionari pubblici e imprenditori, è stato al centro di indagini delle Procure di Roma, Firenze e Perugia sulla cosiddetta "cricca degli appalti". La confisca riguarda beni immobili, tra cui un casale con piscina a Montepulciano, autoveicoli, quote societarie e conti bancari. Secondo gli investigatori la cosiddetta cricca degli appalti era "un esteso e organizzato fenomeno di malaffare - si legge in una nota della GdF - definito da alcuni dei soggetti intercettati come "sistema gelatinoso" che, dal 1999, a fronte dell'uso sistematico della corruzione e di articolati illeciti tributari diretti a camuffare l'erogazione di tangenti, ha consentito la metodica assegnazione ad un numero chiuso di imprese favorite, in primis quelle di Diego Anemone, di rilevantissimi appalti pubblici, tra cui anche quelli relativi ai cosiddetti "Grandi Eventi" (Mondiali di Nuoto 2009, Vertice G8 all'Isola de La Maddalena, Celebrazioni del 150mo Anniversario dell'Unità d'Italia)". Da questo ramificato sistema corruttivo Balducci secondo gli accertamenti svolti dalle Fiamme Gialle di Roma, avrebbe tratto notevoli benefici accumulando un ingente patrimonio personale che, già sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale del sequestro nel giugno dello scorso anno, viene oggi definitivamente confiscato. La confisca dei beni di Angelo Balducci, ex provveditore alle opere pubbliche di Roma, avviene a quattro mesi di distanza dal maxi-sequestro del centro sportivo "Salaria sport Village" a Roma, centro sportivo del valore di circa 200 milioni di euro, operato dalla Guardia di Finanza di Roma nei confronti dell'imprenditore Diego Anemone. "Tale struttura rappresenta - come rivelato dalle articolate investigazioni economico-finanziarie delle Fiamme Gialle - il frutto del reinvestimento di ingenti proventi giunti nelle casse delle imprese di Anemone a seguito dell'aggiudicazione pilotata degli appalti pubblici gestiti da Angelo Balducci ed attualmente è diretta da un'Amministrazione Giudiziaria che ne garantisce la continuità aziendale". Il tribunale di Roma ha inoltre applicato a Balducci la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per tre anni, con obbligo di soggiorno nel Comune di Roma per lo stesso periodo, "così riconoscendone la pericolosità sociale -sottolinea la GdF in una nota - quale soggetto dedito a traffici delittuosi e che vive abitualmente con i proventi di attività illecite".
Grandi eventi, rinviati a giudizio Bertolaso, Balducci e Anemone. Il gup di Roma ha rinviato a giudizio l'ex capo della protezione civile (per corruzione), l'imprenditore e l'ex presidente alle opere pubbliche Angelo Balducci e altri 15 persone coinvolte nell'inchiesta sugli appalti del G8 e alcuni 'Grandi eventi, scrive “La Repubblica”. Rinvio a giudizio per l'ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, gli imprenditori Diego e Daniele Anemone, l'ex provveditore alle opere pubbliche Angelo Balducci, l'ex commissario straordinario ai mondiali di nuoto Roma 2009 Claudio Rinaldi, il funzionario pubblico Mauro Della Giovampaola, l'ex provveditore alle opere pubbliche della Toscana Fabio De Santis, e altre 11 persone, indagate nell'inchiesta sul G8 e i 'Grandi eventi'. Lo ha deciso il gup Massimo Di Lauro. I pm titolari dell'inchiesta romana sono Ilaria Calò e Roberto Felici. Gli atti nella capitale ripercorrono di fatto il lavoro fatto dai colleghi di Perugia, dopo l'invio del fascicolo a Roma dal tribunale del capoluogo umbro nei mesi scorsi. La principale accusa mossa a Bertolaso è quella di corruzione poiché nella veste di pubblico ufficiale, secondo l'accusa, avrebbe favorito Anemone in cambio di denaro e benefit d'altro tipo, come massaggi nel Salaria Sport Village, a Roma. A Balducci e Anemone, oltre a diversi episodi di corruzione, viene contestata l'associazione per delinquere. Nel febbraio 2010 nell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Firenze si definiva come "gelatinoso" il sistema degli appalti e delle commesse pubbliche che faceva riferimento a Balducci. Gli arresti scattarono per Anemone e i funzionari pubblici Mauro della Giovampaola e Fabio de Santis. La procura fiorentina era arrivata al gruppo indagando sulla costruzione della nuova scuola Marescialli del capoluogo toscano. Ma dalle intercettazioni del Ros dei carabinieri emerse fin da subito, per l'accusa, come la 'cricca' avesse influenzato alcuni dei maggiori appalti degli ultimi anni, dai mondiali di nuoto a Roma del 2009 al G8 della Maddalena, fino alle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia.
Alla sbarra la "cricca" dei Grandi Eventi. Gli affari sporchi di politici e imprenditori. Balducci, Bertolaso, Anemone, De Santis. Il "sistema gelatinoso" fatto di regali, escort e assunzioni che gestiva centinaia di milioni. La storia di un'inchiesta partita da una scuola per marescialli dei carabinieri a Firenze e arrivata a un appartamento davanti al Colosseo acquistato dall'ex ministro Claudio Scajola. A sua "insaputa", scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica”. Una Scuola per marescialli da 450 milioni di euro non ancora inaugurata. E un orologio di lusso, improvvido dono di Natale. Cominciò così l'inchiesta sulla "cricca" dei Grandi Eventi, su quel "sistema gelatinoso" che per anni ha fatto da quinta all'assegnazione dei più sostanziosi appalti di Stato: dai lavori per ristrutturare l'Arsenale della Maddalena, in vista di un G8 che lì non si sarebbe mai tenuto, ai Mondiali di nuoto a Roma, fino alle opere per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Un'inchiesta giudiziaria che, come il delta di un fiume, si è divisa in filoni tra Firenze, Roma e Perugia. Che ha travolto un ministro, Claudio Scajola, e colui che nel 2009 era il numero uno della Protezione Civile, Guido Bertolaso. E che ha avuto la sua sorgente nel capoluogo toscano. L'inizio della fine della cricca è da ricercarsi qui, nella zona di Castello. Tutto inizia 12 anni fa. Nel 2001 la Btp di Riccardo Fusi si aggiudica la costruzione della Scuola per marescialli e brigadieri dei carabinieri. L'appalto è di 190 milioni, ma in pochi anni raddoppierà. Cinque anni dopo, però, il ministero delle Infrastrutture estromette l'impresa, contestando i coefficienti di protezione sismica previsti nel progetto. Fusi fa ricorso, ottiene pure un indennizzo, ma non la restituzione del cantiere, che passa alla Astaldi. È allora, siamo nel 2008, che Fusi viene portato dall'imprenditore Francesco Maria De Vito Piscicelli (quello che un anno dopo riderà al telefono con il cognato dopo il terremoto dell'Aquila, pregustando gli affari per la ricostruzione) negli uffici romani della Ferratella, dove ha sede il Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo. Il dominus assoluto si chiama Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, affiancato dai funzionari Fabio De Santis e Mauro della Giovampaola. Fusi trova udienza, intuisce subito che lì dentro si decidono le cose. E capisce come oliare gli ingranaggi. Poco prima del Natale 2008 i carabinieri del Ros di Firenze lo fotografano mentre con Piscicelli consegna un costoso orologio a De Santis, nel frattempo divenuto Provveditore alle opere pubbliche della Toscana. La Btp sta riconquistando così l'appalto che il ministero le aveva sottratto. Ma i militari indagano, scavano, fotografano. E il calderone purulento della cricca si apre. Gli arresti. Il 10 febbraio 2010 il gip di Firenze Rosario Lupo ordina l'arresto di Balducci, Della Giovampaola e De Santis. Guido Bertolaso è indagato per concorso in corruzione. Finisce dentro anche l'imprenditore romano Diego Anemone. La motivazione: "Balducci e De Santis, incaricati della gestione dei 'grandi eventi', insieme a Della Giovampaola, della struttura di missione per il G8 della Maddalena, hanno asservito la loro funzione pubblica agli interessi di Anemone". Corruzione, dunque. Sostenuta con ristrutturazione di immobili, auto di lusso, assunzioni di domestici e figli, favori sessuali, escort a domicilio. Cinque gli appalti pilotati: lo stadio centrale del tennis del Foro Italico, il nuovo Museo dello sport italiano a Tor Vergata, il completamento dell'aeroporto internazionale dell'Umbria, il palazzo delle conferenze e la residenza dell'Arsenale alla Maddalena.
Inchiesta trasferita. L'inchiesta viene quasi subito trasferita da Firenze a Perugia, perché tra gli indagati figura anche l'ex procuratore aggiunto di Roma Achille Toro. Finisce nella bufera pure l'allora ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola: i pm scoprono che il suo appartamento con vista sul Colosseo era stato pagato con 1 milione e 100mila euro di Anemone. "Io non ne sapevo nulla", dice Scajola, in un'intervista rimasta famosa "la casa l'ho pagata di tasca mia, non so se qualcuno ha messo soldi a mia insaputa". I magistrati lo accusano di finanziamento illecito, il processo è in corso e la prossima udienza ci sarà il 30 settembre. Ma il reato rischia la prescrizione.
Prime condanne. Il 29 novembre 2012 però il fascicolo "madre" si sposta di nuovo e, su disposizione del tribunale collegiale di Perugia, è consegnato nelle mani dei pm romani Ilaria Calò e Roberto Felici, eccezion fatta per il capo di imputazione che riguarda Anemone, Balducci e l'avvocato Edgardo Azzopardi nella parte dell'utilizzazione di segreti d'ufficio rivelati da Achille Toro, "direttamente e indirettamente", sulle inchieste che li riguardavano (l'ex pm ha patteggiato nel 2011 una pena a otto mesi di reclusione). A Roma, intanto, arrivano i primi giudizi con rito immediato per la vicenda della Scuola marescialli. Il 31 ottobre del 2012 Balducci e De Santis vengono condannati a 3 anni e 8 mesi Balducci per corruzione aggravata. Un po' meno, 2 anni e otto mesi, per Piscicelli, 2 anni per Fusi.
Nuovo processo. Per Pierfrancesco Gagliardi, l'imprenditore che rideva con il cognato Piscicelli, il processo (con rito ordinario) comincerà invece il 30 settembre. Tra gli indagati c'è pure il nome di Denis Verdini, uno dei coordinatori nazionali del Pdl: la procura ha chiesto il rinvio a giudizio anche per lui, ma la Camera non ha ancora autorizzato l'utilizzo delle intercettazioni. Piscicelli, durante il processo, ha cominciato a collaborare: dalle sue testimonianze sono scaturiti due procedimenti ulteriori per concussione. Uno riguarda Antonello Colosimo, giudice della Corte dei Conti. L'altro, al momento in fase di udienza preliminare, contro alcuni funzionari della Ferratella.
Gli altri giudizi. Il 13 novembre parte un'altra costola del processo, che coinvolge l'ex generale della Finanza con ruolo nei servizi sergreti Francesco Pittorru, al quale Anemone ha comprato due immobili a Roma, uno in via Merulana (ma il reato è prescritto), l'altro in via Poliziano. Si apre il 22 ottobre il dibattimento dell'indagine per riciclaggio e reati tributari che aveva portato, nell'aprile dell'anno scorso, al megasequestro da 16 milioni di euro compresa una parte del Salaria Sport Village. E tra pochi giorni, il 30 settembre, arriverà davanti ai giudici il caso Edelweiss, la società di produzione cinematografica riconducibile a Balducci. Il 7 giugno la società e alcuni beni di famiglia (per un valore di 13 milioni di euro) sono stati oggetto di una misura di prevenzione solitamente applicata per i beni sequestrati alla mafia e che permette di evitare la prescrizione. Ma l'inchiesta madre sulla cricca, quella che ha tra i 16 indagati Anemone, Balducci e soprattutto Guido Bertolaso, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione (più una lunga serie di singoli episodi corruttivi), giace ancora davanti al Gup di Roma. Il 7 giugno il patrimonio dell'ex presidente del Consiglio dei Lavori pubblici e dei suoi familiari, sproporzionato rispetto ai redditi leciti conseguiti per 13 milioni di euro è stato sottoposto al sequestro di prevenzione, misura solitamente applicata per i beni sequestrati alla mafia che permette di evitare la prescrizione. Ma per l'inchiesta madre sulla cricca, quella che ha tra i 16 indagati Anemone, Balducci per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, e Guido Bertolaso accusato di corruzione, il Gup di Roma dovrà decidere a breve se andare a processo oppure no.
G8, la catastrofe della Maddalena. Gettati al vento 400 milioni di euro, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Nel 2009 avrebbe dovuto ospitare il vertice dei grandi della Terra. Ma il trasferimento del summit a L'Aquila rese i lavori portati a termine a tempo di record, con costi ingentissimi, inutili o quasi. L'ex Arsenale, promise Guido Bertolaso all'epoca plenipotenziario della Protezione Civile, aveva un destino da alberghi di lusso e yacht club. Le previste bonifiche a mare, non effettuate, hanno bloccato il turismo. I costi rischiano di lievitare ancora. E di molto. Mentre Regione, ministero dell'Ambiente e Comune si scaricano le responsabilità del disastro. Esistono catastrofi che il silenzio in cui sono state sprofondate, se possibile, rende ancora più intollerabili. E il G8 sull'Isola della Maddalena è una di quelle. Quattrocento milioni di euro di denaro pubblico hanno consegnato 27mila metri quadrati di edifici, 90mila metri di aree a terra e 110mila di mare al nulla di un progetto privato di fatto mai partito (un polo di lusso per la vela gestito dalla Mita Resort dell'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia). Ai veleni liberati dai fondali della darsena dell'ex Arsenale militare, mercurio e idrocarburi pesanti, la cui dispersione ha raggiunto, sedimentandosi in profondità, l'area limitrofa allo specchio di mare del Parco della Maddalena. Mezzo milione di Imu. Ogni anno, la Regione Sardegna paga 500mila euro di Imu per strutture architettoniche di avanguardia in cui, in 4 anni e mezzo, non ha messo piede anima viva, abitate soltanto dal maestrale e dalla ruggine di pilastri e tiranti cui non è stata dedicata alcuna manutenzione. Il mare chiede bonifiche urgenti per le quali non esistono risorse sufficienti e lì dove pure esistono impongono un accordo tra amministrazioni dello Stato (Presidenza del Consiglio, ministero, Regione, Comune) non ancora raggiunto. Ogni giorno che passa, ogni inverno che spazza l'Isola, il conto sale. I 400 milioni di denaro pubblico diventeranno presto 500, o forse addirittura 600, necessari a recuperare quello che si sta mandando in malora e a pagare il conto dei danni chiesti dal privato - la Mita di Emma Marcegaglia - che oggi lamenta di aver avuto in concessione quarantennale una Grande Opera che di grande avrebbe solo le lettere maiuscole. Una società che per giunta quella concessione si aggiudicò con un bando sartoriale che la vide non a caso facile vincitrice. Una società che avrebbe dovuto pagare 31 milioni di una tantum in 3 rate alla Protezione Civile e canoni annuali alla Regione di 60mila euro per 40 anni, ma che, dal 2009 a oggi, non ha sborsato un solo centesimo.
Il saccheggio e l'inganno. "La Maddalena è un'altra Ilva", sostiene oggi Stefano Boeri, l'architetto che ha progettato la "Casa sull'acqua" dell'ex Arsenale, che per quel progetto deve ancora essere pagato (il suo debitore, il costruttore e corruttore Diego Anemone, ha dichiarato fallimento) e sotto i cui occhi quelle opere si sono trasformate in fantasmi. Regione, Protezione Civile, Mita Resort "sono come le tre scimmiette sul comò", frusta Angelo Comiti, che dell'Isola è il sindaco, ma più giusto sarebbe dire il primo naufrago, sintetizzando un'immagine e una filastrocca. Anche perché, senza girarci troppo intorno, la verità è che mille e seicento giorni dopo il 23 aprile del 2009, le parole con cui l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò il trasferimento della sede del G8 dalla Maddalena all'Aquila e l'allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso rassicurò l'Isola promettendo di averle quantomeno lasciato in eredità una Grande Opera che sarebbe diventata il volano di un'economia rimasta orfana della chiusura della base americana, dimostrano il cinismo di un inganno. Costruito intorno a un format che abbiamo imparato a conoscere con lo svelamento del Sistema Balducci-Protezione Civile. Dove lo Stato perde sempre. Nella fase iniziale di progettazione e realizzazione delle opere (gravate di un 30-50 per cento di maggiorazioni "in conto corruzione"). Nella fase di concessione al privato (regolarmente a prezzi di saldo). E nella sua fase finale, altrettanto regolarmente affidata al contenzioso "arbitrale", dove lo Stato, ancora una volta, si dispone docilmente a soccombere alla richiesta danni del privato (la Mita Resort in questo caso) nei cui confronti finisce per risultare inadempiente. Per non aver "mai consegnato i verbali di collaudo". Per non aver bonificato quel che c'era da bonificare.
La bonifica velenosa. Già, un caso di scuola, la Maddalena. Non c'è angolo della Grande Opera che non porti le stimmate del Sistema. A cominciare dal mare su cui si affaccia. A fine luglio scorso, la Procura di Tempio Pausania, ha chiuso due anni di indagini del pm Riccardo Rossi e del Noe dei carabinieri di Sassari ed è pronta a chiedere 17 rinvii a giudizio per chi avrebbe dovuto bonificare i 60mila metri dello specchio d'acqua dell'ex Arsenale e, al contrario, lo ha avvelenato una seconda volta. In quel 2009, ballavano 7 milioni di euro per la bonifica e bisognava fare in fretta. Grattarono 50 centimetri di fondale marino di fronte all'ex Arsenale con le benne delle ruspe, smuovendo morchia e veleni depositati in mezzo secolo dalla Marina Militare italiana. E il dragaggio, per giunta, fu fatto a sbalzi, per accumulare più in fretta detriti. Mercurio e idrocarburi pesanti si dispersero in mare e le correnti hanno fatto il resto. Portando i sedimenti velenosi fino ai confini delle acque del Parco e obbligando a una nuova bonifica (per cui oggi non ci sono fondi sufficienti e non è stato ancora approvato un progetto) su un area grande il doppio di quella iniziale.
Danni imprevedibili. Nessuno sa o può dire, in questo momento, quanto tutto questo abbia già intossicato o possa intossicare l'eco-sistema di uno degli angoli più belli del Mediterraneo (la situazione è monitorata dal Parco della Maddalena e dall'Arpas). Esattamente come nessuno sa prevedere i tempi dell'accertamento delle responsabilità dei 17 indagati per questo disastro dalla Procura di Tempio, una di quelle sedi giudiziarie, per dirne una, dove a metà settembre il tribunale è andato a fuoco notte-tempo per un tostapane e dove i gip si arrangiano nelle udienze preliminari in una ex scuola elementare.
Diciassette inquisiti. Già, i 17. Sono l'ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso (falso in atti pubblici, truffa ai danni dello Stato, inquinamento ambientale); l'ex presidente del Consiglio Nazionale dei lavori pubblici Angelo Balducci; Marco Rinaldi e Matteo Canu, responsabili dell'impresa appaltatrice delle bonifiche in mare, la "Cidonio" di Roma; l'ex capo della struttura di missione per il G8 Mauro Della Giovanpaola; il direttore dei lavori Luigi Minenza; l'ingegnere e direttore operativo Riccardo Micciché; il responsabile unico del procedimento Ferdinando Fonti; il provveditore per le opere pubbliche e magistrato delle Acque del Veneto Patrizio Cuccioletta; i "collaudatori" Andrea Giuseppe Ferro e Valeria Olivieri e il segretario della loro commissione, Luciano Saltari; l'ex provveditore ai lavori pubblici per la Toscana Fabio De Santis, l'ingegnere sismico Gian Michele Calvi, il responsabile nazionale dell'Ispra (ministero dell'Ambiente) Damiano Scarcella e il dirigente del ministero dell'Ambiente Gianfranco Mascazzini. Un elenco in cui si rintraccia il filo rosso dei nomi di quella struttura di malaffare battezzata la "Cricca della Ferratella". Oggi a processo a Roma e a Firenze in dibattimenti che raramente, a distanza di 4 anni e mezzo, hanno conosciuto un verdetto di primo grado e, in molti casi, languono ancora davanti a un gip in udienza preliminare.
La grande fuga. I tempi della giustizia penale, ammesso e non concesso che una qualche giustizia riuscirà ad arrivare in tempo, hanno comunque consentito intanto allo Stato di squagliarsela. La Maddalena, che in quei giorni del 2009, era stata battezzata "sito di interesse nazionale" è stata declassata a "sito di interesse regionale" da Corrado Clini, ministro dell'ambiente del governo Monti. La legge di riforma della Protezione Civile ha fatto il resto. Il Grande Nulla dell'ex Arsenale è oggi in carico alle finanze sfiancate degli Enti locali, che non hanno risorse per farlo risorgere dal buco in cui è sprofondato. La Protezione Civile di Franco Gabrielli non ritiene di avere più parte in causa nel capolavoro di Guido Bertolaso (ora tornato a fare il medico volontario in Africa) e non intende ("perché non più competente") partecipare né alla partita delle bonifiche, né fare fronte alle richieste risarcitorie di Mita Resort. Il ministero dell'Ambiente non ha più titolo per convogliare risorse su un angolo del territorio sottratto alla sua gestione diretta. La Politica, nazionale e locale, ha altro a cui pensare. Le 12mila anime dell'Isola hanno un valore nella partita del consenso pari a zero. Naufraghi, appunto. Come l'uomo che li rappresenta, Angelo Comiti. Che in un mattino grigio di settembre, si aggira per l'ex Arsenale come un condannato all'insensatezza e al cinismo di chi non vuole né vedere, né ascoltare. E per questo ripete quella litania che dice tutto. "Tre scimmiette sul comò".
EXPO. APPALTI E TANGENTI.
EXPO Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.
Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.
Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino". Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri, è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano. Ci sono vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti, il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»); Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini» ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia.
La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammeso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.
Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.
Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.
Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”.
LOMBARDIA, LA MADRE DEGLI AFFARI TRUCCATI.
20 marzo 2014. Tutta l'Italia ne parla.
Lombardia: 224 milioni di appalti in odore di trucco. Ecco la lista completa, scrive “Il Giorno”. C’è quasi tutto il respiro della grande Lombardia del futuro nelle gare d’appalto finite nel mirino della magistratura. Non c’è provincia che non sia stata toccata, solo Lecco e Lodi risultano lambite marginalmente. Queste le opere segnalate nell’ordinanza che ha fatto scattare gli otto arresti:
Brescia Messa in sicurezza del lago d’Idro; interventi ai presidi ospedalieri di Manerbio e Gavardo.
Bergamo Valorizzazione e alienazione patrimonio immobiliare azienda ospedaliera Riuniti.
Como Ospedale Sant’Anna; elisoccorso per emergenza 118 Villaguardia; intervento edilizia ospedale di Mariano Comense; valorizzazione e alienazione ospedale Sant’Anna.
Monza e Brianza Valorizzazione Villa Reale di Monza; costruzione nuovo ospedale di Vimercate; riqualificazione ospedale San Gerardo.
Milano Interventi edilizia sanitaria presidi ospedalieri di Melzo e Vizzolo Predabissi, Garbagnate Milanese, Cuggiono, Magenta; riqualificazione ospedale Niguarda; costruzione nuovo ospedale Garbagnate Milanese; manutenzione straordinaria presidio ospedaliero di Rho; riqualificazione stabili lotto 4 e 14 ex Manifattura Tabacchi Milano; interventi a Palazzo Pirelli; valorizzazione sedi e laboratori Arpa; ristrutturazione tre unità abitative Aler; realizzazione delle opere afferenti sistema viario di accessibilità a sito Expo 2015; acquisto da parte di Arexpo spa delle aree di Rho-Pero per Expo 2015.
Sondrio Interventi edilizia ospedaliera presidi di Sondrio, Sondalo e Morbegno.
Cremona Concessione autostradale Cremona-Mantova; valorizzazione centro ippico di Crema.
Mantova Interventi edilizia ospedaliera presidi di Asola, Bozzolo e Mantova (lotto I e II).
Varese Interventi edilizia sanitaria presidi ospedalieri di Saronno, Macchi Varese (lotto I e II), Luino, Cittiglio, Filippo Del Ponte e ambulatori di Varese, via Monterosa; sistemazione ambientale del sito di Borsano (Busto Arsizio).
All’elenco vanno aggiunte opere come Brebemi, Pedemontana, tangenziale Est esterna di Milano e bonifiche di siti contaminati che riguardano varie province.
Infrastorture Lombarde. In galera il dg dimissionario della controllata di Regione Lombardia. Ai domiciliari una schiera di avvocati e un ingegnere che truccavano appalti pubblici, scrive Francesca Brunati su “La Prealpina”.
Appalti truccati in modo da essere aggiudicati sistematicamente a "una ristretta cerchia di professionisti" in spregio alle procedure previste dalla legge, ai principi di trasparenza e ai criteri del minor aggravio di spesa per gli enti pubblici. C'è questo alla base del sistema di illeciti che ha decapitato i vertici di Infrastrutture Lombarde, la controllata della Regione Lombardia per la realizzazione di opere come ospedali, scuole ma anche il nuovo Pirellone, incaricata di conferire consulenze e assistenze legali stragiudiziali e assistenza tecnica-amministrativa per lavori legati a Expo con investimenti previsti per 11 miliardi. Nel pomeriggio di giovedì 20 marzo gli uomini del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano hanno portato in carcere Antonio Giulio Rognoni, il direttore generale, dimissionario, di Infrastrutture Lombarde (formalmente è ancora in carica) e amministratore della partecipata Costruzioni autostrade Lombarde, il capo dell'ufficio gare e appalti Pierpaolo Perez. Ai domiciliari invece sono finiti Maurizio Malandra, direttore amministrativo della società regionale, gli avvocati Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli e un ingegnere, Salvatore Primerano. Le richieste di custodia cautelare sono state firmate dal gip Andrea Ghinetti, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paola Pirotta e Antonio D'Alessio. Il giudice, inoltre, ha anche ordinato l'interdizione da attività direttive e alla professione di ingegnere per nove persone tra cui Giuseppe De Donno ai vertici della G-Risk (settore sicurezza), l'ex ufficiale del Ros, tra i protagonisti della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Le accuse, a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla truffa, dalla turbativa d'asta al falso. Tra i vari appalti pilotati, oltre a quello da 210 milioni all'ospedale San Gerardo di Monza, per l'abbattimento di alcuni edifici a Pieve Emanuele (dal quale è nata l'indagine) e la riqualificazione dell'area, spuntano anche "i comportamenti di favore assicurati per lungo tempo - annota il gip - alla società Poliedrika srl delle sorelle Erica e Monica Daccò", figlie del faccendiere in carcere per i casi San Raffaele e Maugeri. E poi ancora due gare che riguardano Expo (non coinvolta nell'indagine): una assegnata all'avvocato Leo per 1,2 milioni e l'altra al suo collega Magrì in realtà dalla società Arexpo spa. Quanto poi alla realizzazione del palazzo Lombardia (il nuovo Pirellone) il gip parla di "clamoroso e spudorato conflitto di interessi". Secondo la ricostruzione della Procura e fatta sua anche dal gip, Rognoni sarebbe stato il "capo e promotore" di un sistema in cui "si riscontra una ristretta cerchia di professionisti (...) clandestinamente ed indebitamente insediatisi da lungo tempo (i reati contestati partono dal 2008, ndr) all'interno dell'amministrazione con il compito di porsi senza sosta al servizio del direttore generale (...). Essi - scrive ancora il giudice - si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita ad un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia di quest'ultimo, a cui essi risultano legati da un rapporto fiduciario in grado di sostenersi a dispetto della regolarità". In cambio Rognoni e Perez, come ha spiegato Robledo, avrebbero guadagnato "posizioni di rilievo all'interno della dirigenza della Regione" grazie a "un'amministrazione a sfondo domestico" delle gare. Anche per questo, come risulta dal provvedimento del gip Ghinetti, l'appalto per la Piastra dell'Expo sarebbe stato al centro di un tentato "trucco" per "tutelare l'immagine" politica della giunta allora guidata da Roberto Formigoni.
Expo e appalti truccati: scatta l'allarme su 11 miliardi di investimenti pubblici, scrive la Redazione di IBTimes Italia. Metti un candidato alla poltrona di subcommissario dell'Expo 2015 tratto in arresto per appalti truccati. Aggiungi il coinvolgimento nella stessa inchiesta di alcuni professionisti tra avvocati e ingegneri. Mescola il tutto con un sistema di potere che ha gestito la Regione Lombardia per quasi 20 anni (ed è finito imputato con l'accusa di corruzione nell'inchiesta Maugeri sulla sanità). Senza dimenticare che la Procura di Milano è spaccata, dopo l'esposto presentato al CSM da Alfredo Robledo, del pool reati contro la Pubblica Amministrazione, nei confronti del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ci sono tutti gli ingredienti per far scattare l'allarme sull'Expo che Milano ospiterà nel 2015, ma l'indagine che ieri ha portato all'arresto del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Antonio Giulio Rognoni assieme ad altre sette persone, rischia di passare come la solita indagine sulla corruzione strisciante che imperversa in Italia. In realtà c'è molto di più, perchè si tratta dell'ennesimo campanello d'allarme (si spera non ignorato) sull'appuntamento del prossimo anno (un giro d'affari superiore ai dieci miliardi di euro). Era proprio Rognoni il candidato alla poltrona di subcommissario, accusato di aver costituito "una struttura illegale all'interno di enti pubblici" che lavorava per lui. Infrastrutture Lombarde, partecipata dalla Regione Lombardia che Rognoni ha gestito dal 2004 fino allo scorso mese di gennaio, non è una società qualunque: ha gestito la costruzione del nuovo Pirellone, scuole e ospedali. Con il compito, riguardo a Expo, di fornire "assistenza tecnica-amministrativa". Proprio sull'esposizione universale sarebbero emerse secondo l'indagine "manovre occulte" allo scopo di 'indirizzare' gli appalti. Le accuse sono di associazione a delinquere, truffa e falso. Ma anche a scorrere l'elenco degli indagati c'è di che essere preoccupati. Spuntano i nomi delle figlie di Pierangelo Daccò, che gestiscono una società a cui sarebbe stato dato in affidamento un appalto senza bando pubblico. Daccò è il faccendiere già invischiato in due delicatissime inchieste sulla sanità in Lombardia: condannato in Appello per la bancarotta del San Raffaele (Formigoni indagato per corruzione), è coimputato proprio dell'ex governatore della Lombardia nel processo Maugeri. Indagato anche Giuseppe De Donno, già colonnello del ROS dei Carabinieri, oggi imputato nel procedimento sulla trattativa stato-mafia in corso di svolgimento a Palermo, riciclatosi nel settore della sicurezza privata. Deve rispondere di falsità materiale e truffa (è AD della società G-Risk) in merito ad alcuni appalti relativi alla "gestione del rischio ambientale". Formigoni lo aveva scelto come membro del "Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell'Expo" assieme a Mario Mori, altro imputato nel processo sulla trattativa. La cricca Rognoni viene descritta dagli inquirenti come "una ristretta cerchia di professionisti clandestinamente insediatisi da lungo tempo all'interno dell'amministrazione con il compito di porsi al servizio del Direttore Generale Antonio Rognoni. Si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita a un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia". Sull'Expo sono almeno due gli appalti finiti nel mirino i cui destinatari sarebbero stati "individuati con largo anticipo", prima ancora che il bando diventasse di dominio pubblico. La prima gara è relativa "all'affidamento a professionisti esterni dei servizi legali in relazione all'attività tecnico-amministrativa di Infrastrutture nel supporto e assistenza ad Expo spa", il secondo a "incarichi di consulenza legale affidati all'avvocato Magrì dalla società Arexpo", società per azioni che aveva il compito di acquistare le aree destinate ad ospitare l'esposizione universale. "Emerge dagli atti e dai testi delle telefonate - scrive il GIP nell'ordinanza di custodia cautelare per gli arrestati - che gli indagati hanno già predeterminato l'assegnazione di future gare".
«Appalti truccati sistematicamente per favorire gli stessi professionisti», scrive “L’Eco di Bergamo”. Appalti truccati in modo da essere aggiudicati sistematicamente a «una ristretta cerchia di professionisti» in spregio alle procedure previste dalla legge, ai principi di trasparenza e ai criteri del minor aggravio di spesa per gli enti pubblici. C’è questo alla base del sistema di illeciti che giovedì 20 marzo ha decapitato i vertici di «Infrastrutture Lombarde» la controllata della Regione Lombardia per la realizzazione di opere come ospedali, scuole ma anche il nuovo Pirellone, incaricata di conferire consulenze e assistenze legali stragiudiziali e assistenza tecnica-amministrativa per lavori legati a Expo con investimenti previsti per 11 miliardi. Nel pomeriggio gli uomini del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano hanno portato in carcere Antonio Giulio Rognoni, il direttore generale, dimissionario, di Infrastrutture Lombarde (formalmente è ancora in carica) e amministratore della partecipata Costruzioni autostrade Lombarde, il capo dell’ufficio gare e appalti Pierpaolo Perez. Ai domiciliari invece sono finiti Maurizio Malandra, direttore amministrativo della società regionale, gli avvocati Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli e un ingegnere Salvatore Primerano. Le richieste di custodia cautelare sono state firmate dal gip Andrea Ghinetti, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paola Pirotta e Antonio D’Alessio. Il giudice, inoltre, ha anche ordinato l’interdizione da attività direttive e alla professione di ingegnere per nove persone tra cui Giuseppe De Donno ai vertici della G-Risk (settore sicurezza), l’ex ufficiale del Ros, tra i protagonisti della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Le accuse, a vario titolo, vanno dall’associazione per delinquere alla truffa, dalla turbativa d’asta al falso. Tra i vari appalti pilotati, oltre a quello da 210 milioni all’ospedale san Gerardo di Monza, per l’abbattimento di alcuni edifici a Pieve Emanuele (dal quale è nata l’indagine) e la riqualificazione dell’area, spuntano anche «i comportamenti di favore assicurati per lungo tempo - annota il gip - alla società Poliedrika srl delle sorelle Erica e Monica Daccò», figlie del faccendiere in carcere per i casi San Raffaele e Maugeri. E poi ancora due gare che riguardano Expo (non coinvolta nell’indagine): una assegnata all’avvocato Leo per 1,2 milioni e l’altra al suo collega Magrì in realtà dalla società Arexpo spa. Quanto poi alla realizzazione del palazzo Lombardia (il nuovo Pirellone) il gip parla di «clamoroso e spudorato conflitto di interessi». Secondo la ricostruzione della Procura e fatta sua anche dal gip, Rognoni sarebbe stato il «capo e promotore» di un sistema in cui «si riscontra una ristretta cerchia di professionisti (...) clandestinamente ed indebitamente insediatisi da lungo tempo (i reati contestati partono dal 2008, ndr) all’interno dell’amministrazione con il compito di porsi senza sosta al servizio del direttore generale (..). Essi - scrive ancora il giudice - si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita ad un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia di quest’ultimo, a cui essi risultano legati da un rapporto fiduciario in grado di sostenersi a dispetto della regolarita». E in cambio Rognoni e Perez, come ha spiegato Robledo in conferenza stampa, avrebbero guadagnato «posizioni di rilievo all’interno della dirigenza della Regione» grazie a “un’amministrazione a sfondo domestico» delle gare. Anche per questo, come risulta dal provvedimento del gip Ghinetti, l’appalto per la Piastra dell’Expo sarebbe stato al centro di un tentato «trucco» per «tutelare l’immagine» politica della giunta allora guidata da Roberto Formigoni.
Expo, truccata pure la gara per scegliere gli avvocati: "Chi ha vinto sapeva tutto", scrive Marinella Rossi su “Il Giorno”. Su questa inchiesta è scoppiata la guerra in Procura. «Qui Expo non c’entra niente», dichiara liquidatorio il procuratore aggiunto Alfredo Robledo in una conferenza stampa algida, in cui a fianco del procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, dà conto di una delle inchieste oggetto di lite, fra lui e il capo, sull’assegnazione di fascicoli in condivisione (mai avvenuta) con il dipartimento della Dda Ilda Boccassini. Come a dire che di Expo si occuperà la collega? Ma che in questa sua inchiesta non si tratti di Expo, è subito smentito dal gip, il giudice Andrea Ghinetti, che in 243 pagine manda agli arresti per associazione per delinquere, turbativa d’asta e truffa l’ex dg di Infrastrutture Lombarde, Antonio Giulio Rognoni, il suo braccio destro Pier Paolo Perez, e un nugolo di avvocati. Ed ecco Expo, da pagina 139 della misura cautelare. Dove si affronta la funzione di Ilspa e l’incarico conferito all’avvocato Carmen Leo (da ieri agli arresti domiciliari) «in relazione all’evento Expo 2015». Il gip spiega che «rientra nella diretta competenza di Expo 2015 la realizzazione del sito per l’Esposizione, a partire dalle opere di urbanizzazione e le infrastrutture di base». La cosiddetta Piastra, lavori fondamentali di posa impianti e scavi. Lavori fino a 700 milioni di euro. Il giudice ricostruisce, attraverso mail, sequestri di materiale informatico e intercettazioni della Guardia di finanza di Milano, la storia della pratica. Il 28 luglio 2011 Rognoni determina «di procedere all’affidamento di professionisti esterni dei servizi legali», per il supporto e l’assistenza che Ilspa deve dare a Expo 2015. L’offerta è destinata a cinque professionisti, secondo il criterio del prezzo più basso. A Ilspa giungono 4 offerte, prima tra tutte - come prezzo più basso - quella dell’avvocato Carmen Leo, con 1 milione e 200 mila euro. Ma «diverse evidenze investigative provano, senza ombra di dubbio, che anche questa procedura negoziata è stata gravemente turbata» scrive il gip. Dal computer dell’assistente dell’avvocato Leo, emerge una cartella “Studio” e una sottocartella “Gara servizi legali”: grazie a questa si scopre che molti dei documenti predisposti sono «antecedenti al 28 luglio 2011, ossia alla stessa data di emissione» con cui «si dava ufficialmente avvio alla procedura di aggiudicazione». Alla professionista «è stato consentito di istruirsi autonomamente la procedura che poi sarebbe stata aggiudicata al proprio studio legale». Pagina 144: c’è il capitolo «incarichi di consulenza legale affidati all’avvocato Fabrizio Magrì dalla società Arexpo Spa», delegata ad acquistare e riconvertire le aree per l’Esposizione universale. La direzione generale della società è affidata a Cecilia Felicetti (indagata a piede libero). Ecco il nodo retrodatazioni, con estensione dei contratti all’infinito. Si tratta dei soliti appalti per assistenza giuridica e legale sull’acquisto delle aree. Valore economico in apparenza magro, rispetto all’altro, solo 39.785 euro. Ma la prospettiva è di mettere le mani su tutto. L’affidamento è disposto l’8 settembre 2011: le parti stabiliscono un’efficacia retrodata, vista la «necessità di avviare la procedura di gara entro la prima settimana del mese di agosto». «Emerge» - scrive il gip - come «il contratto sottoscritto dal direttore generale e dal direttore amministrativo di Ilspa (Rognoni e Perez, ndr) sia stato ancora una volta strumentalmente retrodatato». Sintomatica l’intercettazione fra Magrì e Perez, («indicativo il sarcasmo» di questi) che dice all’avvocato: «Bisogna che ti coordini un attimino con Cecilia, perché l’idea era quella di mettere dentro quello fatto e quello che tu andrai a fare prima che noi faremo la procedura per affidare tutto quello che affideremo e... su Arexpo, ok, capito, nel caso poi in cui tu risulterai vincitore di quella procedura, andrai avanti tu, capito». L’ 8 settembre 2011 le parti danno atto che «il contratto è protratto sino all’acquisizione di tutte le aree, ovvero al 30 dicembre 2011, avendo lo studio legale espletato in toto (tre mesi prima? ndr) le prestazioni ivi previste». Naturalmente, sino al 14 febbraio 2012, l’avvocato Magrì «non aveva ancora completato le prestazioni del primo incarico e già trattava parallelamente e stringeva accordi con Rognoni, Cecilia Felicetti e Maurizio Malandra (ai domiciliari, ndr) per aggiudicarsi un nuovo e più sostanzioso contratto». E l’11 aprile 2012, ultima data per la presentazione delle offerte, veniva ufficializzato l’incarico a Magrì per un importo definitivo di 160 mila euro. Come d’accordo con Rognoni, già dal 9 febbraio 2012.
Infrastrutture Lombarde, il gip accusa i politici: "I vertici della Regione sapevano". Si allarga il fronte dell'inchiesta milanese. Maroni chiede "chiarezza" su "fatti che riguardano il passato". Sala (ad di Expo): "Non c'è alcun coinvolgimento diretto della nostra società", scrive “La Repubblica”. Quella struttura "parallela" che per almeno cinque anni avrebbe pilotato incarichi, soprattutto di consulenza legale e tecnico-amministrativa, relativi ai più importanti appalti di opere pubbliche in Lombardia, compresi alcuni per l'Expo 2015, dialogava con "i vertici della Regione Lombardia" quando era guidata da Roberto Formigoni. Vertici che avrebbero avuto la "piena consapevolezza" che il tutto avveniva in un sistema di "diffusa illegalità". E' quanto emerge dalle carte dell'inchiesta della Procura di Milano che aveva portato all'arresto di otto persone, tra cui Antonio Rognoni, il direttore generale dimissionario di Infrastrutture Lombarde, società interamente partecipata dal Pirellone. Un rapporto costante, quello tra Rognoni e i piani alti della Regione, che fra l'altro il gip Andrea Ghinetti - il quale ha firmato l'ordinanza su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Antonio D'Alessio e Paola Pirotta - riconosce anche come pericolo attuale e concreto nelle esigenze cautelari. Le intercettazioni telefoniche dimostrano, scrive il gip, come il dg benché dimissionario "continui a occuparsi de facto anche della gestione di Ilspa (Infrastrutture Lombarde) tenendosi in stretto e costante contatto con i vertici della stessa nonché di Regione Lombardia, come sempre è stato". Le inchieste faranno il loro corso, ma l'Expo non può attendere. L'inchiesta non solo suscita dubbi da fugare sulla gestione ("Sono il primo a volere chiarezza", ha detto il governatore Roberto Maroni), ma potrebbe provocare creare problemi alla preparazione dell'Esposizione del 2015 a Milano. Tanto che anche il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ha espresso un "timore tremendo perché questo è il primo evento che abbiamo per uscire dalla crisi". Lunedì ci sarà una riunione Expo: da Infrastrutture Lombarde passano molte delle opere, interne ed esterne al sito. Un facile assist per i 5 Stelle, che sabato scorso erano con Beppe Grillo ai cantieri dell'Expo a sostenere che attorno al progetto ci sono troppi interessi e hanno contestato lo stesso Maroni, mentre apriva la giornata di ricordo delle vittime della mafia davanti agli studenti. "Parlaci di Rognoni", gli hanno urlato i consiglieri M5S abbandonando l'auditorium del Pirellone. Il governatore leghista ha riferito di aver parlato con il commissario unico Giuseppe Sala, ma anche col ministro Maurizio Lupi. Ed entro la riunione di lunedì vuole sostituire almeno i dirigenti di Infrastrutture delegati dalla Regione a seguire i cantieri dell'Expo. Sala - che ha escluso categoricamente "qualsiasi coinvolgimento diretto della nostra società" - ha spiegato che bisogna "lavorare nel rispetto pieno della legalità", ma ormai "non possiamo avere un'ora di ritardo. E questo devo garantire". Da un lato negli atti dell'indagine si scopre che Rognoni, assieme al capo dell'Ufficio gare della società pubblica, Pierpaolo Perez, e ad alcuni professionisti, avrebbe "turbato" circa 25 appalti relativi a ospedali, autostrade e all'Esposizione universale per un valore di circa 224 milioni di euro. Dall'altro lato, nelle stesse carte traspare anche un contesto più ampio, quello che il gip ha definito una "rete di favori e amicizie", nell'ambito di un "milieu politico-amministrativo" di cui facevano parte Rognoni e gli altri. Una rete nella quale risultavano inserite, per esempio, anche Erika e Monica Daccò (entrambe indagate), figlie del faccendiere Pierangelo, già condannato a nove anni per il crac del San Raffaele e rinviato a giudizio per il caso Maugeri assieme all'ex governatore Formigoni. Secondo il gip, inoltre, "non è affatto improbabile" che lo stesso Daccò "potesse avere un certo ascendente pure in Ilspa, visti i contenuti di un'intercettazione telefonica" del 24 aprile del 2012, registrata sul cellulare di Perez. Quest'ultimo "conversa" con tale Cristina Dall'Orto sulla "decisione di Rognoni di affidare a un nuovo consulente esterno la realizzazione del nuovo sito Internet della società". E i due ironizzano, chiarisce il gip, "sul fatto che il precedente affidatario sarebbe stato portato in Ilspa dai Daccò e che, per tale motivo, il motivo di cambiar consulente avrebbe potuto ingenerare il pensiero che fosse opportuno 'cancellare' quanta prima ogni traccia che potesse eventualmente ricondurre a loro". E ciò perché in quei giorni emergevano sulla stampa dettagli sull'inchiesta Maugeri. In quel periodo, si legge nelle carte, Rognoni avrebbe avuto "un atteggiamento ossessivo" volto "a evitare d'improvviso qualsiasi contatto o rapporto" con le sorelle Daccò "per non generare sospetti". E in una telefonata del luglio 2012 il dg "rivela che sarebbe andato a parlare della questione Daccò" all'allora segretario generale del Pirellone, Nicola Maria Sanese. Fra gli indagati c'è anche un ex ufficiale del Ros, Giuseppe De Donno (noto per il suo coinvolgimento nella cosiddetta trattativa Stato-mafia) nominato dal "presidente Formigoni il 7/8/2009 componente del Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell'Expo". Il gip rimarca la "capacità" di De Donno "di interagire in contesti ben più vasti e organizzati di quello in cui si esauriscono" i fatti dell'inchiesta. Indagini che dimostrerebbero, invece, attraverso alcune mail scambiate tra Rognoni e l'avvocato Carmen Leo come negli uffici del Pirellone nel 2008, alla presenza di dirigenti regionali come Maurizio Sala, si sarebbero aggirate le normative per incarichi di consulenza legale. Negli atti anche "manovre occulte", finalizzate "a pilotare gli affidamenti tecnici (...) nell'ambito delle opere di realizzazione della cosiddetta 'Piastra Expo'". Intanto l'avvocato Leo al telefono con Rognoni diceva: "Se ciulano all'interno del computer di Perez siamo rovinati". Gli arrestati saranno interrogati a partire da lunedì. "I vertici della Regione sapevano tutto, così avrebbe dichiarato la Procura di Milano stando a diverse agenzie in relazione alla vicenda legata a Infrastrutture Lombarde. Poi si vanno a leggere le carte della stessa Procura e si evince che i 'vertici della Regione che avrebbero dovuto sapere tutto' sono i funzionari dell'avvocatura regionale". Così ha dichiarato l'ex governatore Formigoni, ora senatore. "Le valutazioni - conclude Formigoni - le lasciamo trarre alle persone veramente oneste e agli osservatori veramente neutrali".
Infrastrutture lombarde, il gip: “I vertici della Regione sapevano”. L’ordinanza dopo l’arresto dell’ex dg Rognoni: «Tutti erano al corrente del clima di illegalità». Il presidente del Consiglio regionale Cattaneo: «Expo a rischio», scrive Paolo Colonello su “La Stampa”. Quella struttura «parallela» che per almeno cinque anni avrebbe pilotato incarichi, soprattutto di consulenza legale e tecnico-amministrativa, relativi ai più importanti appalti di opere pubbliche in Lombardia, compresi alcuni per l’Expo 2015, dialogava con «i vertici della Regione Lombardia» quando era guidata da Roberto Formigoni. Vertici che avrebbero avuto la «piena consapevolezza» che il tutto avveniva in un sistema di «diffusa illegalità». È quanto emerge dalle carte dell’inchiesta della Procura di Milano che ieri ha portato all’arresto di otto persone, tra cui Antonio Rognoni, il dg dimissionario della società interamente partecipata dal Pirellone, Infrastrutture Lombarde. Un rapporto costante quello tra Rognoni e i piani alti della Regione che, tra l’altro, il gip Andrea Ghinetti, che ha firmato l’ordinanza su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Antonio D’Alessio e Paola Pirotta, riconosce anche come pericolo attuale e concreto nelle esigenze cautelari. Le intercettazioni telefoniche, infatti, dimostrano, scrive il gip, come il dg benché dimissionario «continui a occuparsi de facto anche della gestione di Ilspa (Infrastrutture Lombarde, ndr) tenendosi in stretto e costante contatto con i vertici della stessa nonché di Regione Lombardia, come sempre è stato». Da un lato, infatti, negli atti dell’indagine si scopre che Rognoni, assieme al capo dell’Ufficio Gare della società pubblica, Pierpaolo Perez, e ad alcuni professionisti, avrebbe «turbato» circa 25 appalti relativi ad ospedali, autostrade e all’Esposizione Universale per un valore di circa 224 milioni di euro. Dall’altro lato, però, dalle stesse carte traspare anche un contesto più ampio, quello che il gip ha definito una «rete di favori ed amicizie», nell’ambito di un «milieu politico-amministrativo» di cui facevano parte Rognoni e gli altri. Una Rete nella quale risultavano inserite, ad esempio, anche Erika e Monica Daccò (entrambe indagate), figlie del faccendiere Pierangelo, già condannato a 9 anni per il crac del San Raffaele e rinviato a giudizio per il caso Maugeri assieme all’ex Governatore Formigoni. Secondo il gip, inoltre, «non è affatto improbabile», che lo stesso Daccò «potesse avere un certo ascendente pure in Ilspa visti i contenuti di un’intercettazione telefonica» del 24 aprile del 2012, registrata sul cellulare di Perez. Quest’ ultimo «conversa» con tale Cristina Dall’Orto, «della decisione di Rognoni di affidare ad un nuovo consulente esterno la realizzazione del nuovo sito internet della società». E i due ironizzano, chiarisce il gip, «sul fatto che il precedente affidatario sarebbe stato “portato” in Ilspa dai Daccò e che, per tale motivo, il motivo di cambiar consulente avrebbe potuto ingenerare il pensiero che fosse opportuno “cancellare” quanta prima ogni traccia che potesse eventualmente ricondurre a loro». E ciò perché in quei giorni emergevano sulla stampa dettagli sull’inchiesta Maugeri. In quel periodo, si legge nelle carte, Rognoni avrebbe avuto «un atteggiamento ossessivo» volto «ad evitare d’improvviso qualsiasi contatto o rapporto» con le sorelle Dacco’ «per non generare sospetti». E in una telefonata del luglio 2012 il dg «rivela che sarebbe andato a parlare della questione Daccò» all’allora segretario generale del Pirellone, Nicola Maria Sanese. Tra gli indagati anche l’ex militare del Ros, Giuseppe De Donno (noto per il suo coinvolgimento nella cosiddetta trattativa Stato-mafia) nominato dal “presidente Formigoni il 7/8/2009 membro del Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell’Expò”. Il gip sottolinea la «capacità» di De Donno «di interagire in contesti ben più vasti ed organizzati di quello in cui si esauriscono» i fatti dell’inchiesta. Indagini che, invece, dimostrerebbero, attraverso alcune e-mail scambiate tra Rognoni e l’avvocato Carmen Leo come negli uffici del Pirellone nel 2008, alla presenza di dirigenti regionali come Maurizio Sala, si sarebbero aggirate le normative per incarichi di consulenza legale. Negli atti anche «manovre occulte», finalizzate «a pilotare gli affidamenti tecnici (...) nell’ambito delle opere di realizzazione della cosiddetta “Piastra Expò”. Intanto l’avvocato Leo al telefono con Rognoni diceva: «Se ciulano all’interno del computer di Perez siamo rovinati!». Gli arrestati saranno interrogati a partire da lunedì. «I vertici della Regione sapevano tutto’, così avrebbe dichiarato la Procura di Milano stando a diverse agenzie in relazione alla vicenda legata ad Infrastrutture Lombarde. Poi si vanno a leggere le carte della stessa Procura e si evince che i `vertici della Regione che avrebbero dovuto sapere tutto´ sono i funzionari dell’avvocatura regionale». Così ha dichiarato in serata l’ex governatore Roberto Formigoni, ora senatore. «Le valutazioni - conclude Formigoni - le lasciamo trarre alle persone veramente oneste e agli osservatori veramente neutrali».
Arresti in Lombardia, indagato anche l'ufficiale della trattativa. Giuseppe De Donno, l'ex colonnello del Ros al centro di trame e misteri per la trattativa Stato-mafia 1992, è tra i dirigenti d'azienda che sono stati sospesi dalla carica nell'ambito dell'inchiesta che ha travolto i vertici di Infrastrutture lombarde, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. C'è anche Giuseppe De Donno, l'ex colonnello del Ros al centro di trame e misteri per la famosa trattativa del 1992 con il politico mafioso Vito Ciancimino, tra i dirigenti d'azienda che sono stati sospesi dalla carica, per ordine dei magistrati di Milano, nell'inchiesta che ha travolto i vertici di Infrastrutture lombarde, il braccio economico del Pirellone per le grandi opere pubbliche. De Donno, dopo aver lasciato i carabinieri, è entrato nel settore della sicurezza privata e ora è sotto accusa come amministratore delegato della società G-Risk, che ha beneficiato di ricchi appalti da Infrastrutture lombarde, in particolare per la «rilevazione e gestione dei rischi ambientali» collegati alle opere autostradali messe in cantiere in Lombardia. Il giudice delle indagini ha considerato provati, nel suo caso, sette capi d'accusa: i dirigenti di Infrastrutture lombarde avrebbero truccato le gare d'appalto proprio per favorire la società di De Donno. Le accuse più gravi hanno colpito Antonio Giulio Rognoni, ex direttore generale, e Pierpaolo Perez, ex responsabile degli appalti, che sono finiti in carcere per ben 66 capi d'accusa. Arresti domiciliari invece per altri sei indagati: avvocati e professionisti accusati di essersi divisi parcelle d'oro assegnate dalla società regionale aggirando le regole sui concorsi. Mentre la misura dell'interdizione da ogni carica ha colpito nove professionisti di varie aziende private, tra cui De Donno. Rognoni era considerato vicinissimo all'ex governatore lombardo Roberto Formigoni. L'inchiesta fino a ieri segreta su Infrastrutture lombarde, condotta da due pm del dipartimento guidato dall'aggiunto Alfredo Robledo, è anche al centro del duro scontro tra quest'ultimo e il capo della procura, Edmondo Bruti Liberati, che verrà deciso dal Csm.
Gli indagati al telefono dicevano: «Sono tutte turbative, tutti abusi». Otto arrestati a Milano per turbativa d’asta. Appalti legati a Expo 2015. I pm accusano Antonio Giulio Rognoni, fino a un mese fa dg di Infrastrutture Lombarde, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. «Ci sono tutti i suoi calcoletti... Se cicciano, se ciulano all’interno del computer di Perez, siamo rovinati!». Giusto. Ma la profezia il 12 luglio 2012 dell’avvocato Carmen Leo al formigoniano direttore generale di «Infrastrutture Lombarde», Antonio Rognoni, si era avverata già un mese prima, quando la Guardia di Finanza di Milano aveva sequestrato il computer appunto di Perez e iniziato a incrociare la cronologia dei vari «salvataggi» del pc con le intercettazioni. Come quelle in cui Rognoni si infuria («Non deve scrivere quelle str... lì») perché, negli studi di qualche avvocato di quelli beneficiati dall’affidamento esterno di incarichi per servizi legali del valore di 8,7 milioni nel 2008-2012, un ingenuo fa girare una mail che candidamente accenna all’artificioso spacchettamento e frazionamento di contratti per scendere sotto soglia, e assegnare senza gara una commessa in realtà da 400.000 euro («poi ce la gestiamo io e te, ti faccio un po’ di affidamenti sotto i 40...»): e l’interlocutrice di Rognoni concorda, «una roba del genere non è il caso... vedi è come se gli dicessimo sì, non vi preoccupate, non facciamo la gara, facciamo 10 incarichi da 400.000 euro». La predilezione per i ricchi incarichi a professionisti legali esterni, che per il gip «lavoravano in rapporto di “parasubordinazione” presso gli stessi locali degli enti pubblici, profumatamente pagati col pubblico denaro, con buona pace della libertà di toga e dei principi deontologici», origina dal fatto che - come l’ingegnere Primerano racconta a un conoscente il 17 aprile 2012 - «persone troppo rigide alla fine trovano qualche difficoltà», invece «Infrastrutture solitamente si contorna di persone che capiscono e che sanno che se c’è un problema si affronta, ma non si mettono il bastone tra le ruote perché tu ad esempio sei il collaudatore...». Ancor più chiaro è Rognoni stesso il 2 agosto 2012 ammonendo Perez e Leo: «Non riuscite più ad ascoltare il mio parere come vincolante! Io pretendo che sia vincolante!». Il che spaventa qualche avvocato come Leo: «Allora tutte le forzature che lui ci impone di fare... peggio per lui! Qui facciamo le cose così, perché lui ce le dice e vuole la mia sigla?». Oltre allo spreco di soldi e alla violazione delle regole, l’indagine mette a nudo negli avvocati alcuni casi di «clamoroso e spudorato conflitto di interessi, ben noti ai pubblici ufficiali delle stazioni appaltanti». Lo studio dell’avvocato Magrì, ad esempio, nel 2009-2011 riceve incarichi per 3 milioni di euro dal mondo della Regione ma lavora anche per «Impregilo», la quale controlla il «Consorzio Torre» incaricato proprio da «Infrastrutture Lombarde» di realizzare il nuovo Palazzo Lombardia. Lo studio dell’avvocato Leo, 2 milioni di incassi dal mondo della Regione nel 2009-2012, guadagna 900.000 euro assistendo la «Cooperativa CMB» di Carpi che, «tramite la partecipata Progeni spa, è concessionaria per la realizzazione del nuovo ospedale Niguarda di Milano, la più grande opera sanitaria in project financing, per la quale Infrastrutture Lombarde ha ufficialmente funzione di supporto alla committente azienda ospedaliera». Di più: per i pm, l’avvocato consulente della coop «CMB» (aderente al consorzio aggiudicatosi le opere di viabilità e accessibilità a Expo 2015) «carpisce senza sforzo informazioni riservate grazie alla sua appartenenza al contesto delittuoso in Infrastrutture Lombarde». Per i pm, poi, le «manovre occulte» di Rognoni «finalizzate a pilotare gli affidamenti tecnici presso le direzioni dei lavori nelle opere di realizzazione della “Piastra Expo”» sarebbero state motivate dalle ambizioni politiche dell’allora presidente Formigoni. Quando infatti la «Mantovani» vince l’appalto, alcuni commentatori e organi di stampa giudicano eccessivo il ribasso, e anche Formigoni esprime perplessità. Il suo sottosegretario Paolo Alli il 23 luglio 2012 spiega a Rognoni che la critica di Formigoni «non può restare lettera morta, cosa che lui non tollera... Inventatevi due o tre cose che si vendono mediaticamente, qualche controllo in più... bisogna che lui ne esca a testa alta dicendo “io ho segnalato un problema reale”». A quel punto, ricostruiscono i pm, «Rognoni esige dai più fidati collaboratori iniziative tese a ottenere forzatamente dall’appaltatore garanzie accessorie manifestamente non dovute». Tanto che l’avvocato Leo commenta intercettata: «Son tutte turbative, son tutti abusi... Il problema è che vogliono ricattare Mantovani...”se non mi fai le garanzie io non ti aggiudico”». E anche Perez il 2 agosto 2012 riporta il concetto: «Sembra che vogliono ricattarlo, cioè “se non fai così non ti aggiudico la gara”... siamo al delirio mistico». Dalla pubblicazione il 19 aprile 2012 sul Corriere di una lettera «aperta» di Carla Vites, moglie di Antonio Simone arrestato nell’inchiesta Maugeri con Pierangelo Daccò (dispensatore di 8 milioni di benefit a Formigoni), ora si scopre che sono partiti accertamenti sul fatto che le figlie di Daccò, Erika e Monica, usassero con la loro società «Poliedrika» il 31° piano del Pirellone per eventi: i pm contestano che il contratto annuale da 48.000 euro, più un 40% su quanto ricavato dai clienti, dovesse essere affidato con procedure pubblicistiche, anziché con «palesi violazioni» del limite per l’affidamento diretto che all’epoca era 20.000 euro. Un miracolo che le intercettazioni riconducono alla «”vicinanza” delle sorelle Daccò agli ambienti della Presidenza della Regione, in virtù della quale riuscivano a imporre i loro interessi».
Arrestato l'ex dg Infrastrutture Lombarde: chi è Antonio Giulio Rognoni. Antonio Giulio Rognoni, l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Milano, nel 2007 approdò a "Concessioni Autostradali Lombarde" nel ruolo di ad. Antonio Giulio Rognoni, l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Milano nell'ambito di una inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dal pm Antonio D'Alessio. Insieme a lui, sono destinatarie di una misura cautelare altre sette persone. L'accusa è quella di associazione per delinquere e truffa ai danni della Regione. Classe 1960, Rognoni si laurea in Ingegneria Civile nel 1985 per poi conseguire un Master in Economia. Dopo diverse esperienze maturate nel ruolo di amministratore delegato per importanti aziende nel marzo del 2007 approda alle "Concessioni Autostradali Lombarde" ( società costituita il 19 febbraio 2007 in modo paritetico da Regione Lombardia, attraverso Infrastrutture Lombarde e dal Ministero delle Infrastrutture con Anas) con l'incarico di amministratore delegato.
Infrastrutture Lombarde, il colosso regionale degli appalti varato ai tempi di Formigoni. La società per azioni è totalmente controllata dalla Regione Lombardia e ha preso vita nel 2004, non senza proteste da parte dell'opposizione per la nascita di quella che fu definita una sorta di Iri regionale, scrive “La Repubblica”. Dagli ospedali, al restauro della Villa Reale di Monza, passando per le autostrade fino alla nuova sede della Regione Lombardia: Infrastrutture Lombarde - al centro dell'inchiesta milanese che ha portato all'arresto di otto persone - si occupa (e si è occupata) di buona parte delle opere pubbliche realizzate in Regione. Ideata dalla giunta guidata da Roberto Formigoni, è una società per azioni totalmente controllata dalla Regione Lombardia che ha preso vita nel 2004, non senza proteste da parte dell'opposizione per la nascita di questa sorta di Iri regionale. I suoi compiti nel tempo si sono definiti e includono non solo la valorizzazione del patrimonio immobiliare della Regione, ma anche l'ideazione di start up e acceleramento della realizzazione di nuovi progetti infrastrutturali e il ruolo di soggetto aggiudicatore di appalti pubblici. Nel 2011 è stata, per esempio, stazione appaltante della gara per il sistema di collegamento stradale al sito di Expo 2015 (è proprio questo l'ultimo comunicato pubblicato sul sito). Fra i progetti che ha seguito ci sono la costruzione e il collaudo del nuovo palazzo della Regione (di cui gestisce alcuni spazi) e il restauro della Villa Reale a Monza, ma anche le opere di edilizia sanitaria (come le nuove strutture ospedaliere). E, si legge sul sito della società, attraverso un protocollo d'Intesa tra la Regione Lombardia e la Regione Abruzzo, Infrastrutture Lombarde ha realizzato in soli 87 giorni la nuova Casa dello studente a L'Aquila, due scuole primarie e un asilo, contribuendo alla ricostruzione resasi necessaria e al sostegno della formazione locale. Infrastrutture Lombarde possiede inoltre il 50 per cento di Cal, la società Concessioni autostradali lombarde, posseduta per l'altra metà da Anas, che è ente concedente di alcune autostrade in costruzione come Brebemi, Tem (la tangenziale est esterna di Milano) e Pedemontana. Alla guida della società Antonio Rognoni era arrivato nel novembre 2004, pochi mesi dopo l'avvio dell' attività. Dalla carica di direttore generale ha presentato le dimissioni lo scorso gennaio, mentre ha mantenuto la carica di amministratore delegato di Cal. Di lui si era parlato negli ultimi tempi come possibile subcommissario a Expo 2015.
Dissipare le ombre di un’eredità malata. L’intreccio tra politica e affari, scrive Giangiacomo Schiavi su “Il Corriere della Sera”. Non era finita con la sanità corrotta,la ‘ndrangheta e le bonifiche truccate, c’era un’altra anomalia di sistema all’interno del potere che per anni ha governato la Regione Lombardia: una struttura blindata nata ai tempi di Roberto Formigoni e usata per risucchiare appalti e spazzolare investimenti distribuendo favori e milioni a imprese amiche e professionisti a loro collegati. Una ragnatela che si è spinta fino all’Expo e lascia oggi un’ombra pericolosa sul cantiere, un’ombra da dissipare al più presto per evitare derive illegali e non sporcare l’immagine di un evento al quale è stato affidato il ruolo di motore di rilancio per il Paese . Dietro la gestione domestica degli appalti di Infrastrutture Lombarde, la società regionale che pilota cantieri e lavori pubblici c’è, secondo la Procura di Milano, la commistione neanche tanto occulta tra politica e affari, conflitti di interesse e favori truffaldini, coperti da una catena di pelose complicità. Passava (e passa ancora) sui tavoli di Infrastrutture lombarde ogni grande opera sul territorio lombardo, dalle scuole, agli ospedali, alle strade, alla realizzazione del secondo grattacielo della Regione; anno dopo anno la holding ha consolidato ricavi e bilanci sfruttando una condizione di assoluto privilegio: funzionava da controllore e da controllato. In questa anomalia sono cresciute le ambiguità, con incarichi assegnati fuori dalle regole, procedure falsate, contratti retrodatati. Illeciti di un sistema che non si è mai distinto per trasparenza e ha dimostrato, prima con i politici indagati e arrestati, e poi con la decapitazione della vecchia maggioranza, tutta la sua fallibilità. Le accuse dei magistrati alla catena di comando di Infrastrutture Lombarde sono pesanti: se saranno dimostrate avremo l’ennesima prova che negli appalti pubblici resistono le regole truccate per cui non vince mai il più bravo, il più corretto, il più pulito, ma c’è un campo ristretto in cui giocano (e si premiano) gli amici degli amici. Colpisce che un sistema così opaco non sia stato toccato per tempo da un rinnovamento ai vertici: l’ex direttore generale arrestato ieri era ancora attivissimo in tutti i campi. Anche in Expo, nel cantiere che va messo subito in sicurezza dall’eredità malata di quelle pratiche illecite. A questo punto non ci sono vie di mezzo: devono essere le istituzioni a creare una rete protettiva contro ogni illegalità, garantendo quella trasparenza che un ex colonnello dei Ros, indagato anche lui dalla Procura, non è riuscito a dare.
Appalti e tangenti, terremoto Expo. Arrestati Greganti, Frigerio e Paris. Le accuse:corruzione e turbativa d’asta. I pm: cupola con coperture politiche. L’inchiesta divide la Procura di Milano, Robledo non firma: non l’ho condivisa, scrive Paolo Colonello su “La Stampa”. Nuovo terremoto sugli appalti Expo. Un blitz che ha visto impegnati oltre 200 uomini della Guardia di Finanza, ha portato in carcere sei persone più una agli arresti domiciliari accusate a vario titolo di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra questi vecchi e nuovi volti dell’affarismo e della politica italiana. Tra i “nuovi” Angelo Paris, direttore della pianificazione acquisti di Expo e l’ex parlamentare di Forza Italia Grillo. Tra i “vecchi” Primo Greganti, il famoso “compagno G” già arrestato durante l’inchiesta Mani Pulite per le tangenti al Pci e Gianstefano Frigerio, l’ex parlamentare della Democrazia cristiana già arrestato e condannato per Tangentopoli. Da quanto si è appreso l’inchiesta vedrebbe al centro una serie di fatti di turbativa d’asta e corruzione relativa all’Expo e alla città della salute. L’inchiesta è coordinata dai pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio è coordinata dalla Dda di Ilda Boccassini e seguita personalmente dal procuratore Edmondo Bruti Liberati. Alla base dell’indagine ci sarebbero intercettazioni e riscontri di rapporti tra ambienti della sanità lombarda e uomini legati alla ’ndrangheta. Un troncone dell’indagine aveva già portato all’arresto dell’ex consigliere regionale Massimo Guarischi, considerato molto vicino all’ex governatore Formigoni. Ora il salto di qualità dell’inchiesta arriva fino agli appalti per Expo 2015, già finiti nel mirino con l’arresto del direttore generale di Infrastrutture Lombarde avvenuto un mese fa. Inchieste che s’intrecciano e definiscono un quadro inquietante di appetiti attorno all’evento più importante per Milano nel prossimo anno. I pm hanno spiegato che in Lombardia agiva una vera e propria «cupola per condizionare» gli appalti. Questa «cupola» avrebbe promesso «avanzamenti di carriera» a manager e pubblici ufficiali grazie a «protezioni politiche». Il pm Antonio D’Alessio ha parlato di una associazione che aveva la «capacità di avere ramificazioni in diversi settori dell’alta amministrazione, nonché appoggi e agganci di carattere politico istituzionale che hanno assicurato la possibilità di avvicinare con successo pubblici ufficiali». Sempre stando alla ricostruzione di D’Alessio, quando c’era una procedura di gara, l’associazione «interveniva cercando di avvicinare il pubblico ufficiale competente usando gli agganci che aveva anche in ambito politico». In una delle intercettazioni citate dal pm Claudio Gittardi il manager Angelo Paris prometteva, parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere: «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». Nelle carte dell’inchiesta compaiono anche i nomi di Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Cesare Previti (che non risultano indagati). «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». È quello che in sostanza avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 arrestato oggi, in un’intercettazione agli atti, parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere. Poi c’è Primo Greganti. Il suo ruolo era «coprire e proteggeva le cooperative», hanno spiegato i pm in conferenza stampa, sottolineando anche che la «saldatura» tra Greganti e Gianstefano Frigerio, ex parlamentare Dc, «proteggeva le imprese riconducibili a tutti gli schieramenti politici». Il quadro tracciato dai magistrati è di estrema gravità. In Lombardia sarebbe quindi esistita una vera e propria «cupola per condizionare gli appalti». Una cupola che prometteva «avanzamenti di carriera» grazie a «protezioni politiche» a manager e pubblici ufficiali. Abbiamo reciso nel più breve tempo possibile i rami malati, proprio per consentire ad Expo di ripartire al più presto», ha spiegato il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato». «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato», «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato», ma la «pericolosità» dell’associazione per delinquere consisteva proprio nel fatto di avere «agganci politici e istituzionali ad alto livello per intervenire sui pubblici ufficiali». La “sede sociale” dell’associazione per delinquere che avrebbe “inquinato” una serie di appalti era un’associazione culturale intitolata a Tommaso Moro, lo scrittore umanista autore di “Utopia”. «Neanche la sua fantasia sarebbe arrivata a tanto», ha affermato Edmondo Bruti Liberati. L’associazione culturale era riferibile secondo i pm, a Gianstefano Frigerio. L’ex parlamentare Dc era il «presidente del Centro Culturale “Tommaso Moro”» e alcuni imprenditori, secondo i pm, avrebbero anche dato «soldi per una pubblicazione riferibile al figlio di Frigerio». Nel centro, secondo il pm Gittardi, «c’era una viavai continuo di imprenditori, dg di aziende ospedaliere, personaggi di rilievo politico» e poi una serie di incontri si svolgevano anche «in alberghi, ristoranti, nel corso di cene a Milano e Roma». Gli incontri si svolgevano, come ha spiegato il pm D’Alessio, «anche a Roma ogni mercoledì». La «struttura» associativa, come ha sottolineato Bruti Liberati, «ruotava attorno a Frigerio, Greganti, Grillo come organizzatori dell’associazione» e aveva per «partecipi Cattozzo, Paris e Maltauro». Secondo le indagini, la «cupola degli appalti» sarebbe riuscita anche a condizionare un appalto con al centro la società Sogin per lo smaltimento di scorie nucleari. Frigerio, invece, aveva a disposizione, in particolare, una «squadra» di dg di aziende ospedaliere lombarde. Questa, hanno sottolineato i pm, «non è un’indagine sull’Expo, ma è anche un’indagine sull’Expo». Ma l’inchiesta divide la Procura di Milano. Bruti Liberati ha spiegato che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo «non ha condiviso l’impostazione e non ha vistato». Ilda Boccassini ha spiegato che l’indagine è «una delle numerose costole» dell’inchiesta contro le cosche della ’ndrangheta “Infinito-Crimine” del luglio 2010, che vedeva coinvolto l’ex direttore della Asl di Pavia Carlo Antonio Chiriaco, poi condannato e «in contatto con una serie di personaggi politici e manager di ospedali». A questo, ha proseguito, «si è aggiunto poi il troncone relativo al suicidio» del dirigente settore appalti dell’ospedale San Paolo di Milano, Pasquale Libri, «imparentato con un’importante famiglia mafiosa». Le indagini «sono state delegate al pm Gittardi, anche per la sua esperienza passata nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione». Poi, sempre secondo Boccassini, «sono venute alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione» e «io le ho segnalate a Bruti per una sinergia con il secondo dipartimento», coordinato dall’aggiunto Robledo. «Ed è stato affiancato il pm D’Alessio», ha aggiunto Boccassini. D’Alessio è proprio del secondo dipartimento. Da queste indagini è scaturita l’inchiesta che ha portato nei mesi scorsi all’arresto dell’ex consigliere Massimo Guarischi e poi a quest’ultimo filone sull’Expo. Secondo Bruti Liberati, «Robledo non ha condiviso l’impostazione e non ha vistato, ma prima c’erano state numerose riunioni» e poi l’indagine è rimasta a chi la seguiva, ma io «ho informato e ho seguito quotidianamente le indagini».
Expo, Bruti Liberati: "Robledo non c'è perché non ha condiviso l'inchiesta", scrive “Libero Quotidiano”. Nell'inchiesta Expo c'è spazio anche per un nuovo atto della guerra in corso nella Procura di Milano. L'inchiesta è stata guidata da un pm del pool guidato da Ilda Boccassini, il sostituto procuratore Claudio Gittardi, e da uno del gruppo diretto da Alfredo Robledo, Antonio D’Alessio. Tuttavia Robledo non era presente alla conferenza stampa perché ha spiegato il procuratore Edmondo Bruti Liberati, "l’indagine non è firmata anche da lui in quanto non ha condiviso l’impostazione: per questa ragione oggi non è qui con noi". Insomma un altro gesto forte di rottura, segno evidente della frattura che si è creata nel Palazzo di giustizia milanese. Robledo è lo stesso procuratore aggiunto che ha presentato un esposto al Csm per segnalare irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli. Come quello relativo al caso Ruby, assegnato a Ilda Boccassini che, secondo lui, come capo dell'antimafia non aveva alcuna competenza specifica. Robledo ha segnalato anche il caso della privatizzazione di una quota della Sea da parte della giunta di sinistra che governa Milano affidato al pool reati finanziari e poi dimenticato in cassaforte per mesi. Il fatto che questa mattina Robledo non è sfuggito ai cronisti ai quali lo steso procuratore capo ha spiegato le motivazioni della sua assenza. Nessun commento. Ma mai come in questo caso, parlano i fatti.
Tribunale di Milano, Robledo: "Così l'inchiesta Ruby finì alla Boccassini", scrive “Libero Quotidiano”. Tra le mura della procura di Milano lo scontro tra i magistrati ormai è fuori controllo. Davanti al Csm il 15 aprile scorso il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo ha ampliato le accuse che aveva rivolto al capo dell'ufficio Edmondo Bruti Liberati nell'esposto inviato a Palazzo dei marescialli, al pg del capoluogo lombardo Manlio Minale e che è ora all'attenzione anche del Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Robledo nelle sue accuse è un fiume in piena e punta il dito contro Bruti Liberati soprattutto per due processi, quello a carico dell'ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni e quello su Silvio Berlusconi per il caso Ruby. Formigoni e il caso Ruby - Le prime accuse nei confronti dell'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni nell'ambito dell'inchiesta sul San Raffaele "erano state mosse da testimoni nel luglio del 2011 ma l'iscrizione per corruzione è avvenuta con il ritardo di un anno", ha dichiarato Robledo, nonostante si trattasse di indicazioni "dettagliate". Secondo Bruti invece gli "elementi sufficienti per iscrivere i reati di corruzione" emersero quasi un anno dopo l'avvio dell'indagine, mentre l'aggiunto avrebbe voluto procedere "sulla base di un articolo di giornale". Poi Robledo, come racconta il Corriere della Sera cala il colpo sul processo Ruby. Robledo ha infatti raccontato che fu un altro collega, il pm Ferdinando Pomarici, a definire "una violazione delle regole grave" l'assegnazione del fascicolo Ruby a Ilda Boccassini. Ma per Bruti Liberati non ci fu nessuna irregolarità, piuttosto una decisione condivisa con i colleghi interessati. E ad infuocare lo scontro al palazzo di Giustizia ci pensano le rivelazioni di Robledo raccolte da Repubblica. Robledo riporta i giudizi dell'ex aggiunto Ferdinando Pomarici: "Mi ha detto che era una violazione delle regole grave perché il fascicolo andava assegnato al secondo dipartimento (pubblica amministrazione di Robledo, ndr) e non alla Boccassini". Insomma a quanto pare l'inchiesta Ruby sarebbe finita in mani sbagliate. Il caso è aperto. E a quanto pare Robledo ha tutta l'intenzione di andare fino in fondo.
Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.
Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.
Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?
C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.
Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.
Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione. Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001. Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.
La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta.
Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».
Le guerre che il Csm non vede. Della guerra Robledo-Bruti Liberati e del correntismo interno al Consiglio superiore, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Da alcuni mesi anche i lettori meno attenti si sono accorti che alla Procura di Milano è in corso un violentissimo scontro tra il capo, Edmondo Bruti Liberati, e uno dei suoi più stretti collaboratori, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Detta in breve: i due si sono scambiati accuse gravissime sulla conduzione delle inchieste (non si parla di fascicoletti sull’abigeato, ma dell’Expo o del Mose), sull’assegnazione delle indagini, sugli atti da compiere. Una guerra che, in qualsiasi altro ufficio pubblico o privato, si sarebbe risolta con l’avvicendamento di uno dei due o con una precisa direttiva su chi deve fare che cosa e con l’indicazione tassativa sui confini entro i quali ognuno avrebbe dovuto muoversi. L’organo che avrebbe dovuto dirimere la vicenda è il Consiglio superiore della magistratura. Il quale ha indagato, audito, approfondito, dibattuto, valutato. Stava anche per decidere chi aveva torto e chi ragione, fatto più unico che raro, quando a poche ore dal voto è stata recapitata a palazzo una «lettera riservata» del presidente della Repubblica. Che ha avuto effetti dirompenti perché capace di far battere in ritirata chi aveva già messo nero su bianco le sue conclusioni a sfavore del procuratore. Un fatto inaudito. Il Csm ha così deciso di non decidere (un classico) e i due litiganti sono tornati immediatamente a farsi la guerra, dandosele di santa ragione. Badate bene: non parliamo di dispettucci tra colleghi, ma di comportamenti legati a delicatissime inchieste giudiziarie; al punto che uno degli indagati, stufo della manfrina tra capo e aggiunto, s’è messo a fare lo sciopero delle dichiarazioni. Così il procuratore generale di Milano è tornato a rivolgersi al Csm (e campa cavallo) per censurare il comportamento del procuratore. Il vicepresidente del Csm, quello che aveva ricevuto la «lettera riservata» di Giorgio Napolitano, ha commentato «il caso Milano per noi è chiuso» e forse mentre lo diceva si riferiva agli occhi che il Csm ha pilatescamente chiuso confezionando questo bel capolavoro. Insomma, una telenovela della peggior specie. Luciano Violante, che sa perfettamente di che cosa parla, oramai lo ripete fino alla noia: «Le correnti della magistratura sono diventate luoghi in cui si costruiscono carriere. I componenti del Csm vengono da queste correnti e anche il personale amministrativo, dai segretari alle altre figure professionali, viene selezionato dalle correnti e questo fa venire meno la neutralità del Csm». Ora mi rivolgo a voi, gentili ministro della Giustizia e presidente del Consiglio: che bisogno c’era, dopo 4 mesi dall’insediamento del governo, di perdere tempo con le 12 linee guida sulla riforma della giustizia e buttare la palla avanti almeno fino a settembre? La verità è che ci voleva e ci vuole coraggio per sfidare i niet che arrivano dallo strapotere dei magistrati e condizionano lo sviluppo del Paese. Chiedo troppo, lo so. Continuate pure a fare melina.
Expo, il memoriale di Frigerio: "Vi racconto gli affari della sinistra", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Dalla sua cella nel carcere di Opera (Milano) Gianstefano Frigerio, 74 anni e quasi cieco, continua la sua battaglia contro la carcerazione preventiva nell’ambito dell’inchiesta sull’Expo. E in un memoriale in due parti, lungo 20 pagine, inviato al procuratore meneghino Edmondo Bruti Liberati, lancia accuse pesantissime alla sinistra e alle cooperative rosse e invia messaggi sibillini al Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Il linguaggio è felpato, allusivo, ma la sostanza è urticante come un cespuglio di ortiche. In apertura il detenuto - accusato di associazione per delinquere con finalità di turbativa d’asta - si rivolge all’«illustre procuratore» e si affida alla «sua alta funzione di garanzia». Quindi l’ex notabile lombardo della Dc gli chiede «umilmente la grazia» per lui «vitale» di essere interrogato. Ai convenevoli seguono le prime bordate che lasciano intravedere lo spirito combattivo di questo ex parlamentare democristiano. Frigerio non ha digerito la perquisizione inflitta al figlio: «C’è forse da aspettarsi in futuro una pioggia di avvisi di garanzia su tutti i fruitori di protezioni familistiche? Sto pensando alle generose consulenze di Finmeccanica, Ferrovie, Eni a favore dei figli dei vertici del Paese». Qui il riferimento neppure tanto velato è agli eredi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma non solo a loro. «Sto pensando a molti rampolli dell’alta burocrazia o forze dell’ordine o magistratura che hanno trovato un futuro nelle grandi banche o nelle grandi istituzioni finanziarie». A fianco alla parola «magistratura» si intravede, cancellato, l’aggettivo «milanese». I riferimenti a Napolitano ritornano quando elenca gli argomenti dei suoi colloqui con l’imprenditore piddino Primo Greganti, altro componente della presunta «cupola dei tre vecchietti al bar» degli appalti per Expo 2015 (il terzo membro è l’ex senatore Luigi Grillo). «Con Greganti io parlavo solo di politica; del presente di cui era molto scontento (la linea di Renzi gli era indigesta) (…) e soprattutto del passato con grande nostalgia. Emergevano allora i ricordi dei miei rapporti molto solidi e duraturi con Gianni Cervetti (uno dei leader, assieme a Napolitano dei miglioristi)». Quei miglioristi del Partito comunista che ai tempi di Tangentopoli finirono nel mirino dei pm milanesi. «Con Greganti parlavamo spesso delle paure dentro il Pci di un colpo di Stato, dei finanziamenti da Mosca, dei rapporti con gli altri Paesi comunisti, delle tensioni dei miglioristi (in particolare Napolitano) con Berlinguer, della vicinanza dei miglioristi a Craxi (giunta Tognoli) e dopo le elezioni dell’’83 con Berlusconi». Manda bigliettini Frigerio, molto in alto. Fa intendere, allude. Quasi a dire: Enrico Berlinguer, il santino della sinistra e dei grillini, era molto diverso da Napolitano, re Giorgio era più in sintonia con Silvio Berlusconi. E Greganti, il compagno G. delle tangenti rosse, l’uomo del conto Gabbietta, ora in carcere per l’Expo? «Mantiene tuttora forti collegamenti col mondo delle coop, coi leader del vecchio Pci (Fassino, D’Alema, Bersani, Moretti ecc.) e coi giovani turchi (Barca, Orlando, Fassina ecc.) e con numerose realtà internazionali (Cuba, Cina, Vietnam)». Sorpresa: l’”uomo nero” della sinistra avrebbe tuttora legami stretti con tre ex segretari di Pds-Ds-Pd, con l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, con l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina, con l’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca e con il Guardasigilli Andrea Orlando. Ovviamente sono tutte affermazioni senza riscontri o rilievi penali, ma potenzialmente di grande valenza politica. Frigerio entra anche nel merito delle accuse a lui rivolte e in particolare al presunto interesse della “cupola” a mantenere al suo posto Giuseppe Nucci, l’ex ad della Sogin. Nucci doveva “turbare” la gara europea per la centrale di Saluggia (Vercelli)? Ecco la perfida chiosa: «Il responsabile unico della procedura era l’ingegner Cittadini (collaboratore strettissimo e fidato di Nucci), molto legato a Bersani» e nonostante Grillo abbia presentato Nucci a Gianni Letta, Bersani e ad altri politici, alla fine Enrico Letta alla Sogin «nominò il suo amico Casale». Frigerio scrive anche che il grande progetto della Città della salute non era sponsorizzato solo dall’ex governatore lombardo Roberto Formigoni: «Tutta l’elìte politica milanese, a cominciare dal sindaco (Giuliano Pisapia ndr) era favorevole a collocare la città della salute sull’area del Cerba del professor Umberto Veronesi, favorendo anche Mediobanca e Ligresti». Nel memoriale del “vecchietto” terribile c’è spazio pure per Angelo Paris, il manager Expo finito agli arresti domiciliari, che Frigerio sostiene di aver messo in contatto con «il fratello dell’autorevolissimo segretario generale del Quirinale». «Paris era convinto che si stesse saldando un legame del tutto privilegiato tra Sala e il Pd: questo mi fu ampiamente confermato da Greganti. Del resto nel mondo politico di sinistra prendeva sempre più forza la candidatura di Sala a sindaco (di Milano ndr)». Per Frigerio tutte le gare per l’Expo hanno visto «una semplificazione delle procedure», «un’ansiosa corsa contro il tempo», con «ben 4 direttive in tal senso dal governo Letta-Lupi e Renzi-Lupi». La conseguenza? «Una giungla di fantasiose procedure anomale con tutti i poteri decisionali nella mani di Giuseppe Sala (l’ad di Expo spa, ndr)». Ma la “deregulation” dei governi di sinistra avrebbe avuto «un altro risultato riassuntivo evidente». Quale? «Il trionfo delle coop rosse». Che si sarebbero spartite la torta con il mondo vicino a Comunione e Liberazione: «In queste grandi opere si era realizzata una saldatura profonda tra le coop rosse e le imprese della Compagnia delle opere». Per Frigerio «solo la gara per la piastra (la più contestata dai pm ndr) era coerente con le normative europee». Alla fine il detenuto invia un messaggio in bottiglia alla procura e le ricorda che nel 2010 il ministro Giulio Tremonti aveva mandato gli ispettori in Lombardia a studiare «i sovracosti per l’Erario dei project financing» per le grandi opere. Al termine dell’ispezione «Tremonti mandò i fascicoli dell’indagine ministeriale in procura. (…) Come mai ora è calato l’oblio e tutti soffrono di vistosi vuoti di memoria?». Quesito interessante a cui qualcuno, forse, dovrà dare una risposta. Insieme con i saluti, Frigerio chiede a Bruti Liberati di «segretare integralmente» il contenuto della suo j’accuse «per evitare gli slogan roboanti e ad effetto dei media reali e virtuali». La Procura ha preferito non farlo.
Procura di Milano, alla fine per lo scontro pagherà solo Robledo. La Procura generale della Cassazione chiede al Csm di rimuovere il procuratore aggiunto: contro di lui le intercettazioni con l'avvocato della Lega Nord, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Poteva finire con un nulla di fatto, con entrambi i contendenti lasciati in qualche modo al loro posto; poteva finire con la cacciata di entrambi i contendenti, e con l'azzeramento di fatto del gruppo dirigente della Procura; e invece con un colpo di scena la faida interna al palazzo di giustizia milanese sembra avviata a risolversi con la sconfitta piena solo di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto al Consiglio superiore della magistratura aveva sollevato nel marzo dello scorso anno il caso delle presunte irregolarità nella gestione da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati praticamente di tutte le inchieste più delicate. Nei confronti di Robledo, il procuratore generale della Cassazione ha fatto partire nei giorni scorsi una richiesta eccezionale: trasferimento immediato in via cautelare, di fatto l'allontanamento dall'ufficio e il trasferimento a un altro incarico. Tecnicamente, le accuse che potrebbero portare al defenestramento di Robledo non sono collegate ai temi sollevati nel suo esposto, e di cui si è molto discusso in questi mesi. La richiesta di rimozione del magistrato viene motivata dal pg con una serie di intercettazioni che arrivano dall'altro capo d'Italia, ovvero dalla indagine che la procura di Reggio Calabria sta svolgendo sui contatti tra alcuni esponenti della Lega Nord e il mondo della criminalità organizzata: è l'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex tesoriere del Carroccio, Belsito, accusato di avere utilizzato canali contigui alla 'ndrangheta per spostare e investire all'estero parte dei fondi del partito. Nell'ambito di quella inchiesta è stato intercettato anche l'avvocato di fiducia dei vertici leghisti, Domenico Aiello, e così la Dia ha registrato una serie di contatti telefonici tra il legale e Robledo, all'epoca titolare delle indagini sui finanziamenti pubblici al partito di Bossi. Contatti che indicano una certa confidenza tra i due, e nei quali Robledo sembra garantire a Aiello che l'inchiesta sarebbe stata condotta anche a carico di esponenti di altri partiti. Ma è evidente che le notizie provenienti da Reggio Calabria hanno finito col fare parte a pieno titolo dello scontro senza precedenti in corso alla Procura di Milano, dove Robledo accusava Bruti di avere forzato la mano per affidare tutte le inchieste con risvolti politici (dal San Raffaele a Ruby alla Serravalle a Expo) solo a pm di sua fiducia, aggirando le norme interne all'ufficio e le competenze dei diversi dipartimenti. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano, l'organismo locale di autogoverno della magistratura, ha stigmatizzato questo comportamento di Bruti. Ma sia il procuratore capo che Robledo (accusato da Bruti di interferenze e comportamenti irregolari) erano usciti incolumi dalle azioni disciplinari avviate dal Csm. E la settimana scorsa aveva preso quota la ipotesi di una soluzione ponte, con Robledo parcheggiato in un'altra procura in attesa del pensionamento di Bruti. Invece stamane a sorpresa dal Csm arriva la notizia della richiesta di rimozione immediata di Robledo avanzat dal pg della Cassazione, Ciani. Una richiesta che verrà esaminata dal Csm in tempi brevissimi, e che se dovesse venire accolta segnerebbe una vittoria per ko di Bruti e del suo schieramento nello scontro con Robledo.
Milano, altri guai per il pm Alfredo Robledo: "Ha favorito l'avvocato della Lega Nord". Il pg della Cassazione contro l'aggiunto di Milano, già al centro di uno scontro con il procuratore capo Bruti Liberati. Il motivo sono le intercettazioni di un'inchiesta antimafia rivelate da l'Espresso. Secondo l'accusa il legale girava a Roberto Maroni e Matteo Salvini le notizie ottenute dal magistrato che indagava su Belsito, scrive Paolo Biondani “L’Espresso”. Alfredo Robledo Il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, rischia il posto per i suoi rapporti telefonici con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. Un caso giudiziario nato da una serie di intercettazioni della procura antimafia di Reggio Calabria e rivelato per la prima volta il 25 ottobre scorso da un articolo de “l'Espresso” . Robledo è il magistrato che da mesi è protagonista di uno scontro senza precedenti con il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Oggi il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare, ha depositato al Csm una richiesta di trasferimento d'ufficio a carico di Robledo, chiedendo che venga decisa d'urgenza, come misura cautelare. Secondo l'accusa, Robledo dovrebbe non solo cambiare città, ma addirittura perdere le funzioni di pubblico ministero. Il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha già fissato un'apposita udienza della sezione disciplinare, che è chiamata a pronunciarsi il 5 febbraio. Il trasferimento forzato di Robledo consacrerebbe la vittoria di Bruti Liberati nella scontro con il suo aggiunto, che è già stato rimosso dall'incarico di coordinatore delle indagini milanesi sui reati collegati alla corruzione. Il Csm e lo stesso pg della Cassazione, però, devono ancora pronunciarsi sugli altri capitoli ancora aperti della disfida tra toghe che ha spaccato la procura di Milano. A Robledo vengono contestati i rapporti amichevoli con Domenico Aiello, il penalista di fiducia di Roberto Maroni, diventato l'avvocato della Lega dopo lo scandalo dei finanziamenti pubblici sottratti dall'ex tesoriere Belsito, che ha coinvolto anche Umberto Bossi favorendo il cambio della guardia al vertice del partito. Quell'inchiesta era diretta proprio da Robledo. Tra il 2012 e il 2013, mentre era ancora in corso l'indagine milanese sui soldi della Lega, la procura reggina ha intercettato l'avvocato Aiello per tutt'altri motivi: il professionista, che è di origine calabrese, risultava in contatto con imprenditori sospettati di collusioni con la 'ndrangheta. Quella procura antimafia ha così intercettato anche Robledo, ma solo indirettamente, perché era in contatto con l'avvocato Aiello. Anche i parlamentari leghisti sono stati intercettati solo indirettamente: sotto controllo c'era solo il telefonino Aiello. Nella primavera del 2013 la procura di Reggio Calabria ha trasmesso un faldone di intercettazioni ai pm di Brescia, competenti a indagare sui magistrati di Milano, ipotizzando che Robledo avesse rivelato all'avvocato della Lega notizie riservate sulle proprie indagini. Dopo un anno di accertamenti, i pm bresciani Fabio Salamone e Paolo Savio hanno chiesto l'archiviazione di tutte le accuse a carico di Robledo. Secondo i due magistrati competenti, quelle comunicazioni tra Robledo e Aiello non hanno rilevanza penale: non ci sono i presupposti per accusare il pm milanese, in particolare, di ipotetiche violazioni del segreto istruttorio. Nelle motivazioni della loro richiesta, gli stessi pm bresciani precisano però che l'archiviazione riguarda solo la vicenda penale, «al di là di ogni valutazione sull'opportunità di frequenti contatti» tra magistrato e avvocato «per ragioni non sempre strettamente correlate con le rispettive qualità». Ora il pg della Cassazione, che invece rappresenta l'accusa nei procedimenti disciplinari e può occuparsi anche di vicende personali che non costituiscono reato, ha riletto gli stessi atti dell'indagine bresciana ipotizzando, come precisa l'agenzia Ansa, uno «scambio di favori»: un comportamento penalmente irrilevante, ma considerato inopportuno per un magistrato. Sotto accusa, in particolare, ci sono alcuni sms inviati da Robledo ad Aiello, e da quest'ultimo a parlamentari della Lega come Maroni, Salvini e Speroni, mentre era ancora in corso l'inchiesta milanese sul caso Belsito. Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Aiello manda a Maroni un sms che allude a una riunione dei pm milanesi: «Finita riunione in Procura con capo e agg. Domani sera mi daranno altri nominativi ns consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl, mentre su di noi pare ci sia una impiegata gola profonda». Nello stesso periodo l'avvocato Aiello telefona anche all'attuale leader leghista Matteo Salvini, sostenendo che Robledo gli avrebbe promesso di spedire, prima delle elezioni del 2013, «gli stessi avvisi a Pd, Idv e Pensionati. (…) Mi ha detto: “Domenico, te lo garantisco, ci puoi spendere la tua credibilità”». Quando l'inchiesta milanese sui rimborsi-truffa coinvolge effettivamente anche gli altri partiti, l'avvocato della Lega scrive un sms di ringraziamento al pm milanese: «Uomo di parola! Poi grande magistrato!». E Robledo gli risponde con una citazione in latino che sembra confermare una promessa: «Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio!». Esaminate tutte le intercettazioni, i magistrati bresciani hanno concluso che va giudicato «assolutamente comprensibile» che l'avvocato della Lega si preoccupi di informarsi sulla posizione degli indagati della proprio parte politica. Quanto alle notizie sugli altri partiti, Robledo si sarebbe limitato a fornirgli una «generica informazione che l'indagine avrebbe riguardato in tempi brevi anche l'opposizione», senza però rivelargli segreti investigativi. Ora però il pg della Cassazione rilancia l'accusa, sostenendo che Robledo, il 18 dicembre 2012, avrebbe anticipato ad Aiello almeno una notizia molto precisa, e cioè che la sua inchiesta stava per coinvolgere altri 7-8 consiglieri regionali. Cosa effettivamente successa il giorno dopo. Sotto accusa, sempre sul piano disciplinare, c'è anche una serie di telefonate in cui Robledo avrebbe suggerito ad Aiello di chiedere copia di una consulenza tecnica a carico della Lega, che era stata anticipata nel febbraio 2013 da “l'Espresso”. Quando poi Aiello si vide negare quei documenti integrali, Robledo, sempre secondo il pg della Cassazione, avrebbe scaricato la colpa sul procuratore capo, Bruti Liberati. Da altre telefonate, sempre secondo la ricostruzione dei pm bresciani, risulta «evidente che Robledo si sia avvalso dell'aiuto del legale per intervenire nella procedura dinanzi la Commissione europea» che lo vedeva contrapposto all'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, mentre quest'ultimo si era candidato alle regionali in Lombardia contro Maroni. Nei mesi precedenti, Albertini aveva accusato il pm milanese di aver condotto indagini illegali sui derivati finanziari acquistati dal Comune di Milano. Contro-denunciato da Robledo, l'ex sindaco, che rivestiva la carica di europarlamentare di Forza Italia, aveva chiesto l'immunità politica, che però gli è stata negata. Di questo caso si era occupata la stessa procura di Brescia, che alla fine ha chiesto di processare proprio Albertini per calunnia ai danni di Robledo. In quel contesto, nelle sue conversazioni con l'avvocato Aiello, Robledo chiedeva «solo che la mia lettera vada alla Commissione, che prenda atto che questo ha detto balle totali». Ora però il pg della Cassazione sostiene che Robledo, per poter preparare la sua lettera, avrebbe ricevuto dall'avvocato Aiello una serie di documenti, presentati da Albertini al Parlamento europeo per ottenere l'immunità, che andrebbero considerati «non pubblici». Aiello glieli avrebbe fatti arrivare per email. Nell'indagine bresciana erano finite anche alcune intercettazioni, registrate sempre dai pm antimafia calabresi, delle telefonate tra Aiello e il pm milanese Eugenio Fusco, titolare di un'inchiesta sul gruppo Finmeccanica che sembrava poter coinvolgere anche la Lega. Ma i magistrati bresciani hanno concluso che queste conversazioni, oltre a essere penalmente irrilevanti, «rientrano nella prassi comune dei contatti tra pm e difensori». Sull'archiviazione dell'inchiesta penale su Robledo, l'ultima parola spetterà ai giudici bresciani. Ma ora il procuratore aggiunto rischia di essere allontanato da Milano con un trasferimento disciplinare che potrebbe segnare la fine della lunga stagione dei veleni in procura.
Quel filo segreto tra la Lega e Robledo. Il pm di Milano intercettato al telefono con l’avvocato di Maroni. L’antimafia lo denuncia. E l’indagine finisce a Brescia, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Da una parte c’è il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che in quei giorni sta indagando sui presunti ladroni del cerchio magico di Umberto Bossi. All’altro capo del telefono c’è l’avvocato Domenico Aiello, che dopo aver difeso Roberto Maroni sta diventando, proprio per effetto di quel terremoto giudiziario, il penalista di fiducia dell’intero partito padano. E in mezzo, ad ascoltare tutto, ci sono i carabinieri di una procura antimafia del Sud Italia. Che non si aspettavano certo di dover registrare dei colloqui riservati tra il pm anti-Lega e l’avvocato della Lega. Su questo strano cortocircuito tra giustizia e politica sta indagando da circa un anno la Procura di Brescia. Un’inchiesta riservatissima, che per il pm Robledo era iniziata molto male. L’alto magistrato, almeno fino a pochi giorni fa, risultava ancora indagato, a quanto pare per un’ipotetica violazione del segreto istruttorio. Ma in questi mesi i pubblici ministeri bresciani hanno ormai approfondito il caso, che sembra essersi ridimensionato. E ora a Brescia, dove nel frattempo il nuovo procuratore Tommaso Buonanno ha scalzato lo storico pm Fabio Salamone, i magistrati sarebbero orientati a chiedere l’archiviazione. Il verdetto finale comunque spetterà ai giudici delle indagini e fino ad allora Robledo resterà, suo malgrado, formalmente inquisito. Proprio come il suo grande nemico, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, a sua volta sospettato di omissione di atti d’ufficio, per un’inchiesta sulla Sea dimenticata in cassaforte e rivendicata da Robledo dopo un articolo de “l’Espresso”. La nuova indagine bresciana non c’entra nulla con il feroce scontro tra Robledo e Bruti: è invece uno spezzone di un’istruttoria altrui, molto più ampia e ancora segreta. Si sa soltanto che una procura antimafia, per ricostruire le trame di un colletto bianco, ha intercettato (come sempre) tutti i suoi interlocutori, imbattendosi per caso in Aiello. E così, tra il 2012 e il 2013, per qualche tempo finisce sotto controllo pure il telefonino dell’avvocato. Che, a sorpresa, si sente più volte con Robledo. I carabinieri annotano. E nella primavera 2013 la loro procura manda a Brescia due denunce di reato. Il tenore delle intercettazioni ha convinto quella procura antimafia che il pm Robledo e l’avvocato Aiello stiano orchestrando manovre per colpire l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Che è un rivale politico: proprio in quei mesi si è candidato contro Maroni in Lombardia. Altre telefonate fanno temere che il magistrato possa avere anticipato all’avvocato qualche notizia riservata della sua inchiesta sui presunti rimborsi-truffa incassati da altri partiti. Di qui la trasmissione al Nord delle intercettazioni. A Brescia però, per fortuna di Robledo, i pm sono in grado di ricostruire un quadro più completo. Albertini, infatti, è già indagato (e oggi rischia il processo) con l’accusa di calunnia proprio ai danni del magistrato milanese: era lui che tentava di screditarlo. Denunciato da Robledo, l’ex sindaco cercava di avere l’immunità dal parlamento europeo, che poi lo ha bocciato. In quelle telefonate Robledo non nasconde l’antipatia per Albertini, ma cerca solo di d’informarsi se la Lega a Bruxelles voterà a suo favore. Mentre per i rimborsi, all’avvocato che gli contesta di perseguitare solo la Lega, il pm ribatte che indagherà su tutti i partiti, come poi succederà, ma senza fornirgli particolari segreti. In attesa che i giudici bresciani tirino le somme, certo è che il pm e l’avvocato non parlavano di altre indagini che avrebbero potuto interessare entrambi. Nel 2010, quando è diventato il difensore di Maroni, Aiello guidava il ramo penale dello studio internazionale “Dla Piper”, dove a gestire il settore degli appalti era l’avvocata Giorgia Romitelli. Che nel marzo 2014, su richiesta di Robledo, è finita agli arresti domiciliari nell’inchiesta che ha decapitato Infrastrutture Lombarde, la centrale regionale delle grandi opere.
Robledo chiede alla Finanza di aiutarlo a incastrare Bruti. Caos a Milano, l'aggiunto scrive al Csm e controaccusa il suo capo: "Su Expo dice il falso, ho le prove". E allega una relazione della GdF, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Alfredo Robledo non ci sta. Reagisce con durezza alle controaccuse del procuratore di Milano, Bruti Liberati, e scrive una nota al Csm, accusandolo di aver detto il «falso» e chiedendo di essere ascoltato per replicare. «Sono radicalmente inventate e prive di qualunque fondamento - tuona - le affermazioni su Expo». E da Magistratura indipendente arriva l'appello al Guardasigilli Andrea Orlando: si mandino gli ispettori alla Procura di Milano. Raccontano che l'aggiunto abbia dato in escandescenze martedì, quando ha saputo che nella lettera mandata al Csm il suo capo denunciasse l'episodio, definito «surreale», del doppio pedinamento di un indagato, che l'aggiunto avrebbe disposto rischiando di far saltare le indagini sull'Expo 2015. No, Robledo non ci sta e ha richiesto urgentemente alla Guardia di finanza una dettagliata relazione, allegata alla nota di due pagine inviata al Csm, per confutare la ricostruzione del suo capo. Una ricostruzione che tenta di presentare lui, il grande accusatore di irregolarità e violazioni nel Palazzo di giustizia milanese, come il colpevole di iniziative che hanno portato «grave intralcio» ad importanti inchieste. Ma Robledo fa una smentita a tutto campo. E con toni durissimi: «Le inveritiere affermazioni del procuratore» di Milano Edmondo Bruti Liberati - scrive - sul presunto "doppio pedinamento" (nelle indagini su Expo, ndr) appaiono altamente lesive della dignità della funzione di procuratore aggiunto, coordinatore del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione che attualmente svolgo, e turba «il regolare svolgimento della funzione». Uno scontro senza precedenti. Nella sua lettera al Csm, resa nota martedì, Bruti contesta il fatto che l'aggiunto (il quale polemicamente non ha firmato le 7 richieste d'arresto per l'inchiesta Expo, sostenendo che gli sarebbe stato impedito di valutare compiutamente i fatti, «in violazione della normativa») non sia stato tenuto al corrente delle indagini. Nate, secondo il capo, nella Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e coassegnate al Dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, di cui Robledo è responsabile. Come esempio dei danni che l'aggiunto avrebbe causato, mettendosi di traverso alla sua gestione della procura, il capo parla della vicenda del doppio pedinamento. Contro il suo aggiunto ribelle Bruti denuncia molto altro, sostenendo di non aver potuto dire tutto nell'audizione a Roma del 15 aprile, perché allora l'indagine sull'Expo era ancora coperta dal segreto. Il procuratore sostiene infatti che, inviando il mese scorso al Csm copie di atti di questo procedimento, ancora «in delicatissima fase di indagine», Robledo «ha posto a grave rischio il segreto delle indagini». Ma l'aggiunto controbatte, su tutta la linea. Palazzo de' Marescialli deve ora valutare la fondatezza delle accuse di Robledo e delle controaccuse di Bruti Liberati. Per il primo, il procuratore avrebbe affidato troppe inchieste politicamente delicate (a cominciare da quella Ruby) a pm come la Boccassini e Francesco Greco, non per competenza ma perché li riteneva più fidati. Da notare, che Bruti Liberati è uno degli storici esponenti della corrente di sinistra Magistratura democratica, mentre Robledo è vicino a Magistratura indipendente. E proprio da Magistratura indipendente è arrivata la richiesta di un'ispezione. A farla il togato Antonello Racanelli, nel corso del plenum del Csm alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro ha replicato dicendo di attendere le decisioni del Csm per decidere. «Il quadro ormai è chiaro - racconta un consigliere di una delle commissioni interessate, la prima (incompatibilità ambientale e funzionale) e la settima (organizzazione degli uffici) - non ci dovrebbero essere altre audizioni». Il procuratore capo Bruti, che a luglio termina il suo incarico, dopo questo scontro clamoroso difficilmente potrà essere confermato alla guida dell'ufficio di Milano. Ma per lui, anche se la vicenda al Csm si chiude senza conseguenze, potrebbe profilarsi un'indagine disciplinare. In particolare, sulla vicenda del fascicolo Sea-Gamberale, dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso. Ma anche per il suo vice Robledo potrebbero esserci conseguenze, perché anche se il suo comportamento fosse ritenuto «incolpevole», ci potrebbe essere all'orizzonte un trasferimento per incompatibilità con i colleghi dell'ufficio.
Expo, indagato Maroni. I pm: "Fece pressioni per far assumere due conoscenti". Contratti a termine in Expo2015 spa e in Eupolis. Una era sua collaboratrice al Viminale. La Procura di Busto Arsizio indaga anche il capo di gabinetto. Il governatore: "Sereno, ma sorpreso", scrive “La Repubblica”. Roberto Maroni è indagato dalla Procura di Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità" per due contratti stipulati dalla società Expo2015 spa e dall'Ente della Regione Lombardia per la ricerca, la statistica e la formazione (Eupolis). Il governatore lombardo e il suo capo di gabinetto, Giacomo Ciriello - ai quali è stato notificato l'avviso di garanzia dai carabinieri del Noe a Palazzo Lombardia - avrebbero esercitato "pressioni" per far ottenere indebitamente contratti a tempo determinato a due persone ritenute a vicine a Maroni, Mara Carluccio, in passato sua collaboratrice al ministero dell'Interno, e Maria Grazia Paturzo. Il contratto siglato da Eupolis avrebbe avuto il "fine esclusivo di garantire alla Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui (somma dalla stessa fissata per proprie esigenze fiscali)", si legge nell'avviso di garanzia. Mentre Paturzo sarebbe stata assunta dalla società Expo con un assegno "pari alla somma di 5.417 euro mensili per la durata di due anni". Da dicembre 2011 Éupolis, secondo quanto riporta il sito, “ha sottoscritto una convenzione quadro con il Commissario Generale di Expo Milano 2015 per supportare: – la definizione e l’approfondimento del tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, soprattutto attraverso la predisposizione di approfondimenti conoscitivi (normativa, letteratura, stakeholder, etc.) in relazione ai vari sottotemi; – la gestione delle relazioni internazionali in ottica di promozione della partecipazione dei Paesi ad Expo 2015; – l’attività tecnico amministrativa, in particolare nell’attività di informazione sugli sviluppi e gli avanzamenti nella preparazione dell’Esposizione”. Si è difeso, in una nota, l'ex segretario della Lega Nord, che non ha in programma alcun intervento in Consiglio regionale (come sostenuto dal presidente Raffaele Cattaneo ma smentito dallo staff del governatore). "Sono assolutamente sereno e, allo stesso tempo, molto sorpreso. Per quanto a mia conoscenza, è tutto assolutamente regolare, trasparente e legittimo", ha sostenuto Maroni. Si tratta -spiega il presidente della Giunta- di due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma. La loro attività è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell’evento Expo". In particolare, sottolinea Maroni "una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la Società Expo, mentre l’altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo. «Sono, ribadisco, sereno e fiducioso -conclude- che le cose verranno al più presto chiarite". Secondo l'avviso di garanzia firmato dai pm Eugenio Fusco e Pasquale Addesso, Maroni e Ciriello avrebbero abusato della "loro qualità e poteri e, in particolare, delle qualità e dei poteri inerenti la carica di presidente della Regione su enti regionali e società dalla Regione stessa partecipata". L'indagine nasce dall'inchiesta sulla vendita di 12 elicotteri all'India da parte di Agusta Westland, società di Finmeccanica, e i reati, secondo i pm di Busto, sarebbero stati commessi dieci giorni fa, il 4 luglio, nella cittadina in provincia di Varese. I militari del Noe hanno anche perquisito uffici della Regione Lombardia in via del Gesù a Roma a disposizione della Carluccio. Nel dettaglio, Maroni e Ciriello avrebbero dato "indebite utilità economiche" a Carluccio e Paturzo - si legge nell'avviso di garanzia - "non essendo riusciti a collocarle nello staff del presidente, in quanto la loro assunzione sarebbe stata soggetta ai controlli della Corte dei Conti sulla Regione". Ciriello, "manifestando che tale era il desiderio del presidente Maroni - si sostiene - richiedeva e otteneva da esponenti di Eupolis un contratto conclusivo al fine esclusivo di garantire a Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui. Inoltre, otteneva "da esponenti di Expo 2015, anche per il tramite di Obiettivo lavoro temporary manager, un contratto concluso al fine esclusivo di garantire a Paturzo, una indebita utilità economica pari alla somma di 5.417 euro mensili (per la durata di due anni)". La società Expo, in una nota, ha chiarito che l'assunzione di Paturzo è stata fatta su indicazione del gabinetto del presidente della Regione per curare alcuni progetti, tra cui i tour promozionali di Expo a livello internazionale e nelle province lombarde. Sul fronte politico al governatore è arrivata la "piena fiducia" e "solidarietà" degli assessori della sua giunta e dei capigruppo della maggioranza (in diverse note congiunte), oltre a quella della coordinatrice lombarda di Forza Italia, Mariastella Gelmini. Mentre Pd e Patto civico hanno espresso "preoccupazione" per la "pletora di notizie su irregolarità nelle nomine" (il riferimento indiretto è anche al contratto alla moglie di Matteo Salvini da parte dell'assessorato al Welfare). E il Movimento 5 Stelle ha prenotato la richiesta di dimissioni nel caso in cui le accuse contro Maroni fossero confermate. Da Palazzo Lombardia la voce dell'ex ministro dell'Interno è arrivata solo attraverso una nota, diffusa a metà pomeriggio. Al centro dell'inchiesta, ha chiarito Maroni, vi sono "due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma". "La loro attività - ha continuato - è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell'evento Expo. In particolare, una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la società Expo, mentre l'altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo". "Sono, ribadisco, sereno e fiducioso che le cose verranno al più presto chiarite", ha concluso Maroni.
Un’inchiesta era partita per un concorso dagli esiti sorprendenti: la selezione per l’assegnazione di quaranta borse di studio. I bandi sono due: uno per 31 “giovani laureati”, l’altro per nove “dottori di ricerca”. Ed è proprio uno dei candidati al secondo concorso che ha fatto partire le indagini, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Nell’esposto Antonio Alizzi, professore a contratto di management per l’editoria all’università di Verona, spiega come si sia ritrovato dal primo al secondo posto in graduatoria per una delle nove aree messe a bando. Nella selezione per titoli era risultato, con 40 punti, in cima alla classifica. Alle prove orali totalizza altri 39 punti e arriva a 79. Ma davanti a lui c’è Filippo Cristoferi, brillante studioso molto inserito nei giri di Comunione e liberazione, tra le firme del Sussidiario, la rivista d’area del movimento e già collaboratore e borsista di Éupolis. Cristoferi ha un punto in più di Alizzi: 80. Ed è molto curioso, osserva il suo concorrente, visto che nella valutazione dei titoli aveva solo 31 punti e per la prova orale altri 46. Come si arriva a 80? Con un incremento di tre punti della valutazione ufficiale, che nella somma finale viene portata da 31 a 34 punti. Per far funzionare questo carrozzone sforna studi la Regione ha speso nel 2013 quasi 23 milioni di euro per progetti che vanno da un generico “contributo per le attività istituzionali” al “trasferimento risorse gestione osservatori Dg Famiglia” fino ad un corso in formazione specifica in Medicina generale da oltre sei milioni di euro. Tra i suoi consulenti diversi ciellini tra cui l’ex sottosegretario formigoniano Robi Ronza, fondatore del settimanale ultracattolico "Il Sabato". Sono decine e sono chiamati con un contratto cucito su misura. Nell’elenco infinito di collaboratori e consulenti (sono più di 700 per i primi sei mesi del 2014 per una spesa che supera più di quattro milioni e 600 mila euro) spunta anche l’ex braccio destro di Formigoni Nicolamaria Sanese. Dieci mesi di lavoro per 46 mila euro per guidare «la scuola superiore di Alta Amministrazione di Éupolis Lombardia e progettazione attività formative per la dirigenza apicale della pubblica amministrazione lombarda». Sanese aveva lasciato la poltrona di potente segretario generale dopo il rinvio a giudizio per associazione a delinquere e corruzione insieme all’ex governatore Roberto Formigoni. Secondo i pm di Milano, da segretario generale Sanese teneva i rapporti con il faccendiere Piero Daccò. E interveniva sul direttore generale della Sanità Carlo Lucchina (anche lui rinviato a giudizio) «affinché fossero adottati dalla giunta, in violazione di legge e dei doveri di imparzialità ed esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, provvedimenti diretti a erogare consistenti somme di denaro e procurare altri indebiti vantaggi alla Fondazione Mugeri». Nonostante il rinvio a giudizio tiene corsi di buona amministrazione ai manager pubblici lombardi.
Il cerchio magico di Maroni: ecco come il Governatore sistemava tutte le sue pedine. Dal Pirellone a Infrastrutture, il giro nelle nomine del segretario leghista alla guida della Regione Lombardia, scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. Sono "indaghizzato": viene su spontaneo ironizzare, a causa dell'effetto Crozza, dinanzi alla notizia del presidente della regione Lombardia Roberto Ernesto Maroni, detto universalmente Bobo, indagato a Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità". Ex impiegato dell'azienda di cosmetici Avon, fan di Bruce Springsteen e lui stesso musicista tuttora praticante, il governatore è stato sempre afflitto da una patologica timidezza, colta dal suo perfido imitatore e già raccontata da Guido Passalacqua nel suo libro sugli esordi della Lega. Ma l'antico dato caratteriale, dopo venticinque anni di politica anche in alti vertici come il ministero dell'Interno, non ha impedito che diventasse anche lui un campione del modello clientela&parentela o, se volete, dell'italico familismo amorale. Il cerchio magico delinquenziale del suo ex duce Umberto Bossi ha oscurato tutti gli altri cerchietti magici padani, ma anche Bobo ne ha da anni uno ben collaudato, diventato sempre più famelico dopo la sua assunzione al vertice della prima regione d'Italia. Per questo, con tutto il rispetto per i pm di Busto Arsizio e per lo stesso Maroni, che spesso ha lamentato che "quando bisogna immolarsi per la Lega tocca sempre a me", leggere il decreto di perquisizione dei magistrati, da una parte sembra fornire nuovi spunti satirici, dall'altra fa riflettere sulle piccole frazioni di realtà che la magistratura riesce - quando riesce - a perseguire...Tra i primi atti ci fu la nomina di Anna Maria Tavano da Catanzaro ai vertici delle infrastrutture della Lombardia, con uno stipendio di 186 mila euro più bonus. Questa signora sarà bravissima, ma è la moglie di Domenico Aiello, avvocato calabrese, una specie di Ghedini di Maroni...Tavano e Aiello, vecchi amici di Isabella Votino, detta "la badante di Bobo"... sono capisaldi del cerchietto magico. Come Maria Cristina Cantù, assessore regionale al Welfare, che ha appena assunto Giulia Martinelli, compagna del neo-segretario della Lega Matteo Salvini......Giovanni Daverio, in arte Johnny, e Giuseppe Rossi, in arte Gegè, musicisti del Distretto 51, la band di Bobo, approdati a tutt'altro che irrilevanti incarichi nella sanità regionale. O la vocalist Simona Paudice, "coadiutore amministrativo esperto" all'ospedale di Treviglio...
Regione Lombardia, la compagna di Salvini assunta per chiamata diretta. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno, nell'ente guidato dal leghista Roberto Maroni. Ma non è l'unica: il figlio dell'assessore Aprea vola nella sede regionale a Bruxelles. Il segretario del Carroccio: "Che c'è di male?", scrive Davide Vecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Ognuno ha la sua family. Anche Matteo Salvini. La compagna del segretario del Carroccio è stata assunta con un contratto diretto in Regione Lombardia, guidata dal leghista ed ex capo del Carroccio, Roberto Maroni. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù, quella che propose di assegnare i fondi regionali a sostegno della maternità solo a chi risiede in Lombardia da cinque anni spiegando la decisione con un lapidario: “Oggi ne vanno troppi agli extracomunitari”. Martinelli doveva essere assunta già lo scorso primo gennaio: Cantù presentò il decreto di assunzione alla segreteria generale del Pirellone che però lo bloccò e rispedì al mittente. Il momento per il Carroccio non era dei migliori, il partito con ancora le ferite aperte della Family di Bossi guardava alla sopravvivenza alle Europee come a un miraggio. E soprattutto a storcere il naso erano stati alcuni esponenti del partito. A cominciare dall’ex assessore Daniele Belotti e da alcuni parlamentari che da Roma avevano chiamato direttamente il governatore Maroni: “Non provate a fare una roba del genere”. Bobo seguì il consiglio. Martinelli ha incassato, pur avendo già chiesto l’aspettativa alla Asl – dove ha vinto un concorso e lavora come avvocato – e ha cominciato a collaborare con la Cantù. Senza un incarico ufficiale. Che però è arrivato a giugno: un contratto in forma di incarico fiduciario per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno. Il doppio di quanto percepiva alla Asl. Il contratto non è ancora stato ufficializzato. “Sappiamo che lavora qui, la vediamo da settimane ogni giorno eppure nessuno ha il coraggio di mettere la faccia su questa nomina”, afferma il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Dario Violi. Due settimane fa, con esattezza il 27 giugno 2014, Violi e il suo gruppo hanno presentato richiesta formale per avere l’elenco degli incarichi e dei contratti fatti da Cantù ma ancora non hanno ricevuto alcuna risposta. E non è detto che quello di Martinelli ci sia perché in base al decreto Monti non c’è l’obbligo della pubblicazione dei contratti privatistici ma solo delle collaborazioni. “Noi sappiamo che lavora qui – ripete Violi – e appena avremo i dati ufficiali faremo un’interrogazione per chiedere chiarimenti in merito alle assunzioni di amici, parenti”. Sì perché quello della compagna di Salvini non è “l’unico caso di incarico dubbio”: ci sono anche i fedelissimi del segretario del Carroccio Lucio Brignoli ed Eugenio Zoffili, coordinatore federale e nazionale lombardo del movimento giovani padani, entrambi sbarcati nel Palazzo Lombardia. Zoffili alla dirigenza dello staff dell’assessore Simona Bordonali, Brignoli in quella di Claudia Maria Terzi. Tanto per rimanere alla Lega. In Forza Italia la bandiera è tenuta alta dall’assessore all’istruzione Valentina Aprea: suo figlio Stefano Spennati, finita l’esperienza in Europa come assistente parlamentare di Lara Comi, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles. Il consigliere regionale dei Cinque Stelle, Stefano Buffagni, ha presentato richiesta d’accesso agli atti e minaccia di presentare “una mozione di censura nei confronti dell’assessore”. Va detto però che Spennati, 32 anni, ha già un lungo curriculum: nel luglio 2009 era consulente del ministero dell’Istruzione per gli affari esteri, poi è stato nello staff del Commissario Antonio Tajani e nella segreteria di Mario Mauro quando era vicepresidente del Parlamento europeo. Spennati, oggi assistente a Bruxelles di Gianlorenzo Martini, direttore della delegazione presso l’Unione Europea di Regione Lombardia, non risponde al telefono. Disponibile invece è Matteo Salvini per spiegare la nomina della compagna. E parte all’attacco: “Un contratto con la Cantù? E cosa c’è di male? Lavorano insieme da almeno sei anni, prima a Milano poi a Legnano e ora in Regione, quindi?”. Quindi che la compagna del segretario della Lega venga assunta nella Regione che il partito guida non è proprio normale. “Ma per piacere… Ha fatto i concorsi per entrare all’Asl, se fosse rimasta nel privato da avvocato avrebbe guadagnato di più”. Lavorando anche di più. “Ma no, ha fatto una scelta di vita: lavorare nel pubblico, avendo a che fare con malati di mente, autistici e quant’altro; insomma la moglie di Renzi fa l’insegnante? La mia fa la dipendente Asl… poi guadagnasse diecimila euro al mese…”. Su questo “sono la stessa cosa”, chiosa Violi di M5S: “Parlano tanto di famiglia ma poi si preoccupano di sistemare le loro e, al massimo, gli amici”.
Il M5s: "Salvini ha piazzato la moglie in regione". Lui: "Siete dei poveretti", scrive “Libero Quotidiano”. Dal suo profilo Facebook Matteo Salvini si scaglia contro il giornale di Marco Travaglio che ha pubblicato un articolo nel quale denuncia la presunta assunzione in Regione Lombardia della compagna del segretario della Lega Nord. "Quei poveretti del Fatto Quotidiano, non potendomi attaccare su altro, se la prendono con la mia compagna perché ’lavora in Regione'", scrive Salvini. "Peccato - aggiunge - che la mia compagna, laureata e avvocato (più brava di me!), abbia scelto di lasciare una più comoda e remunerativa carriera nel privato per occuparsi di sociale, di malati di mente e di donne maltrattate, di disabili e di bimbi in difficoltà, lavorando per la Asl da ormai 5 anni, non da oggi, essendo assunta come migliaia di altre persone senza che io abbia (ovviamente) fatto nulla". Per Salvini "lei è in grado di aiutarsi da sola, e di aiutare gli altri. Se i Kompagni sono ridotti a questo, vuol dire che siamo sulla strada giusta! Scusatemi lo sfogo, ma quando infamano le persone mi incazzo. E ora riprendo a fare quello che mi piace, cioè lavorare". Ma non è solo Salvini ad essere finito nella denuncia del Movimento 5 Stelle che hanno presentato una interrogazione al governatore Roberto Maroni citando due presunti casi di una ’parentopoli' alla Regione Lombardia. In una nota, i grillini avevano scritto che "Giulia Martinelli, compagna del leader della Lega Nord Matteo Salvini, nel maggio scorso, è entrata a far parte dello staff dell’assessore regionale lombardo al Welfare Maria Cristina Cantù, con un compenso di circa 70 mila euro l’anno". E ci sarebbe anche "Stefano Spennati, figlio dell’assessore di Forza Italia Valentina Aprea", che "terminata l’esperienza in Europa come assistente parlamentare, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles". Secondo Dario Violi, consigliere lombardo del M5S, "questa è una parentopoli e da mesi stavamo lavorando, con accessi agli atti, per farla emergere. I documenti ci vengono puntualmente negati o gli uffici ci fanno aspettare tempi enormi per darci informazioni che dovrebbero essere pubbliche. Aprea e Salvini ci dovrebbero spiegare l’opportunità che compagni o figli di esponenti di partito siano assunti nell’istituzione che governano". "Il caso Salvini-Aprea - ha aggiunto il consigliere del M5S - è solo la punta dell’iceberg: ogni giorno ci imbattiamo in personale assunto in posizioni apicali dalla Regione, dalle Asl o dalle aziende partecipate che non ha alcun requisito se non l’amicizia, la parentela con politici della casta o esperienze di lavoro in questo o quel partito". Pertanto, "con un’interrogazione chiediamo a Maroni di rispondere in merito a questo nuovo caso di parentopoli che danneggia i cittadini lombardi e l’immagine dell’istituzione".
Salvini, il comunista padano che per Milano dà il sangue. Il nuovo (probabile) leader della Lega da ragazzo frequentava i centri sociali. È stato consigliere comunale della sua città per 19 anni, è volontario dell'Avis e detesta Roma, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Il superfavorito alla segreteria della Lega Nord, Matteo Salvini, ha una psicologia elementare che coincide con la scritta della sua maglietta verde preferita: «Milano. Viverci un onore, difenderla un dovere».
Matteo, detto Teo, è tutto qui: il Nord, la Padania, Milano, il Milan. Se si confermeranno le previsioni, il 7 dicembre, giorno dell'elezione, la Lega avrà per capo un baldo quarantenne impregnato così tanto di padanità che, al confronto, i due predecessori, Bossi e Maroni, fanno figura di spiriti universali. Umberto e Bobo, infatti, sono diventati con gli anni uomini di mondo, hanno soggiornato a Roma, frequentato salotti e accettato compromessi. A Teo, invece, Roma fa venire l'orticaria. Due volte gli è toccato scendere laggiù e solo perché era stato eletto deputato. In entrambi i casi, è fuggito appena ha potuto, preferendo allo scirocco romano le bore di Strasburgo. Nel 2008, resistette un anno. Poi, esausto, si fece eleggere alle Europee del 2009 e filò via. Rieletto a Roma con le Politiche di quest'anno, ma ancora in forze nell'Ue, optò per il seggio europeo, lasciando la scranna di Montecitorio a un collega. Insomma, con la capitale evita rapporti così come con il Centrosud. Anche perché, quando ci è venuto a contatto, è stato deluso. Venerando Bossi fin dalla puerizia, Teo volle imitarlo prendendo per moglie una ragazza di origine meridionale. Così impalmò la pugliese Fabrizia, di cui era innamoratissimo, e ne ebbe Federico, oggi di dieci anni. Ma a parte il fatto che lei era vicina ad An e lui un comunistoide in salsa padana, le cose tra loro si guastarono presto. Teo ne trasse conferma di essere incompatibile con ciò che oltrepassa i confini meneghini. Ora vive con Giulia da cui, un anno fa, ha avuto Mirta. Non si deve dedurre da questa traversia sentimentale, che Salvini sia ondivago o incostante. Fantasioso nelle sue iniziative, Teo è in realtà molto lineare nei comportamenti fondamentali. Ha quattro idoli, sempre gli stessi: Bossi, Maroni, Fabrizio De Andrè, il Milan. Bossi è il mito astratto, Maroni il riferimento concreto. Ciò significa che se ora Bossi si getterà nella lizza per contendergli la segreteria, Teo lo combatterà con ogni mezzo, senza timori reverenziali. Per lui è, ormai, puramente un'immagine votiva cui accendere un cero. Nelle cose serie, l'unico che pesi è Bobo. De Andrè, invece, è la sua fissazione dai tempi in cui frequentava il Leoncavallo, il centro sociale che lo ha nutrito di blande convinzioni di sinistra e che gli ha lasciato il marchio dell'orecchino alla Nichi Vendola che continua a portare. L'estate, quando come sempre va in Sardegna, trascina parenti e amici a Tempio Pausania in visita alla casa dove il cantautore fu rapito dai briganti. Il Milan, infine, rappresenta per lui le domeniche allo stadio tra i tifosi della curva e l'unico legame con il Cav che, per il resto, gli è indigesto. Tanto è vero che, per le politiche di quest'anno, aveva ostacolato l'alleanza tra Lega e Pdl «perché la presenza in campo di Berlusconi non ci aiuta». Di famiglia benestante - il papà era dirigente d'azienda - Teo ha sempre avuto un temperamento ruspante. Poteva diventare un distinto pollone della Milano da bere, con un bel master e un avvenire in banca. Ha scelto, invece, di trascorrere le giornate vestito di verde nei mercatini rionali a distribuire volantini. Anziché laurearsi - dopo le Medie dai preti e il liceo classico al Manzoni -, ha piantato le tende alla Facoltà di Storia. È lì da ventuno anni, senza dare esami ma rinnovando l'iscrizione tanto per non gettare la spugna. Non è un curriculum da intellettuale ma conferma la costanza cui accennavo sopra. A diciassette anni, nel 1990, Teo prese la tessera della Lega. Per amore della Padania, diradò la frequentazione della parrocchia dei Santi Narbore e Felice, dove aveva debuttato come boy scout e proseguito poi come sgambettatore del pallone. A vent'anni (1993), è entrato in Consiglio comunale, rimanendoci per diciannove primavere di fila. Prendeva l'equivalente di 800 euro il mese. Tanto gli è bastato per una dozzina d'anni finché dal 2004, si sono aggiunti altri incarichi tra cui, per due legislature, la poltrona di deputato europeo. Salvini non è uno che si è arricchito con la politica. Modesto all'inizio, dimesso tuttora, sua massima aspirazione è diventare un giorno sindaco di Milano. Altre cariche non lo solleticano. Gli piace «fare politica» che equivale, nella sua testa, ad armare un casino, movimentare la giornata, provocare. Già nel 1997 si fece notare alle elezioni dell'autoproclamato Parlamento della Padania, per il nome della lista che capeggiava: «Comunisti padani», frutto della già descritta propensione leoncavallina. Da allora, ha fatto sparate a iosa. Dalla proposta di riservare alle donne alcuni vagoni della Metro milanese per sottrarle «all'invadenza degli extracomunitari», al rifiuto, da consigliere di maggioranza, di stringere la mano al presidente Ciampi in visita a Milano dicendogli: «Lei non mi rappresenta». Una volta, sempre come consigliere, drizzò un mercatino abusivo davanti alla sede dei Vigili urbani, per rinfacciare sarcasticamente l'inerzia del Corpo verso il dilagare in città del vero abusivismo. Così, si è fatta fama di Pierino. Ma, considerato innocuo e talvolta utile, è benvisto anche dagli avversari. La giornata tipo di Teo comincia alle sette con le apparizioni nelle piccole tv regionali, da Telenova a Tele Padania. Poi corre qua e là per risolvere problemi minuti della gente, dall'ascensore rotto di una casa popolare, all'assistenza. Il grosso del tempo lo passa però nei mercatini, dove organizza banchetti leghisti, fa propaganda maroniana, raccoglie petizioni, ecc. Una variante, nella sua qualità di deputato Ue, è volare a Bruxelles di prima mattina per fare lobby padana e rientrare nel pomeriggio per fare all'incirca lo stesso a Milano. Ha due appuntamenti fissi. Il venerdì accompagna in parrocchia il figlio Federico, che vive con la moglie separata, a giocare a pallone come faceva lui nella speranza che in futuro segue le sue orme anche come boy scout e leghista professionale. L'altra immancabile scadenza è con l'Avis. Teo è infatti un generoso e quasi fanatico donatore di sangue che, in casi di emergenza, organizza anche scambi trasfusionali tra militanti della Lega. Un idiota gli ha chiesto se fosse un espediente per evitare al sangue padano di finire in vene extracomunitarie. «Il sangue ha un solo colore», ha osservato Salvini, dimostrando che la risposta più semplice è la migliore per dare del cretino a un cretino.
Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».
Il Mose e le cronache dal Basso Impero, scrive Valerio Morabito su "Blog Taormina". Negli ultimi giorni Venezia non è più la laguna che ci invidia il resto del Mondo. E’ solo una palude in cui emergono, ora dopo ora, loschi affari di diverso colore politico e di vari rami istituzionali. Quella che ormai è ribattezzata la Tangentopoli veneta, infatti, non è un fenomeno circoscrivibile al solo perimetro della politica, ma come detto dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, c’è anche “il coinvolgimento pesantissimo del sistema di controllo”. Tutto ciò rende la vicenda molto più grave di quanto si potesse immaginare e pone in un angolo chi, tra esponenti politici e noti giornalisti, ha cercato di marcare la differenza ludica tra guardie e ladri. In un contesto del genere, purtroppo, non è possibile mettere in luce una dicotomia del genere. Scene da “Basso Impero” avrebbe detto Giorgio Bocca. Situazioni che richiamano alla memoria la decadenza di civiltà ormai logore per provare a rialzarsi, perché appesantite da un sistema così ingarbugliato in cui è impossibile trovare il bandolo della matassa. L’Italia sta vivendo in un’epoca di cui abbiamo sentito parlare nei vari libri di storia, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Questi periodi sono anche una grande opportunità per chiudere i conti con il passato e cercare di ripartire, di ricominciare da zero. Per tale motivo occorre, tra le tante cose, riscrivere le regole. Ci pensa già il magistrato Cantone, il quale ha lanciato un’ipotesi interessante: “Mi pongo il problema, se per il futuro non sia da imporre in tutti i contratti che verranno fatti dal pubblico una regola per la quale chi si macchia di corruzione non possa continuare ad avere appalti”. Inoltre il presidente anticorruzione si dice d’accordo sull’imporre rigidi controlli sui finanziamenti all’associazionismo antimafia: “Qualunque finanziamento erogato dallo Stato o da enti pubblici dovrebbe avere meccanismi di rendicontazione analoghi a quelli pubblici, e chi riceve denaro pubblico dovrebbe essere considerato un pubblico ufficiale”. Con tutte le regole di questo mondo, però, non si può pensare di debellare per sempre i ladri. Ci saranno anche dopo, perché fa parte delle caratteristiche umane. Ciò che importa, prosegue Cantone, è che “le regole devono evitare che i ladri la facciano franca”. Già, da queste parole emergono tutti i limiti della magistratura italiana. Incapace, ormai, di porsi come serio argine a tutto ciò. Anzi, spesso è compromessa in varie vicende come mostra lo scandalo del Mose. Per questo motivo l’ennesima storia di corruzione in Italia, non ha bisogno di tifoserie e partigianerie. C’è poco da schierarsi. Il sistema, come in ogni periodo da Basso Impero che si rispetti, è marcio in toto. Se da un lato è giusto che i colpevoli paghino e siano assicurati alla giustizia, dall’altro lato, per ripartire sul serio in questo Paese, è doveroso dare un freno alle spinte giustizialiste che albergano in alcuni organi di stampa e partiti. E’ vero, il mondo della politica non ha fatto nulla in questi anni per impedire un proliferare di “manettari”, anzi è stato un loro implicito alleato per via di ruberie su ruberie, scandali su scandali. Allo stesso tempo, però, occorre riflettere a cosa porterebbe un sistema in cui i partiti politici siano fondati da ex magistrati in carriera e provino a strumentalizzare le forze dell’ordine, mentre qualche quotidiano si trasformi in gazzettino delle Procure. Se un Paese che si definisce una Repubblica ha la necessità di porre simili distinzioni, vuol dire che qualcosa non va. E non per forza il tutto è una conseguenza degli affari sporchi della politica, perché le vicende degli ultimi mesi dimostrano come siano coinvolti tutti i settori della società italiana. E’ un problema generale e a dividersi superficialmente tra “guardie e ladri” c’è il rischio di confondersi ancora di più. C’è il rischio di mettere sotto al tappeto altri gravi problemi. Del resto il muro contro muro degli ultimi vent’anni ci avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Certo, sono discorsi delicati. Soprattutto in un momento del genere, dove da Venezia giungono notizie inquietanti e sempre nuove. Ad esempio è emersa la “galassia Galan”. Le accuse rivolte nei giorni scorsi all’ex Governatore del Veneto sono solo la punta dell’iceberg, visto che gli inquirenti hanno scoperto ben altro tramite la Franica Doo, una srl di diritto croato. Sotto il coperchio della società la famiglia Galan gestirebbe “il proprio patrimonio estero detenuto in Croazia” costituito da diverse imbarcazioni, molti immobili e conti correnti. Ed emergerebbe anche il tentativo di Galan di realizzare un suo sogno, quello di fare affari con il gas. Il parlamentare di Forza Italia si difende e sostiene che “stanno tentando di scaricare su di me nefandezze altrui. Non mi farò distruggere per misfatti commessi da altri”. Nega tutto anche il sindaco di Venezia Orsoni, il quale davanti al gip ha affermato: “A me hanno chiesto di fare il sindaco, sono un uomo prestato alla politica che non può minimamente fare azioni del genere”. Nel frattempo spunta un altro nome legato al mondo della politica. E’ quello di Davide Zoggia, bersaniano del Partito democratico. Il suo nome sarebbe stato fatto da Lino Brentan, l’ex amministratore delegato della società Autostrada di Venezia e Padova, che in sede di interrogatorio di garanzia l’avrebbe citato, perché “beneficiario di 65 mila euro”. Un finanziamento per la campagna elettorale del politico e il diretto interessato ha replicato dicendo che “non c’è nulla di penale in un tutto ciò”.
Ci risiamo con le mele marce. Il Pd si autoassolve sempre. Da Genovese a Penati i democratici mettono in atto il solito trucchetto per apparire puliti, scrive Laura Cesaretti su “Il Giornale”. Per il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, finito ai domiciliari per il caso Mose, vale l'ultima frontiera dell'autodifesa di partito: «Non è del Pd», dice il renziano Luca Lotti. Certo, aggiunge il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, «questo non vuol dire che se sei del Pd sei buono e se sei indipendente sei un ladro. Se sei ladro, puoi essere Pd, Pdl o Cinque stelle e devi andare in galera». Linea confermata dal ministro Boschi: «Se le accuse saranno provate il Pd ne trarrà le conseguenze, come con Genovese». Se nella stagione di Tangentopoli la sinistra italiana si salvò dal fiume di inchieste e arresti che investì i partiti della Prima repubblica, ora lo scudo magico sembra sempre meno efficiente, e gli uomini Pd cadono come birilli. Ma si tratta quasi sempre di «mele marce», di «casi isolati». Quando non di veri e propri estranei che abusano del buon nome Pd: Greganti non se lo ricordava più nessuno (nonostante la tessera, le visite a Roma zona Senato, le foto a manifestazioni di Fassino e Chiamparino). E Orsoni non è mai stato del Pd. Il che è pure vero, tecnicamente, ma sa un po' di giustificazione postuma. Quella dell'inchiesta Mose, argomenta Laura Puppato, «è la vecchia guardia, noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». Una pagina non così semplice da voltare, in un partito nel quale i fan ossessivo-compulsivi delle Procure hanno contato, dal 2008 ad oggi, circa 400 indagati. Molti per bagatelle, molti totalmente scagionati o assolti. Ma tanti ancora nei guai, un partito che sembra incapace sia di divincolarsi definitivamente dal condizionamento delle Procure, sia di ammettere di essere esattamente come gli altri, quanto a «permeabilità». È di poche settimane fa l'arresto del ras delle preferenze messinesi Francantonio Genovese, concesso dal Parlamento, Pd in testa, su ordine di Matteo Renzi (e poi subito annullato dal gip). «Il Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica, sempre. Anche quando con i propri deputati», chiosò il premier, preoccupato che la vicenda interferisse con la campagna elettorale. Vecchia politica, Genovese lo era di certo. Ma di quella «vecchia politica» che sa rapidamente ricollocarsi ed aggiornarsi alle nuove leadership: veltroniani con Veltroni, bersaniani con Bersani, renziani con Renzi. Non sospettabile di simpatie renziane, invece, è Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Bersani e fidatissimo braccio destro del segretario Pd nelle primarie. Per lui, quando fu incriminato per concussione e finanziamento illecito ai partiti nella vicenda degli appalti di Sesto, la linea fu: è stato espulso dal Pd, la faccenda non riguarda piú noi. «Chi è coinvolto in indagini deve fare un passo indietro e Penati ne ha fatti tre o quattro e questo - disse Bersani - va riconosciuto». Poi il Pd si costituì parte civile contro di lui, che reagì con durezza: «Codardi. Mi hanno sacrificato per salvarsi l'immagine». Sacrificato e subito disconosciuto anche Franco Pronzato, arrestato per gli appalti Enac, quando il Pd bersaniani scoprì di avere un «responsabile trasporto aereo» nella sua persona. Dimenticata Maria Rita Lorenzetti, ex governatrice dell'Umbria, arrestata per la Tav. Rimosso Alberto Tedesco, salvato in Senato, poi arrestato a fine mandato, poi però assolto dalle accuse. Rimosso dalla ribalta Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e vice-ministro che Renzi non ha riconfermato. Difeso fino all'ultimo ma poi costretto a ritirare la candidatura a sindaco di Siena, a inizio 2013, Franco Ceccuzzi, indagato per il crac del pastificio Amato. Relegato in Sicilia Vladimiro Crisafulli. Più singolare, invece, la vicenda abruzzese, che rivela quanto possano essere perversi gli intrecci tra giustizia e politica: il neo-eletto governatore D'Alfonso, da sindaco di Pescare venne incriminato e arrestato con plurime accuse dalla procura diretta da Nicola Trifuoggi. Il quale però, cinque anni dopo, ha benedetto la candidatura di D'Alfonso a governatore e contemporaneamente è diventato vice del sindaco dell'Aquila Cialente, Pd anche lui e anche lui prima messo nel mirino delle inchieste.
IL MOSE TANGENTIZIO.
Il «Mose» separa le acque e fa riemergere tangenti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Tempo”. Stando alle prove raccolte in 700 pagine dalla procura veneta parrebbe proprio di sì. E a leggere i capi di imputazione, le intercettazioni, le ricostruzioni dei flussi finanziari e dei fondi neri a larghe intese collegati alle presunte tangenti per la costruzione delle dighe in Laguna, di primo acchito vien davvero voglia di accodarsi ai cori di giubilo di grillini, manettari, giustizialisti, giacobini, di quanti, insomma, gongolano vedendo la gente con gli schiavettoni ai polsi. Epperò, siccome ne abbiamo viste e sentite tante in decenni di pseudo inchieste dalle «prove schiaccianti» (finite col proscioglimento o l’assoluzione degli indagati) preferiamo proseguire verso la giusta via garantista perché la presunzione d’innocenza, a casa nostra, vale sempre, comunque e per chiunque. Questo non vuol dire, però, che l’inchiesta che ha terremotato la città più bella del mondo sia campata in aria. Tre anni di indagine non sono pochi, dunque si presume che gli accertamenti siano stati fatti a puntino e a supporto siano stati trovati i riscontri del caso che giustificano una trentina di arresti e centinaia di perquisizioni. La supervisione del procuratore Nordio (quello che ai tempi di Tangentopoli indagò sulle coop rosse) è una garanzia così come la puntigliosità investigativa del nucleo locale della guardia di finanza che ha fatto emergere l’ennesimo «sistema» di malaffare endemico alla gestione di appalti milionari. Ancora una volta, come per i mondiali di Nuoto o i lavori al G8 per finire all’Expo, le Grandi Opere si rivelano un boomerang per i già disastrati conti pubblici oltreché un volano straordinario per il substrato illecito dell’imprenditorialità e della pubblica amministrazione corrotta. Che sembrerebbe - e ribadiamo il condizionale - aver messo da parte provviste sufficienti a garantirsi campagne elettorali future oltre a far campare sereni i figli dei figli dei figli. Come sempre accade quando scoppia la bomba, accanto ai manettari incalliti, l’altra politica dà il peggio di sé regalando sottili distinguo su questo e quell’indagato o sulle manette pre o post elettorali. Nessuno che rifletta sul Titanic Italia ormai alla deriva, in balia di onde giudiziarie sempre più alte che nessun premier rottamatore o commissario anticorruzione è in grado di fronteggiare più.
Le responsabilità della giustizia per il marciume tangentaro, scrive Vasco Ibatici su “Il Giornale”. Expo, Mose, Tav, Ponte sullo Stretto, ecc.ecc. Mi domando se accuse, indagini, carcerazioni preventive, manette, siano frutto di una denuncia alla magistratura formulata da qualcuno a ragion veduta o se le nostre istituzioni indagano a priori su qualsiasi appalto di media o grande misura perché tanto si sa che qualcosa si trova per dar lavoro alle patrie galere e per ingrassare le casse dello Stato. Si fa di tutto per coinvolgere tutti, si butta il sasso nello stagno creando onde che implicheranno decine di persone, non importa come, con quale grado di gravità e con un clamore che presumibilmente rovinerà la reputazione di molte persone, imprenditori, politici e non. Per poi scoprire, la storia lo insegna, che la maggior parte delle accuse cadranno, i personaggi in gran parte verranno assolti. E allora conviene operare con la massima riservatezza e colpire solo quando ci sono prove inconfutabili di colpevolezza, evitando queste spettacolarizzazioni. Caro Ibatici, le domande che lei allinea sono le stesse che milioni d'italiani, dopo questa valanga di scandali, si pongono. È evidente la necessità d'una azione risoluta contro il diffuso e finora inestirpabile malaffare. Non meno evidente è il rischio che magistrati affetti da protagonismo o dalla sindrome virtuosa del giustiziere o da faziosità politica sferrino colpi durissimi contro aziende e opere pubbliche di importanza vitale, con arresti a raffica. Il che avviene, in un clamore mediatico assordante, quando tecnicamente le colpe sono ancora tutte da dimostrare. Ci sono tanti, troppi politici o burocrati di mano lesta che profittano degli azzeccagarbuglismi legali per farsi sfacciatamente gli affari loro. La responsabilità maggiore del marciume non sta nei corrotti - che dovrebbero essere messi nell'impossibilità di allungare le mani sul malloppo -, sta nella lentezza d'una giustizia che ci dirà tra alcuni anni se Giancarlo Galan e Giorgio Orsoni sono veramente dei poco di buono, sta nella giungla sterminata e demenziale delle norme. È perfetta la diagnosi del procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, non sospettabile di furori manettari: «Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla».
Tangentopoli del Mose: tutte le accuse. Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giancarlo Galane Renato Chisso Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell'ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta, ma dopo trent'anni non è ancora entrata in funzione.
GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l'accusa l'ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:
uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all'anno, quantomeno dal 2005 al 2011;
900 mila euro in contanti nel 2006-2007;
altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;
una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all'italiana;
il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;
200 mila euro una tantum, consegnatigli all'hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;
la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.
RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l'attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:
uno stipendio in nero di 200 mila euro all'anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;
il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;
il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;
250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all'hotel Laguna Palace di Venezia;
altre centinaia di migliaia di euro all'anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;
consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;
appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).
GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:
110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;
altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.
GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:
58 mila euro per le elezioni regionali del 2010;
15 mila euro al trimestre, a partire dall'autunno 2009 fino all'inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;
un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.
AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:
almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;
altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.
MARCO MILANESE, braccio destro dell'ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l'arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell'Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.
EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall'autunno scorso, è in carcere con l'accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:
mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;
la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l'onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.
Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all'anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.
Era un dirigente di prima fascia del ministero delle Infrastrutture, con uno stipendio di 149 mila euro l'anno, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Divenne magistrato delle acque di Venezia, ingaggiando un braccio di ferro con le imprese del Mose. Siccome lo perse e fu trasferita a Bologna, Maria Giovanna Piva andò a fare la vittima da Milena Gabanelli, che nella puntata di Off the report del 27 maggio 2012, ne fece subito un'eroina, che combatteva contro il governo di Silvio Berlusconi e il ministro Altero Matteoli. L'eroina è stata arrestata per l'inchiesta sul Mose con l'accusa di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Avrebbe intascato illegalmente attraverso un falso collaudo oltre 327 mila euro. Somma che aveva già in tasca quando bussò alla Gabanelli. Forse non le bastavano e così stava mandando un messaggio in codice alla cricca del Mose?
Mose, incredibile difesa del Pd: gli arrestati non sono del Pd, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Pd non c’entra nulla con il malaffare di Venezia. Hanno arrestato 35 persone, tra cui il sindaco della città, e un altro centinaio di signori è stato indagato con le peggiori accuse, ma il Partito democratico ha le mani pulite. Così almeno informa un comunicato della segreteria regionale del suddetto gruppo. In una nota diffusa dalle agenzia di stampa nella mattinata di ieri, dunque a botta ancora calda per i provvedimenti della magistratura, i vertici del partito di Renzi non recitano il mea culpa per non aver vigilato sulle tangenti che hanno preso il largo insieme al Mose, ma ci informano che, pur essendo stato eletto con i voti del Pd e pur guidando un giunta a forte impronta Pd, il primo cittadino Giorgio Orsoni non è del Pd, perché non ha mai chiesto la tessera. (...)Dietro le manette c'è la guerra totale per il futuro del Pd. Dopo aver negato di conoscere il sindaco tangentista di Venezia, sostenendo che Giorgio Orsoni non è del partito nonostante il partito lo avesse candidato e fatto eleggere alla guida della giunta di sinistra che regna sulla laguna, ieri il Pd si è superato. Questa volta non c’entrano le calli e neppure il Mose né ci sono di mezzo appalti e fatture milionarie. Però c’è quella che doveva essere una delle amministrazioni locali da portare ad esempio di buona amministrazione e soprattutto di cambiamento di verso. Ci riferiamo alla Città eterna, la Capitale della svolta. Da un anno ai vertici del Campidoglio c’è Ignazio Marino, un allegro chirurgo che dopo aver messo da parte il bisturi si è scoperto una passione per la politica. Prima come parlamentare, poi come primo cittadino di Roma. Nel marzo dell’anno scorso Marino si sottopose alle primarie per la scelta del candidato di centrosinistra e, vinta piuttosto facilmente la sfida, non fece fatica a battere Gianni Alemanno, che di Roma era stato a sorpresa sindaco per cinque anni. Sorpresa perché da un ventennio e più la Capitale era a guida sinistra e dunque un primo cittadino post-missino non era tra le ipotesi contemplate. All’errore di aver affidato la città a uno di destra, Marino pose rimedio con l’appoggio di tutte le forze antifasciste e democratiche e sulla base di un programma che prevedeva un radicale cambiamento di rotta.
I moralisti delle mazzette, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Eccoci di nuovo a commentare storie di arresti e mazzette. L’ultima in ordine di tempo è la diga di Venezia, quella che avrebbe dovuto evitare l’acqua alta. La chiamano il Mose, ma con l’accento sbagliato. Il pubblico ministero che ha indagato e chiesto gli arresti (Carlo Nordio) è un signore che, a differenza dei suoi simili, prima di arrestare un povero cristo si farebbe tagliare le mani. Odia la giustizia spettacolo. Ieri ha subito detto: «In Italia la corruzione continua perché le leggi sono troppo complesse e farraginose. A nulla serve aumentare le pene e inventarsi nuovi reati». I contribuenti sono gabbati più volte. Prima dai propri rappresentanti, che abusano delle tasse incassate. Poi dal fatto che queste benedette opere pubbliche, se mai si realizzano, non si chiudono mai nei tempi e nei modi promessi. Chi ancora pensa che l’Expo possa avere il fascino scintillante che ci avevano raccontato agli esordi? Arrivano infine i nuovi politici che, cavalcando l’indignazione, gridano allo scandalo (che c’è) e chiedono subito di bloccare tutto, nuove leggi, nuove commissioni e maggiori pene (come dice Nordio). Il 31 marzo 2010, all’indomani delle amministrative, Travaglio-porta-iella, rivolto al Pd di Bersani, scriveva: «Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia, dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta». Con 400mila euro di finanziamento illecito, sostiene oggi l’accusa. Vogliamo dire che dalla palude in cui siamo non se ne esce con i moralisti e le morali. Siamo un Paese in cui non si può fare nulla. Un bar non può mettere un’insegna, un artigiano non può assumere un apprendista, un ragazzo non può fare un lavoretto, un’impresa un capannone. O meglio, tutto si può fare: ma dopo una giungla burocratica e autorizzativa. In un sistema come questo è tutto corrotto. Il Mose è corrotto perché a prendere i soldi sono i politici. Ma nelle sue fondamenta diventa corrotta, marcia, la nostra economia. Essa non è più volta a raggiungere cospicui e sani profitti, ma a sfuggire le sanzioni previste da norme, codici, regolamenti. Le interpretazioni giudiziarie sono poi talmente divergenti che il diritto diventa arbitrio e i Tribunali ruote della fortuna. È inevitabile dunque che gli investimenti dei privati nell’ultimo triennio siano diminuiti del 15 per cento e del doppio circa quelli pubblici. Ieri abbiamo scoperto che anche il Brasile ci ha superato nella produzione industriale. Con la propensione ad investire così in calo, c’è da attendersi che il futuro ci riserverà una classifica ancora più inclemente. Il lavoro, poi, lo creeremo per legge. Sulla carta. Su questo siamo i numeri uno.
L’EXPO, il Mose & The Italian Job. Per capire che quello della mazzetta è un male storico del paese ecco cosa successe negli anni '50 e '60 per l'aeroporto di Fiumicino, scrive Sabino Labia su “Panorama”. La vicenda del Mose è il classico scandalo all’italiana con tutti gli interpreti al posto giusto come nel film The Italian Job. Una grande opera da realizzare, i miliardi inviati a pioggia da gestire, i politici (locali e nazionali, di destra e di sinistra) a gestire il flusso di denaro, e una pletora di senza nome e, soprattutto, prestanome che organizzano società occulte, scatole cinesi, false fatturazioni e passaggi di denaro. A fare da spettatori a questo enorme circo di malaffare ci sono loro, gli italiani che ogni volta sperano che questa sia l’ultima. Per capire come funziona lo Scandalo all’italiana nelle grandi opere (tralasciando volutamente gli scandali legati alle ricostruzioni post disastri naturali: Vajont, Belice, Irpinia, L’Aquila etc. etc.), torniamo indietro di mezzo secolo, e più precisamente al 1961. E’ il Gennaio del 1961 e Giulio Andreotti parla dal banco del governo del Senato: “Io rispetto di più le persone della camorra perché Pupetta Maresca (la donna che uccise l’assassino di suo marito) con le sue revolverate rischia di andare in galera e ci va. Noi abbiamo nella camorra politica di certi ambienti qualche cosa di meno nobile, perché si lanciano sassi e colpi di pugnale senza rischiare niente e non mostrando mai il proprio volto”. A cosa si riferiva il Divo Giulio nel ritenere la politica peggiore della camorra? In Aula si discuteva dello Scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino. Lo scalo romano comincia la sua storia con la posa della prima pietra avvenuta il 10 dicembre 1950. Costo previsto: 29 miliardi di lire; fine dei lavori: 1° gennaio 1960 (giusto in tempo per accogliere atleti e turisti della XVII Olimpiade). Inaugurazioni effettuate: diverse, l’ultima il 13 agosto 1974, in occasione dell’apertura della terza pista costata altri 25 miliardi di lire. Spesa complessiva finale oltre 130 miliardi. I primi problemi cominciano con la scelta del terreno. In principio era stata preferita la zona di Casal Palocco, nell’area sud-ovest molto vicina a Roma e, particolare non di poco conto, non paludosa. Troppo bello per essere vero e, infatti, così non è. L’area è di proprietà della Società Generale Immobiliare che riesce a evitare l’esproprio, evitando un notevole danno economico. A questo punto si decide di optare per la palude di Fiumicino, 1088 ettari di proprietà dei principi di Torlonia, i quali vengono generosamente ricompensati con 45 lire al metro quadro. Tanto per capire com’era il mercato nella stessa zona, sempre i Torlonia, vendevano i loro terreni ai privati a 3 lire al metro quadro e l’amministrazione statale espropriava altre aree circostanti e di proprietà di un’opera pia, a 7 lire al metro quadro. Un vero e proprio regalo. Veniamo ai finanziamenti. Inizialmente furono stanziati 4 miliardi e 450 milioni; Dopo cinque anni, nel 1955, si aggiungono altri 14 miliardi per la costruzione della pista e per tutte le opere accessorie, compresa l’aerostazione. L’8 aprile del 1959 servono ulteriori 4 miliardi e 150 milioni per completare l’opera. Trascorrono pochi mesi e, nel luglio 1959, vengono stanziati altri 4 miliardi. Anche questi soldi non bastano e, intanto, i giochi si avvicinano. Il Ministero della Difesa, guidato da Andreotti, riesce a racimolare altri 800 milioni per consentire almeno un’approssimativa apertura al traffico. A gestire questa enorme mole di denaro viene incaricato, su suggerimento dello stesso Andreotti, il colonnello Giuseppe Amici. Il cognome è tutto un programma, verranno coinvolti parenti, amici e amici degli amici. Il 20 agosto, a cinque giorni dalla cerimonia inaugurale dei XVII Olimpiade, i ministri Zaccagnini, Lavori Pubblici, e Andreotti riescono ad aprire una minima parte dello scalo dell’Urbe “Leonardo da Vinci”. La vera inaugurazione è rinviata a novembre dello stesso anno. La stampa dell’epoca comincia a svolgere alcune inchieste per cercare di capire che cosa si cela dietro i continui ritardi dei lavori. Il 5 maggio del 1961 il governo istituisce una commissione d’inchiesta che accerta le numerose irregolarità della gestione dell’opera e come il colonnello Amici, pur essendo in servizio, possedeva alcune società, delle quali facevano parte la moglie, il figlio e parenti della moglie, e che avevano un ruolo di rilievo nella costruzione dello scalo. Il 23 dicembre 1961, nella relazione conclusiva, la commissione d’inchiesta accerta ufficialmente l’utilizzo“di iniziative e procedure criticabili non sempre rispettose del pubblico denaro”. Il 14 giugno 1963 la magistratura ordinaria decide per l’archiviazione del caso. Conclusione nessun colpevole. Nelle casseforti di Montecitorio esistono numerosi documenti che accertano le colpe dei politici e che non sono mai state rese pubbliche. Il presidente del Consiglio Renzi, dopo il caso EXPO e il caso MOSE ha chiesto il Daspo a vita per i politici corrotti. La domanda sorge spontanea: visto come funziona negli stadi, siamo sicuri che possa funzionare in politica? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ecco dove nasce la corruzione, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Le tangenti sul Mose non dicono nulla di nuovo. E' un male che parte dalla testa, la nostra. L’altro giorno mi sono messo in fila al bar per pagare un caffè e cornetto quando è arrivato un tale ben vestito che dando l’impressione di non aver visto che c’era una fila (ma non vederci era impossibile) ha elencato alla cassiera, spiccioli alla mano, quello che aveva consumato. Il tutto con un sorriso a occhi bassi di conciliazione col mondo. La cassiera ha iniziato a farlo pagare, e siccome ho protestato, è stata lei a dire subito: “Scusate, è colpa mia”. Dopo qualche secondo, il tale pretendeva anche di non aver fatto brutta figura: “Non penserà che non volevo fare la fila, mi manderà mica il cornetto di traverso...”. E la cassiera, complice: “Eh, il signore è sempre corretto”… Come il caffè. Perché racconto questo episodio minimo e così diffuso? Perché risiede qui, in questa disinvolta trasgressione delle regole in nome di qualche potere, dell’amicizia e della convenienza, il terreno fertile della corruzione piccola e grande. L’hanno scritto in tanti: non sarà certo l’inasprimento delle pene o l’aggiunta di nuove regole a sconfiggere le mazzette. La complessità del sistema aiuta i furbi, non gli onesti. Il problema è nelle nostre teste. E dico “nostre” comprendendo la mia. Anch’io ho trasgredito a qualche regola, anch’io ho approfittato di qualche vantaggio personale, non importa se su scala piccola o grande e con quali giustificazioni. Sono anch’io andato alla ricerca di qualche corsia preferenziale. Quanti di noi possono dirsi puri? Sarà il sistema, la necessità di difendersi dalle ingiustizie, il merito che in Italia conta meno di zero e “non c’è altro modo”. Sta il fatto che la società italiana è corrotta, il “magna magna” che va in scena a ogni grande evento (praticamente nessuno escluso) è solo la finale del campionato italiano della corruzione che si gioca ovunque, ogni giorno, su ogni campo e campetto. E non c’è argine o diga che tenga, per restare al Mose. La collocazione dell’Italia nella classifica della corruzione tra i paesi del G7, della UE, e del mondo, è solo lo specchio di una realtà che ha invaso il quotidiano. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché non c’è poi una differenza concettuale tra il piccolo favoritismo, la piccola scorrettezza o scortesia, e la grande corruzione. Soltanto dal mea culpa può scaturire la necessaria rivoluzione culturale: il disgusto per i comportamenti scorretti e l’intolleranza verso chi trasgredisce. Solo così sarà possibile riconquistare un senso della comunità. E il primato del merito. La corruzione si combatte anche come fanno in America, recitando ogni mattina il giuramento alla bandiera.
Quando si dimostra che si è tutti uguali, per i manettari tira brutta aria.
Marco Travaglio, scontro con Elisa ad AnnoUno. Elisa: "Disfattista e manettaro". Travaglio: "Non dire cretinate". Una protagonista di "Announo" si scaglia contro il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano", accusandolo di vivere solo di critiche: "Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro". Siamo nello studio di AnnoUno, il programma di Giulia Innocenzi. Ospite d'onore è Marco Travaglio, che si produce nella sua consueta filippica manettara. Lo spunto, come ovvio, arriva dalla scandalo Mose: sul Fatto Quotidiano si è spinto ad affermare che la presunzione di innocenza è ridicola. Una presa di posizione che non è piaciuta ad Elisa, una delle ragazze protagoniste della puntata di AnnoUno. "Ma la smetta di attaccare tutti, di dire che rubano sempre tutti. Se in questo paese vince Beppe Grillo io vado all'estero, ma lei che cosa fa? Di che cosa scrive?". Marco Manetta, come sempre quando viene punto, perde le staffe: "Ti piace che rubino? Ti piace che rubino i tuoi soldi?". Elisa ribatte: "Glielo dico come direbbe Sgarbi: presunzione di innocenza, presunzione di innocenza, presunzione di innocenza". Marco Manetta si contorce, e sbotta: "Per favore, ma per favore. La presunzione d'innocenza - ribadisce - è un inutile gargarismo. Se vuoi dopo te lo spiego cosa intendo, magari capisci il labiale". Poi però prende parola Silvia, un'altra delle ragazze, e continua nel solco di Elisa: continua a demolire Travaglio per la sua clamorosa inclinazione manettara. Il vicedirettore è all'angolo. E in parallelo anche su Twitter si scatena il dibattito con una pioggia di cinguetti: "#Travaglio strapazzato da due biondine", scrive Nicola di Maio. "Voglio sposare la biondina che, limpida e divertita, ridicolizza Travaglio. Non che ci voglia molto, però è sempre un piacere", rincara Massimiliano Mannino. Infine, giusto per pescare un tris di commenti dal mazzo ecco Terry: "Lo stanno distruggendo le ragazze...Travaglio hai stancato". Nello studio di AnnoUno, insomma, si viene a creare una situazione paradossale. Nel regno di Michele Santoro e di Giulia Innocenzi, sul banco degli imputati, assediato dalla giuria popolare, ci finisce proprio lui, ci finisce proprio Marco Travaglio con un vivace scambio di battute ad "Announo" del 5 giugno 2014 tra Marco Travaglio ed Elisa Serafini, una delle protagoniste del programma in onda su La7. La 26enne milanese attacca il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Lei vive di antagonismo da troppi anni, prima perché c’era Berlusconi, adesso non va niente bene perché c’è Renzi. Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro. Perché bisogna misurare la qualità di un paese sul numero di persone che vanno in galera?...Basta fare i manettari”. “Non si può essere così disfattisti…lo capisco che lui ha creato una carriera - prosegue Elisa - ma se va Grillo al governo lei deve cambiare lavoro perché non può andare contro una persona che sostiene…Ma lei vive solo di critiche?”. La risposta di Travaglio non si fa attendere: "E’ la cronaca che è disfattista, non sono io purtroppo…Secondo te il giornalista è uno che lecca il c*** ai politici? E’ uno che dice che va tutto bene quando va tutto male? Io racconto quello che succede”. Ma è quando la giovane cita Vittorio Sgarbi che il giornalista sbotta: "Ma non dire cretinate. Almeno leggi il labiale”.
Il Manifesto del Forcaiolo, scrive Filippo Facci. Marco Travaglio ha finalmente scritto il Manifesto del forcaiolo – in parte recitato ad Announo – ossia un articolo che cerca di fiancheggiare la comprensibile rabbia legata ai vari scandali, così da evidenziare i suoi autentici desideri in tema di giustizia. Darne conto è interessante, perché sintetizza che paese diventeremmo se certe soluzioni venissero effettivamente adottate: una sorta di Germania Est, coi Cinque Stelle al posto della Stasi. Intanto va segnalato che il pentastelluto Mario Giarrusso ha proposto seriamente il ripristino della ghigliottina – lo ha detto alla Zanzara, su Radio24 – spiegando pure che gli arresti domiciliari andrebbero aboliti. Diceva sul serio. Ma veniamo alle analisi e alle proposte di Travaglio.
1) Travaglio fornisce una disamina della seguente profondità: «Destra, sinistra e centro rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente… Esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare». Tutti. Insieme. Sempre. Quindi anche il governo delle larghe intese: «Continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo». Il governo Pd-Ncd, dunque, serve a rispecchiare l’amicizia trasversale tra Frigerio e Greganti (Expo) o tra Galan e Orsoni (Expo). E Renzi? Ruba anche lui? No, «i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio». Renzi, quindi, è la copertura della gigantesca associazione per delinquere. Va rilevato che il Travaglio-pensiero – si fa per dire – è un’evoluzione recente: nel 2010, sul Fatto, elogiava il piddino Giorgio Orsoni (ora arrestato) definendolo «persona seria e normale».
2) Adesso però è cambiato tutto, e le garanzie democratiche e costituzionali andrebbero sospese. Lo scrive Travaglio, e tra le righe non si scorge alcun tono satirico: «L’art. 27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini… non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero». Basta Il Fatto Quotidiano che legga per noi le carte: carte infallibili scritte da pm infallibili, come dimostra la storia giudiziaria italiana. C’è da sentirsi tranquilli.
3) La terza proposta è di conseguenza: «Cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali». È sufficiente essere inquisiti e non importa per che cosa: anche per atto dovuto, anche per una qualsiasi delle scemenze per le quali in Italia non esiste politico che non sia stato inquisito almeno una volta: o condannato, come Grillo, o come Travaglio. Del resto «a certi livelli non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi», scrive il nostro. Bene. Si allarga il clima di fiducia.
4) Anche la quarta proposta è di conseguenza: «Radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti». E siccome «in storie di tangenti» sono state coinvolte praticamente tutte le più importanti aziende italiane ed estere (comprese Eni, Finmeccanica, Fiat, Autostrade, Coop) i lavori della Salerno-Reggio Calabria saranno conclusi da Casaleggio via internet.
5) Ma è un falso problema, perché prima c’è altro da fare: «Cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico». C’è uno scandalo a Venezia e allora rinunciamo alla Torino-Lione, che è in fase embrionale come può esserlo un ragazzino di 14 anni. Non è un discorso pretestuoso, no.
6) Ma restiamo allo stato di polizia che piacerebbe a Travaglio. Che cosa servirebbe? Questo: «Introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori… imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato». Viene il sospetto che Travaglio abbia visto «Americam Hustle» o, più indietro nel tempo, «Le vite degli altri». E resta la curiosità di sapere che cosa accadrebbe nel nostro Paese se, oltre alle mazzette vere, ci fossero anche quelle false offerte da agenti provocatori e cioè corruttori: questo nello stesso Paese post-sovietico in cui chiunque partecipasse a un appalto (anche quello per la fontana del paesello) dovrebbe mettere a disposizione del maresciallo tutte le proprie conversazioni e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello.
7) Il problema è che in galera c’è poca gente: occorre «piantarla con le “svuotacarceri”, costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro». È così semplice. È la scuola dell’amico Piercamillo Davigo, già ispiratore anche della battuta sui colpevoli non ancora scoperti: in Italia ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione, diversamente dagli Stati Uniti. Ma segnaliamo un problema: Usa e Italia adottano sistemi diversi. Comunque tutto si può fare: ma bisognerebbe, anche qui, cambiare la Costituzione.
7) Nell’attesa, si possono «radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni». Tutte. Proprio tutte. Soprattutto quella che bruciò di più alla magistratura, cioè la riforma dell’articolo 513 che costrinse a cambiare la Costituzione nel 1999: si tornerebbe, cioè, a quando un accusatore poteva tranquillamente denunciare chicchessia, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza neanche presentarsi in aula per confrontarsi con la persona che aveva accusato. Very Germania Est.
8) «Tutto il resto non è inutile: è complice».
9) Per qualche misteriosa ragione – scrive infine, cioè: in realtà lo scrive all’inizio – dopo lo scandalo di Venezia dovremmo tutti chiedere scusa a Beppe Grillo: «Milioni di persone perbene – elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori – dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi». Perché? Travaglio non lo spiega, se non deplorando gli «anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo… intanto destra e sinistra e centro rubavano» Tutti. Insieme. Sempre. Travaglio ne approfitta per correggere la rotta sull’alleanza grillesca con Nigel Farage: «L’abbiamo denunciata anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia». Traduzione: c’è stato lo scandalo del Mose e allora Grillo potrebbe anche allearsi con Farage. Travaglio l’ha deciso mercoledì. Martedì aveva scritto il contrario.
Grillo rischia di far scoppiare la coppia Santoro-Travaglio. Santoro: "Beppe senza autorità morale per dire chi è buono e chi è cattivo", scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. I giornalisti sono stati convocati per parlare di Announo, il nuovo programma di approfondimento condotto da Giulia Innocenzi, che da giovedì, ospite Matteo Renzi, prenderà il posto di Servizio pubblico. A ben guardare, però, tira aria di rifondazione anche per il talk show di Michele Santoro: un nuovo inizio, una ripartenza, forse anche con un nuovo nome e qualche novità nella squadra. Del resto, Todo cambia: in politica, nell'informazione, nel rapporto con i leader, con Grillo, Renzi, la sinistra. Un cambiamento che potrebbe comportare anche la separazione tra l'ammiraglio e il suo bombardiere più agguerrito. «Fino a qualche tempo fa era tutto chiaro, il cattivo era riconosciuto», spiega Santoro. «Di fronte a Berlusconi, io e Travaglio eravamo uniti, anche se io ero su posizioni più liberali... Ora chi è il cattivo?». Travaglio sta con Grillo, Santoro no. Inoltre, anche sul piano televisivo assistiamo a un cambiamento profondo: «E io pensavo che Servizio Pubblico fosse un ciclo finito. Ma Cairo, con cui c'è stato un confronto serrato, ci ha chiesto di continuare anche per l'anno prossimo. Sono stato contagiato dalla sua voglia e ho deciso di accettare». Tanto più che «La7 è il vertice dell'indipendenza e sono onorato di lavorare in una rete in cui nessuno mi dice che cosa devo fare». E la Rai? «Se mi offrisse di fare un programma, anche simbolico, tipo Trasmissione zero, lo farei, perché no? È un lungo pezzo di storia professionale...». Ma di ritorni, per ora non si parla. Della necessità di cambiare Servizio pubblico invece sì. La riflessione era già in atto. E l'attacco di Grillo ha fatto da detonatore. «Mi auguro che dismetta i toni illiberali. Che impari a rispettare il lavoro dei giornalisti», afferma Santoro. «Contro Vauro ci sono stati toni inaccettabili, fino alle minacce, innescate da una forza politica che avrebbe il dovere di dissociarsi. Il mio amico Travaglio dice che la Rete si esprime così. Io temo che si trasformi in una grande Piazza Tahrir, anti-istituzionale a prescindere. Grillo è il Berlusconi del web», dice al Giornale il conduttore che con il Cav ospite ha fatto il record storico: «Ti restituisce quello che prende da lì, sull'immigrazione, sulla Tav... Fa il suo mestiere, ma non ha l'autorità morale per dire chi sono i buoni e i cattivi. Usa anche il gossip per colpire i presunti avversari... Si è creata una combinazione mostruosa Casaleggio-Dagospia. Ora non voglio disturbare la sua campagna elettorale, ma una volta terminata, potrei andare anch'io nelle piazze a raccontare come stanno le cose. Sarebbe un'operazione di legittima difesa e per la libertà di stampa». In difesa, Santoro gioca anche a proposito di crisi «dei cosiddetti talk show». È la tv generalista a essere in crisi, dieci anni fa Rai e Mediaset facevano il 90 per cento di share ora arrivano al 60. E poi, mostrando uno studio dell'istituto di ricerche Barometro, sottolinea che «nella storia di La7 Servizio pubblico compare in 4 posizioni della top 5, in 6 della top 10 e in 15 tra le prime 20 (in share, ndr), mentre nell'ultima stagione ricopre le prime sedici posizioni (in valori assoluti, ndr)». Se quest'anno c'è stato un calo è perché «ora lo spettatore ha un rapporto diverso con la politica». Alla maggioranza del pubblico interessa capire se Renzi ce la fa o no. Per il resto «siamo invasi da replicanti della politica. Ma anche i big hanno un richiamo limitato: Grillo da Mentana non ha fatto il botto... Lo stesso Berlusconi forse non ha piacere a tornare da noi, perché dovrebbe misurarsi con il 34 per cento dell'anno scorso. Magari avrà più interesse ad andare nel programma di Giulia. Certo, è stato invitato; come pure Grillo». Che però andrà da Vespa. «C'è la campagna elettorale e se gli serve fa bene... Ma mi pare una sconfitta, un'incoerenza. Tra dire che la tv è morta e poi andare da Vespa...», punge Santoro, dribblato dallo Sciamano pentastellato. «In realtà, la tv si mostra centrale anche quando nei blog si parla per una settimana dell'operaio ospite di Servizio pubblico e per prendere i voti di Berlusconi si attacca il Pd e la nuova peste rossa». Insomma, tutta colpa di Grillo e dei politici se i talk vanno così così. E un po' di autocritica di voi televisivi? «Ci siamo adagiati sul fatto che la temperatura esterna garantiva il successo delle nostre trasmissioni. Ma adesso si riparte...». Auguri.
Michele Santoro: "Travaglio? Occhio al fondamentalismo...scrive " Libero Quotidiano”. Su Il Fatto Quotdiano viene intervistato Michele Santoro. Si parte da AnnoUno, la trasmissione della santorina Giulia Innocenzi che ha sbancato in termini di share. Il teletribuno fa i complimenti alla sua creatura, afferma di essere sempre stato sicuro del fatto che avrebbe bucato lo schermo e si spinge ad affermare che "la tv cambia", e dunque "AnnoUno è già il futuro". Ma il piatto forte arriva quando nell'intervista Santoro parla di Beppe Grillo e, soprattutto, di Marco Travaglio. Si parte da una riflessione sul guitto ligure: "Non possiamo continuare a pensare che Grillo sia una specie di Masaniello che urla per dire qualunque sciocchezza. Dobbiamo valutarlo per quello che è: un leader politico, che deve avere una visione". E da queste considerazioni il discorso passa in scioltezza al leader grillino su carta stampata, Marco Travaglio appunto, il vicedirettore del Fatto Quotidiano che è il primo megafono del leader pentastellato. Un'adorazione, quella di Travaglio per Grillo, che Michele non riesce a digerire, tanto che negli ultimi giorni, dopo alcune parole sibilline del conduttore di Servizio Pubblico, si è cominciato a parlare del possibile divorzio tra Santoro e Marco Manetta. Così, parlando proprio con Il Fatto, in un significativo cortocircuito, Santoro dice la sua sul vicedirettore della testata. Il rapporto con Travaglio? "Un rapporto di grandissima amicizia prima di tutto, di stima smisurata sotto il profilo professionale. Ma il vero punto - si chiede Santoro - è cosa dobbiamo fare? Agire per il crollo del sistema o per la rigenerazione?". Il teletribuno mostra di non avere particolari dubbi: "Non possiamo sposare quello che fa Renzi, ma neanche quello che fa Grillo. No, non dico Marco abbia perso la sua indipendenza. Sarebbe una banalizzazione. Penso semplicemente che Marco sia portato a vedere tutto quello che sta fuori da questa piazza Tahrir come un'elemento che non contenga tanti spunti positivi. La sua è una visione pessimistica sul mondo politico organizzato. Lui - prosegue nella tirata - è come se pensasse che non è che si può stare in mezzo, bisogna stare dentro quella piazza. Però - attacca Michelone - stando dentro piazza Tahir il rischio è il fondamentalismo al governo. E' una differenza di analisi, non è una cosa banale che contrappone Santoro e Travaglio". Dunque, continua il conduttore di Servizio Pubblico, "nel momento in cui, quando andremo a disegnare un nuovo programma, questa differenza di valutazione di approccio è giusto che venga fuori, si confronti, insieme tracciamo la strada di come deve essere fatto un programma diverso da quello che stiamo facendo tutti e due". La domanda si fa poi più esplicita: "Marco - chiede Peter Gomez - quindi se ha voglia parteciperà al tuo programma il prossimo anno?". La risposta: "E' possibilissimo, ma potrebbe anche essere possibile per esempio che avendo io delle carte in mano da giocare, diverse da quelle del programma, perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco. Magari con il mio aiuto". O magari no. Ma questo Santoro non lo dice. Quello che ha detto, al contrario, sembra un po' un benservito di lusso al "fido" Travaglio. Il divorzio è stato ormai consumato?
Santoro non nasconde il comunista che è in lui.
Santoro: "Resto un vecchio comunista". Il conduttore parla della Rai e del taglio di 150 milioni paventato da Renzi, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Michele Santoro si scaglia contro Matteo Renzi. Il tema del contendere è quello della Rai e del taglio voluto dal premier. E se viale Mazzini indicesse uno sciopero, il conduttore di Servizio Pubblico non esiterebbe ad aderirvi: "Perché sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro", spiega Santoro in una intervista a Repubblica. Sul taglio di 150 milioni dice: "Significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Infine, sul taglio agli stipendi di Vespa e Floris spiega: "Pura demagogia”.
E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
Ogni mese l'ex capo clan dei Casalesi, Antonio Iovine, poteva contare su centomila euro per pagare gli "stipendi" ai suoi affiliati e per soddisfare le esigenze personali. Lo ha riferito lo stesso Iovine rispondendo in videoconferenza da una località segreta alle domande del pm Antonello Ardituro. Il boss provvedeva a retribuire le famiglie degli affiliati detenuti; un compenso maggiore andava a quelli detenuti in regime di carcere duro. Il sistema, ha spiegato Iovine, si incrinò tuttavia nel 2010 dopo la sentenza di appello Spartacus, quando il clan subì una frammentazione. "Richiesti dagli imprenditori". "All'inizio noi non li cercavamo; aspettavamo che facessero i loro passi per gli appalti dopo di che li interpellavamo. Poi furono loro a scegliere noi: ognuno cercava un riferimento con qualcuno di noi", ha spiegato il pentito. "Non ho mai avuto nessun tipo di problema per l'appartenenza politica dei sindaci; anzi, la posizione politica dei sindaci era per noi ininfluente", ha detto spiegando come il clan dei Casalesi esercitava il controllo delle amministrazioni locali. "Lo sapevano anche i bambini - ha esemplificato Iovine - che a San Cipriano d'Aversa, il vero sindaco era Peppinotto, ovvero il nostro Giuseppe Caterino". Quanto al sistema di gestione degli appalti nel Casertano e ai rapporti del clan con gli imprenditori il pentito descrive chiaramente un’imprenditoria collusa«All’inizio noi non li cercavamo, aspettavamo che facessero i loro passi per gli appalti dopo di che li interpellavamo. Poi furono loro a scegliere noi, ognuno cercava un riferimento con qualcuno di noi». E in merito alle modalità con cui il clan si aggiudicava le gare di appalti, “o ninno” rivela la complicità del responsabile dell’ufficio tecnico, incaricato di aprire le buste la sera prima della lettura, così da permettere agli imprenditori di fiducia del clan di inserire nella busta il ribasso giusto e risultare l’indomani vincitori della gara. Tira in ballo anche l’emergenza rifiuti, che descrive come un vero e proprio business per il clan, grazie alle amicizie di Zagaria con e dirigenti della Regione, grazie alle quali il clan riuscì a pilotare l’assegnazione delle piazzole di stoccaggio di ecoballe, così da farle allestire nei terreni appartenenti allo stesso Zagaria o in quelli di persone a lui vicine. Il pentito si sofferma anche sul controllo esercitato dal clan sulle amministrazioni locali e sui rapporti con i rispettivi sindaci, la cui appartenenza politica risultava del tutto ininfluente agli occhi del gruppo camorristico. «Lo sapevano anche i bambini che a San Cipriano d’Aversa il vero sindaco era Peppinotto, ovvero il nostro Giuseppe Caterino», dichiara Iovine tirando in ballo anche i vertici amministrativi statali nella figura di Alemanno, allora ministro dell’agricoltura, per l’aver varato una politica di rimboscamento dell’alto casertano di cui lo stesso pentito dichiara di non aver mai capito l’effettiva esigenza. «Fu Alemanno a varare la politica di rimboscamento, non ho mai capito a che servisse rimboscare le montagne dell’alto casertano. So per certo che furono favoriti alcuni imprenditori che si riunirono in consorzi e che gestivano vivai, io assicuravo loro solo garanzie di sicurezza, ovviamente in cambio di tangenti. Un giorno Alemanno venne a tenere un comizio nel cinema “Faro” di Casal Di Principe, organizzato da mio nipote». Nelle sue rivelazioni c’è spazio anche per la sfera personale, in particolare per la sua amicizia con Michele Zagaria, incrinatasi nel tempo a causa dei diversi caratteri dei due, l’uno accondiscendete e incline al dialogo, l’altro incline allo scontro. «Da parte mia era un’amicizia sincera- prosegue Iovine - mentre da parte sua soprattutto nel corso degli anni era un’amicizia più di interesse per sfruttare la mia posizione all’interno del clan».
Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno AmorosoIl cantiere del Mose Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori-confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro..."Questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar...", ha detto ai pm l'ex segretaria di Galan... Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre... "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...".
L'ex segretaria di Galan vuota il sacco: "Ecco come funzionava il sistema di mazzette", scrive “Libero Quotidiano”. E' più di un anno che la Dark Lady di Giancarlo Galan sta vuotando il sacco: parla delle mazzette alla Regione, al Ministero, al magistrato alle acque; parla della corruzione del generale della Guardia di Finanza; parla del vorticoso giro di fondi neri nelle quali è entrata; parla di giornali acquisiti e pure di ragazze assunte per avere buoni rapporti con i Servizi Segreti. La ex segretaria del governatore del Pdl (ora Forza Italia), Claudia Minutillo, è un fiume in piena e dagli interrogatori pubblicati oggi sul Corriere della Sera gli inquirenti del caso Mose sono riusciti a ricostruire il sistema con cui venivano creati fondi neri, qualcosa come 50 milioni di euro, necessari per pagare le mazzette. Secondo la Minutillo, ribattezzata la Dark Lady per via del suo look total black, tutto sarebbe iniziato nel 2005. Dopo averla arrestata per fondi neri e false fatturazioni e sospettando che dietro si nascondesse la corruzione dei politici, i pm di Venezia la incalzano per sapere se le somme che transitavano dall’ufficio di Giovanni Mazzacurati, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, l’ente che governava sul Mose, servono anche per ungere i funzionari delle strutture regionali, ministeriali o del Magistrato alle Acque. «Sapevo che il sistema prevedeva sia la struttura burocratica, sia regionale, sia ministeriale e anche il Magistrato alle Acque che era di nomina ministeriale ma in realtà era Mazzacurati che decideva chi e come», ammette la Munutillo spiegando che i destinatari delle somme raccolte da Mazzacurati «erano (omissis) e Marco Milanese, uomo di fiducia del ministro Tremonti. A lui era destinata la somma di 500 mila euro che l’ingegner Neri conservava nel suo ufficio al momento dell’ispezione della Guardia di Finanza al Consorzio Venezia Nuova... Mi dissero: “Pensa che Neri li aveva nel cassetto e li buttò dietro l’armadio”. La Finanza sigillò l’armadio e la sera andarono a recuperarli». E ancora: «Il primo imprenditore che accettò di finanziare i politici veneti fu Piergiorgio Baita (ex presidente della Mantovani, già arrestato e liberato dopo aver confessato, ndr), che io ebbi l’onere di presentare a Walter Colombelli su incarico di Galan a Venezia, organizzando un appuntamento all’hotel Santa Chiara. Nell’occasione ricevetti una busta contenente del denaro a Galan. Erano i primi mesi del 2005», puntualizza l'ex segretaria del governatore, ma gli inquirenti sono convinti che la data sia precedente. Dagli interrogatori pubblicati sul Corsera viene fuori il sistema che garantiva a imprenditori a imprenditori, manager e Corsorzio una sorta di immunità giudiziaria attraverso la corruzione di un generale «ma non mi è stato detto il nome (si tratta di Emilio Spaziante, arrestato per aver ricevuto 500 mila euro, puntualizza Andrea Pasqualetto sul Corsera) pagato da La Mantovani, Baita», dice la Minutillo. L’ex presidente del gruppo Mantovani, la spina dorsale del Consorzio Venezia Nuova, capofila anche del maggior appalto dell’Expo secondo il racconto della Dark Lady gli «chiese anche di fare un paio di assunzioni (era già imprenditrice, ndr)». «I cognomi di queste due ragazze», spiega, «sono significativi: una si chiama S., il cui padre è comandante dei Servizi segreti, che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della laguna». La Minutillo racconta un episodio in particolare: «Successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse». A un certo punto gli inquirenti scovano una serie di contatti romani della Mantovani finalizzati all’acquisto di una società capitolina, la New Time corporation. «Si trattava dell’acquisizione di una quota della società editrice di un giornale che si chiama Il Punto. Era gente appartenente ai Servizi, per cui questa partecipazione, che costò molti soldi e molti altri vennero versati in tempi recenti, era un modo per pagare queste persone, per avere informazioni e per vedere di influire sulle indagini in corso». Riguardo alle somme destinate alla Regione Claudia Minutillo ha detto agli inquirenti che «le somme sono state versate a Galan e a Chisso. A Galan venivano consegnate, anche più volte all’anno, somme ingenti di denaro, parliamo di 100 mila euro o anche più. Questo mi è stati riferito sia da Baita che si lamentava delle richieste esose, sia dallo stesso Galan quando ne ero la sua segretaria. Poi c’erano alcuni funzionari regionali ai quali si facevano favori. Quanto a Galan, Baita mi disse che aveva sostenuto finanziariamente la ristrutturazione della sua villa. Non so se avete mai visto la casa, credo che i lavori siano costati qualche milione di euro». E ancora: «So che normalmente l’ingegner Mazzacurati versava somme di denaro a Chisso all’Hotel Monaci all’ora di pranzo. Chisso in più occasioni si lamentò del fatto che Mazzacurati versava solo alle feste comandate... era chiaro che voleva essere remunerato più frequentemente». Secondo l'ex segretaria di Galan il business del futuro del Mose «è la commissione di collaudo sulla gestione il vero. Il Mose ormai lo danno per finito perché i soldi sono stati erogati o comunque stanziati tutti (in realtà ne sono stati stanziati 4,9 miliardi su 5,4, ndr); il vero affare ora è quello della gestione del Mose. Vale svariate decine di milioni di euro l’anno».
Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».
Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.
La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.
Enrico, Gianni e il Mose. I Letta tirati in ballo nell'inchiesta veneziana. Zio e nipote sono entrambi da sempre favorevoli all’opera. Ora i due nomi spuntano nei faldoni. I due smentiscono, Gianni querela e Enrico nega le ultime affermazioni di Pravatà: «Sono falsità». Ma il rapporto dell’ex premier con il Consorzio risale ai tempi del think tank VeDro’, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. «Leggo falsità sul mio conto legate al Mose. Smentisco con sdegno e nel modo più categorico. Non lascerò che mi si infanghi così». È categorico l'ex premier Enrico Letta, via twitter, rispetto alle accuse che gli muove Roberto Pravatà. Il vicedirettore generale del Consorzio Venezia Nuova che sostiene che il Consorzio stesso abbia appoggiato la candidatura di Letta nel 2007 con 150 mila euro. «Cado totalmente dalle nuvole» è la replica dell’ex premier, «tutti i finanziamenti che ho ricevuto nelle mie campagne elettorali sono sempre stati regolarmente denunciati e registrati, e dunque sono pubblici». Pravatà nel corso dell’interrogatorio avrebbe però sostenuto che il presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati lo avrebbe convocato «per dirmi che il Consorzio avrebbe dovuto concorrere al sostentamento delle spese elettorali dell'onorevole Enrico Letta, che si presentava come candidato per un turno elettorale attorno al 2007, con un contributo dell'ordine di 150mila euro». Come? «Il presidente mi disse che Letta aveva come intermediario per il Veneto, anche per tale finanziamento illecito, il dottor Arcangelo Boldrin, con studio a Mestre. In effetti venne predisposto un incarico fittizio per un'attività riguardante l'arsenale di Venezia». Letta nega. Così come ha negato lo zio Gianni, il cui nome è uscito dai faldoni giusto due giorni prima di quello del nipote. «Il mio coivolgimento è una favola» ha detto l’ex sottosegretario di Silvio Berlusconi. E ha annunciato querele, affidandosi alla tutela dell’avvocato dell'ex Cabaliere Franco Coppi. «Non esistono né richieste di denaro, né versamenti. Non sono mai esistiti, mai pensati e neppure immaginati» dice Letta zio, convinto che se i giornalisti avessero letto l'ordinanza del Gip, «avrebbero dovuto rinunciare al gioco perverso della insinuazione maliziosa». Rivendica «un normale e doveroso contatto istituzionale», Letta, rispetto a quello che per Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, sarebbe stata una richiesta di favori, subappalti a «certe imprese» e a un «aiutino» all’ex ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi. Smentiscono i Letta. E nessuno dei due risulta indagato. Però bisogna registrare che non è la prima volta che vengono coinvolti nella storia del Mose. E non solo, come ovvio, per gli incarichi ricoperti, che - come dice Letta zio - hanno prodotto «doverosi contatti». Già un anno fa furono tirati in ballo, insieme, in accoppiata, per il Mose. Gianni per un bigliettino di ringraziamento ritrovato nella sede della Palladio Finanziaria, una delle aziende del Consorzio. Letta senior di suo pugno ringraziava, «per il regalo ricevuto», il finanziere Roberto Meneguzzo, capo della holding di Vicenza. Meneguzzo è lo stesso che ora è nella lista dei 35 arresti con cui è esplosa la vicenda Mose, e secondo Mazzacurati era per il Consorzio il ponte con il governo Berlusconi e il ministero guidato da Giulio Tremonti. Per Enrico, invece, fu scomoda la sponsorizzazione, pur trasparente, del Consorzio Venezia Nuova a Vedrò, il think tank dell’ex premier, per le edizioni delle stagioni 2011 e 2012. Il logo del Consorzio è sulle locandine dell’evento estivo organizzato sulle riva nord del lago di Garda, in compagnia di altri sponsor eccellenti, da Autostrade e Ferrovie, a Lotto e Moby. “Inchiesta sul Mose: perquisito anche Capecchi, tesoriere di Vedrò”, titolano i giornali a metà del luglio scorso. La Guardia di Finanza, su decreto di perquisizione del pm Paola Tonini, si reca nell’abitazione di Capecchi, a Perugia, e nella sede romana dell’associazione, per mettere insieme i faldoni di tutte le società che hanno avuto rapporti con il Consorzio. Sono oltre cento e tra loro c’è Vedrò. Può succedere. Come può succedere che tanto Gianni quando Enrico si siano sempre spesi per la grande opera in Laguna. Il quotidiano «la Nuova Venezia», il 17 luglio 2013, osservava: «Letta, ricordano i comitati anti-Mose, fu nel 2006 il coordinatore della commissione insediata da Prodi – di cui era sottosegretario – che aveva bocciato tutte le alternative al Mose».
Ecco chi paga Enrichino. Enel, soprattutto. Ma anche Eni, Telecom, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l'Italia, Nestlé, Farmindustria e il gruppo Cremonini. Sono i generosi sponsor della fondazione VeDrò, da cui nasce la rete di potere del premier incaricato. Chissà se avranno qualcosa in cambio, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. Chi finanzia VeDrò, il think-tank bipartisan che ha fatto di Enrico Letta l’uomo giusto per un governo di larghe intese? Sponsor privati, ovviamente. Dall’Enel al gruppo dell’industria alimentare Cremonini, fino all’Eni e ad Autostrade per l’Italia. Il motivo? Ritorno di visibilità, loghi su brochure e siti internet. E la politica? La politica non c’entra, dicono: «Noi non negoziamo la nostra posizione intellettuale», dice subito il tesoriere Riccarco Capecchi. Vedrò, anzi vedremo: «Dobbiamo lavorare molto sul tema delle privatizzazioni», è la posizione nota di Enrico Letta: «Il patrimonio pubblico è ancora enorme: bisogna cominciare a mettere nel mirino nuove privatizzazioni pezzi di Eni, Enel e Finmeccanica». E poi: «Sarà uno dei temi del nostro governo, quando gli elettori ci faranno governare», conclude il prossimo Presidente del Consiglio. Sul tema dei finanziamenti privati ai think-tank, Mattia Diletti, docente e ricercatore di scienza politica all’Università La Sapienza di Roma, ha fatto un lavoro molto articolato: «Questo tipo di fondazioni politiche hanno bilanci molto simili e possono contare su budget medi di 800 mila euro». E Vedrò? «E’ poco sopra la media», dice Diletti. «Quello che colpisce però del sistema di finanziamento riguarda soprattutto i finanziatori piuttosto che i finanziati», spiega: «Sono prevalentemente ex monopoli pubblici, che hanno un rapporto ancora stretto con la politica e che finanziano un po’ tutti, con cifre ridotte, a pioggia, sia la destra che la sinistra. Funziona un po' «all’americana», dice Diletti. E come si riempie, in America, un bilancio da 800 mila euro? Lo si capisce prendendo in mano una qualunque brochure delle attività di Vedrò. Enel, Eni, Edison, Telecom Italia, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l’Italia, Nestlé, Farmindustria, il gruppo Cremonini (la carne Montana): sono tante le aziende che concorrono al fabbisogno del pensatoio. Quello che non sappiamo è quanto sia il contributo specifico di questi sponsor, quali sono economici e quali invece in servizi. Quello che sappiamo è che gli sponsor hanno spesso un ruolo attivo, all’interno del dibattito, contribuendo al contenitore ma anche al contenuto. Enel, ad esempio, promuove così l’appuntamento estivo di Vedrò, sul proprio sito: «Un think-net aperto e dedicato anche alla mobilità elettrica e alle smart cities», dove «Enel, sponsor della manifestazione, è protagonista del working group Vedrò Energie». Vedrò vive tutto l’anno, organizza convegni, aperitivi e presentazioni. L’evento centrale è però la tre giorni che si svolge a fine agosto a Dro’, paese trentino di 4.500 abitanti, una quindicina di chilometri a nord del del lago di Garda, in un’ex centrale idroelettrica. Nonostante la chilometrica lista di sponsor, l'evento non è gratuito. Anzi. Gli hotel della zona costano cari, e tutti gli ospiti - o quasi - pagano di tasca propria. In più, ovviamente, c’è una quota di iscrizione: 150 euro per gli under trenta, 300 euro o più per tutti gli altri. Avarizia degli organizzatori? Piuttosto, ricerca dell’esclusività. Già così - per la prossima edizione - sono previste oltre mille persone: ben più di quelle arrivate l’anno scorso, che erano 800. «Le loro quote», ci spega il tesoriere Riccardo Capecchi, «servono a coprire i costi vivi della manifestazione, l’allestimento della centrale, le navette con gli alberghi, il catering per i tre giorni». Ma non bastano. A Vedrò lavora una decina di persone («ma io come altri sono volontario», dice sempre Capecchi) e sono le sponsorizzazioni a tenere in piedi il tutto. Con quanto? Quanto basta per coprire tutti i costi, ma di più non si può sapere: «Noi - dice Capecchi - per ovvie ragioni di privacy non diffondiamo l’entità delle contribuzioni». Ma bisogna stare tranquilli, assicura, perché ««gli accordi che prevalentemente sono sulla visibilità, rispettano i parametri standard». «Quello che posso dire», continua Capecchi, «è che la contribuzione media è di circa 30 mila euro. Anche se poi, ovviamente c’è chi dà meno e chi dà molto di più». C’è poi chi è proprio affezionato: il premio di più fedele supporter va proprio all’Enel che a Vedrò ci va dalla prima edizione. «Con loro, così come con tutti gli altri», spiega il tesoriere, «c’è la condivisione di un progetto». Basta la condivisione a coprire tutti i costi? Pare di sì. «Anzi», si vanta Capecchi, «siccome io sono un gestore oculato, riusciamo anche ad avere un lieve avanzo di bilancio». Bilancio che però non aiuta a scoprire le cifre precise, perché le voci sono accorpate: «La nostra volontà di trasparenza è però certificata dal fatto che abbiamo fatto una società, al 100 per cento partecipata da Vedrò, che ha l’obbligo di presentare un bilancio pubblico, invece di fare tutto come associazione». Resta da capire se le sponsorizzazioni diano o meno i loro frutti. Politicamente parlando., s'intende.
Enrico e Gianni Letta, separati in politica ma uniti nella società degli uomini d'oro. Zio e nipote tra gli uomini che contano della Spencer Stuart, la società di cacciatori di teste che designa i candidati a 350 superpoltrone pubbliche, scrive Denise Pardo su “L’Espresso”. In ordine d’importanza, ma sotto, un bel po’ sotto al tavolo ufficioso formato da Matteo Renzi, Luca Lotti e Marco Carrai, la triade alla ricerca della miglior mappa possibile per le nomine degli enti pubblici in scadenza a giorni, c’è un altro tavolo, ufficiale questa volta, che conta e lavora. È il tavolo di Spencer Stuart, società internazionale di cacciatori di teste e vincitrice di due gare per la selezione degli uomini d’oro che siederanno sulle 350 poltrone che da metà mese diventeranno vacanti. Spencer Stuart di uomini d’oro se ne intende: nel suo advisory board due nomi al vertice del potere, influenti e autorevoli sempre, sia che entrino, sia che escano dalle porte girevoli di Palazzo Chigi e anche della stessa Spencer. Per di più zio e nipote. Si tratta di Gianni e Enrico Letta, mai al governo insieme, in Spencer Stuart sì. In ballo, ora, ci sono le poltrone più pesanti dell’economia pubblica italiana. Il potere vero ai massimi livelli, tali da avere a che fare, a volte, con Vladimir Vladimirovic Putin o Barack Obama quando si tratta di gas, petrolio, energia, difesa del mondo. L’elenco con le caselle da riempire è infinito, colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, aziende quotate in Borsa e no, società partecipate direttamente o indirettamente dal Tesoro, centri studi, enti desueti. La griglia su cui poggia buona parte del sistema del Palazzo e del Paese e che questa volta, per parlare renziano, può cambiare davvero verso, può essere alla svolta buona. Ed è soprattutto una significativa cartina di tornasole per Matteo Renzi. Ma andiamo per ordine. In nome della trasparenza, nel giugno del 2013, al tempo del governo di Enrico Letta, dopo gli scandali di Finmeccanica, una direttiva del ministero dell’Economia, allora c’era Fabrizio Saccomanni, traccia una procedura per arrivare a selezionare i manager da designare alla testa delle aziende pubbliche. Viene nominato un Comitato di garanzia con personaggi di rango: Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, Vincenzo Desario, ex direttore generale di Banca d’Italia, la professoressa Maria Teresa Salvemini, consigliere Cnel. A loro saranno consegnate le liste con le rose dei candidati, amministratori delegati, presidenti, consiglieri d’amministrazione, selezionate dalle società di cacciatori di teste chiamate a supportare la direzione Finanza e privatizzazioni del Tesoro guidata da Francesco Parlato. Poi la Provvidenza, il fato o la fortuna faranno la spola con Palazzo Chigi. In più, chi vuole proporsi autonomamente, con un ottimismo degno di essere studiato dai cervelloni della Nasa, può mandare un curriculum a candidature@tesoro.it. facendo finta di vivere in Gran Bretagna dove per il posto del governatore e del suo vice è apparso un annuncio a pagamento sull’“Economist”. Una scelta sacrosanta almeno formalmente al riparo di appetiti politici e delle complicate scacchiere di lobby, relazioni, fratellanze, affiliazioni, appartenenze che nel sistema del Palazzo hanno contato non poco, sicuramente troppo. Ma che certo non hanno smesso di esercitare ancora adesso la loro pressione. A luglio 2013 l’incarico per le candidature delle società del Tesoro, un gran bel bottino, se l’aggiudicano Spencer Stuart e Korn Ferry (per legge gli head hunters devono essere due). E il 10 marzo 2014 anche la gara di Cassa Depositi e Prestiti per le sue partecipate, altro gruzzolo prelibato, viene vinta ancora da Spencer Stuart, il cui presidente e amministratore delegato è Carlo Corsi, ex carabiniere, cavaliere e colonnello dell’influente e misterioso Ordine di Malta. Così, forse a causa dei malumori all’interno al Tesoro per l’eccessiva egemonia di Spencer Stuart, succede che Cassa mandi un nuovo invito per una seconda gara. A vincere, questa volta, è Management Search che dovrà dividere l’impegno con Spencer. Un invito, si diceva. Un invito? Per partecipare a una gara al ministero dell’Economia serve un invito come per il ballo della Rosa a Montecarlo? Sì, le competizioni non sono aperte a tutti ma sono a chiamata diretta. È assolutamente lecito ma certo in questo modo si può decidere chi chiamare e chi no, escludendo anche chi ha i titoli. Spencer, che in questa tornata raddoppia, sicuramente i titoli li ha. Ma ha anche gli uomini, uomini che contano, conoscono tutti, aprono qualsiasi porta se è il caso e possono pesare nelle scelte. Come Gianni Letta, plenipotenziario di Silvio Berlusconi, più volte sottosegretario del Consiglio, cooptato anche da Goldman Sachs, che a metà degli anni Duemila entra nell’advisory board di Spencer Stuart. Qualche anno dopo è la volta di suo nipote Enrico Letta. Ecco il “Save the date” per il Forum Spencer Stuart in collaborazione con il “Corriere della Sera”: «È prevista la partecipazione dei membri del nostro Advisory Board: Carlo Secchi (presidente) Raffaele Agrusti, Elio Catania, Enrico Letta, Tomaso Tommasi». La data è dell’8 novembre 2012. Cinque mesi dopo Letta jr diventerà presidente del Consiglio. Al tempo del Forum, ha un ruolo di primissimo piano nel panorama politico, è vice segretario del Pd. Ma anche il presidente dell’advisory board di Spencer Stuart, Carlo Secchi, è uomo molto influente. E grazie alle sue molteplici vite ha accesso ai cerchi magici più importanti. Ex rettore della Bocconi, è un collezionista d’incarichi, per dirne qualcuno è presidente del cda di Mediolanum e consigliere di Mediaset. Non ha disdegnato la politica: è stato parlamentare europeo nel 1994 e poi senatore per il Ppi, partito nel quale cresce Enrico Letta. Secchi rappresenta l’incrocio perfetto, nemmeno in provetta si sarebbe potuto fare meglio, tra Mario Monti, Silvio Berlusconi, Gianni ed Enrico Letta: le larghe, larghissime intese. Non è proprio quello che si può definire un soggetto indipendente. Ma per rimanere all’interno della trama dell’uncinetto del gran potere, il 5 dicembre dell’anno scorso nel nuovo comitato d’indirizzo dell’Istituto Toniolo, potentissimo ente fondatore e promotore dell’Università Cattolica, arriva Gianni Letta. Ad accoglierlo seduto al suo stesso tavolo anche Cesare Mirabelli, proprio il presidente del Comitato di garanzia per le nomine del Tesoro. Il ministero che ha “invitato” alla gara per le nomine la Spencer Stuart. Così mentre Paolo Scaroni, Fulvio Conti, Massimo Sarmi, Alessandro Pansa sfogliano la margherita del loro futuro, girano i requisiti del management spendibile al tempo di Renzi: tetto dei mandati, non più di tre, stipendi più umani, verginità giudiziaria, bassa commistione con vecchi poteri e mandarini, totale trasparenza. Peccato che nonostante la delicatezza del suo lavoro per la trasparenza delle nomine, Spencer Stuart abbia tra i suoi principali clienti proprio l’Eni di Scaroni e progetti in corso con Enel e Finmeccanica. Sarà questo il motivo per cui la società rifiuta di rilasciare dichiarazioni su chi siede oggi nel suo advisory board, ricostruibile solo sulla base di indiscrezioni e di take d’agenzia? Forse la privacy è d’obbligo se ci sono persone di rango come Letta o se magari si possono profilare all’orizzonte conflitti d’interessi. Ma non sarà così, altrimenti il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Matteo Renzi lo saprebbero certamente.
L'eterno ritorno di Gianni Letta nelle inchieste. Il nome dell’ex sottosegretario Letta compare nelle carte sul Mose e sull’Expo. Come in quasi tutte le indagini-scandalo degli ultimi anni. A conferma di un potere soft ma pressoché sconfinato. Impermeabile ai cambi di governo e durato ben oltre la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. «Non è la prima volta che il mio nome viene evocato o citato in una delle tante inchieste che riempiono le cronache di questi mesi. Ed è ovvio che lo sia, perché negli anni di governo mi sono occupato di tutte le più importanti vicende». Proprio non è andata giù a Gianni Letta l’accostamento della sua persona con l’inchiesta sul Mose che sta facendo tremare la politica. E in effetti - per quanto mai indagato e spesso solo citato nelle conversazioni («ho sempre agito con correttezza e trasparenza» ha rivendicato lui) - quasi non c’è stato scandalo piccolo o grande in cui non sia comparsa nelle carte anche l’eminenza grigia del berlusconismo, dalla P4 alla Banca popolare di Milano, dal caso Rai-Agcom ai prezzi dei farmaci gonfiati. E da ultimo, il Mose e l’Expo. Una ricorrenza che, al di là dell’assenza di rilievi penali, racconta meglio di tante parole il sistema di potere incarnato da Letta, da molti osannato quale statista e impagabile servitore dello Stato . Un potere soft, il suo, ma pressoché sterminato. Soprattutto, impermeabile ai cambi di governo. Tanto da essere un po’ in declino, forse, ma da durare tuttora. Prima del Mose il nome dell’ex sottosegretario era già apparso poche settimane fa nell’inchiesta sull’Expo. Nella quale Letta, come quasi sempre, appare il Richelieu da cui tutti vanno in processione per chiedere una referenza, una intercessione o una buona parola. «Ma perché non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il presidente?» domanda ad esempio il presunto “corriere” delle tangenti Sergio Cattozzo all’ex parlamentare di Forza Italia Gianstefano Frigerio a maggio 2013. Ovvero quando Berlusconi non era più a Palazzo Chigi da un anno e mezzo e al governo sedeva da meno di un mese Letta junior. Il motivo per cui spendersi? Le nomine nelle società pubbliche, in cui gli organizzatori della cupola, non contenti degli appalti, cercavano di mettere il becco. E infatti, secondo quanto emerso, lo stesso Letta alcuni mesi prima avrebbe ricevuto l’allora senatore Pdl Luigi Grillo, poi arrestato, interessato a promuovere (senza successo) la candidatura del manager Giuseppe Nucci. Tramite del contatto, Cesare Previti. «Ecco Giuseppe (...) son stato da Cesare (Previti, ndr) … abbiamo parlato al telefono con Gianni Letta. Domani ci riceve, domani mattina ci dice a che ora, perché c'è anche il Presidente» riferisce Grillo al telefono. «Appena andiamo a parlare con Gianni poi ci vediamo io e te e ti racconto». Ma Da Letta, a quanto emerso, sarebbero andati anche i toscani Denis Verdini e Altero Matteoli per perorare il nome dell’ex sottosegretario Stefano Saglia per la guida di Sogin. Altro passo indietro di poche settimane: ad aprile vengono depositati gli atti dell'indagine sulla Banca popolare di Milano (Bpm), per la quale l’ex presidente Massimo Ponzellini rischia il processo. Analizzando le intercettazioni fatte nell’arco di due mesi (relative al 2009) la Guardia di finanzia è giunta alla conclusione che il rapporto tra Ponzellini e Letta “è apparso solido, duraturo e confidenziale da permettere” all'ex sottosegretario “senza particolari filtri, di raccomandare al banchiere persone o aziende in cerca di finanziamenti”. Come nel caso di Marco Bianchi Milella, figlio di primo letto della regina romana dei salotti e vecchia amica Maria Angiolillo, al quale il sottosegretario cerca di far ottenere un incarico. Oppure lo sforzo per aiutare “imprese amiche bisognose di una sponda finanziaria”. Ed è proprio con la mediazione della Angiolillo che, sempre nel 2009, i vertici della casa farmaceutica Menarini, posseduta dalla famiglia Aleotti, arrivarono fino al sottosegretario per far approvare un emendamento contro i medicinali generici , più economici in quanto non coperti da brevetto. Una vicenda, scrivono i Nas di Firenze, in cui ci fu “una volontà politica di altissimo livello costituita dal Capo del Governo e da Gianni Letta nel condurre in porto l’emendamento” e nella quale ci fu “l’appoggio decisivo di Berlusconi”. E poco cambia quando a Palazzo Chigi arrivano i Professori, come traspare dalle carte dell’inchiesta sulla tav di Firenze. Anche col governo Monti l’ex sottosegretario continua infatti ad avere peso nelle nomine istituzionali, considerato anche che il suo posto alla presidenza del Consiglio lo ha preso proprio un Letta-boy: Antonio Catricalà. Una situazione evidente nella scelta dei componenti dell’Authority sui trasporti, come ha raccontato l’Espresso , dove in una “telefonata imbarazzata” (così la definisce, intercettata, l’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, poi arrestata) l’allora vicesegretario Pd Enrico Letta fa sapere “che suo zio Gianni non vuole sentire ragioni a mollare Pasquale De Lise ”, il consigliere di Stato già apparso nelle carte dell’inchiesta su Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Fabio Anemone. Per quanto ampio, il potere di Letta fonda su una riservatezza assoluta che si manifesta anche al telefono. Al punto che anche quando finisce direttamente nelle intercettazioni, mentre i suoi interlocutori mostrano una loquacità assai poco avveduta, lui si limita a poche parole. Come nell’inchiesta Rai-Agcom. Il 3 dicembre 2009 il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi, pressato da Berlusconi per far chiudere “Annozero”, lo chiama per chiedergli di contattare il presidente dell’Authority Corrado Calabrò. Innocenzi si profonde con foga in un lungo monologo («Tu sei l’ultima spiaggia», arriva a dirgli) e Letta si limita a un telegrafico: «Proverò a cercarlo, grazie, ciao». Una accortezza messa a rischio solo dalla “disinvoltura” telefonica dell’amico di vecchia data Luigi Bisignani, di cui Letta è stato testimone di nozze («Bisignani si muoveva e veniva individuato come l'uomo di Letta» ha detto l’ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, sentito nell’inchiesta sulla P4). Un rapporto di amicizia gestito «in modo istituzionale e corretto» ha sottolineato Letta. Di certo, motivo di qualche imbarazzo per il sottosegretario. Come quando l’amico gli dice di essere «oggetto di attenzioni da parte dell'autorità giudiziaria» e lui gli suggerisce di «non parlare troppo al telefono, visto che è piuttosto facondo». Oppure quando Bisignani afferma ai pm di Napoli che «sicuramente» lo informava delle informazioni avute dal deputato Pdl Alfonso Papa, «in particolare tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente come la vicenda riguardante Verdini». O ancora quando, intercettato, Bisignani parla della cena per festeggiare la nomina a giudice costituzionale di Giorgio Lattanzi e Letta si trova costretto a smentire ai magistrati di avervi partecipato. Ma il nome di Letta è spuntato nei mesi scorsi anche nell’inchiesta su un appalto pilotato per l’informatizzazione di Palazzo Chigi, uno stralcio della P4 che ha visto coinvolto l’ex capo dipartimento di Palazzo Chigi, Antonio Ragusa e, ancora una volta, Luigi Bisignani, che ha patteggiato una pena di due mesi (un altro anno e sette mesi il faccendiere lo aveva patteggiato per il filone principale). I pm di Roma sentono Borgogni e il discorso cade su un’assunzione nella galassia Finmeccanica relativa a un familiare di Ragusa, che i magistrati ipotizzano sia uno scambio corruttivo relativo all’appalto. «Non c’è nesso» afferma Borgogni: «Sarebbe stata sufficiente una telefonata con il sottosegretario Gianni Letta, che con il Guarguaglini (presidente Finmeccanica, ndr) era in contatti giornalieri e al quale Ragusa era molto vicino, per ottenere l’effetto». Che sia vero o no quanto sostenuto, l’ex sottosegretario si sarebbe speso personalmente per caldeggiare un’assunzione. Anche se con parametri non proprio meritocratici, a detta di Borgogni: «Che Letta fosse in condizioni per fare tali richieste e che concretamente le facesse mi risulta personalmente perché aveva raccomandato a Guarguaglini una persona proveniente da Telecom e io mi opposi perché era impresentabile». C'è anche il nome di Maria Teresa Letta, sorella di Gianni e vice presidente nazionale della Croce Rossa Italiana, nelle carte dell'inchiesta sulle mazzette per la ricostruzione de L'Aquila. La donna non è indagata. Il suo nome appare nel procedimento contro Graziano Rosone, uno dei tre imprenditori arrestati. L'accusa nei confronti di Rosone è di millantato credito proprio nei confronti della Letta. Rosone avrebbe ottenuto 12mila euro da un dipendente di Poste Italiane per fargli ottenere un trasferimento vicino a casa, cioè dal Piemonte all'Abruzzo. Al dipendente delle Poste, Rosone ha detto che quei soldi servivano per pagare la Letta – nome in codice “la Professoressa” - che l'imprenditore ora agli arresti domiciliari in effetti conosce bene avendo realizzato con la sua azienda edile, la Telegest, un centro civico per la Croce Rossa in provincia de L'Aquila. Il gip del capoluogo abruzzese, giustificando l'estraneità della Letta alla vicenda, cita la testimonianza di un responsabile di Poste Italiane: questo dice di non aver mai ricevuto pressioni dalla Letta e spiega che il dipendente delle Poste aveva tutto il diritto al trasferimento (poi ottenuto) poiché doveva essere sottoposto a un trapianto d'organi vitali.
LO SPAZIO E LE VORAGINI.
L'Agenzia spaziale ha un buco da 200 milioni. E spunta anche una parentopoli stellare. I dipendenti spostati all’Asi godono di un bonus extra sullo stipendio. E, grazie alle raccomandazioni, non mancano i cognomi noti. Mentre nei conti c’è una voragine milionaria, scrive Chiara Organtini su “L’Espresso”. Enrico Saggese, ex amministratore Asi, con Samantha Cristoforetti C'è un buco nero nei bilanci dell’Asi, l’agenzia spaziale che ha il compito di portare in orbita il made in Italy nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. La Corte dei Conti ha passato al setaccio i risultati del 2013: in soli due anni, il disavanzo finanziario dell’Agenzia è triplicato, arrivando alla soglia record di 233 milioni di euro. Un balzo stellare, con i magistrati contabili che chiedono al management dell’ente statale di provvedere a “ulteriori urgenti iniziative di contenimento della spesa e razionalizzazione dei costi della gestione”. Soprattutto a fronte degli impegni che l’Asi ha preso con l’agenzia spaziale europea (Esa), programmi che la Corte valuta a rischio sostenibilità. È una storia antica, inarrestabile, con l’Agenzia che spende più di quanto le viene conferito per legge e i debiti si accumulano. Nel mirino sono finite le spese per la nuova sede, già bocciate dall’Autorità di vigilanza sugli appalti e l’eccesso di consulenze, definite “anomale e illegittime”. Lo strappo con la vecchia gestione dell’ex amministratore Enrico Saggese - finito sotto processo per una storia di concussione, sprechi e malagestione - non ha sortito ancora risultati. E una nuova pagina di polemiche sta per aprirsi. Perché, nonostante i dipendenti dell’Agenzia spaziale siano obbligati per contratto alla riservatezza, il sentore di una nuova parentopoli per la caccia al posto è più di un’ipotesi. Con un motivo esplicito: all’Asi si guadagna di più rispetto agli altri enti pubblici. Un gettone extra di 600 euro al mese è il vantaggio ottenuto da chi riesce a farsi collocare “in comando” tra le file dell’Agenzia, che nei suoi ranghi conta 227 dipendenti. E se è vero che i costi per il personale sono stati ridotti nell’ultimo biennio da 24 a 19 milioni e mezzo, l’unica spesa che i magistrati contabili trovano in crescita è proprio quella relativa al personale distaccato da altre istituzioni, raddoppiato dai 690 mila euro del 2012 a ben 1,24 milioni. Chi sono e come sono stati scelti questi “comandati”? Dall’organigramma fioccano i nomi di parenti di sindacalisti, revisori dei conti della stessa Agenzia e persino di consiglieri della Corte dei Conti. In alcuni casi, dalla documentazione interna, si capisce che il “comando” temporaneo è solo un escamotage per un posto definitivo. Una di loro sa già che verrà assorbita perché così è scritto nella lettera di nomina dell’Agenzia. Ma è un’altra funzionaria “in prestito”, in una mail interna, a confessare di aver chiesto una raccomandazione per il trasferimento all’Asi: «Ero in cerca di maggiori guadagni e mi è stata data questa possibilità». Tra i 14 comandati nel 2012, sei sono stati assunti definitivamente nello scorso luglio. Probabilmente la sorte di quei lavoratori era stata già decisa proprio al momento dell’ingaggio, all’apogeo della presidenza Saggese. Ma il destino non sarà uguale per tutti. Federica Luciani, ritenuta “una risorsa in eccesso”, è stata rimandata al ministero della Difesa. Non ci sta e segnala all’ispettorato della Funzione pubblica quelle assunzioni. Il ministero si muove subito, scrive all’Agenzia rilevando che la procedura di quegli “assorbimenti” è in contrasto con la legge. Ma il cda dell’Asi non risponde. Il caso finisce sul tavolo di Santo Darko Grillo, responsabile anti corruzione dell’ente spaziale. Il dirigente sostiene che occorrono rilievi oggettivi e liquida quella denuncia come un “whistleblowing”: una soffiata, che però ora è al vaglio dell’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone.
MAFIA CAPITALE.
Mafia Capitale, gli affari del Pupone: il fallo da dietro su Totti di Fatto e Espresso, scrive “Libero Quotidiano”. Settantacinque mila euro al mese: tanto ha pagato il Comune di Roma dal 2008 ad oggi, a una delle società di Francesco Totti che ha "messo a disposizione" del Campidoglio 35 case in periferia per l'emergenza abitativa. A rivelarlo un capitolo del nuovo libro di Lirio Abbate e Marco Lillo "I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale", appena uscito per Chiarelettere, nel quale gli autori raccontano dello spreco di denaro pubblico che c'è stato, e c'è (43 milioni l'anno), dietro i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, creati nel maggio 2005 dal consiglio comunale. Precisando che "nessuno è indagato per queste storie", Abbate e Lillo raccontano di come siano stati attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne hanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. Ebbene nell'elenco degli immobiliaristi consegnati dal pm Luca Tescaroli al Ros per le "concordate verifiche" c'è anche il residence della "Immobiliare Ten", amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l'83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, scrivono Lillo e Abbate, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del "Capitano": a valle c'è l' Immobiliare Ten, proprietaria dell immobile affittato al Comune; più su c'è invece l' Immobiliare Dieci che possiede - oltre al 100 per cento delle quote della Ten - anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c' è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l 83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l' affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell'estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall'amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine, grande tifoso giallorosso e amico del capitano che addirittura fece pubblicare un necrologio nel 2005 in occasione della morte del padre del capo di gabinetto di Veltroni. Odevaine era infatti il presidente della commissione che doveva decidere chi inserire nella lista degli immobili a disposizione del Comune per l'emergenza abitativa. Il 27 settembre 2007, si legge nel libro "I re di Roma", l'Immobiliare Dieci Srl "spara" l'offerta: per l'affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. In pratica Francesco Totti, o meglio, l'amministratore di allora che non era il fratello Riccardo - subentrato solo nel 2009 - ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio fa sapere alla società che è interessato, ma a un "a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria". Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l'anno. Un'enormità, fanno notare Lillo e Abbate, se si pensa che la società di Totti ha comprato l' immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Nonostante il contratto sia scaduto il 31 dicembre 2014, si legge sul Fatto Quotidiano, l'amministrazione capitolina continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. Case non proprio di lusso, come invece il prezzo lascerebbe presumere. La signora Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano denuncia agli autori del libro che ci sono "infiltrazioni in camera da letto, piove dal bagno di sopra, gli scarafaggi ci tormentano". "Quando siamo entrati qui era tutto in ordine con i mobili ancora imballati", racconta la signora. "Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall'appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà". E ancora: "In realtà qui in via Tovaglieri non c'è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (...)". "Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io - si lamenta Elisa Ferri con Lillo e Abbate - so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d' occhio. Anche l' ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr' ore al giorno, ma solo per lavorarci". E come se non bastasse, "il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune". In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti "ci" costano l'uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste.
Totti e gli affari d’oro col Campidoglio: 75mila euro al mese dalle case popolari, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Le società del capitano della Roma affittano immobili in periferia al Comune di Roma per l'emergenza abitativa. E il canone è extra large: 900mila euro l'anno per 35 alloggi del residence di Tor Tre Teste. A capo della commissione di gara, l'ex vice capo di gabinetto di Veltroni Odevaine, ora in carcere per Mafia Capitale. Un palazzo in locazione anche all'ex Sismi. Il 19 maggio 2014, meno di tre mesi prima di presentare la richiesta di arresto per i protagonisti di “Mafia Capitale”, i pubblici ministeri romani mettono nel mirino i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, uno scherzetto da quasi 43 milioni di euro di spese all’anno nel bilancio di Roma Capitale. (…) Questi centri vengono creati nel maggio del 2005 con una delibera del consiglio comunale ai tempi in cui è sindaco Walter Veltroni. Negli anni successivi vengono attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne fanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. (…) L’amministrazione spende 42 milioni e 597.000 euro all’anno per 33 residence, a cui si sommano i centri della Eriches 29, di Salvatore Buzzi, che ospitano complessivamente 584 persone. Nell’elenco dei Caat troviamo grandi immobiliaristi (…). La procura finora non ha mosso accuse sull’emergenza abitativa. Non mancano casi di estrema “concentrazione”. Su 18 strutture a disposizione del Dipartimento Politiche sociali, ben 16 sono delle solite “coop bianche” (…). Alla fine le cooperative vicine a Comunione e liberazione racimolano grazie ai Caat del Comune più di 8 milioni di euro. Secondo il prospetto del Campidoglio, consegnato ai pm nel maggio del 2014 e poi girato al Ros dei carabinieri, Eriches 29 – quindi il versante “rosso” – costa alle casse dell’amministrazione pubblica ben 5 milioni e 179.000 euro, circa 740 euro al mese per immigrato (…). Nella lista consegnata dal pm Luca Tescaroli al Ros per le “concordate verifiche” c’è anche, all’undicesimo rigo della tabella dei Caat, il residence della Immobiliare Ten, amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l’83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del“Capitano”: a valle c’è l’Immobiliare Ten, proprietaria dell’immobile affittato al Comune; più su c’è invece l’Immobiliare Dieci che possiede – oltre al 100 per cento delle quote della Ten – anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c’è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l’83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell’estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall’amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto, come è accaduto per il gruppo Pulcini e per Salvatore Buzzi, grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine. Nessuno è indagato per queste storie, ma resta lo sperpero di denaro pubblico (…). Il 16 ottobre 2007, dopo la pubblicazione di un bando sulla Gazzetta ufficiale il 13 agosto 2007 e dopo l’arrivo delle offerte, viene nominata dal direttore del Dipartimento Politiche abitative del Comune di Roma in carica, Luisa Zambrini, una commissione di gara. (…) Il presidente della commissione è il “dottor Luca Odevaine”. Qualche giorno prima, il 27 settembre, l’Immobiliare Dieci Srl “spara” l’offerta: per l’affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. Una cifra spropositata. In pratica Francesco Totti, o meglio, l’amministratore di allora che non era il fratello Riccardo – subentrato solo nel 2009 – ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio dispone di sottoporre l’offerta a un “parere di congruità tecnica” e “a seguito di tali verifiche l’amministrazione di Roma ha informato l’Immobiliare Dieci Srl di essere interessata all’offerta in locazione della struttura” però “a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria”. Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l’anno. Un’enormità se si pensa che la società di Totti ha comprato l’immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Il contratto è scaduto il 31 dicembre 2014 ma l’amministrazione continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. (…) La società, inoltre, incassa gli affitti dei negozi – per un totale di 1900 metri quadrati – che sono esclusi dal contratto con il Comune. Al piano terra, infatti, troviamo un bel bar, della catena Blue Ice, e un supermercato Conad. Nel 2007 questi affitti extra erano pari a 231.000 euro all’anno. (…) Lo stabile è il classico immobile costruito per ospitare uffici, non certo appartamenti residenziali. “Quando siamo entrati qui – racconta Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano – era tutto in ordine con i mobili ancora imballati. Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall’appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà”. E ancora: “In realtà qui in via Tovaglieri non c’è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (…)”. “Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io – si lamenta Elisa Ferri – so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d’occhio. Anche l’ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr’ore al giorno, ma solo per lavorarci”. E come se non bastasse, “il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune”. In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti “ci” costano l’uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste. Un bell’autogol per tutti. A questo punto è interessante capire la storia del palazzo di via Tovaglieri. Inizialmente il proprietario, come accaduto per altri residence poi affittati come Caat al Comune, è la società Fimit Sgr, un grande fondo immobiliare italiano nato nel 1998 per iniziativa di Inpdap e Mediocredito Centrale. Fino a maggio del 2007, alla guida c’è Massimo Caputi, un manager molto importante che ha guidato colossi come Invitalia e Grandi Stazioni (…). Il 30 maggio 2007 l’Immobiliare Dieci Srl stipula un preliminare con Fimit per comprare il palazzo di via Tovaglieri e due stabili in via Rasella. La società del Capitano si impegna ad acquistare il “pacchetto” a 16 milioni e 950.000 euro. Il prezzo è buono per gli acquirenti e permette al fondo di fare una plusvalenza di 3,3 milioni. Il vero affare per i Totti sono i due palazzetti accanto a via Veneto, mentre quello di Tor Tre Teste viene infilato giusto per venderlo. In via Rasella, infatti, il Capitano compra immobili quasi totalmente liberi da inquilini, con una superficie netta da affittare pari a 1.860 metri quadrati al prezzo di 10 milioni e 950.000 euro, tutt’altro che elevato per quella zon (…) Ben diversa, almeno sulla carta, la situazione di via Tovaglieri. (…) Nel maggio del 2007, quando la società di Totti firma il contratto preliminare di acquisto al prezzo di 6 milioni con Fimit, è un mezzo bidone: difficile da affittare e con un valore in calo. Tra il preliminare e il definitivo però le cose cambiano. (…) Il 16 ottobre viene nominata la commissione che deve valutare le offerte, presieduta da Luca Odevaine, e venti giorni dopo, il 7 novembre, la società di Totti stipula il contratto definitivo di acquisto con Fimit per il palazzo di via Tovaglieri. Sembra un azzardo ma il 16 dicembre 2008, il Comune e l’Immobiliare Ten firmano il contratto di locazione. (…) Via Tovaglieri, grazie al contratto per sei anni rinnovabile tacitamente, è una gallina dalle uova d’oro (…). I due palazzi di via Rasella sono stati invece uniti e ristrutturati. Oggi ci sono gli uffici amministrativi dei servizi segreti italiani. L’Immobiliare Dieci detiene in leasing lo stabile e ottiene, nel 2013, ricavi per 1 milione e 70.000 euro. Probabilmente pagati tutti dall’Aise (Agenzia informazione e sicurezza esterna). Sul palazzo c’è anche la targa della presidenza del Consiglio. L’Immobiliare Dieci sostiene per via Rasella una rata del leasing pari a 545.000 euro ai quali bisogna assommare altri costi e ammortamenti. Alla fine, il netto utile è di 182.000 euro nel 2013. (…) Francesco Totti, pur essendo il maggiore azionista delle due società immobiliari e quindi “il beneficiario” economico principale, non è amministratore delle due società e potrebbe non essere a conoscenza della genesi e dell’evoluzione dei rapporti con il Comune di Roma e con la presidenza del Consiglio per la locazione dei palazzi di via Tovaglieri e di via Rasella. In Comune raccontano che Francesco Totti, ai tempi di Veltroni sindaco, aveva un buon rapporto personale con Luca Odevaine. L’allora braccio operativo del primo cittadino è un romanista sfegatato. Il Capitano lo conosceva bene e andava anche a trovarlo talvolta nel suo ufficio in Campidoglio. A testimonianza di un rapporto profondo tra i due, c’è un necrologio pubblicato in occasione della morte del padre di Luca, Remo Odevaine (…): “Sinceramente addolorati per la triste circostanza porgiamo le nostre condoglianze. Vito Scala e Famiglia, Francesco Totti e Ilary Blasi”. Il necrologio è datato 15 novembre 2005, quindi precedente alla decisione, da parte della commissione presieduta da Luca Odevaine, di affittare per sei anni a un canone complessivo che supera i 5 milioni di euro il palazzo di proprietà della società dell’amico Francesco. Nonostante ciò, Odevaine non riterrà più opportuno astenersi da quel ruolo che spetterebbe a persone “terze” e in Comune nessuno dirà nulla. Il rapporto tra i due non si è mai interrotto, come il contratto di affitto. Una traccia di questa stima reciproca si trova anche sui quotidiani del 24 gennaio 2013. Quel giorno Odevaine, sotto la bandiera di Fondazione Integra/Azione e in collaborazione con Legambiente e cooperativa Abitus, organizza una partita contro il razzismo (…). “L’iniziativa – scrive Repubblica – è stata apprezzata dal capitano dell’A. S. Roma, Francesco Totti” (…). Un’altra “battaglia giusta” potrebbe essere anche quella contro gli sprechi, che dovrebbe imporre a Totti – certamente all’oscuro dei malaffari di «mafia Capitale» – di migliorare la condizione degli inquilini del palazzo di via Tovaglieri e al Comune di chiudere al più presto il contratto con la società Immobiliare Ten e trovare una sistemazione più degna per 35 famiglie.
Mafia capitale, De Rossi e altri vip al telefono col boss: le intercettazioni. C'è anche il nome del calciatore giallorosso nelle carte dell'inchiesta sull'organizzazione criminale della capitale. La telefonata a Giovanni De Carlo arriva dopo un diverbio in un locale: "Famme sentì Giovanni...". Il boss ha incontrato anche Sculli e le compagne di Destro e Dzemaili , scrive “La Gazzetta dello Sport”. Calciatori, cantanti, uomini e donne dello spettacolo: Giovanni De Carlo, personaggio di rilievo dell'inchiesta Mafia Capitale consegnatosi ieri ai carabinieri del ros, aveva contatti con tutti: "Era un uomo che amava la bella vita, conosceva i migliori locali della movida romana ed era in frequente contatto con personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport", si legge nelle carte dell'inchiesta. Tra gli sportivi sono coinvolti Daniele De Rossi e Giuseppe Sculli. de rossi — Nelle carte dell'inchiesta Mafia Capitale c'è un'informativa del Ros che intercetta telefonate tra Daniele De Rossi e Giovanni De Carlo. Il calciatore chiama la notte del 30 settembre 2013 dopo una lite in un locale. "Avevo pensato che quello aveva chiamato qualche coattone... ho detto famme sentì Giovanni", dice De Rossi. Nell'informativa si dà conto anche dell'intercettazione fatta alle ore 2.56 del 30 settembre 2013. De Carlo, "rispondendo a due tentativi di chiamata fatti poco prima dello sportivo", chiamava De Rossi "chiedendogli di cosa avesse bisogno". De Rossi riferisce di averlo contattato perché "assieme al compagno di squadra Mehdi Benatia, aveva avuto poco prima una discussione in un locale e temendo conseguenze aveva pensato a De Carlo". L'informativa sottolinea che De Carlo, "dando prova di grande confidenza, gli confermava di poter contare sempre sul suo aiuto: 'Chiamame sempre... bravo! Hai fatto bene Danié, amico mio...' ". A prendere le difese di De Rossi è Mauro Baldissoni, d.g. della Roma: "Non montiamo casi. L'indagine in sé è molto seria, bisogna fare attenzione - ha detto alla radio ufficiale del club -. Mi auguro non si strumentalizzi la posizione di nessuno. Non ci sono rilievi penali. Alcuni giocatori stavano festeggiando una vittoria in un locale, a quanto pare un tifoso per eccesso d'entusiasmo era diventato un po' molesto e aveva aspettato Benatia, all'uscita, con atteggiamento minaccioso. De Carlo era all'interno del locale, solo per questo che De Rossi l'ha chiamato. Lo spiegherà Daniele stesso già da domani. In questi giorni è un po' sfortunato. Quando cerca di aiutare i compagni, rischia poi di trovarsi coinvolto in situazioni spiacevoli". Gli investigatori del Ros nella loro informativa riportano anche di un incontro tra Giovanni De Carlo e l'ex calciatore della Lazio Giuseppe Sculli, poi coinvolto nell'inchiesta sul calcioscommesse della procura di Cremona e nipote del superboss della 'ndrangheta Giuseppe Morabito, detto U tiradritt´. Le intercettazioni del Ros hanno appurato anche "numerosi contatti» di De Carlo con le compagne dei calciatori Mattia Destro della Roma e Blerim Dzemaili all'epoca in forza al Napoli e con la coppia Stefano De Martino e Belen Rodriguez. Sempre a De Carlo si era rivolto il cantante napoletano Gigi D'Alessio dopo che i ladri avevano rubato dalla sua casa dell'Olgiata una collezione di Rolex del valore di quasi 4 milioni di euro. In quell'occasione De Carlo si presentò a casa del cantante dove rimase per trenta minuti. E lo stesso fece il conduttore Teo Mammuccari chiedendo "sostanze dopanti per la palestra in particolare GH, ormone per la crescita". "Sono chiacchierone, ma non spiattello i cavoli tuoi in giro...non dico che vuoi diventare Hulk", la risposta a Mammuccari.
Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata. Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Chi crede che la Città dello sport di Tor Vergata, nella landa desolata della periferia a Sud Est di Roma, sia un’opera incompiuta fra le tante, sbaglia di grosso. Perché è assolutamente unica. Non per le sue dimensioni: la copertura reticolare a forma di vela che l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà potuto ammirare chissà quante volte dallo spazio è alta 75 metri e per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni, Iva esclusa. E per completarla ne servirebbero altri 426. Per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita. Numeri che portano realisticamente a escludere che il progetto concepito dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava possa mai vedere la luce, almeno in quella forma. L’unicità di una questa incompiuta, la cui costruzione è paradossalmente cominciata quando già erano stati versati fiumi d’inchiostro sullo scandalo delle opere pubbliche non finite, consiste nel fatto che non si sa nemmeno chi ne sia il padrone. Il terreno sul quale sono stati costruiti gli scheletri delle gradinate degli stadi del nuoto e del basket sono di proprietà dell’Università statale Tor Vergata. Ma ciò non significa che tutto quel meraviglioso cemento e la vela che sormonta le tribune del nuoto (il progetto di Calatrava ne prevede una seconda identica sopra quelle del basket) siano di proprietà dell’Ateneo. I soldi sono statali, certo. Dunque quel mostro è certamente dello Stato. Ma di quale pezzo, nessuno lo sa. E forse non era chiaro nemmeno all’inizio. Già, l’inizio. Vale la pena di ricordare com’è andata. Quando nasce l’idea di realizzare alcuni impianti sportivi sui terreni dell’università di Tor Vergata (600 ettari!) il sindaco di Roma è ancora Walter Veltroni. Si tratta di un’area immensa accerchiata da un’edilizia disordinata e orribile, e priva di collegamenti: anche se a pochissima distanza passano le linee A e C della metropolitana. Per il progetto iniziale viene prevista una spesa di 60 milioni, che subito però raddoppiano. Anche perché nel frattempo Roma si è vista assegnare i mondiali di nuoto del 2009. E siccome salta fuori l’idea di farli nel nuovissimo impianto che si sta costruendo, le operazioni passano nelle mani della Protezione civile di Guido Bertolaso. I mondiali di nuoto non sono forse un Grande evento, e dal 2001 i Grandi eventi non sono sempre stati gestiti da palazzo Chigi con un commissario ad hoc? Ecco allora spuntare anche qui Angelo Balducci, l’ex provveditore delle opere pubbliche protagonista delle inchieste sulla Cricca. Ma sarebbe ancora niente, se l’opera avveniristica progettata da Santiago Calatrava e la cui realizzazione è affidata al gruppo Caltagirone, venisse conclusa per tempo. Peccato però che già quando si comincia a lavorare allo stadio del nuoto è chiaro che difficilmente sarà pronto per i mondiali. E allora? Succede tutto quello che non dovrebbe succedere. A palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e al Comune di Roma s’è insediato Gianni Alemanno. La figuraccia internazionale incombe: ma anziché cercare di evitarla si pensa di risolvere la faccenda spostando le gare nel vecchio impianto del Foro Italico. Quanto alla città dello sport, tornerà buona per le prossime olimpiadi. Per i giochi olimpici, però, non bastano le piscine. Ci vuole anche uno stadio da 15 mila posti per il basket, la pallavolo, il tennis e gli sport al coperto. Che prontamente viene messo in cantiere. Ci sono soltanto un paio di problemini. Il primo è che ci sono soldi soltanto per uno stadio, quello del nuoto: per due impianti non bastano di certo, ma di questo nessuno si cura. Il secondo è che le Olimpiadi a Roma sono ancora nel mondo dei sogni: e quando arriva il governo di Mario Monti anche il sogno svanisce. Un suicidio in piena regola. Non fosse bastato, nel disperato tentativo di dare un senso a quella storia c’era chi aveva pensato di coinvolgere alcuni privati non meglio identificati. Ma l’idea di una trasformazione “commerciale” è per fortuna abortita subito, tanto era balzana. Andateci adesso, alla città dello sport. Vedrete fino a che punto possa arrivare il dilettantismo e l’irresponsabilità di certi politici. E come si possano buttare allegramente dalla finestra duecento milioni dei cittadini. Ora si sta cercando di salvare il salvabile, ma non è certo facile. Un anno fa, durante una riunione di commissione al Comune di Roma, il nuovo rettore Giuseppe Novelli ha fatto intravedere la possibilità di adattare il progetto con “ampliamento della destinazione alla Scienza”, naturalmente “salvo il benestare dell’architetto Calatrava”. Mentre la delegata per l’Ambiente dell’Ateneo, Antonella Canini, si è spinta a ipotizzare, è riportato nel verbale della commissione la realizzazione di “una serra che diventerebbe la più grande d’Europa e potrebbe ospitare piante, farfalle e altri percorsi dell’evoluzione, spaziando come tematiche dall’informatica alla natura. Potrebbe divenire, con il benestare dell’architetto Calatrava, un enorme polo di interesse turistico”. Nascerà allora una facoltà universitaria nello stadio delle piscine? O quella gigantesca serra? Comprensibile che almeno la vittima di questa assurdità, l’Università di Tor Vergata, si faccia venire qualche idea. Ammesso però che qualcuna di queste ipotesi abbia un senso, ed è tutto da dimostrare, servirebbe sempre una somma compresa fra i 60 e i 150 milioni. Si potrebbero ricavare dai fondi europei, pensa Novelli. Ma per il momento non ci sono, anche se sono molti meno dei 426 necessari al completamento della città dello sport. Una cifra che da sola rappresenta il 24,3 per cento dei soldi (un miliardo 751 milioni) che servirebbero per finire le 683 opere pubbliche incompiute censite dal ministero delle Infrastrutture e dall’Ance: 83 delle quali nel Lazio, la regione in assoluto più funestata dal fenomeno.E non possiamo nemmeno immaginare dove il premer Matteo Renzi troverà tutti quei soldi se davvero, come ha detto, pensa di utilizzare gli impianti per le Olimpiadi del 2024: ma questo ci sembra un film purtroppo già visto. Ogni giorno che passa, nel frattempo, corrono il degrado e i costi che si devono sopportare per questo stato di cose, dalla vigilanza alle manutenzioni. Ed è davvero inaccettabile che nessuno dei responsabili di questa follia ai danni dei contribuenti finora abbia pagato.
Città dello Sport, cronaca degli sperperi. Dieci anni di lavori stop and go, già spesi almeno 240 milioni, ma ne mancano 400 per terminare le opere, scrive Paolo Foschi Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”.
2005: Veltroni annuncia il progetto da 60 milioni. Il progetto della Città dello Sport di Tor Vergata viene annunciato l’8 febbraio del 2005 dalla giunta guidata da Walter Veltroni con una conferenza stampa in Campidoglio. Secondo il piano originario, il costo stimato dell’opera è di 60 milioni di euro a carico del Comune grazie ai fondi di Roma Capitale. La consegna del cantiere ultimata è prevista per la primavera del 2008, un anno e mezzo prima dei Mondiali di Nuoto di Roma del 2009.
2006: affidati i lavori, i costi subito raddoppiano. Il 9 maggio del 2006 in Campidoglio l’architetto Santiago Calatrava illustra il plastico del progetto della Citta dello Sport. E il costo stimato è più che raddoppiato rispetto alle prime stime: si parla infatti di 120 milioni di euro. I lavori sono affidati alla Vianini (gruppo Caltagirone), mentre la gestione dei fondi è affidata alla Protezione civile, all’epoca guidata da Guido Bertolaso, che chiama Angelo Balducci (che sarà poi travolto dagli scandali giudiziari legati agli appalti del G8 alla Maddalena), che a sua volta sarà sostituito da Claudio Rinaldi.
2007: Veltroni promette la fine dei lavori in 24 mesi. Il 21 marzo 2007, con i lavori già avviati da qualche mese per la preparazione dell’area, si svolge la cerimonia di posa della prima pietra della Città dello Sport, alla presenza del sindaco Walter Veltroni, del presidente Coni Gianni Petrucci e del progettista Santiago Calatrava. Il sindaco garantisce che entro 24 mesi i lavori saranno terminati.
2008: i costi lievitano ancora, 240 milioni di euro. Il 2008 è l’anno più tormentato per la storia della Città dello Sport di Calatrava. Il preventivo dei costi balza a 120 milioni, le spese lievitano e i tempi sembrano allungarsi, mentre i Mondiali di Nuoto si avvicinano. Gianni Alemanno, da poco eletto sindaco, a ottobre visita il cantiere, si dice ottimista. A dicembre però dopo una frenetica consultazione con direzione lavori, comitato organizzatore dei Mondiali di Nuoto e vari enti interessati, viene issata la bandiera bianca: la rassegna iridata non potrà svolgersi a Tor Vergata.
2009: fine dei soldi, bloccati i lavori. Sfumati i Mondiali di Nuoto, i lavori vengono bloccati dopo che sono stati spesi quasi 250 milioni di euro. Scoppiano polemiche e si assiste al solito rimpallo di responsabilità, mentre Calatrava continua a difendere la validità del progetto.
2011: i lavori ripartono ma senza date di consegna. Nel 2011, con la candidatura (poi sfumata) di Roma per le Olimpiadi del 2020, viene riaperto il cantiere, ma non viene fissata una data certa per la consegna, anche perché intanto la stima complessiva delle spese per il completamento dell’opera arriva a 660 milioni di euro, cioè esattamente 11 volte il prezzo iniziale annunciato nel 2005.
2012: Alemanno annuncia l’arrivo di fondi privati. Il cantiere ufficialmente è di nuovo aperto, ma i lavori procedono al rallentatore. A novembre però il sindaco Alemanno annuncia che le opere saranno completate con fondi privati. A oggi, promessa non ancora mantenuta.
2014: ipotesi orto botanico al posto di una delle «vele». A gennaio l’università di Tor Vergata propone di cambiare la destinazione d’uso della «vela» incompleta: è cioè coprirla (costo stimato 60 milioni) e realizzare un orto botanico al posto dello stadio del nuoto, lasciando aperta comunque la possibilità di utilizzare lo spazio anche per eventi sportivi e eventi vari.
2014: il Codacons propone la demolizione della grande incompiuta. Nell’ottobre del 2014 il Codacons, associazione di consumatori, con una proposta dal sapore anche provocatorio propone la demolizione delle opere incompiute della Città dello Sport di Tor Vergata, perché la struttura lasciata a metà «danneggia il paesaggio e la collettività».
2015: le ipotesi in ballo per completare l’opera. Il 13 gennaio, nel corso del convegno a Roma intitolato «Opere incompiute, quale futuro?», tenuto proprio a Tor Vergata, si è parlato proprio del caso della Città dello Sport. «Sono convinto - ha detto l’architetto Calatrava - che le Vele saranno terminate, non mi è mai capitato in 30 anni di professione che una mia opera iniziata non sia mai stata conclusa. L’avanzamento dei lavori è attualmente al 70-75%». Mancano circa 400 milioni. Il Campidoglio non ha la possibilità di finanziare il completamento delle opere. L’università di Tor Vergata, proprietaria dei terreni, propone di utilizzare fondi europei, il rettore, Giuseppe Novelli, è perentorio: «La Città dello Sport va completata».
Ritratto della Roma mafiosa che fingiamo di non vedere. Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo è una spietata fotografia della Capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità criminali nella città, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Questo libro è dedicato a chi ha fatto finta di niente e ha preferito voltarsi dall'altra parte. Leggetelo, almeno sfogliate qualche pagina, cercate un nome, controllate se - per caso - sotto casa vostra o dentro al ristorante dove di solito andate a mangiare con i vostri amici c'è puzza. Puzza di mafia. Potete mostrare meraviglia, restare a bocca aperta, balbettare qualche scusa, ma d'ora in poi nessuno vi crederà più. Nella migliore delle ipotesi qualcuno vi dirà che siete dei fessi, che avete frequentazioni poco raccomandabili, che pur mostrandovi sempre e ovunque molto politicamente corretti siete stati trascinati in una zona di confine molto scivolosa, "terra di mezzo" la chiama un fascio-boss che tutti conoscono come "Er Cecato". Non ve n'eravate accorti? La mafia c'è davvero anche a Roma? Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo, reporter allenati a inseguire indizi e a metterli sapientemente uno dietro l'altro, è una spietata fotografia della capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità - politica di destra e di sinistra, soubrette, calciatori famosi, attori, cantanti, ultras, "padroni" di cooperative rosse e rispettabilissimi professionisti al di sotto di ogni sospetto - con un sistema criminale che per troppo tempo è stato protetto dal silenzio. Prima di anticipare cosa concedono i capitoli, riportiamo subito uno dei tanti dettagli inediti contenuti in quest'indagine giornalistica, che comprende sì una ricostruzione giudiziaria, ma che ha la sua origine sul campo, dal mestiere di chi racconta la realtà che ha intorno. Il dettaglio da segnalare riguarda un'elargizione di 5 milioni di euro spalmata in sei anni in favore dell'Immobiliare Ten, amministrata dal 2009 da Riccardo Totti, fratello di Francesco, il capitano della Roma che di quell'immobiliare controlla l'83 per cento. Nulla di illecito, niente di penalmente rilevante - e infatti i personaggi di questa vicenda affiorano appena fra le pieghe dell'inchiesta - ma molto significativa per capire Roma e i suoi gironi con protagonisti e comparse tutti allacciati fra loro in affettuosa confidenza. È l'affare dei Caat (Centri di assistenza abitativa temporanea), 43 milioni all'anno da spendere e quel Luca Odevaine che è stato vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni prima e a capo della polizia municipale con Zingaretti poi, che "segue" la pratica per l'affitto di 35 appartamenti arredati a Tor Tre Teste intestati all'Immobiliare Ten. Quasi tremila euro al mese per ogni appartamento nell'estrema periferia romana, "una beneficenza al calciatore più ricco di Roma". Il libro di Abbate e di Lillo sulla mafia che sporca la capitale d'Italia, oltre alla mole di informazioni che ci offre e alla chiarezza dell'esposizione, ha un pregio particolare: parla di un crimine "attuale". È cronaca in diretta, accade tutto sotto il nostro naso. Merito anche dei magistrati che quest'inchiesta hanno sviluppato (da Pignatone a Prestipino, da Ielo a Tescaroli a Cascini) insieme ai carabinieri del Ros, un'inchiesta che può considerarsi a pieno titolo "apripista". Questo libro, ecco il valore, guarda dentro un "laboratorio" criminale. Si comincia dal racconto di come è nata una copertina dell'Espresso e si arriva "al Comune agli ordini di Massimo Carminati", si passa dall'esercito degli "impresentabili" dell'ex sindaco Alemanno e dalla "santa alleanza" fra i rossi e i neri. All'ultima pagina manca il respiro. Però, d'ora in poi, sarà più difficile dire: io non ne sapevo nulla.
Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?
Roma, il super-parcheggio fantasma costato 35 milioni di euro. La struttura, inaugurata due volte, è stata definitivamente chiusa nel 2006 ed è ora un ecomostro inutilizzato all’Aurelio, scrive Gianluca Russo su “Il Corriere della Sera”. Un ecomostro in cemento sotterrato e abbandonato a se stesso da dodici anni. Sul «Parcheggio Cornelia» ancora tutto tace e l’opera, resta chiusa e non serve a niente. Sette piani interrati e oltre trentacinque milioni di euro per il «parcheggio fantasma» che si snoda nei sotterranei del quartiere Cornelia, e che a guardarlo dall’alto, è diventato più una discarica o un dormitorio di fortuna per senzatetto. Seicentocinquanta posti auto muniti di sofisticati meccanismi idraulici con bracci automatizzati per parcheggiare l’auto in cinque minuti. Celle e box a nido d’ape in ogni piano, progettati con «grosse lacune sulla normativa antincendio e gravi problemi strutturali». «Un’opera avveniristica» spiega Marco Giovagnorio, consigliere del municipio XIII, che ha di recente presentato una mozione per chiedere la riapertura e la riconversione dell’opera, sfruttando il progetto del «Piano Urbano Parcheggi» per affidare a un privato la messa a norma del «parking». Nel 2012 il delegato per programma urbano parcheggi, Alessandro Vannini, ha riacceso i riflettori sulla questione concedendo al privato, la presa in carico dell’opera, con l’obbligo di pagare gli oneri concessori al Comune di Roma e riconsegnare alla cittadinanza un parcheggio normale, senza automatizzazioni, né strutture troppo costose da mantenere ma funzionante. Il parcheggio preso in carico dalla società «Progepar a.r.l.», che ha dovuto modificare il progetto originario presentando una proposta di riduzione dei posti auto, prevede di eliminare completamente un piano e la struttura meccanizzata, per ottemperare alle vigenti normative in tema di sicurezza antincendio e provvedere alla ricollocazione di 450 posti auto, di cui 350 a rotazione e 100 pertinenziali inizialmente previsti in via Trionfale. Intanto la Corte dei Conti ha aperto un’indagine per cercare di capirne di più sullo sperpero di denaro pubblico e sull’abbandono dell’opera. Un tentativo di apertura è avvenuto già negli anni novanta sotto la giunta Rutelli e poi con Veltroni, ma del parcheggio Cornelia, nonostante due inaugurazioni e dodici anni di silenzio, ancora è tutto fermo. Quello che doveva essere un’opera strategica per la mobilità del quadrante di Roma nord, oltre che il più grande parcheggio automatizzato d’Europa inaugurato nel 2001, resta oggi un fantasma in cemento sommerso dal degrado, dai costi di gestione elevati che dopo anni di abbandono, hanno portato alla chiusura definitiva dello stesso nel 2006, creando uno spreco di risorse pubbliche quantificabile in quasi cinquanta milioni di euro.
E poi c'è Pompei. La maledizione di Pompei: sequestrati 6 milioni all'ex commissario. Da Legambiente alla corte di Berlusconi: la parabola del manager sedotto dal potere, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Quella di Marcello Fiori è la paradigmatica storia italiana del promettente manager di Stato corrotto dalla politica, un destino di mala pianta pubblica maledettamente simile a Luca Odevaine, quello che "ancora adesso non riesco a crederci" disse Veltroni. Fiori e Odevaine hanno infatti la stessa bella origine da Legambiente. E fu capo di gabinetto di Veltroni l'Odevaine; e capo di gabinetto di Rutelli il Marcello Fiori. L'uno è finito in mafia capitale. L'altro è un rovinatore di rovine, con un solo grande rimpianto, a Pompei avrebbe voluto spendere di più: "È uno scandalo che l'insieme dei siti archeologi italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassa da solo il Louvre". Mannaggia! Di sé dice, ed è vero: "Sono figlio di un muratore e di una mondina". Ma è invece raccontato come la macchietta degli sprechi questo fondatore dei crepuscolari club "Forza Silvio". Infatti la Finanza gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina perché secondo la Corte dei conti deve risarcire almeno 6 milioni di euro alla martoriata Pompei. Ma Fiori, per la verità, fa una vita modesta, non gli si conoscono lussi privati, né aragoste né club massaggi, ha sposato una segretaria e ha un figlio di 17 anni. E del suo maestro Bertolaso ha preso l'idea che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati perché "in Italia a volte ci vuole un'intelligenza militare" ripete. Ma di Bertolaso non ha la comicità di tutti quei giubbotti, scarponcini, cappellini da baseball, caschetti di plastica dura, insomma la muta dell'operaio di Junger, la divisa del milite della fatica. E dunque Fiori ha sicuramente sperperato i soldi ma per cementificare il teatro di Pompei dove poi si esibì un virtuosissimo Riccardo Muti con la quinta sinfonia. E spese addirittura dieci milioni per gli impianti telefonici, centomila euro per spostare 19 pali della luce, 90mila per accogliere Berlusconi che neppure venne, centomila per cacciare 55 cani randagi "perché erano rabbiosi". E diecimila per autocelebrarsi con un libro a tiratura limitata: 50 copie. E ora "rifarei tutto" dice. La spavalderia è come si vede, quella del "pulisco Napoli in dienizzati ci giorni", del "fatemi intervenire prima che ci scappi il morto", e ancora "a Pompei sto facendo miracoli". La stessa sbruffoneria appunto di Bertolaso che è "il modello della mia vita, il più grande e straordinario manager che l'Italia abbia mai avuto nella gestione della cosa pubblica, il servitore dello stato che ha unito efficienza, velocità e umanità". E invece l'Italia ricorda Bertolaso come l'imperatore di tutti gli appalti sporchi, lo sciacallo della protezione incivile che imponeva costi maggiorati e senza controllo e si affidava a imprese che lucravano in nome della fretta e della furia. Un passo dietro lui, il mite e discreto Fiori ad ogni uscita si esibiva un po' di più sulle macerie dell'Aquila mentre organizzavano il G8. Finché come Bertolaso si mise a parlare da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso: "Non ho paura dei tribunali. Venissero loro a lavorare". Il diavolo piegava la testa e seguiva il suo comandante. Era un profilo, una sagoma, un esecutore d'ombra che diventava a poco a poco un altro uomo, un altro Bertolaso. Per 12 anni Fiori è rimasto alla Protezione civile dei Grandi Eventi e dei disastri, delle risate degli speculatori e dello strazio delle vittime, degli show sulla morte orga- per Berlusconi. Finché un giorno Giovanni Minoli a Radio 24 gli chiese: qual è il difetto di Berlusconi? "È troppo buono" rispose lasciando allibiti quelli che lo avevano conosciuto da ragazzo. Io stesso lo ricordo giovane cronista a Montecitorio, preciso e stimato collaboratore della Dire, l'agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer. Veniva da Legambiente appunto, nemico di quelle discariche di cui sarebbe diventato il Signore. Riccioluto, occhi chiari, belloccio, il suo intercalare in escalation romanesca era ed è ancora: "ciccio, ti dico che se fa così. Fidate!" Il mondo era quello di Mattioli e Scalia, Chicco Testa, Ermete Realacci, Enzo Tiezzi, Giovanna Melandri con Odevaine al seguito, Michele Anzaldi, Renata Ingrao. Qualcuno dice che aiutò Valerio Calzolaio a scrivere la legge sull'inquinamento acustico, di sicuro Renato Strada gli passava i documenti della commissione Ambiente. Fiori si occupava di consumatori. Ed era amico di Della Seta e di Francesco Ferrante. Dunque nessuno si meravigliò quando il sindaco Rutelli gli chiese di aiutarlo nel restituire il "decoro urbano" a Roma. Tutti lo ricordano "informatissimo, sempre attivo, l'uomo dei dati, delle carte, delle leggi, della soluzione geniale ai problemi disperati". Sul decoro urbano disse subito: "C'è un rapporto tra la bruttezza e il malaffare e l'indecenza estetica è la forza d'urto di interessi organizzati ". Poi si mise al lavoro e sfornò uno studio articolato di bonifica, quartiere per quartiere, piazza per piazza: insegne, bancarelle, marciapiedi. Quando fu eletto Sergio Mattarella, Rutelli, non solo per vanità, elencò i suoi ragazzi:, Renzi, Gentiloni, Giachetti, Franceschini, Filippo Sensi, Linda Lanzillotta... E poi: "Sono affezionato a Marcello Fiori che guida i club di Forza Italia". Adesso infatti Fiori vuole rifondare il berlusconismo "nel nome di Einaudi, Benedetto Croce, John Stuart Mill, ma anche Borges, Vittorini, Calvino e Leopardi". E ha lasciato il ruolo di dirigente dello Stato per intrupparsi con gli irriducibili di Salò, come un Toti qualsiasi. Dunque Fiori è lo Smeagol del Signore degli Anelli, un hobitt che, inserito nello Stato, anno dopo anno si è lasciato guastare dall'anello della Forza. E come nell'Epica di Tolkien, gli si annerivano i denti mentre contava i miliardi del Giubileo accanto a Roberto Giachetti che, - come nel caso di Odevaine, - "ancora non riesco a crederci". Poi mentre seguiva Bertolaso tra i disgraziati dell'Aquila gli esplosero i ponfi e le pustole del potere. E ovviamente, prima di mostrificarsi definitivamente nel Gollom, passò per Sandro Bondi che lo spedì Commissario a Pompei, ma soprattutto divenne, anche lui, un cocco di Gianni Letta, come Bertolaso appunto, e come Scelli e Bisignani. Letta è anche il referente politico della cricca, di Angelo Balducci ma è soprattutto il capo, anzi l'amico composto di quella brutta Italia che, come nel caso di Fiori, ogni tanto ancora viene fuori da quel Vaticano dei corridoi che è il mondo dei funzionari, dei dirigenti, dei soprintendenti e dei Commissari Supereroi con pieni poteri. C'è ancora in Italia un bertolasismo diffuso che pervade tutto, come un blob che attraversa le fessure e si impossessa dei grandi eventi, delle feste nazionali, delle ristrutturazioni, delle ricostruzioni, dei rifacimenti, degli ammodernamenti, da Pompei sino all'Expo. Abbiamo un commissario persino all'anticorruzione. Dunque quella di Fiori non è solo la storia drammatica di una grande speranza del management pubblico rovinata dalla politica. È anche il sintomo di una brutta infezione della democrazia italiana.
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
Mafia Capitale: “tra fascisti e ladroni”, scrivono quelli di sinistra. Sì, proprio quelli che indicano la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri occhi. In un mondo di sopra, di sotto, di mezzo, nessuno si salva: cittadini ed istituzioni.
Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia dell’inchiesta , al loro dire profetica, condotta da "l'Espresso", scrive Lirio Abbate.
Quella scattata martedì 2 dicembre 2014 è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno, indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.
Mafia Capitale: Da "Er Cecato" a "o Pazzo" L'alleanza che detta legge nella Capitale. Il clan fascio mafioso di Carminati e la camorra napoletana di Michele Senese detto "O Pazzo" che a Roma Nord ha investito in ristoranti e locali. E al suo servizio ha "La batteria di picchiatori di Ponte Milvio" con a capo Diabolik. Il leader degli Irriducibili della Lazio, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Roma Nord. Ponte Milvio. La zona diventata famosa dopo il film “Tre metri sopra il cielo” diventata il luogo simbolo della Capitale per gli innamorati di tutto il mondo, che qui facevano la fila per attaccare il loro lucchetto in segno di amore eterno. Poi il XX municipio ha deciso, all'unanimità, la rimozione dei lucchetti «per motivi di sicurezza e decoro». Però a Ponte Milvio negli stessi anni, e ancora oggi, scorrazza una banda ben più pericolosa dei gruppi organizzati di innamorati che si spingevano fin qui per legare alle ringhiere la loro promessa di fedeltà. Questa zona chic di Roma, infatti, è sotto l'influenza della Mafia Capitale di Massimo Carminati detto “Er cecato”, finita sotto inchiesta dalla procura antimafia di Roma che ha iscritto cento persone nel registro degli indagati, tra cui l'ex sindaco Gianni Alemanno, e ha arrestato 37 persone. Una cosca fatta da manager, vecchi terroristi neri, imprenditori rossi, politici e reduci della Magliana. Un ibrido criminale la cui scoperta sta rivoltando dall'interno il potere romano. Ma Carminati non è solo su quel territorio. Da lui dipendono altri boss. In particolare gli uomini di Michele Senese detto "o Pazzo". Nei rapporti degli investigatori vengono descritti questi equilibri criminali di Roma Nord. I detective la chiamano la “Batteria di Ponte Milvio”. Particolarmente agguerrita e pericolosa con a capo, scrivono gli inquirenti, Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di Diabolik e noto per essere il capo ultras degli Irriducibili della Lazio. Da settembre scorso è in carcere per traffico di droga. Non solo, la guardia di finanza gli ha sequestrato pure oltre 2 milioni di euro di beni. E scoperto che aveva in mano la commercializzazione dei gadget della sua squadra del cuore. Ai suoi ordini uno stuolo di picchiatori stranieri, albanesi e rumeni. Ma non finisce qui. L'analisi dei carabinieri del Ros va in profondità e scopre che la Batteria Diabolik è al servizio dei «napoletani insediati a Roma nord tra cui i fratelli Genny e Salvatore Esposito che fanno capo a Michele Senese». “O Pazzo” è considerato dagli inquirenti uno dei quattro Re della Roma criminale così come aveva anticipato “l'Espresso” nell'inchiesta del 2012 sui sovrani della mala capitolina. Il gruppo legato a Senese, scrivono gli inquirenti, controlla diversi locali commerciali nella zona: «tra cui il pub Coco Loco, loro abituale luogo di ritrovo». Il boss Senese è considerato un camorrista a tutti gli effetti. La sua carriere inizia nella formazione del padrino Carmine Alfieri. Contrapposti alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E proprio negli anni della guerra tra i due clan che Senese sceglie Roma come base logistica per i traffici e gli investimenti. “Er Cecato” Carminati e “O Pazzo” Senese hanno rapporti cordiali. E soprattutto interessi in comune. Si sono incontrati spesso e anche dopo l'arresto di Senese sono stati registrati ulteriori contatti tra i due clan. Ora pure Carminati è in carcere. Ma il loro regno non è ancora al tramonto.
Eppure la storia racconta un’altra cosa.
Scandalo di Capodanno 2015: Vigili assenteisti dagli a Marino, scrive Aurelio Mancuso su “Il Garantista”. Il diluvio di certificati medici giunti il 31 dicembre, insieme a permessi per donazione di sangue, assistenza parenti o per gravi motivi, per cui l’83,5% dei vigili urbani dell’urbe ha marcato visita, è un altro grave segnale che si abbatte su una città colpita già dalle inchieste su mafia capitale. Non sfugge a molti osservatori, che sia in atto un tentativo, perlomeno varie azioni anche indipendenti tra loro, di disarcionare un sindaco ritenuto scomodo, non compatibile rispetto a comportamenti, abitudini che si sono sedimentate. Si percepisce che la “casta” compiacente, o peggio che si faceva corrompere o si associava ai progetti criminali sugli appalti, sulla povera gente, sia la parte più esposta di un andazzo generale coerente con la volontà di aggirare le regole, di utilizzarle per condizionare la politica, per mantenere sempre un clima di emergenza. Di tutto questo si avvantaggia sicuramente Matteo Renzi, che ha buon gioco a scrivere su twitter: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano ”per malattia il 31dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole del pubblico impiego. #Buon2015». Così un episodio gravissimo, collegato anche all’atteggiamento degli autisti della metro A che solo in sette su ventiquattro si son presentati la sera di Capodanno, diventa immediatamente questione nazionale, rende “inevitabile” l’intervento del governo, per correggere le storture come quelle emerse a Roma. I vigili non vogliono che parta la rotazione prevista dalla riforma varata dal comandante e appoggiata convintamente da Marino e, avevano minacciato un’assemblea sindacale proprio nella notte di San Silvestro, gesto poi rientrato, che però in molti sospettano sia stato trasformato in quello che è avvenuto: uno pseudo sciopero. La prima reazione del Campidoglio non lascia dubbi su come la pensa Marino: «Stigmatizza l’atteggiamento di quanti hanno cercato di sabotare i festeggiamenti del Capodanno con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata». Lo staff del sindaco accusa che le divergenze sorte nelle ultime settimane sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio: «Sono state prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri. Perciò sarà rigorosamente ricostruita l’intera vicenda a favore dell’autorità giudiziaria e di garanzia. Ogni condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente». Le opposizioni se la prendono però con il sindaco. Giovanni Toti consigliere politico di Fi denuncia: «Roma città fuori controllo: 83,5% dei vigili assenti a Capodanno. Macchina amministrativa bloccata e il Pd non vuole votare». Gli fa eco Matteo Salvini, segretario della Lega: «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema della città: il sindaco Marino». Ogni occasione è buona per contestare il sindaco chirurgo, però nessun esponente della passata maggioranza di centro destra che ha amministrato la capitale, riconosce ciò che ai cittadini romani appare lampante: negli scorsi anni la macchina comunale è stata abbandonata e questo ha determinato un generale abbassamento del rispetto delle regole, ma soprattutto degli utenti che ogni giorno subiscono un generalizzato disservizio. Marino non ci sta e anche lui su facebook lapidario scrive: «Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità». E’ probabile che molti impiegati pubblici non abbiano compreso che dall’emersione dello scandalo “mondo di mezzo”, Roma è diventata il luogo su cui si giocherà la credibilità non tanto del primo cittadino ma del presidente del Consiglio, intenzionato, come segretario del Pd, attraverso il commissariamento di rivoltare come un calzino il partito locale e, con azioni dell’esecutivo, tra cui la riforma Madia in discussione al Senato, di rimuovere tutte le posizioni di rendita, privilegi, comportamenti lassisti. Per chi ancora avesse dubbi è lo stesso sindaco a chiarire: «Ringrazio il premier Renzi e il ministro Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa. Chi ha finto di essere malato, chi ha inventato scuse ne dovrà rendere atto nei modi previsti dalla legge e assumersi le propria responsabilità. A chi ha lavorato e lavora per la città vogliamo ribadire la nostra gratitudine e quella dei romani». I sindacati confederali dopo un giorno di silenzio, ieri hanno emanato un comunicato stampa: «Stigmatizziamo con forza i disagi che si sono verificati nella notte di capodanno, è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Anche questa volta non abbiamo in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti». La premessa, che serve a chiamarsi fuori da ogni responsabilità, però è più chiara quando lascia il posto alla risposta politica: «Pretendiamo che sulla vicenda si faccia totale chiarezza. Anche perché le dichiarazioni di queste ore da parte di amministrazione e governo che sparano nel mucchio finiscono per alimentare polemiche dannose e strumentali che non risolvono i problemi. Quanto sta accadendo non fermerà le nostre rivendicazioni, invece dimostra come sia indispensabile per cambiare le cose ricercare soluzioni condivise con il coinvolgimento dei lavoratori». Il Garante per gli scioperi e persino la magistratura valuteranno l’accaduto, rimane che, i sindacati scrivono: “Bisogna interrogarsi sul clima di esasperazione”, rischiando di fornire un lasciapassare culturale a chi ha utilizzato giuste tutele per scopi non nobili. Alcuni però, vigili interpellati dalle agenzie si sono difesi: «Non possono obbligarci a farlo. Alle 19 del 31 hanno fatto scattare la reperibilità. Non c’era nessun motivo. La reperibilità si fa per motivi di emergenza, come la neve, alluvioni, terremoti o altre calamità. Solitamente la notte di Capodanno lavoravamo in 700 in straordinario. L’anno scorso ce ne sono stati 450. Quest’anno era in strada solo chi aveva il turno. Niente straordinari. Quindi tutto è in regola».
Capodanno 2015 a Roma, l'83,5% dei vigili in turno si dà malato. Il comandante: "Diserzione che infanga l'intero corpo". Polemiche per l'incredibile numero di certificati per malattia, donazione sangue e disabilità giunti. Sullo sfondo lo scontro sul contratto decentrato. Il Campidoglio: "Tutto è andato bene grazie ai sostituti reperibili". Ma il vicesindaco accusa: "Un dato inaccettabile, a rischio la sicurezza dei cittadini". Ritardi anche nella metro e Atac ammette: "A San Silvestro, presenti solo 7 autisti su 24", scrive “la Repubblica”. Per la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili che dovevano lavorare era assente per malattia, donazione sangue, disabilità. A renderlo noto è il Campidoglio. "La serata e la nottata si sono svolte senza intoppi per la mobilità e la sicurezza delle 600 mila persone che hanno festeggiato l'arrivo del 2015 nelle strade della Capitale, a via dei Fori Imperiali e al Circo Massimo. Il servizio degli agenti della Polizia locale di Roma Capitale è stato garantito grazie al previdente ricorso all'istituto della pronta reperibilità, affinché si potesse disporre di un numero sufficiente di personale da impiegare nei servizi di viabilità finalizzati alla sicurezza stradale. Sono state impiegate circa 470 unità, 240 dalle ore 18.00/19.00 (75 di reperibilità) e circa 230 dalle ore 24.00 (45 di reperibilità). Inizialmente, i servizi di Capodanno prevedevano di impiegare circa 700 unità, come nei precedenti anni, in turno straordinario. Ma la mancata adesione allo straordinario aveva indotto il comando del corpo a disporre una ridistribuzione di tutto il personale". Il comunicato del Campidoglio fa riferimento alla dura battaglia dei giorni scorsi, con i vigili che avevano deciso di riunirsi in assemblea e il Prefetto che li aveva richiamati perchè lavorassero. "Dopo il differimento dell'assemblea sindacale dei giorni scorsi, prevista proprio per il 31 dicembre a ridosso della mezzanotte, già ieri pomeriggio era apparso chiaro che, a fronte della iniziale disponibilità di 1000 agenti (in servizio ordinario per il turno di seminotte) si sarebbe giunti progressivamente a 165 unità, per un totale di 835 assenze dell'ultima ora (-83,5%), motivate da malattia, donazione sangue, legge 104, legge 53 art. 19 ecc.. Inoltre, per il turno di notte dal numero iniziale di 300 unità previste si sarebbe arrivati a 185 unità, con 115 assenze riconducibili alle medesime motivazioni (percentuale di assenza del 38%). Ciononostante, proprio grazie alla reperibilità, è stato possibile garantire tutte le chiusure stradali, nonché governare l'afflusso e il deflusso dei tantissimi cittadini e turisti in strada a festeggiare". "Il dato delle assenze per malattia e altre motivazioni, pari all'83,5% è talmente rilevante numericamente da essere inequivocabile e inaccettabile. E poteva essere molto grave per la città di Roma. Tanto più perché arriva nel momento in cui, per altri versi, stiamo cercando un terreno comune di confronto, per concludere positivamente la questione sul contratto decentrato", commenta in una nota il vicesindaco Luigi Nieri. "Nessuno mai, e io per primo, mette in dubbio il legittimo diritto di sciopero per i lavoratori, o il duro ma leale dialogo con l'amministrazione sulle questioni sindacali. Altro - prosegue Nieri - è la mancata assunzione di responsabilità di fronte alla città e ai romani, in occasione di un appuntamento fisso, popolare e seguitissimo, che ieri ha portato in strada a festeggiare il nuovo anno oltre 600mila persone. Il mio più sincero ringraziamento va invece a tutti gli agenti che ieri sera sono scesi in strada per lavorare, con senso di responsabilità e del dovere, per permettere al resto dei cittadini di divertirsi". Parla anche il comandante generale della polizia locale Raffaele Clemente: "Gli agenti che hanno lavorato ieri sera e ieri notte hanno compiuto un eccellente lavoro e per questo li ringrazio, a nome dell'amministrazione, della città e mio personale. Diversamente, non posso che stigmatizzare l'atteggiamento di quanti, tra i miei colleghi, hanno cercato di sabotare, con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata, la festa popolare del Capodanno, cercando di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini ma anche il buon nome dell'intero Corpo degli agenti della Polizia locale e della città di Roma. Le divergenze sorte nelle ultime settimane o mesi, sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio - conclude Clemente- non dovrebbero essere prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri . Per questa ragione, per un evidente bisogno di equità nei confronti di quanti ieri hanno prestato il proprio dovere con professionalità e spirito di abnegazione sarà rigorosamente ricostruita l'intera vicenda a favore delle autorità giudiziaria o di garanzia. Ogni eventuale condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente".
L'ATAC. E nella notte di San Silvestro, rallentamenti fino a 20-25 minuti d'attesa sulla metropolitana A, secondo quanto sostiene la stessa azienda che parla di corse più lente a causa dell'assenza di conducenti nel turno straordinario 23.30-2.30, cioè quello oltre l'ordinario orario di chiusura del servizio metropolitano, organizzato in occasione della notte di San Silvestro. Nello specifico, sui convogli della linea A della metro - dove sono in totale 150 i macchinisti in servizio - erano disponibili solo 7 conducenti sui 24 che sarebbero stati necessari a garantire la regolarità del servizio. Per questo, fanno sapere dall'azienda, le corse sono state più lente dalle 23.30 fino a fine servizio, "circa 10-15 minuti di attesa a fronte di 5". "E' stato invece regolare il servizio sulla linea B", garantiscono dall'Atac.
Vigili malati, «azioni disciplinari». E il comandante va in procura. Madia: «Attivato l’ispettorato». Indagine interna in Campidoglio, all’esito della quale gli atti potrebbero essere inviati alla magistratura. Anche l’Autorità di garanzia sugli scioperi apre un procedimento, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”. Più di otto vigili su dieci in malattia e solo sette macchinisti su 24 alla guida dei treni della metro A: smaltiti i brindisi e i fuochi d’artificio, è bufera sull’astensione di massa della notte di Capodanno. Il primo a intervenire è il premier Matteo Renzi, che su Twitter scrive: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego #Buon2015». Poco dopo il commento del presidente del Consiglio, ecco l’affondo del ministro Marianna Madia: «Ispettorato ministero Funzione pubblica subito attivato per accertamenti violazioni e sollecito azioni disciplinari» assicura in un tweet la titolare della Pubblica amministrazione. E nel pomeriggio il comandante dei vigili, Raffaele Clemente affida l’indagine interna alla sua vice Raffaella Modafferi: dovrà portare alla luce la verità e metterla a conoscenza delle autorità interessate: quella giudiziaria (nel caso si ravvisassero reati penali), quella amministrativa (per uso e valutazioni interne) e, infine, quella di garanzia (Garante degli scioperi). Poi nella serata del 2 gennaio il premier Renzi è tornato sulla vicenda con un post su Facebook: «Il 2015 sarà l’anno della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ci occuperemo di cultura, scuola, Rai, green-act, lavoro. Di pubblico impiego, di modo che non accadano più vicende come quella di Roma dove la notte del 31 dicembre l’83% dei vigili urbani è rimasto a casa per malattia o donazione sangue». La linea dura di Palazzo Chigi è condivisa dal Campidoglio, il vice sindaco Luigi Nieri aveva annunciato in mattina dell’avvio dell’indagine interna aggiungendo: «In tempi rapidi si avranno dei risultati, in base a questi si deciderà se interessare la magistratura». Su Facebook il sindaco Ignazio Marino da un lato esulta per la notte di festa filata liscia anche senza municipale, dall’altro avverte che la «fuga» dalle strade avrà conseguenze:«Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il Capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità. Ringrazio il premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa». «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema di Roma: il sindaco Marino!». ha commentato su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini. E contro il sindaco, su questa vicenda, si sono schierati numerosi esponenti di centrodestra: da Alfio Marchini («città paralizzata dall’incapacità amministrativa del sindaco») a Giorgia Meloni, Fratelli di Italia («Roma non merita un sindaco che non ha neanche il controllo del suo personale»). In realtà per «interessare la magistratura» (sono le parole di Nieri) non si attende la fine dell’indagine interna. Già a fine mattinata il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, viene notato nei corridoi di piazzale Clodio. Al primo piano del palazzo di giustizia infatti incontra il procuratore aggiunto Maria Monteleone: l’accordo è che per ora la magistratura resta in stand by, in attesa dell’esito dell’ispezione avviata dal Comando generale della polizia municipale. Questa durerà alcuni giorni e al termine, se emergeranno indizi di reati, gli atti verranno inviati alla procura. E non solo il governo. Anche l’Autorità di garanzia per gli scioperi avverte che aprirà un procedimento di valutazione sull’«epidemia» della notte di San Silvestro. Al termine delle verifiche, potrebbero essere adottate le sanzioni previste dalla legge, perché lo sciopero nei servizi pubblici essenziali è possibile - ricorda il garante - solo all’interno delle regole della 146 del ‘90. Sul fronte politico, mentre il Pd prende le distanze dall’astensione di massa della municipale, Forza Italia ne approfitta per attaccare Palazzo Chigi sul Jobs act. «Pur potendo accampare altrettante rivendicazioni - osserva il capogruppo democratico in Campidoglio Fabrizio Panecaldo - non per questo poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri, fornai, trasportatori, operai, volontari, assistenti sociali si sono dati malati in massa abbandonando la comunità a se stessa. Su questa vicenda si deve andare fino in fondo». Alessandro Cattaneo, di FI, sottolinea che se da una parte «non si possono legittimare certi comportamenti», dall’altra i vigili «possono dormire sonni tranquilli, grazie a un Jobs act che non ha toccato minimamente la pubblica amministrazione». Anche l’Udc, attraverso il vicesegretario vicario Antonio De Poli, vuole punire la municipale: «Contro i fannulloni serve una linea dura. Vanno individuati i responsabili che hanno permesso una situazione così grave e anomala». Nè la polizia municipale trova un qualche sostegno nelle associazioni dei consumatori. È drastica l’Aduc, che propone di ricominciare da zero: «Se per il Capodanno di Roma Caput Mundi si presentano 165 vigili sui 900 previsti, vuol dire che occorre sciogliere il Corpo e definire nuovi assetti. Stessa sorte dovrebbe toccare all’Atac, che con sette autisti presenti su 24 sulla linea A della metro ha creato non pochi disservizi». A difendere la municipale, insomma, restano solo (alcuni) sindacati, che giustificano i vigili assenti con motivazioni diverse. Per Franco Cirulli, della Uil, «la maggior parte ha donato il sangue e, come previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali, era esentata dal servizio». Il segretario del Sulpl Stefano Giannini sostiene invece: «La maggior parte delle assenze non è stata per malattia, ma per ferie. La verità è che è stato tenuto in servizio un numero di agenti non in grado di coprire l’ordinario. C’è stato un errore di valutazione». E Stefano Lulli, dell’Ospol, precisa: «Il dato delle malattie, a quanto ci risulta, è stato di meno del 50%. Considerati gli agenti malati da giorni, il numero relativo al solo 31 dicembre si abbassa ulteriormente. I medici, poi, le hanno certificate». Anche secondo Lulli c’è stato «un problema di disorganizzazione del comando. In tanti stavolta non hanno aderito volontariamente allo straordinario e questo non è stato calcolato. Il tutto in un Corpo che ha 2.500 agenti in meno rispetto a quelli che dovrebbe avere».
Vigili assenti a Roma la notte di Capodanno, ennesima figuraccia "capitale". La ripicca sindacale dei caschi bianchi che non vogliono accettare le nuove regole, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. L'unica vera malattia che può aver tenuto a casa l'83% dei vigili urbani di Roma la sera di Capodanno si chiama “ricatto”. Da mesi infatti i caschi bianchi sono sulle barricate contro l'introduzione del contratto decentrato (che interviene anche sul salario accessorio) e il piano anti-corruzione che, tra le altre cose, prevede la rotazione degli agenti sui territori. Così, quando il Prefetto ha vietato che si riunissero in assemblea a ridosso della mezzanotte del 31 dicembre, improvvisamente loro si sono ammalati, hanno dovuto prestare assistenza a parenti disabili o sono stati colti da un irrefrenabile slancio di generosità e sono andati a donare il proprio sangue. L'ultima notte dell'anno, mentre per le strade del centro di Roma, tra via dei Fori Imperiali e il Circo Massimo, c'erano 600mila persone che festeggiavano l'anno nuovo. Con i rischi per la sicurezza che si corrono ogni volta che tanta gente si concentra in uno spazio limitato. Tutto è andato bene solo perché era stato disposto l'istituto della pronta reperibilità proprio per far fronte al forfait rifilato non tanto ai propri superiori, ma alla città stessa, dalla stragrande maggioranza dei 700 caschi bianchi cui era stata chiesta la disponibilità a fare un turno straordinario. Ma è stata, lo stesso, l'ennesima figuraccia “capitale. Il comandante Raffaele Clemente ha parlato senza mezzi termini di tentativo di sabotaggio, di una “diserzione che infanga l'intero corpo. Il sindaco Ignazio Marino ha accusato i vigili assenti di essere “ingiustificabili”. Il vicesindaco Luigi Nieri ha definito le assenze “inequivocabili e inaccettabili” e fatto sapere che è stata aperta un'indagine. A livello nazionale il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha annunciato l'invio di ispettori e sollecitato azioni disciplinari. Il premier Matteo Renzi ha twittato: “Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole pubblico impiego”. Il sindacato Sulpl ha giustificato gli agenti con la scusa del “piano ferie sbagliate” mentre il Garante sugli scioperi ha fatto sapere che sarà aperto un procedimento di valutazione. I romani, nel frattempo, hanno già fatto le loro. Quella dei vigili urbani è sempre stata tra le categorie meno amate. E non solo per la raffica di multe che in una città caotica e indisciplinata come Roma è facilissimo prendere. Ma soprattutto per i tanti casi di corruzione, minacce, estorsioni a loro carico svelati da inchieste giudiziarie più o meno recenti che hanno travolto non solo i semplici dipendenti ma addirittura i massimi vertici. Adesso sarà anche peggio. Perché venendo meno - è il giudizio dei più - a senso del dovere e responsabilità, hanno dimostrato di guardare solo al proprio giardino. Il loro egoismo li sta già esponendo – basta dare un'occhiata ai social network - a critiche ancora più dure da parte di chi li considera dei super garantiti che piantano grane se vengono spostati da una parte all'altra della città per evitare insani radicamenti. La loro autorevolezza è sotto zero. Nessuno ci sta a subire ripicche. Soprattutto non ci sta una città che ambisce oggi a ospitare un evento internazionale come i Giochi olimpici. E che invece si ritrova puntualmente ostaggio una volta dei tassisti, l'altra dei bancarellari abusivi, un'altra ancora dai ristoratori e baristi del centro. O rallentata da quei 17 macchinisti della metro che, sui 24 necessari, non erano in servizio la notte di Capodanno. O addirittura messa sotto scacco proprio da chi, per la divisa che veste, dovrebbe invece garantirne la sicurezza, l'ordine, il decoro.
"I vigili assenteisti non sono una sorpresa. Da anni raccontiamo lo sfascio di Roma". Parla il fondatore di "Roma fa schifo", uno dei blog più letti della capitale, in prima linea nel contrasto al degrado. "La loro è un'opera di sabotaggio. Speravano ci scappasse il morto?" Scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. «I vigili urbani volevano che ci scappasse il morto», dice il fondatore del blog “Roma fa schifo”: «Bastava leggere le pagine Facebook loro e dei loro sindacati per capire che si preparavano a un sabotaggio, per protesta contro la rotazione del personale e la riforma dello stipendio accessorio. I vigili urbani si occupano della sicurezza, e sabotarla significa sperare che ci scappi il morto. È gravissimo, come se avessero scioperato i medici del pronto soccorso». A Roma, la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili era assente per malattia, donazione sangue o disabilità. E sulla linea A della metro erano disponibili solo 7 conducenti su 24, con i passeggeri che hanno atteso i treni anche per 20-25 minuti. Una figuraccia di cui parla tutta Italia, ma che sicuramente non ha sorpreso gli autori del blog più letto dai romani, “Roma fa schifo”, che da anni attacca il malcostume degli impiegati pubblici come una delle tante varianti del degrado della Capitale. Ma chi c'è dietro questo discusso sito? C'è Massimiliano Tonelli. Romano, 36 anni, cresciuto tra Montesacro e San Giovanni, si è laureato in scienze delle comunicazioni a Siena. In questa intervista si racconta per la prima volta, e sul caso dei vigili dice come al solito parole forti e chiare: «È un problema locale, perché a Torino ci si vergognerebbe di “buttarsi malati”, mentre a Roma ce ne si vanta al bar. Ma è anche un problema nazionale, di leggi sul pubblico impiego, e quindi è un autogol pazzesco, che consentirà al governo, speriamo, di mettere finalmente mano a una riforma». Tonelli è cofondatore e anima di un network di blog che fustiga Roma e i costumi dei romani: Degrado Esquilino, Cartellopoli, Pro Pup Roma (a favore dei parcheggi sotterranei), Bike-Sharing Roma. Ma il più famoso di tutti è appunto Romafaschifo.com (sottotestata: chi ha ridotto così la città più bella del mondo?), un blog in cui i cittadini raccontano e fotografano la decadenza della città, dalle piccole illegalità alle varie mafie, e che Marino stesso un anno fa ammise di leggere con grande attenzione. Ci lavorano, racconta Tonelli, «4-5 persone, più centinaia, anzi migliaia di potenziali reporter, cittadini comuni che ogni giorno ci mandano circa 150 tra foto e segnalazioni su tutto ciò che non va, sono loro i veri padroni del sito, su cui infatti non trovi il mio nome da nessuna parte». È un blog anche discusso, per i toni usati dagli utenti e dagli stessi gestori. Ma è un simbolo di una città stanca, un vero fenomeno per chi vive nella capitale e non solo, visto che Tonelli ultimamente ha attirato l'attenzione della grande stampa internazionale, da “Der Spiegel” a “Business Week”, dalla “Bbc” alla tv pubblica tedesca, che gli sta dedicando un documentario. E il tutto è tanto più sorprendente se si pensa che Tonelli di lavoro fa altro, ovvero gestisce il sito del Gambero Rosso e, dopo aver lasciato Exibart.com, nel 2011 ha fondato la rivista online Artribune.com.
Come è iniziato il progetto di Roma fa schifo?
«L'idea ci è venuta a fine 2007, in piena epoca Veltroni. All'inizio era uno dei siti del nostro network, ma con il tempo ha acquisito un'importanza particolare. Merito della giunta Alemanno, che diciamo ci ha dato molto materiale. Siamo partiti dalla “teoria delle finestre rotte”, che ha ispirato quello che forse è il nostro unico mito, ovvero il sindaco di New York Rudolph Giuliani, capace di risollevare una New York che stava messa persino peggio della Roma di oggi. Se c'è una finestra rotta, va subito riparata, altrimenti presto verranno rotte altre finestre, e in quell'area arriveranno graffitari, gang, prostitute e scippatori. Insomma, bisogna partire dalle piccole cose, da piccoli comportamenti asociali come chi urina per strada o chi non paga il biglietto sui mezzi di trasporto».
Quando è arrivato il salto di qualità?
«Prima con l'apertura del profilo Facebook, che oggi ha 70mila fan, e con l'account Twitter, che hanno avuto un effetto moltiplicatore sul nostro successo. Ma il vero boom lo abbiamo registrato nell'ultimo mese. Siamo passati da 35-40 mila a 440 mila utenti unici al giorno prima con la pubblicazione delle foto della “fellatio di Castel Sant'Angelo”, un rapporto orale fotografato in pieno giorno sul Lungotevere, ennesima dimostrazione del degrado della città. E poi con un articolo sul sindaco Marino. Picchi che hanno fatto interessare al nostro progetto anche grandi gruppi editoriali, anche se, lo dico subito, non siamo in vendita, continueremo a finanziarci con i banner di Google AdSense. Tuttavia è chiaro che, se avessi altro personale, farei riprendere con più continuità le nostre continue campagne, da quella per lo scuolabus all'aumento delle strisce blu fino allo spazzamento meccanico delle strade».
Se dovesse scegliere tra le tante, quali direbbe che sono le vostre battaglie?
«I cartelloni abusivi, la lotta contro i camion-bar, la sosta selvaggia. Tutti temi su cui i grandi nemici sono il benaltrismo e chi dice «poracci, lasciateli lavora'». Ecco, quello è il segnale. Quando qualcuno dice «ben altri sono i problemi» significa che stiamo toccando un nervo scoperto e dobbiamo picchiare duro. Oggi comunque la situazione più esplosiva sono gli scippi sotto la metro da parte delle gang di minorenni».
Vi siete fatti un bel po' di nemici. In generale più di destra o di sinistra?
«I più accesi sono gli estremi, di entrambi i campi. Da un lato gli antagonisti, i centri sociali, che difendono le occupazioni e ci danno dei palazzinari perché siamo a favore di una trasformazione edilizia intelligente. Pensano che siamo fascisti, ma i veri fascisti sono loro, con i loro slogan vecchi di 40 anni sulle “colate di cemento”. Il loro “poraccismo” è nemico dello sviluppo di Roma, perché le grandi aree urbane, come Parigi, sono le uniche a veder crescere il Pil, e invece a Roma nessuno investe. Dall'altra parte c'è Casa Pound, che ci ha denunciato per diffamazione».
Mai ricevuto minacce serie?
«Solo dai writer, che mi telefonano di notte o scrivono sotto casa. Una cosa non molto simpatica, soprattutto per mia moglie e mia figlia. Veniamo alle note dolenti, come il linguaggio spesso violento che usate verso chi vi critica. O il fatto che sembrate giustificare certe reazioni dei cittadini, come chi, tanto per fare un esempio recente, riga le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Il nostro tono volutamente sprezzante fa parte di un'operazione di comunicazione. È un lavoro giornalistico aggressivo, sì. Vogliamo svegliare la gente di questa città prepotente e ignorante, far capire loro che le buche, i manifesti abusivi, i parcheggi in doppia fila sono l'illegalità, non devono più essere la normalità».
Il vostro linguaggio è sprezzante anche verso gli immigrati. Parlate di “vu cumprà”...
«Un'espressione che continueremo a usare».
...e date voce a cittadini che, soprattutto quando si parla di rom, non usano mezze misure.
«Ascolti, la nostra posizione sugli immigrati è questa. Sono una grande opportunità, specialmente economica, come dimostra il Pil che riescono a generare. Poi, è vero, ci sono stranieri che creano problemi, ma mai quanti ne creano i romani. Diro di più, e l'abbiamo scritto pochi giorni fa a proposito dei rom: noi non siamo capaci di accoglierli. Tanti rom sanno benissimo che qui non c'è certezza della pena, e ci sono leggi per cui se sei una minorenne incinta nessuno ti può toccare. I rom ci sono in tutta Europa, ma solo in Italia ripuliscono i turisti in metropolitana. È lo stesso motivo per cui gli immigrati del Bangladesh, se sono ingegneri, vanno a Londra, e se non hanno qualifiche finiscono per vendere i fiori a Roma. Non sappiamo attrarre immigrazione qualificata».
Prima che scoppiasse il caso di Mafia Capitale, il sindaco Marino era nell'occhio del ciclone per la vicenda delle multe non pagate per la sua Panda. Voi, controcorrente e anche un po' a sorpresa, scriveste un post in sua difesa, che ricevette 34mila condivisioni su Facebook. Lo definiste “sindaco marziano” lodando le sue 10 discontinuità, che i poteri romani, Pd incluso, non gli avevano perdonato: la chiusura della discarica di Malagrotta, i camion-bar via dal centro, l'aumento delle strisce blu, le pedonalizzazioni, la battaglia contro i cartelloni abusivi, la pulizia nelle municipalizzate, i soldi tolti ai consiglieri comunali per la "manovra d'aula", le unioni civili, i risparmi per le forniture, la rotazione dei vigili urbani sul territorio.
«Non era una difesa, perché all'inizio di quell'articolo scrivevamo che forse neanche si era reso conto quali poteri avesse sfidato... Abbiamo voluto solo dire: attenzione, chi vuole la testa di Marino vuole la conservazione. A cominciare dal Pd locale, che è un grandissimo problema per questa città, dalla questione dei cartelloni ai lavori pubblici».
E le altre forze politiche?
«Forza Italia è uguale al Pd, ma meno elegante nelle sue “zozzate”. I grillini, poverini, sono completamente inutili. Per questo dico che, se vogliono dimostrare di servire a qualcosa, dovrebbero entrare in maggioranza, chiedere un assessorato, magari sulla scorta dei 10 punti che abbiamo segnalato sul nostro sito».
Pensa che il vostro sito abbia aiutato a cambiare i romani?
«Sì, a quel 10 per cento che ci scrive: «Prima di conoscervi non vedevo certe cose». È solo una minoranza, ma non fa più finta di niente e si ribella a una grande brutalità, quella dell'abitudine al degrado. D'altronde la “Ryan Air generation” è stato un dramma per i politici italiani. Chiunque con pochi euro può andare a Londra, Parigi o Madrid e vedere che, nonostante la crisi, le altre città europee funzionano».
Ha votato più a destra o a sinistra?
«Sono tanti anni che non voto. Direi mai a destra. Forse l'ultima volta avrò votato qualcosa tipo la Lista Dini».
Il sindaco migliore chi è stato?
«C'è poco da scegliere. Sono anche contro il mito di Petroselli e Argan, che non ci hanno certo lasciato in eredità una città europea. Potrei salvare un po' il primo Rutelli».
Alfio Marchini le piace?
«Mi sembra un populista, che cerca gli applausi. A Roma serve un sindaco che cerchi i fischi, se vuole davvero cambiare la situazione».
A luglio un deputato del Pd, Michele Anzaldi, l'ha proposta come assessore alla cultura.
«Non mi interessa scendere in politica, anche se un po' tutti i partiti, in privato, mi chiedono consigli, perché ho il polso del territorio».
Però Roma non fa solo schifo, su. Ci dica una cosa bella di questa città.
«Non è una città provinciale, né razzista, né chiusa. Può essere una piattaforma interessante anche a livello culturale, se venisse dotata di una informazione adeguata. E poi questo è un momento eccezionale per il cibo a Roma, c'è una bella scena enogastronomica. Lo dice uno che lavora per il Gambero Rosso».
Quanto sei sporca Roma: il malaffare dell'Ama e l'emergenza immondizia. L'azienda rifiuti, l'Ama, spreca fiumi di milioni senza pulire. E senza multare chi insudicia la città. Un disservizio che lede ulteriormente l'immagine della Città eterna. E Che viene denunciato da tempo. Senza risultati, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Un cassonetto ingombro di rifiuti nel centro di Roma Là dentro, in una stanza ad alto isolamento dell’istituto Spallanzani, il medico di Emergency contagiato dal virus sta lottando contro Ebola. Qua fuori, vicino all’ingresso dell’ospedale al numero 292 di via Portuense a Roma, i netturbini dell’Ama hanno abbandonato due camioncini pieni di rifiuti. Le portiere sono aperte, non le hanno nemmeno chiuse a chiave. La Grande Tristezza ti colpisce ovunque. Non c’è bisogno di dritte e soffiate. Se cerchi, trovi. Piazza di Santa Maria Maggiore è una rassegna di cassonetti, rifiuti abbandonati, un cartello divelto, bottiglie lasciate sui gradini. Non appena se ne vanno i turisti, davanti alla basilica e intorno alla fontana comincia il balletto dei ratti. Grandi e piccini. Corrono, raccolgono tra i rifiuti scarti di cibo, si arrampicano a beretti. Chissà quale malsano protocollo prevede che carichi di immondizia maleodorante siano parcheggiati per tutto il weekend proprio davanti a uno dei centri europei più importanti per la cura delle malattie infettive. O forse sì, la risposta è chiara. Basta scorrere l’elenco degli arrestati nell’operazione antimafia che in queste ore ha coinvolto Gianni Alemanno, l’ex sindaco della capitale ed ex ministro Pdl. Franco Panzironi da esperto in incremento delle razze equine è stato amministratore delegato dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti. Giovanni Fiscon con 220 mila euro di stipendio record è l’attuale direttore generale dell’azienda e in Ama può contare sulla moglie. Tutti amici degli amici di Alemanno, dicono le ultime inchieste: da quella sugli sprechi di parentopoli all’ultima sul boss neofascista Massimo Carminati. Panzironi e Fiscon ovviamente sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. Ma in questo clima di allegra famiglia in camicia nera, qualche furgone, qualche cassonetto, qualche sacco può sfuggire al controllo. E continua a sfuggire. Magari vi sarà capitato di vedere sacchetti o rifiuti ingombranti abbandonati per strada, perfino in pieno centro: non è difficile a Roma. Sapete quante multe sono state date per questa sciagurata abitudine? Venticinque in tutto il 2014, da gennaio a ottobre. E se avete pestato una cacca sul marciapiede, in attesa che vi porti fortuna, forse vi incuriosisce conoscere quanti siano i proprietari di cani multati nell’ultimo anno: zero. Perché stupirsi? Se proprio volete chiamare i vigili, provate a cercarli al bar in piazza di Santa Maria Maggiore all’Esquilino: la notte tra il 23 e il 24 novembre ce n’erano addirittura sei in piacevole servizio in divisa per un’ora. Ma il diario di viaggio dell’ultima settimana nel cuore della Grande Tristezza va ben oltre il malcostume. Le pagine romane da martedì raccolgono anche ritagli di cronaca nera: criminalità, politica, appalti e i neofascisti della banda della Magliana ancora lì, in cima alla piramide a muovere soldi e burattini. Turno di notte: sei vigili, due auto, un'ora al bar. Dalle 00.20 all'1.19 sei agenti della Municipale in divisa, tra cui due graduati, con due macchine di istituto hanno chiacchierato al bar-gelateria davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo un'ora sono stati avvicinati da un passante infuriato perché era stato appena aggredito dietro l'angolo da due persone. A quel punto i vigili sono saliti in auto e se ne sono andati, però nella direzione opposta rispetto a quella indicata Il premier Matteo Renzi ha detto e ripetuto di aspettare il 15 dicembre, giorno della consegna dei collari d’oro agli italiani che si sono distinti nello sport, per annunciare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Sull’immagine della capitale nel mondo, però, prima dei collari sono arrivate le manette. Spese fuori controllo per centinaia di milioni. Manager incompetenti. Roma e i romani spremuti. E le casse portate al default. La mafia non è mai stata dalla parte della gente. Né della buona amministrazione. Qualcuno lo segnalava da anni, confrontando la spesa corrente con la totale mancanza di piani per il futuro. Sono i ricercatori dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale, istituita dodici anni fa dal consiglio comunale. Anche quest’anno, cinque analisti e un direttore tecnico hanno lavorato per oltre tre mesi. Dal loro rapporto sul 2014, pubblicato il 24 novembre, non si salva nessuno. Sentite qua: «Nonostante una specifica previsione del regolamento del consiglio comunale, sin dal 2002 non si è mai svolta un’apposita seduta per l’esame e la discussione della relazione annuale». Fantastico: dal 2002 cinque analisti e un direttore tecnico vengono pagati dal Comune e il loro prezioso lavoro da dodici anni viene puntualmente infilato in un cassetto o buttato nel cestino. Non bisogna però essere pessimisti: «La sensibilità e l’attenzione dimostrata dal presidente Coratti nei confronti dell’attività dell’agenzia sicuramente farà sì che tale mancanza venga sanata, dando l’opportunità all’Assemblea capitolina di confrontarsi sull’intero assetto dei servizi pubblici locali». Complimenti all’onorevole Mirko Coratti, presidente Pd dell’Assemblea capitolina, il consiglio comunale romano. Cioè no, un momento: Coratti è tra gli indagati in Comune, corruzione aggravata e finanziamento illecito. Martedì i carabinieri gli hanno perquisito l’ufficio e si è subito dimesso. Anche lui ovviamente è innocente fino a prova contraria. Ma con l’aria che tira, la qualità dei servizi pubblici rischia di non essere più in cima all’agenda. E quando mai lo è stata? È duro il lavoro dell’analista a Roma se oggetto dell’indagine è la pubblica amministrazione: «L’aspetto relativo ai poteri di accesso e di acquisizione della documentazione e delle notizie utili nei confronti dei soggetti gestori e degli uffici di Roma Capitale», denuncia l’agenzia, «dovrà a nostro avviso essere oggetto di uno specifico atto di indirizzo da parte dell’assessore e del segretario-direttore generale, viste le difficoltà, i ritardi e talvolta forse una certa ritrosia a voler mettere tempestivamente a nostra disposizione i dati e le informazioni richieste». Se non ci riescono loro, che sono stati incaricati dal Comune, figuriamoci cosa può succedere a un cittadino qualunque quando va a protestare agli sportelli. Eppure, calcolando le spese e il personale apparentemente sulle strade, la Grande Tristezza dovrebbe essere lucida come il marmo della Pietà di Michelangelo. Sulla pulizia non sorveglia soltanto la polizia municipale. Ai vigili si aggiungono agenti del “Nucleo decoro urbano di Roma Capitale” e gli ispettori dell’Ama, appositamente formati tra gli ottomila dipendenti dell’azienda pubblica. Negli ultimi mesi sono addirittura aumentati. Meno male. Nel 2014 la violazione contestata con maggiore frequenza dagli agenti accertatori dell’Ama, così vengono chiamati, è quella dell’uso scorretto dei bidoncini condominiali, nelle zone dove la raccolta dell’immondizia viene fatta porta a porta: 6 multe al giorno. E quante volte succede che i camion dell’Ama non riescano a svuotare i cassonetti, perché sono circondati da auto in sosta selvaggia? Vigili, agenti del decoro, accertatori dell’Ama sono rigorosissimi: due multe al giorno in una metropoli di due milioni e 889 mila abitanti. È una media: a volte sono quattro, a volte zero. E nascondere rifiuti nel cassonetto non corrispondente? Una multa al giorno. Lavoro durissimo. Forse è per questo che nell’ultimo anno si è rinunciato a punire chi non raccoglie le cacche dei cani da parchi e marciapiedi e chi getta rifiuti per strada: zero contravvenzioni. «Dato che le strade di Roma sono tutt’altro che pulite né sono prive di escrementi di cani sui marciapiedi, il fatto che non siano state fatte multe... assume una connotazione sociale assolutamente negativa», scrivono gli analisti nella relazione che il consiglio comunale non ha mai esaminato, «in quanto avalla comportamenti collettivi incivili e individualisti che danneggiano direttamente e indirettamente l’immagine della città e della popolazione romana, creando inoltre un danno economico: quantificabile nelle maggiori spese di pulizia a carico di tutti i cittadini». Dal 2009 al 2013 l’attività di vigili, agenti e accertatori per difendere il pubblico decoro è comunque aumentata toccando la ragguardevole produzione di 39 verbali al giorno: suddivisi per municipio sono due verbali al giorno, un record per i quartieri di Roma. Soddisfatti del risultato ottenuto, nel primo semestre del 2014 i controlli sono crollati a otto sanzioni al giorno, una ogni due municipi. Poche? Tante? Nei primi dieci mesi del 2013 l’Amsa di Milano ha emesso 49.769 multe per violazione del regolamento dei rifiuti, 170 al giorno, di cui 2.000 solo per il decoro urbano: «Mentre a Roma veniva elevata una sanzione ogni 263 abitanti, a Milano ne veniva emessa una ogni 25: anche se la città lombarda non si può certo definire dieci volte più sporca della capitale», è scritto nella relazione dell’agenzia inutilmente consegnata al consiglio comunale. Mantenere la città pulita costa meno che pulirla spesso. Sanzionare i cittadini incivili è più corretto che far pagare tutti. Intanto pagano tutti. Soltanto per il lavaggio e la pulizia delle strade il piano finanziario 2014 prevede l’impiego di 171 milioni: cioè 60 euro per ciascuno dei residenti romani, neonati inclusi, con un aumento del 60 per cento in dieci anni per le pulizie e del 138 per cento per la rimozione dei rifiuti abbandonati. E i risultati non si vedono. Ma pagano anche gli italiani. A Roma la raccolta differenziata nel 2013 si è fermata al 31 per cento e l’immondizia continua a finire in discarica, violazione che non riguarda soltanto la capitale: per questo, la Corte europea di Giustizia pochi giorni fa ha condannato l’Italia a 40 milioni di multa una tantum e 42,8 milioni per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure obbligatorie. Altri soldi che saranno sottratti agli investimenti, alla città. Che però si trasformavano in ricchezza per i nuovi boss, intercettati mentre mettevano le mani sui contratti milionari per la differenziata e per la raccolta delle foglie. Perfino gli appalti per la manutenzione del verde sono un enigma a carico dei romani. Da Monte Sacro alla periferia Nord-Est costano 0,38 euro al metro quadro, a Nord-Ovest appena al di là del Tevere li pagano 250 euro al metro: il 6.578 per cento in più. E i cartelloni? La selva pubblicitaria che accompagna i turisti da Fiumicino e Ciampino e nel resto della capitale ha reso al Comune appena 265 mila euro in tutto il 2013. A Genova, la città del sindaco Ignazio Marino, su una superficie molto più piccola sempre nel 2013 hanno incassato un milione e 60 mila euro. Certo, sono genovesi. Ma a Roma non resta nulla: si spendono 900 mila euro all’anno per la rimozione dei cartelli abusivi. Allora, chi è il regista della Grande Tristezza? Gianni Alemanno? Il salotto dei suoi uomini manager? Massimo Carminati? Una capitale cresciuta a immagine e somiglianza di un boss non ha futuro se perfino il consiglio comunale da dodici anni se ne frega della qualità dei servizi. Nel frattempo chissà se l’ex sindaco indagato, la sua alleata Giorgia Meloni e quelli di Casa Pound avranno l’onestà di tornare in piazza: «Porteremo il tema della sicurezza in Assemblea capitolina», ha scritto Alemanno sul suo blog il 17 novembre. Ora che è evidente quanto la mafia sia salita in alto, ha ragione: Roma non è mai stata così insicura.
Vigili: gag, disavventure e scandali. I retroscena dello scontro con Marino. I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi...
Brunetta: "La legge c'è, basta applicare la mia riforma". L'ex ministro della Pa: "Ridicolo nascondersi dietro il ddl Madia", scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”.
Onorevole Brunetta, lei è stato per anni simbolo della lotta ai «fannulloni» nella Pa. Cosa pensa dell'episodio romano?
«È un episodio grave che rischia di tramutarsi in un boomerang per chi se ne è reso responsabile. Ma certo colpisce che la sinistra dopo aver combattuto le mie leggi oggi scopra che esistono fannulloni e assenteisti. Quando lo dicevo io mi insultavano».
Renzi invoca nuove regole per il 2015.
«Nascondersi dietro il disegno di legge Madia è ridicolo. Le regole per combattere fannulloni e assenteisti ci sono già e portano il mio nome. Vanno applicate subito, senza scuse, e vanno stigmatizzati certi comportamenti sempre, non solo quando c'è il caso mediatico. È stata la sinistra, è stata la Cgil a combatterle. Sono stati i governi Monti, Letta, e anche il governo Renzi, da oltre 10 mesi, a non applicare queste regole».
In concreto come sono state disattese?
«Proprio sull'assenteismo dei dipendenti. Io pubblicavo i dati delle assenze di tutti i dipendenti della Pa, mensilmente e nel dettaglio. Con la fine del governo Berlusconi questo non è più accaduto. Avevamo ottenuto risultati importantissimi. Ad esempio l'obbligo dei certificati medici online sia del pubblico che del privato con la trasmissione in tempo reale all'Inps. Se vogliono sapere quali medici hanno fatto i certificati, possono farlo in un attimo».
Contro la sua riforma ci furono ribellioni da parte dei dipendenti pubblici?
«No, anzi, la Cgil mise in campo 13 scioperi, tutti falliti, tutti con una partecipazione media del 4%. Il consenso nella Pa era alto, tranne nel Pci-Pds-Ds-Pd, tranne nella Cgil, tranne tra gli intellettuali come Scalfari o Merlo, tranne i cantanti, gli attori e i comici».
Renzi da amministratore locale come si pose rispetto alla sua riforma?
«La applicava salvo dire: "Ma non sono mica Brunetta". Quando era presidente della Provincia di Firenze gli proposi una scommessa: se con la mia riforma tra i tuoi dipendenti l'assenteismo si riduce più del 40% mi regali una Montblanc; se meno del 40% te la regalo io. Vinsi la scommessa, ma la Montblanc non me l'ha mai regalata».
In malattia per cento milioni di giorni all’anno. Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Scrive Paolo Baroni su “La Stampa”. Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps, vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi». In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata: gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725 giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest (0,403). Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link «amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese, oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10% tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale.
Da sinistra si grida al lupo nero, indicando la pagliuzza nell’occhio altrui.
Padrini, terroristi, servizi segreti e massoni: così dalla Magliana è nata mafia Capitale. Quarant'anni fa i capi di 'ndrangheta e banda della Magliana si riunivano al Fungo. Lo stesso luogo dove è cresciuto Massimo Carminati. E che ritorna nell'inchiesta su Mafia Capitale. Che sembra sempre più l'evoluzione criminale della vecchia banda di Romanzo Criminale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. C'è un filo nero che attraversa gli ultimi decenni della storia criminale italiana. È un cordone che unisce l'Italia: da Reggio Calabria a Roma. Dalla 'ndrangheta a Mafia Capitale, passando per la banda della Magliana, terrorismo nero, servizi segreti e massoneria. Con un luogo che ritorna oggi come ieri: il Fungo, zona Eur, Roma. «Con Mancini (Riccardo, l'ex numero uno di Euro Spa inquisito nell'inchiesta su Mafia Capitale ndr) abbiamo fatto dieci processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma... con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo momento magari non sono indagate». Massimo Carminati rievoca il passato dei “neri” di Roma. Lui racconta e intanto le cimici piazzate dagli investigatori del Ros dei carabinieri intercettano. Carminati ricorda gli anni '70, gli anni di piombo, quando la gioventù neofascista della Capitale si incontrava in un luogo simbolo, che ritorna anche nell'inchiesta Mafia Capitale. Il punto di ritrovo di cui parla “er Cecato” è il Fungo. Un acquedotto costruito negli anni '60 all'Eur, a pochi chilometri dalla Magliana. Sotto questa struttura di cemento armato che assomiglia a un enorme fungo si ritrovavano i giovani della destra radicale, molti dei quali sono poi finiti nei nuclei armati rivoluzionari. L'ala più feroce dell'eversione di destra. Ma all'ombra del Fungo, nel ristorante panoramico all'ultimo piano della torre, si sono incontrati pure altri personaggi da romanzo criminale. Alcuni dei quali condividono con il boss di Mafia Capitale il credo fascista e il fiuto per gli affari, di qualunque colore essi siano. È una storia che comincia quarant'anni fa. Nel 1975. In un 'Italia stremata dalla tensione sociale e politica provocata dalle bombe, dal lavoro sporco dei servizi deviati e dagli accordi sottobanco tra organizzazioni mafiose, estremisti neri e 007. Il Paese era terrorizzato. E il peggio doveva ancora arrivare. Solo un anno prima c'era stata la strage dell'Italicus, sei anni prima il massacro di piazza Fontana a cui seguì, l'anno dopo, la bomba che fece deragliare il treno a Gioia Tauro. È in questo contesto di terrore e tritolo che il 18 ottobre '75 allo stesso tavolo siedono tre capi 'ndrangheta tra i più influenti nell'organizzazione calabrese e alcuni esponenti della banda della Magliana. Il summit si è tenuto proprio al Fungo. E qui che la polizia di Stato interviene e arresta Paolo De Stefano, don Peppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale. «Tale riunione, lungi dall'essere una mera riunione conviviale costituiva invece una vera e propria riunione mafiosa ad alto livello» si legge nelle informative dell'epoca. Paolo De Stefano verrà ucciso dieci anni dopo. L'agguato che gli costò la vita diede il via alla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Il clan De Stefano però è tuttora il più potente della città. E nell'organizzazione calabrese è la famiglia che conta di più, quella che negli anni ha saputo creare relazioni più solide con il potere: hanno protetto la latitanza del terrorista neofascista Franco Freda; hanno giocato un ruolo importante nella rivolta dei Boia chi molla per Reggio capoluogo; l'avvocato Giorgio De Stefano, ucciso nel '77, è stato, secondo alcuni pentiti, il contatto tra 'ndrangheta e servizi segreti. Tra spioni ed estrema destra, i De Stefano sono cresciuti e dal poverissimo quartiere Archi dove hanno mosso i primi passi, hanno allungato i tentacoli fino in Francia, radicando i propri affari a Roma e Milano. E proprio nel capoluogo lombardo, stando alle recenti indagini dell'antimafia reggina, ha sede il cuore finanziario del clan. L'indagine Breakfast sta scavando nei segreti societari della 'ndrangheta governata dalla famiglia De Stefano, e ha scoperto complicità nella Lega Nord, con l'ex tesoriere Francesco Belsito, e con uomini un tempo dell'avanguardia armata nera, come Lino Guaglianone, anche lui come Massimo Carminati, ex Nar, e precisamente ex tesoriere del nuclei armati rivoluzionari. Non solo, ma nei rapporti investigativi gli inquirenti segnalano più volte la vicinanza dei De Stefano alla banda della Magliana, «di cui sono noti i collegamenti con la destra eversiva e i servizi segreti». Al Fungo c'era anche Pasquale Condello, detto “il Supremo”. Come i De Stefano è cresciuto nel quartiere Archi. Insieme hanno conquistato Reggio, salvo poi dividersi in una guerra durata sei anni e con mille morti ammazzati. Dopo il sangue è tornata l'armonia e la città è stata divisa equamente. Ancora oggi è pax mafiosa. Il profilo di Giuseppe Piromalli detto “Mussu stortu” è simile a quello di don Paolino De Stefano. Le loro famiglie si uniscono alla fine degli anni 70' per fondare una 'ndrangheta più moderna. Sono i precursori della strategia delle alleanze trasversali con pezzi delle istituzioni e di altri gruppi mafiosi. E sono i promotori dei grandi business con la droga. Per farlo hanno dovuto annientare i vecchi capi bastone. Una volta eliminati è iniziata la loro ascesa criminale. Peppe Piromalli trascorreva molto tempo nella Capitale. L'interesse della 'ndrina di Gioa Tauro era quello di allargare la zona di influenza. Un particolare che verrà confermato dal pentito della banda della Magliana Antonio Mancini, “l'Accattone”. I Piromalli ritornano nell'indagine della procura antimafia di Roma su Mafia Capitale. I pm e i militari del Ros hanno infatti scoperto come la banda de “er Cecato” avesse stretto un patto con i clan calabresi, in particolare con i Mancuso, attraverso però un parente del boss Piromalli, dipendente delle cooperative del braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Quel giorno di quarant'anni fa al Fungo accanto ai mammasantissima della 'ndrangheta c'erano “er Gnappa” Manlio Vitale e “er Pantera” Gianfranco Urbani. Personaggi di spicco della Magliana. Manlio Vitale con Massimo Carminati ha condiviso più di qualche avventura malavitosa. Nel 2000 sono stati indagati per il furto nel caveu all'interno del Palazzo di giustizia. E nella sentenza sulla banda della Magliana i loro nomi vengono accostati spesso. Vitale come Carminati frequentava il Fungo. D'altronde era zona loro. Per questo gli 'ndranghetisti sono stati invitati in quel ristorante. Non solo. Il nome de “er Gnappa” spunta negli atti di Mafia Capitale. Fino a qualche anno fa, almeno da quel che risulta agli investigatori, frequentava Riccardo Brugia, «compare e braccio destro di Carminati». Brugia secondo gli inquirenti è «dotato di una rilevante storia criminale personale e legato al Carminati da una profonda amicizia e dalla comune militanza nei gruppi eversivi dell’estrema destra». «Er Pantera» invece è morto qualche mese fa. Nella banda, alcuni collaboratori di giustizia, lo indicavano come il manager delle relazioni con le altre organizzazioni. Con la 'ndrangheta ma anche con i clan catanesi, in particolare con la cosca di Nitto Santapaola (famiglia alleata con Piromalli e De Stefano). Fu lui, dicono i testimoni, a tenere i contatti con le 'ndrine di Reggio Calabria e a instaurare il traffico di eroina con la Tailandia. Ora che molti dei protagonisti della riunione del Fungo non ci sono più, l'eredità di quei rapporti è passata di mano. A Roma comanda Mafia Capitale e le sue alleate. Una in particolare, la 'ndrangheta. In fin dei conti, quindi, poco è cambiato. Se non il clima. Per questo l'organizzazione guidata da “er Cecato” in un certo senso sembra l'evoluzione criminale della banda dei testaccini, l'anima più borghese del gruppo della Magliana. Un salto di qualità obbligato. Lo stesso passaggio che hanno dovuto mettere in atto le altre mafie. In questo nuovo contesto rapinatori e i killer hanno sempre meno spazio. Ciò che non muta sono le alleanze di un tempo. E spesso ritornano gli stessi cognomi, gli stessi personaggi. Segno che il capitale di relazioni e conoscenze accumulato negli anni passati frutta ancora oggi. E che la mafia più che rottamare riadatta al nuovo corso i vecchi arnesi.
L’altra faccia della medaglia, invece, è la trave nascosta negli occhi della sinistra.
Lo scandalo dei falsi iscritti Pd: "Tesserate persone inesistenti". Una giornalista della Stampa ha ottenuto una tessera dei dem fornendo false generalità: nessun controllo, nessuna richiesta di documenti. Si paga, si firma e si ottiene la tessera, scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Iscriversi al Pd romano è facile. Facilissimo. Tanto facile che basta scrivere un nome falso e un indirizzo mail di fantasia, pagare la quota di iscrizione e la tessera salta fuori senza alcun controllo. Nessuna richiesta di documenti, carta d'identità, patente, codice fiscale: niente di niente. Questa la clamorosa scoperta della cronista de La Stampa Flavia Amabile, che è riuscita ad iscriversi ad una sezione capitolina del Partito democratico fornendo generalità inventate ed ottenendo la tessera del partito senza problemi. Quello delle tessere è stato a lungo un grosso problema per il Pd nazionale, con il numero degli iscritti soggetto a cali di centinaia di migliaia di persone da un anno con l'altro. In Piemonte si sono registrati casi di anziani pagati per iscriversi al partito e votare, in Puglia è stato segnalato un numero di tessere triplo rispetto a quello degli iscritti. Proprio a Roma, alle primarie per il sindaco della primavera 2013, si erano viste file di rom fuori dai seggi, con conseguenti polemiche sulla regolarità del voto. Ora, anche in seguito allo scandalo di Mafia Capitale, il presidente del partito Matteo Orfini, aveva annunciato di voler fare "pulizia" nel Pd romano, passando ai raggi x gli ottomila iscritti della capitale. Sempre su La Stampa, l'esponente democratico ammette di "non essere sorpreso" per la facilità con cui si possono ottenere tessere false, ma chiede anche di "non crocifiggere nessuno" in attesa che "ci si abitui al rispetto delle regole". Iscriversi agli altri partiti, chiosa la Amabile, non è però così semplice. Complice anche una situazione finanziaria che non permette strutture sul territorio articolate come quelle del Pd, spesso l'iscrizione alle formazioni politiche richiede la compilazione di formulari online oppure all'interno di circoli dove i nuovi arrivati vengono "esaminati" più attentamente. Solo a Sel, scrive la cronista del foglio torinese, "nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento".
Venti euro e zero controlli per una tessera falsa del Pd. Nome di fantasia, niente documenti né codice fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo. La tessera finta e la ricevuta del versamento con cui la nostra cronista si è iscritta con nome falso al Pd, scrive Flavia Amabile su La Stampa. Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari. Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano. Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice. Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi. La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni. Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18. Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi. Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli. Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd. Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento. Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.
Militante democrat a sua insaputa. Branco mette alle corde i furbetti. L'ex campione del mondo Branco si ritrova tesserato e scrive a Renzi: cancellato, scrive Matteo Basile su “Il Giornale”. Guai a farlo arrabbiare. Non perché sia cattivo o violento, tutt'altro. Ma perché nella sua più che ventennale carriera di pugile, che lo ha portato ad essere l'europeo più titolato di sempre, Silvio Branco ha imparato molte cose. Tra queste a non farsi mettere i piedi in testa e a guardarsi dalle fregature. Figuriamoci se uno così, abituato a combattere per ottenere risultati, si fa prendere in giro da un partito politico. Succede che nella sua Civitavecchia, città dove Branco è un monumento vivente, il pugile, ritirato solo lo scorso anno dall'attività agonistica alla soglia dei 48 anni, si sia di fatto ritrovato iscritto a sua insaputa al Partito democratico. Lo scorso 20 dicembre infatti si è tenuto in città il congresso straordinario del Pd, con la presentazione delle piattaforme politiche e dei candidati alla segreteria. Inevitabile che nei giorni che hanno preceduto il congresso, come da mondo e mondo accade in ogni partito politico prima di ogni convention, sia scattata la corsa al tesseramento, con i vari dirigenti in prima linea per cercare di «accaparrarsi» quanti più delegati possibili. Missione compiuta si penserebbe dando uno sguardo ai dati, ancora ufficiosi. Un boom in controtendenza rispetto al resto d'Italia e altamente discostante rispetto al clima di anti politica che regna nel Paese: secondo il partito sarebbero state sottoscritte ben 700 tessere in più rispetto all'anno precedente, senza contare che c'è tempo per iscriversi ancora fino a domani, 31 dicembre. Branco, in passato delegato allo sport del Comune visto il suo ruolo di «ambasciatore» italiano del pugilato nel mondo, viene a sapere che anche lui risulta essere nell'elenco dei nuovi iscritti. Un colpo basso che non accetta. «Mi è stato detto che ero tesserato ma non avevo fatto nessuna richiesta né firmato nessun documento - racconta il campione al Giornale - Allora ho messo le mani avanti e inviato una lettera diffidando il partito dall'iscrivermi a qualsiasi lista». Una lettera di fuoco inviata da Branco al segretario del partito Matteo Renzi, al presidente Matteo Orfini e alla commissaria di Civitavecchia Michela Califano. E visto che Branco, come detto, non è solo un grandissimo campione ma in città è un'autentica icona, i dirigenti hanno subito pensato di evitare problemi eliminando il nome del pugile. Una figuraccia del genere, con il tesseramento di un volto tanto noto a sua insaputa, non avrebbe certo giovato al Pd. «Quando ho appreso la notizia mi sono molto amareggiato - confessa Branco - Probabilmente fossi stato il fruttivendolo del paese non ci sarebbe stato clamore e sarebbe stato iscritto a sua insaputa. Nulla contro nessuno, sia chiaro, ma certo non mi va di essere preso in giro». Il campione del mondo dei pesi mediomassimi e dei massimi leggeri, ha quindi evitato il finto tesseramento sul nascere ma pare che a Civitavecchia siano stati in molti a diventare militanti del Pd a loro insaputa. Magari non famosi come Branco ma di certo utili, utilissimi a fare numero. Alla faccia della trasparenza e della correttezza.
Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre 2014 con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…
Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.
Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.
Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.
Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.
"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".
L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?
"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".
Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.
"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".
Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?
"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".
E cosa disse a Buzzi?
"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".
E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?
"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".
Cosa che fece?
"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".
E cosa gli disse?
""Ma chi mi hai mandato?"".
E lui?
""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".
Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?
"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".
La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.
"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".
La storia, dunque, è chiusa?
"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".
Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).
Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché necesari a realizare un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.
L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.
Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.
Comunque se i politici onesti son questi?
«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.
Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social network, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro, L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.
Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo - "noi la chiamiamo amicizia" - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti - guarda caso - Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.
Così Mafia Capitale voleva conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al Viminale. Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere. Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più ricco, perché come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business. Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!». Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.
Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino Labia su “Panorama”. In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma.
Il furton al caveau della Banca di Roma del Tribunale. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.
Il Guercio nella terra dei ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scrive Mariagrazia Gerina su “Internazionale”. Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la mafia con una battuta: “La piaga di Palermo è il traffico”. Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi 100 indagati e 37 arresti, perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio. Qualche anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di “Quinta mafia” a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia “originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre. Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile. Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima, Massimo Carminati, il primo nella lista degli arresti, er Cecato o anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio. Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate, capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da poliziotti infedeli. È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori, estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile… capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia… Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla “fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008, governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema destra. Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati. Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli, ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà. Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar Bruttone. Un’altra volta è Luca Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di fiducia. Il “grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro, Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar culo”. Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella della cooperativa di ex detenuti da lui fondata tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille dipendenti, prende nome da un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità. Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena, organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno; Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il “Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a Finmeccanica”. Buzzi ha difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi, “e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli dice: “Va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”. “Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia Capitale. Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro mastro” ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito, che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un funzionario dell’ufficio giardini sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del Partito democratico. Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è dimesso il giorno degli arresti. “Me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva 120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa in una successiva conversazione. È seccato Buzzi quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi, a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici. Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio. In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”, s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”. Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui, come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie, Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”. In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco, eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago di più…”. Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è spuntato un finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce ’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri, sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano, che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco, Mattia Stella (che non è indagato), già segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici, in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le puttane”, gli suggerisce Massimo Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012, che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia. A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini. Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei campi rom nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta ancora di più. Detto con le parole del presidente della 29 giugno: “Tu c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”. Ed è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”. “Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo… vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e gli appalti si fermano. In Campidoglio, come in regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il Guercio in una terra di ciechi.
Mariagrazia Gerina è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scritto Walter Veltroni. Il piccolo principe (Sperling & Kupfer 2007).
Mafia Capitale. La lunga scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni Rossi su “Articolo 21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi, si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.
Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere affari e stringere alleanze. Quel generone comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.
1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”. In realtà i “Signori delle tenebre” cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.
Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”.Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.
Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…
Bentornati nel “porto delle nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto Achille Toro (ormai ex), che patteggia una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8. Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli. Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri di accoglienza che vedeva tra gli indagati Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi. Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice: "E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma, però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5 preventivi prima di assegnare un appalto milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata Daniela Di Sotto, all’epoca signora Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante: “Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era l’allora segretario di suo marito Francesco Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia – operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14, la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche archiviato un’inchiesta (partita da De Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Al centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la sussistenza di reati commessi a Roma”.
Procura romana porto delle nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Il Corriere della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul "Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani. Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla? Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori, industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate". C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale. Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza". Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico, ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza. "Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio. Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave, il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri della nostra storia recente.
Mafia Capitale, parlano 2 sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi? Si chiede Infiltrato.it. Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la risposta, che lascia a bocca aperta. Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno avevano rivelato al cronista de ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel 2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio: o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per questo”. Come raccontava anche Repubblica, “la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa. Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan (e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr), erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità. Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi. E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte (seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.” Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha fermati? Chi si voleva proteggere?
Gen. Antonio Pappalardo su “Agora Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato». Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati. Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono, stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio, dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere. Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro, ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014. Gen. Antonio Pappalardo.
La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?
Così le coop hanno riempito Roma di profughi e campi rom. "Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250 profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno". Massimo Carminati aveva un braccio destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che "la politica è una cosa, gli affari sò affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di "mettersi la minigonna e battere" per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata" di soldi coi fondi per l'accoglienza degli immigrati e per la gestione dei campi nomadi. "Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse abbiamo ragione noi?". La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia tutto romano nei confronti del Campidoglio. Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse. Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive "il suo ruolo apicale indiscusso, la sua posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica, la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore". Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per rifugiati e immigrati è, secondo la procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come "un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine". "La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno e, al tempo stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio "Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista che, "avendo questa relazione continua" con il Viminale, è "in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso Odevaine a spiegare il perché: "I posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da "ottenere l’assegnazione di fondi pubblici" per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto "Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi - ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".
"Mafia Capitale". "A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".
Non è più vero che il crimine non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici romani.
A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”. Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso a firma Manlio Cancogni, denunciò con questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione politica e dello sfacelo ambientale. “Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati, seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi storici.
"A Roma mi sento come nella mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì" del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".
"Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".
"Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.
Un approfondimento a 360 affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si considera criminale solo la parte avversa.
Mafia e politica a Roma, Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl", scrive di Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito, no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno». Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale. In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini, ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi, i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl».
Roma tra mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale". Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”. «E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale, descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti, edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’. Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto. Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato, saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.” “Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica, negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di tutti i continenti.”
Roma, le mani della mafia nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari sporchi, scrive “Panorama”. Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37 persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti, riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta che è solo all'inizio ed è destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno, l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione, secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette, nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di 5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal suo incarico. Oltre a Massimo Carminati, tra le carte si incontrano altre conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella, custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana. Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.
Mafia, arrestato il re di Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E' ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione, all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37 persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati, in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico, dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi». Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama, municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».
Mafia a Roma, 37 arresti per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli, Valeria Forgnone e Viola Giannoli su “La Repubblica”. Massimo Carminati Maxi operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con 37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (presidente della cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni". Gli arresti. A capo dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora mettiti la minigonna e vai a battere con questi".
Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.
Massimo Carminati, da molti considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il "Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.
Franco Panzironi, già indagato per la Parentopoli Ama, ora sarebbe un altro dei personaggi chiave dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti. Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.
Riccardo Mancini è un altro nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.
In carcere è finito anche Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. L'accusa parla di corruzione aggravata.
Giovanni Fiscon, attuale direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e turbativa d'asta.
Daniele Ozzimo, assessore capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro portato avanti in questi mesi".
Mirko Coratti, presidente dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per correttezza verso la città e l'amministrazione".
Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito finanziamento.
Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di associazione di tipo mafioso.
Luca Gramazio, consigliere regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e finanziamento illecito.
Tra gli arrestati anche altri nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini e l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi: per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. Gli indagati. Fra gli indagati figura l'ex sindaco della città Gianni Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino - Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'". Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa, Daniele Ozzimo, che ha deciso di dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città. Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti. Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari. Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano: è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati "la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato per un giro di presunte mazzette legate all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri - Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini - sotto la supervisione del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice 'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla col mondo di sopra, quello della politica e col 'mondo di sotto', quello criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza, preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma, nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici". "Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli affari criminali a Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia". Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager, funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra, rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera su Roma. Il negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata, serve subito un impegno trasversale".
Ecco la "mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno. Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in Campidoglio, scrive “La Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del procuratore capo Giuseppe Pignatone che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione, secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama Franco Panzironi e l'ex amministratore delegato di Ente Eur Riccardo Mancini, soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".
"Soldi per le elezioni in cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica”. L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare attraverso Carminati. "Mi dice - spiega il manager delle coop in un'intercettazione del 20 aprile 2013 - "va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende, dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma - commenta ora Alemanno con i suoi fedelissimi - è facile tirarmi in ballo. C'è molto millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata, alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho... - dice Buzzi - se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ". Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta. Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6 dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano - annota il gip - e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28 novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa "Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga". Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9 novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in cooperativa".
Appalti e criminalità a Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio Tonacci su “La Repubblica”. La banda, la nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori "a libro paga" come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione", l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di "agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone degli arresti c'è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.
Mafia e politica: perquisizioni, arresti Indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina, in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e 24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350 posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati, finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte». Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano (che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno, alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato 30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio. Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato», precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante». Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale. Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.
«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma. Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, scrive iovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio. Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul “carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale, occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco commendevoli. Nella capitale d’Italia.
«L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici. I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false, forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per «pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino, segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione «Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera» ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini, amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi... dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’ comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti». Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto: «Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio». L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi: «Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che ha continuato a garantire affari e potere.
Carminati, il "Nero" interpretato da Scamarcio, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo». Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono, diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine, omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.
Carminati, dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino». Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».
"Li compriamo tutti. Se vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione. Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale su “La Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale e di raccordo tra gli interessi di Massimo Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si auto-collocava "a sinistra", a gestire le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio Gammuto, figura "tra le più attive - scrive la gip Flavia Costantini - sul versante della corruzione".
Buzzi: "Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".
Ma quella che i magistrati definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra parte del telefono c'è sempre Gammuto.
Buzzi: "E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".
Gammuto: "Va bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".
Buzzi: "Ma Nieri, è entrato Nieri?".
Gammuto: "Non lo so".
Buzzi: "Cazzo ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".
L'ex assessore alla Casa della giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi "estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni "Ozzimo-Alemanno".
Alemanno: "Pronto?".
Buzzi: "Gianni come stai?".
Alemanno: "Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".
Buzzi: "Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)
Alemanno: "Eh, questo mi onora molto".
Buzzi: "No, ma non se fa più".
Alemanno: "Mi onora molto".
Buzzi: "Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).
Alemanno: "Come?"
Buzzi: "Non lo possiamo dire".
Alemanno: "No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".
Buzzi: "Per me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".
Alemanno: "Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere, non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".
Sempre per quanto riguarda i legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e, all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella, relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a "reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.
Caldarelli: "Vabbè, ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta al di là...".
Buzzi: (a bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".
Caldarelli: "Eh, ricordate da diglielo".
Buzzi: "Lui sta con me. Gioca con me ormai".
Caldarelli: "Eh, ricordateglie de questo perché... ".
Buzzi: "Oh ma che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".
Caldarelli ride.
Buzzi: "E che cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh (ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti 10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria, secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire. "Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella - scrive la gip - è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il "Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di "mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.
Buzzi: "Noi dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".
Garrone: "122 euro".
Buzzi: "122 euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè. 120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"
Garrone: "Ho capito".
In un'altra intercettazione, questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.
Buzzi: "Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo tutti 'sti soldi a questo?".
A insistere per i soldi a Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.
Buzzi: "Lui mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto "oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè garantisce, non c'avemo problemi".
I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.
Roma, poltrone ai fascisti. Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi. Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza, da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari, uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni. Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6 milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo, dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra, ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme, tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due "compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi (poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel 1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa, non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso. Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato "Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo. Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel. Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel 2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato, inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride (i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis, riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana», come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti - sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003 insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie, e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.
I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.
Alemanno, il missino che ha scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo «passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli è costata il voltafaccia dei cittadini.
Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”. Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”. Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani. Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine (“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della “rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma, il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.
Buzzi, la mente della coop con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi, senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi , amico mio».
Ozzimo, dal volontariato a ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72, uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza, nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità. Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale. Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).
La foto che imbarazza il ministro Poletti, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni (non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo (indagato); Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato); Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è il pregiudicato Luciano Casamonica.
Da Poletti al Pdl tutti a tavola col capo clan. Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010 il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo, l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso” C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi, secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno". Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio, poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti, attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile. Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente, secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel 1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione. Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie, soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59 milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni. Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?
«Ohh ma che... me so’ comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci». A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto “Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini. Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale, ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta», commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della 29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle «bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo il Pd capitolino.
Killer neri e violenti rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia. Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero» nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»). Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni '80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici, dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma. O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà», replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice, “ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane, quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti. Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta, raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero, insieme alla conquista di Roma.
"Bustoni di soldi a tutti, anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica, bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so' tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino, Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama, frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci, tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi, faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere, Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini (assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo pure...».
Il business dei migranti e l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da Massimo Carminati. Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il 15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr) entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29 Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica: l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5 però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al 2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni di euro».
Rapporti anche con Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale Nicola Zingaretti.
Buzzi: è vero, è vero se vince il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.
Guarany: e chi ci va più dal Sindaco poi..(...)
G: va bene, senti un po' Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?
B: con Ciarla?
G: eh
B: ma si fa una cena, famo un incontro.
G: no, no, ma io pensavo di vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.
B: esatto.
G: si, si, poi magari lo famo venì quando famo la cosa con Zingaretti.
S: esatto..
Tangenti a Patané. Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio 2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa .. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ... Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».
Altri agganci con il Pd. Nelle conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da “60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».
Primarie «inquinate». Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava: “non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.
Spunta anche il ministro Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.
C’è pure Bettini. Il 9 aprile 2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti (presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).
L’affare «verde». In una intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ... importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD, ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente per tutto il verde di Roma».
"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.
Minori come schiavi ai Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu “La Repubblica”.
Caporalato al servizio dei negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12 ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile. Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni. "Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno - racconta Flavio Massimo Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito. "Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio - È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3 gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono, "stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni, nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini", sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18 dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car. Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi" come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggredito i lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il grave episodio di settembre - osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì, ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio, solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi finiranno.
Il procuratore: "Fenomeno indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli, descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.
Procuratore, può dirci cosa sta succedendo?
"Polizia e Carabinieri svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia. Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del lavoro irregolare di adulti e minori".
Quando parla di sfruttamento fa riferimento al caporalato?
"Posso dirle che pensiamo che c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla partenza dal loro paese. Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre le ipotesi".
Chi sono i ragazzi che vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?
"Quando vengono fermati ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e vogliono...".
Ma queste strutture non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?
"Il loro dovere verso i ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".
Quindi vengono lasciati soli?
"Ci sono delle regole riguardo alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".
E all'interno del Car come funziona la sicurezza?
"E' un centro privato e quindi la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".
L'avvocato: "Manca una legge ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno. In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti restare nel centro di accoglienza altri tre anni.
Quale legge tutela i minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?
"Una legge al momento non esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile. Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".
I centri di accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in condizioni di sfruttamento)?
"I centri sono tenuti a controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire, c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro. Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".
Con l'aumento degli arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.
"I centri idealmente dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo, basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei ragazzi".
Dall'Egitto sognando di fare fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti, anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività, offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro, responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare, sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza, ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire" è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.
L'economia dello sfruttamento, scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì, perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali, che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma. Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8 ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente. Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil, "sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è "un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia - confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai fondi europei, per esempio.
Lo scandalo degli ipocriti. Il pozzo nero di Roma. Una Lega trema, un'altra vola, scrive Sandro Vacchi su “Economia Italiana”. E ci stupiamo? No, gente, qualcuno cade dalle nuvole, oppure finge di farlo, alle notizie sulla tratta di denaro, che a Roma soffiano tanto spesso quanto il Ponentino? Da Marziale a Plauto, e poi via via nei secoli, sino a Ennio Flaiano, è stata composta un'enciclopedia più ponderosa della Britannica a proposito dei vizi della capitale; anzi, della Capitale con la C maiuscola, come si picca ancora di scrivere orgoglioso qualche giornale capitolino, mentre la C, di maiuscolo, ha solamente la Corruzione. E torna inevitabile alle orecchie il vecchio "Roma ladrona, la Lega non perdona" di bossiana memoria, che risuonava nella notte fra la prima e la seconda repubblica. La sua attualità non è mai scemata. Anzi. Fingano pure di scoprire, Lor Signori, che il Palazzo è marcio dalle fondamenta; che il vero cancro del Paese non è Napoli, e nemmeno Palermo, e neppure la Calabria, ma la Città Eterna, che di eterno ha i monumenti, ma anche il cinismo, l'amoralità e il "fancazzismo" di torme di suoi abitanti e frequentatori. Tentino anche di insabbiare lo sterco, di nascondere cose inconfessabili, come fanno con le fruscianti banconote (570 mila euro!) murate nelle intercapedini di un'abitazione dei ladri. Si barcamenino finché vogliono per difendere i soci in affari attraverso i giornali amici, per salvare il salvabile, per dire "lui è più ladro di me", per sostenere che il mostro viene partorito adesso ma è stato concepito da altre giunte, da altri politici, da altri faccendieri, da altri cialtroni: "Il primo segno della corruzione dei costumi è il mettere al bando la verità. E la verità di oggi non è ciò che è, ma ciò che si fa credere agli altri" diceva Montaigne cinquecento anni prima di Buzzi e Carminati, Alemanno e Marino, la Metro C (altra C di Corruzione) e il grande affare dell'immigrazione, più o meno clandestina. «È tutto uno schifo!» commenta il premier Matteo Renzi, neanche fosse un pisquano qualsiasi al bar mentre sorbisce il caffè. Eh no! Lei è il presidente del Consiglio dei Ministri, anche se nessuno l'ha eletta, tutto teso a deprecare il populismo strisciante, e si abbandona a considerazioni di tale acutezza politica? Lei è quello che manda la fatina Maria Elena a dare del fascista a Matteo Salvini e non si accorge che da due anni quello sbraita contro il grande e sporco business dell'accoglienza, di Mare Nostrum e delle "zingarate"? Oppure, signor Renzi, finge anche lei di cadere dalle nuvole come una qualunque casalinga di Voghera, ma in realtà non aspettava di meglio per la resa dei conti nel suo partito allo sbando? Se un decimo di quanto è accaduto e sta accadendo nella Capitale Immorale fosse successo a Biella o a Trani, ad Aversa oppure a Ventimiglia, i consigli comunali sarebbero stati non sciolti e commissariati, ma rottamati, inceneriti e dispersi al vento. Ignazio Marino non c'entra, non c'era e se c'era dormiva? Non ha mai visto né sentito parlare di Salvatore Buzzi, nonostante un intero album fotografico dimostri il contrario? Intanto si dimetta, lasciando che l'inchiesta faccia il suo corso, e se non c'entra nulla, la magistratura gli darà senz'altro ragione: non è in fondo sempre così in Italia? O la sedicente sinistra osa nutrire qualche dubbio sulle capacità, l'indipendenza e l'onestà dei giudici, virtù che tanto esalta, invece, ogni qual volta le toghe colpiscono un nemico? Tanto per non far nomi, Silvio Berlusconi. I 5 Stelle sbugiardano da giorni il sindaco più falso di Pinocchio, il multato della Panda Rossa, l'allegro chirurgo che nulla sa ma tutto può. E Matteo Salvini, l'uomo che ha portato in una sola stagione la Lega Nord a scavalcare Forza Italia, prima ha liquidato la candida Boschi dandole del Cappuccetto Rosso che crede alle favole, e l'ha invitata a fare quelle riforme che da tempo promette, invece di sparare banalità, poi ha ricordato alcune opere di Miss PD e di Mister Ercolino Renzi, i quali hanno tolto fondi ai ciechi e ai disabili per dirottarli a non meglio identificati immigrati e varare una Legge di Stabilità che si traduce in tagli e ancora tasse. «Noi l'abbiamo combattuta e ci danno dei fascisti», sbotta il leghista. È l'eterna tiritera dei compagnucci della parrocchietta: chi non è come loro è fascista. «Io farei a cambio fra Putin e Renzi domani mattina» aggiunge Matteo Due, che è già ormai Uno e Mezzo, arrivato al punto di proporre come cura per Roma un sindaco leghista. Fino a poche settimane fa sarebbe stato come nominare Papa Francesco a capo degli integralisti islamici, ma in Italia, signori, la rivoluzione butta tutto all'aria in tempi rapidissimi. Sì, perché se non ce ne fossimo ancora accorti, viviamo in piena rivoluzione: dei costumi, della morale, della politica, dell'economia. Non mi dilungo in analisi, ognuno è in grado di riflettere sui fatti, basta che si guardi attorno. Soltanto una cosa, però: la disaffezione, il disincanto della gente, a che cosa sono dovuti? Non si va più a votare, e Renzi faccia altrettanto, se è vero che giudica tutto uno schifo. Oggi, se si tornasse alle urne, non ho la minima idea di quanti voti prenderebbe chi quello schifo lo denuncia da sempre, e che ancora non c'è finito dentro, ma immagino che sarebbero tanti e tanti ancora. Tutti fascisti, signorina Boschi? Allora lei ha proprio capito tutto dell'Italia e degli italiani. Guardi che a Striscia la notizia si sta liberando il posto di Velina bruna, potrebbe concorrere, ce la manderebbe anche Rosy Bindi, sua compagna di partito che tanto l'apprezza. Nel 1992 la giovane ministra era in quinta elementare, quando un certo Mario Chiesa del milanese Pio Albergo Trivulzio, ospizio (guarda la coincidenza!) fu sorpreso mentre cercava di liberarsi di sedici o diciassette milioni di lire buttandoli nel water. Spiccioli, ma di lì partirono Tangentopoli, Mani Pulite, la fine della prima repubblica e di tutti i partiti eccetto quello comunista che aveva da poco cambiato connotati, come un camaleonte, dopo l'abbattimento del Muro di Berlino e il fallimento davanti alla storia di un sistema che aveva dominato la Russia per settant'anni e l'Europa dell'Est per mezzo secolo. Gli eredi del PCI erano a mezzo passo dalla stanza dei bottoni anche in Italia, quando spuntò un grandissimo rompiscatole con il suo "partito di plastica": Silvio Berlusconi. Per la bellezza di un ventennio li ha stoppati, bloccati, inchiodati, facendoli schiumare rabbia e rendendoli incapaci di far altro che non fosse escogitare sistemi per farlo fuori. Sembravano il Vilcoyote con Bip Bip: patetici ogni anno che passava, invisi ai loro stessi adepti. Ci sono voluti un po' di tanga e di "cene eleganti" per mettere in soffitta il Grande Nemico ormai ottuagenario, ma il Partito si è consumato negli anni. E oggi sta morendo a sua volta: diviso, senz'anima, senza idee. E corrotto. Altroché la superiorità morale di cui cianciava Enrico Berlinguer! Questi sono ladri due volte, e peggio dei "destri": perché rubano ma continuano a sostenere, persino credendoci, di essere onesti. Domandina, compagni: credete davvero che gli italiani siano venuti giù con la piena del Bisagno? Credete che non vedano lo schifo (parole del vostro segretario Renzi) dovuto in primis all'ipocrisia che vi domina fin dalla nascita? E il risentimento e l'invidia che da sempre vi muovono contro il "ricco", l'autonomo, il professionista, per ciò stesso evasori, secondo la vostra vulgata demenziale? Vi stupite che la gente non vi voti più, che non vada più alle urne e che, semmai ci andasse, voterebbe per la Lega? Ma dove sono i vostri rinomati politologi, e sociologi? Legioni di studiosi dell'Istituto Gramsci, e di Nomisma, e del Cattaneo non vi hanno detto niente? Ohibò! Ma non eravate e non siete i migliori, i più intelligenti, i più acculturati, i più svegli a cogliere le occasioni? So io, e tanta gente, quali occasioni siete svelti a cogliere. E lo sa anche Standard & Poor's, agenzia di rating che in concomitanza con lo Scandalissimo ha declassato l'Italia da BB, che non significa Bed and Breakfast, a BBB, che vuol dire invece Bufale Belle e Buone. Quelle che gli amici degli amici si ingegnano a mettere insieme per dimostrare come il marcio romano sia Mafia e Destra, delinquenza comune ed ex picchiatori neri, e come la Sinistra de Noantri sia invece quasi una vittima, sfiorata appena dal venticello malefico. Sveglia! Almeno dai tempi di Giusva Fioravanti (strage di Bologna) il terrorismo nero dei "fasci" romani è sempre andato a braccetto con la delinquenza comune. Banda della Magliana, per intenderci. Oppure qualcuno pensava che i camerati capitolini fossero degli Yukio Mishima, samurai dell'onore e della patria? Ma va'! Chi ha amministrato Roma, però, per decenni? Partiamo da una quarantina di anni fa, ma si potrebbe arretrare quasi a Romolo e Remo. Lo storico dell'arte Carlo Giulio Argan regge Roma dal 1976 al '79: era del PCI. Tocca poi a Petroselli, e dopo a Vetere, entrambi a capo di giunte rosse. Signorello resta in carica fino all''88, con una giunta democristiana, seguito da Giubilo, Barbato e Carraro, stesso colore. Comincia il bello degli anni nostri. Rutelli governa dal 1993 al 2001, Veltroni dal 2001 al 2008, Marino è in carica e ci è andato nel 2013. Fra lui e Veltroni, dal 2008 al 2013, c'è stato Gianni Alemanno, marito di Isabella Rauti, anche lei più nera che non si può, figlia di Pino Rauti. Comunque, cinque anni in tutto per il camerata messo in Campidoglio con uno scandalo almeno pari a quello di Giorgio Guazzaloca a Bologna dopo decenni di amministrazioni rosse. Vabbè, d'altronde Veltroni non era comunista, sosteneva: unico caso di non comunista già a capo dei giovani del PCI. Chissà, forse era un infiltrato dei suoi amatissimi Kennedy, io propendo più per l'ipocrisia di partito.
Possibile che tutto l'ambaradan di questi giorni qualcuno crede che possa averlo montato un uomo solo in così poco tempo? "'A Mandrake!" commenterebbero i romani. Il PD si è reso conto che più di tanto non poteva darla a bere agli elettori (quelli rimasti), così si sono "autosospesi" tre consiglieri: Daniele Ozzimo, Mirko Coratti ed Eugenio Patanè. E tutti a lodarne la lealtà democratica, mentre non è che una mossa per far piazza pulita nelle correnti antirenziane e blindare un sindaco, Marino, che più sputtanato non si può, paradossalmente salvato proprio dallo Scandalissimo. Comunque, gli antirenziani del Lazio adesso rosicano, e il fiorentino fa l'indignato, lontano com'era dagli affaracci del Mondo di Mezzo. La parola d'ordine, certo non palese, ma ovvia, è "Non ne so niente, non li conosco". Chi mai volete che conoscesse Salvatore Buzzi, piddino con tanto di tessera, da anni sulla breccia dopo essersi fatto un bel periodo dietro le sbarre condannato per omicidio? Omicidio, non furto di carrube! Era lui l'anello di congiunzione tra i neri (delinquenti per definizione) e i rossi (delinquenti per aspirazione) amministratori della cosa pubblica. E a nessuno che sia venuto in mente di chiedergli un curriculum, al factotum della cooperativa 29 Giugno? Al galantuomo che assicurava che con gli immigrati e gli zingari (lui li chiama così, madame Boldrini, se ne faccia una ragione) c'è da guadagnare più che con la droga? Eh sì, perché gestire immigrati rende cinquecento milioni l'anno, come a dire mille miliardi di vecchie lirucce. Capito, adesso, perché le nostre (beh, mica tanto nostre) città pullulano di questa gente, Roma in particolare? Facendo la cresta su pasti, schede telefoniche e annessi e connessi, sembra che per ogni immigrato adulto gli intermediari intaschino dieci euro sui trentacinque messi a disposizione dallo Stato, cioè da noi. Se l'"assistito" è minorenne, mamma Italia tira fuori una novantina di euro, e la cresta diventa un cappello piumato, una feluca. Soltanto in quest'anno che non è ancora finito sono sbarcati, da Lampedusa in su, la bellezza di 140 mila migranti, profughi, clandestini che dir si voglia. Sono stati finora più di 2.500 i poveracci toccati a Roma quest'anno: dieci volte più del dovuto, come rivela in un'intercettazione Luca Odevaine, già collaboratore di Walter Veltroni. E 35 milioni abbondanti di euro se ne sono andati finora, nel 2014, per i centri profughi e l'assistenza dei richiedenti asilo sbarcati a Roma. Per i minori immigrati in riva al biondo Tevere si sono spesi in dieci mesi 831 mila euro, e altri 274 mila per assistere gli immigrati disabili. Nello stesso tempo sono stati tagliati i fondi per i disabili italiani, detto per inciso. In pochissimi anni la cooperativa di Buzzi associata alla Lega è balzata da un fatturato irrisorio a quaranta milioni di euro. «Gli utili li facciamo sugli zingari, sull'emergenza abitativa e sugli immigrati» ha spiegato il grande capo, come lo chiamava nelle mail Micaela Campana, responsabile welfare del PD e già compagna di Ozzimo, la quale gli mandava anche tanti baci. Milioni di italiani gli stanno mandando altri tipi di omaggi, con tutto il cuore. E questa gente non saprebbe niente, se c'era dormiva, non ha mai incontrato Buzzi e continua a raccontare la barzelletta della superiorità morale del Partitone? E a negare l'evidenza, come Marino davanti alle fotografie sbandierate dai grillini che lo ritraggono col manovratore del grande ladrocinio? Ma per piacere! Facile tirare in ballo la teppaglia nera dei Massimo Carminati e affini, come l'addetto al "recupero crediti" che minacciava di spezzare i pollici ai cattivi pagatori. Facile scovare la marmaglia che fa ritrovare in un attimo i quattro milioni di euro rubati in casa al cantante Gigi D'Alessio: e tanti complimenti per i gorgheggi, viene da dire. Facile scoprire la burinaggine mafiosa di chi promette protezione al calciatore della Roma, Daniele De Rossi, disturbato al night. E qui ci si attacca subito alla storia altrettanto fresca della ex moglie arrestata per estorsione e minacce di morte a un imprenditore non meglio definito; signora che, peraltro, è figlia di un malavitoso ammazzato anni fa sempre per storie di usura. Ma c'è qualche scemo, o cieco con il prosciutto dell'ideologia sugli occhi, che possa pensare che un Comune rosso da sempre come quello di Roma, se si esclude il quinquennio di Alemanno, possa essere guidato e controllato dai "fasci", dai Nar, dai malavitosi coatti delle periferie? E in Campidoglio le povere innocenti creature della Razza Superiore che cosa facevano? Forse intascavano 117 mila euro come Odevaine, sua moglie e suo figlio. Da chi? Non c'è mica più l'oro del Cremlino. È che qui il superbusiness riguarda maneggioni e ladri di diverso colore, ma di pari delinquenza. Eppure il Partito da un lato nega (Marino), dall'altro si libera di gente non gradita (Renzi) e dal terzo lato nasconde (Bianca Berlinguer ha infilato in fondo alla scaletta del suo TG3 lo scandalo romano appena è emerso il coinvolgimento della Chiesa di cui suo padre fu venerato segretario). E mentre il PD romano viene commissariato, ma il Comune no - per carità, non possiamo mica sputtanarci del tutto! - l'ineffabile Buzzi apre le cateratte e rivela di aver dato soldi a tutti, addirittura a quel vecchio comunistone di Armando Cossutta, un santo per il PCI dei tempi di Togliatti, uno che prendeva ordini direttamente da Mosca e li girava a Roma. Fuochi d'artificio degli indignati, minacce di querele. Ma la declamata onestà va a farsi benedire, perché nell'epoca del web e dei social-network spuntano le fotografie dell'eurodeputata Simona Bonafè accanto all'onnipresente Buzzi prima delle elezioni europee; e quella che ha mandato in bambola l'ex presidente nazionale della Lega delle cooperative, quindi capo del Buzzi stesso, Giuliano Poletti, oggi ministro del Lavoro, seduto a una tavolata di rossi, neri e delinquenti. Gli è venuto un mezzo coccolone, s'è indignato a morte, la candida frangetta gli si è tutta scompigliata e il faccione intristito. Spiega l'ex assessore della giunta di Gianni Alemanno, Umberto Croppi, che quella foto del 2010 fu scattata durante una "magnata" organizzata dal Comune di Roma per procurare una trentina di milioni di euro alle cooperative, comprese quelle sociali. Insomma, per foraggiare le coop rosse da parte dell'amministrazione nera di quegli anni, visto che il Campidoglio era a secco. «Ci si inventò un meccanismo per cui i soldi alle coop venivano anticipati dalle banche con la formula del "pro soluto", con cui il Comune si faceva garante del debito e lo rifondeva con gli interessi». Lo dice Croppi, ex, neo, parafascista in affari con l'ex, vetero, paracomunista Giuliano Poletti da Imola. Domanda: vi risulta che qualche impresa privata, non cooperativa, goda normalmente di simili agevolazioni? Poi hanno il coraggio di dire che non esistono corsie preferenziali per le coop, che sarebbero imprese sociali, in affari per fratellanza e scopi umanitari. Pensate a cosa deve succedere in Emilia-Romagna, dove non si muove foglia che le coop non vogliano; e che cosa poteva accadere a Roma prima e dopo la parentesi nera di Alemanno, all'epoca della quale fu scattata la foto degli allegri mangioni. E siamo ad Alemanno, sbattuto di nuovo e giustamente in prima posizione dal TG3 appena è saltato fuori che avrebbe portato in Argentina dei bei valigioni imbottiti di soldi. Buenos Aires, "buen retiro" da settant'anni di nazifascisti di ogni risma, dai gerarchi di Hitler, agli sterminatori dei lager, al Giovanni Ventura sospettato della strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano, continuerebbe dunque a essere rifugio sicuro anche dei fascisti di oggi, o almeno dei loro quattrini. E poi qualcuno si stupisce che gli italiani, poveracci, continuino a dire che i politici sono tutti uguali? E che le elezioni siano sempre più considerate Cosa Loro? E che il populismo dilaghi? Qui è pieno di gentaglia che incamera denaro a palate sulla pelle di poveri cristi sui quali piovono lacrime ipocrite di giornali e istituzioni. Ma, soprattutto, si arricchisce sulla pelle degli italiani che dovrebbe tutelare e aiutare per primi, e che invece manda alla rovina. Qualcuno si stupisce ancora che, per una Legacoop travolta dal ciclone dello scandalo, ci sia un'altra Lega che prende il volo nelle preferenze degli italiani? Non deve far niente: semplicemente aspettare che i Migliori e i Peggiori, alleati fra loro nel Mondo di Mezzo per taglieggiare, rapinare e scippare chi sta sotto, continuino a farlo. E tanti auguri all'Italia, la solita Italia sputtanata a morte davanti a quell'Europa che non gliene perdona una. Figuriamoci questa.
COOP ROSSE...DI VERGOGNA!
Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibsnews”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.
Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
Tutti gli scandali del sistema di potere sinistro in Emilia Romagna, scrive “Il Fazioso”. Regioni Rosse, queste sconosciute… Dove tutto (politica, economia, giustizia ecc) ha un obiettivo comune: favorire gli interessi della sinistra. Toghe che archiviano in continuazione procedimenti per speculazioni colossali per favorire le casse del partito, sui dipendenti del partito assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps, sui finanziamenti illeciti ai partiti di sinistra, sullo scandalo Coopservice (la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop). Ma anche parcelle milionarie a un solo studio legale, esterno all’amministrazione. Parcelle che tra l’altro oltre a essere spropositate riguardano procedimenti per i quali si poteva agire in modo diverso e che hanno provocato un danno erariale enorme. Insomma una nazione a parte dove tutto si fa in favore della sinistra di nascosto, con la complicità di giudizi, professionisti e dell’economia locale…
Il Pdl denuncia: col governo Errani parcelle milionarie a uno studio legale, scrive “Il Giornale”. La regione Emilia Romagna dispone di un corposo ufficio legale con decine di dipendenti, tuttavia preferisce spendere fior di quattrini in consulenze esterne. In particolare, c'è una colossale parcella di 3.262.139 euro versata a un unico studio legale esterno all'amministrazione nell'arco dei dieci anni in cui è stato governatore Vasco Errani. Lo denunciano il deputato Pdl Enzo Raisi e il consigliere Alberto Vecchi che dopo mesi di insistenze hanno ricevuto dalla regione una corposa documentazione. Due faldoni molto voluminosi «in cui appare sempre lo stesso nome, destinatario di un elenco di oltre duemila pagamenti per altrettante cause sostenute in difesa della regione». Il contenzioso riguarda i destinatari di trattamenti di invalidità civile. «La vicina regione Toscana - spiega Raisi - dopo i primi interventi non si è più costituita in giudizio, risparmiando sulle parcelle e coprendo le spese legali se soccombente. Ma in Emilia non hanno tanto a cuore i soldi dei loro contribuenti. Oltre ai tre milioni abbondanti di euro già versati, che presto saliranno a cinque, hanno pagato il 50 per cento delle spese legali se soccombenti in giudizio. Un danno erariale enorme». Per denunciare questo spreco di risorse pubbliche il parlamentare e il consigliere regionale hanno presentato un esposto alla Corte dei conti. Non è semplicemente una questione di soldi. «Bisogna puntare l'attenzione sull'operato della Direzione generale centrale Affari istituzionali e legislativi - dicono Raisi e Vecchi - sulla quale presentammo una denuncia penale già quattro anni fa. Anche allora emerse una strana gestione delle consulenze, oltre quattro milioni di euro destinati a parenti di funzionari interni. L'esposto fu archiviato con insolita rapidità, ora lo riproporremo». Per inciso, capo della procura di Bologna era il dottor Enrico Di Nicola che adesso, da pensionato, oltre a partecipare a convegni promossi da Pd e Idv, ha ricevuto una consulenza proprio da quella Direzione centrale («un incarico di prestazione d'opera intellettuale per l'elaborazione di uno studio di fattibilità finalizzato all'analisi e al monitoraggio della criminalità economica e mafiosa nella regione Emilia Romagna»). Gli uffici regionali riconoscono che si tratta di «dati aggregati cospicui», ma che tutto dipende dagli effetti della legge Bassanini che scaricò sulle regioni l'onere di attribuire gli assegni di invalidità. La Bassanini però non imponeva di utilizzare la consulenza di studi legali esterni, ai quali invece l'amministrazione Errani ha fatto abbondante ricorso considerata «l'enorme mole delle cause».
In Emilia sentenze creative salva-compagni. Dalle speculazioni per le casse del partito allo scandalo Coopservice: ogni volta che politici e dirigenti rossi finiscono nel mirino le toghe romagnole archiviano tutto. D’Alema fu coinvolto per i finanziamenti illeciti: niente di fatto perché poteva non sapere, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. In questo mondo di regole violate ed eccezioni benedette, c’è un rito che sopravvive a se stesso. È il rito giudiziario emiliano-romagnolo. Una particolare versione dei codici legislativi applicata nella regione più rossa d’Europa agli amministratori pubblici di sinistra. Un’interpretazione non scritta ma assai più in voga di quella autentica, una giurisprudenza «creativa» e a senso unico, impensabile fuori dai confini della regione governata da Vasco Errani dove gli intrecci fra partiti, cooperative rosse, enti pubblici avviluppano anche chi deve amministrare la giustizia. È successo, per esempio, che terreni agricoli acquistati per quattro soldi da prestanomi del Pci-Pds-Ds siano poi stati trasformati dalle amministrazioni rosse in aree commerciali o residenziali con una cubatura moltiplicata a dismisura e guadagni adeguati. Speculazioni colossali per finanziare le bisognose casse del partito. In uno di questi casi (la compravendita dell’area del Campazzo tra Modena e Nonantola) ci furono denunce e processi. Sindaco e assessore furono assolti con una motivazione che lascia di sasso: «La manovra speculativa su aree fabbricabili attuata da un partito politico (indirettamente attraverso l’interposizione di un soggetto economico) alla stregua di privati proprietari può porsi a un severo giudizio di moralità pubblica» ma «non necessariamente implica comportamenti individuali penalmente sanzionati». Speculare per il partito è lecito. Quando la Cassazione le fece a pezzi, la sentenza era ormai prescritta. Altro caso. Negli anni Novanta una legge vietò ai dipendenti dei partiti diventati amministratori pubblici di raddoppiare le indennità di carica e lasciò a carico del partito il versamento dei contributi previdenziali. Una scoppola per i funzionari del Pci-Pds che facevano i sindaci o i consiglieri. Ma la grande famiglia rossa sistemò tutto: i dipendenti del partito furono assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa (per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps). Scattarono denunce in tutta Italia. In Emilia Romagna furono indagati 66 amministratori rossi. A Vercelli l’ex sindaco socialista Fulvio Bodo fu condannato a un anno e otto mesi per l’assunzione fittizia; in Emilia tutti assolti: per il gip di Modena «l’assunzione corrispondeva a una opzione professionale» in base a «lodevoli ragioni di opportunità politica». Negli anni di Tangentopoli Nino Tagliavini, manager reggiano presidente del colosso cooperativo Unieco, raccontò di aver portato 370 milioni di lire non dichiarati a Botteghe Oscure e messi in mano del tesoriere Marcello Stefanini. Massimo D’Alema fu raggiunto da un invito a comparire per finanziamento illecito come si usava a quel tempo. Ma il futuro premier fu prosciolto. Tagliavini rivelò di aver partecipato a una riunione con molti presidenti di coop in cui D’Alema fece loro presente i problemi finanziari del partito avvertendo che Stefanini li avrebbe chiamati. Ma per il gip di Reggio Emilia «una richiesta di aiuto finanziario non costituirebbe determinazione o istigazione a commettere falsi in bilancio». Quindi l’allora segretario conosceva e controllava la situazione finanziaria del partito, ma non ha responsabilità nel finanziamento illecito. A differenza che nel resto d’Italia, in Emilia Romagna un capo di partito poteva non sapere. Più recente è lo scandalo Coopservice. In vista della quotazione in Borsa di una società controllata (Servizi Italia), la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop. Nonostante un rapporto della Guardia di finanza segnalasse 46 nomi, il procuratore capo di Reggio indagò soltanto i due personaggi di vertice. Egli riconobbe il marcio nell’operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone», un tradimento pieno dello spirito cooperativo e delle leggi che lo regolano (più favorevoli rispetto alla normativa sulle spa). Tuttavia il Pm ha chiesto l’archiviazione per i due indagati: «Si può parlare di insider trading solo se le società è già stata ammessa alla quotazione in Borsa». Il trionfo del «rito emiliano».
Coop, affari da compagni. Emilia: dal crac di Argenta al caso Errani, scrive Francesco Mura su “Lettera 43”. La vicenda giudiziaria che ha coinvolto il governatore dell'Emilia Romagna, Vasco Errani, accusato di falso ideologico per aver favorito, attraverso un mutuo regionale, il fratello Giovanni - presidente della cooperativa agricola Terremerse - ha aperto un nuovo squarcio sul fianco cooperativistico emiliano romagnolo e non solo. Il presidente si è difeso e ha urlato al mondo intero la sua onestà, il partito si è schierato prontamente intorno all'uomo di punta convinto della sua assoluta innocenza, ma la vicenda ha rinfocolato la polemica, che dura ormai da decenni, sull'asse tra le cooperative emiliano romagnole, conosciute come “coop rosse” e Partito democratico (Pd). Un potere trasversale che detta le regole, soprattutto economiche. In Emilia, Legacoop può contare su oltre 1500 unità, quasi 3 milioni di soci, 145 mila lavoratori e un fatturato che sfiora i 50 miliardi di euro. Solo nella regione, le coop si aggiudicano un appalto ogni quattro e controllano quasi il 70% della grande distribuzione alimentare. Una vera e propria anomalia nel mondo dell'impresa, un intreccio tra economia e politica che garantisce poltrone che contano, un elettorato fedele ma, a volte, qualche guaio. Nel settore non sono mancati, infatti, scandali, bancarotte e intrecci mafiosi. Come nel caso della defunta Coopcostruttori di Argenta. Fallita in un mare di debiti nel 2002, l’ammiraglia di Legacoop è finita sotto inchiesta insieme con il presidente e ad alcuni suoi collaboratori con l'accusa di fare affari con la camorra campana, compresa quella casertana dei Casalesi. Un crac miliardario i cui numeri fanno venire i brividi anche a distanza di anni: 198 milioni di debiti verso i cosiddetti creditori privilegiati, ovvero i lavoratori, le banche e i professionisti; 137 milioni di fatture inevase e 63 milioni di cambiali accumulate nei confronti di migliaia di ditte, artigiani, fornitori; 80 milioni di euro i debiti dei 300 soci sovventori e prestatori. In tutto, 9 mila persone sono finite sulla strada. Vecchie storie, si potrebbe obiettare, se non fosse che sono legate a doppia mandata con le vicende dei nostri giorni. Storie di finanziamenti facili, appalti e tangenti delle quali la vicenda che ha coinvolto Vasco Errani, ancora tutta da provare, non è altro che la punta dell’iceberg. Che unisce, ancora una volta, l’asse Legacoop-Pci-Pds-Pd. Un’alleanza di ferro che ha resistito al tempo e alle inchieste, dal caso Unipol-Bnl fino a Terremerse. «Sebbene siano vicende diverse», ha fatto sapere Alberto Vecchi, consigliere regionale e coordinatore provinciale del Popolo della libertà (Pdl), l'episodio che ha coinvolto Errani è la dimostrazione che le cooperative rosse gestiscono a loro piacimento il mercato e si accalappiano gran parte degli appalti». Non da oggi, naturalmente. Non bisogna dimenticarsi, infatti, che l’intreccio tra cooperative rosse e il Partito democratico della sinistra (Pds) venne alla luce già nel 1993, nella stagione di Tangentopoli. Allora, il pool di Mani pulite non riuscì a dimostrare che le tangenti finite nei conti del 'compagno G', all’anagrafe Primo Greganti, fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti pubblici. Non solo. Dagli interrogatori di Bruno Binasco, allora amministratore delegato della Itinera, risulta che quando Antonio Di Pietro gli chiese se era sicuro di non avere mai versato soldi al Partito comunista, lui rispose semplicemente che i rapporti col Pci prima e con il Pds poi erano mediati attraverso quattro grandi consorzi di cooperative: Ccpl di Reggio Emilia, Cmb di Carpi, Ccc di Bologna e Coopcostruttori di Argenta. Un caso anche questo? A distanza di quasi 20 anni dal “compagno G”, a confermare l’asse Coop-Pd e chiamare in causa alcune cooperative dell’Emilia Romagna, ci ha pensato il “compagno P”, all’anagrafe Filippo Penati. Una carriera folgorante e ricca di soddisfazioni quella di Penati, che prima di accomodarsi sulla poltrona di vice presidente del Consiglio regionale lombardo è stato sindaco di Sesto San Giovanni dal 1994 al 2001, segretario della federazione provinciale milanese dal 2001 al 2004 e presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Fino alle dimissioni e al suo recente De Profundis politico. Anche le vicende legate a Penati, accusato di aver agevolato imprenditori edili e del campo dei trasporti, conducono tutte alle Cooperative rosse dell’Emilia Romagna. Dalle rivelazioni dell’imprenditore Giuseppe Pasini, oltre alle tangenti pagate ai politici democratici, è venuta alla luce anche una pista che porta direttamente al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il Consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita Legacoop. Non solo.
Pasini ha assicurato che circa 2 milioni e 400 mila euro sarebbero stati versati dallo stesso ad altre due cooperative che gli inquirenti identificano nella Fingest di Modena e nella Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza. Intrecci complessi, di fronte alle quali la vicenda che ha coinvolto Vasco Errani è veramente poca cosa. La sua storia sembra assolutamente diversa dalle precedenti e non ha nulla a che vedere con i grossi scandali delle Coop o con le cosche mafiose. Ma di certo, se venisse provata, sarebbe la prova che il tempo, gli scandali e gli arresti avvenuti negli anni non hanno minimamente scalfito l’asse di ferro tra gli ex Pci, ex Pds ora Pd e le cooperative.
Toh, Poletti s'accorge delle coop fuorilegge. Il ministro del Lavoro, ex capo di Legacoop, ammette alla Camera che nel 2014 sei imprese su dieci sono risultate irregolari ai controlli, scrive Francesca Angeli su “Il Giornale”. «Irregolari». Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, finalmente fulminato sulla via di Damasco, scopre l'acqua calda ovvero che nella maggioranza delle cooperative si lavora in nero e la gestione del lavoro non è trasparente. È il deputato leghista Emanuele Prataviera, a rendere note le dichiarazioni del responsabile del dicastero di via Veneto che è stato ascoltato ieri in audizione dalla commissione Lavoro di Montecitorio. Prataviera ha pubblicato uno stralcio del resoconto delle dichiarazioni di Poletti. «Su circa 5.000 cooperative verificate circa 3.200, pari al 64 per cento, sono risultate irregolari. In particolare sono stati rilevati: circa 7.200 di lavoratori irregolari di cui più di mille in nero e oltre 3.300 casi di somministrazione». Affermazioni nuove per l'ex presidente della Legacoop che ha sempre continuato a difendere questo mondo anche dopo l'esplosione dello scandalo di Mafia Capitale. La tesi sua e di tutto il mondo che ruota intorno alle cooperative rosse, che hanno il loro fulcro in Emilia Romagna, è sempre stata quella della mela marcia. Anzi dopo la pubblicazione della foto del ministro, allora ancora presidente di Legacoop, seduto accanto a Buzzi nel 2010, l'autodifesa di Poletti e delle coop si è condita di pesante indignazione. Quella foto non significa nulla, hanno protestato le cooperative. In effetti Poletti non è coinvolto in alcun modo nell'inchiesta, non è indagato e dunque nonostante fossero molti i politici che ritenevano opportune le sue dimissioni o che chiedevano almeno dei chiarimenti sui rapporti la questione si è chiusa così: normale che Poletti come presidente della Legacoop si trovasse a quella cena. Normale anche che in tutti gli anni della sua gestione non avesse mai rilevato niente di irregolare nella complicata rete costruita da Buzzi grazie alle tante complicità? Per la Lega non tanto normale. E per la verità anche per molti iscritti al Pd, Rosy Bindi, ad esempio, che all'indomani dell'esplosione dello scandalo ha ripetutamente chiesto conto a Poletti di quella cena e di quei rapporti. Adesso la Lega riparte all'attacco perché il problema non si limiterebbe alla gestione criminale di personaggi come Buzzi ma a condizioni di illegalità diffusa come quella del lavoro in nero. I controlli, sottolinea il leghista, sono stati eseguiti nel 2014 e confermano una realtà assai poco limpida, una galassia mai monitorata fino in fondo che ha agito come un mondo a parte e nella quale sono potuti fioriti fenomeni aberranti come quello delle cooperative gestite da Salvatore Buzzi senza che nessuno intervenisse. «Il sistema cooperativo è inquinato. Il dato sulle irregolarità è sconvolgente - accusa Prataviera -. Molte coop hanno rapporti border line con vere e proprie associazioni criminali e che molto spesso operano speculazioni sui soggetti più deboli e bisognosi». Per Prataviera la spiegazione è semplice. «Il settore è marcio per troppi anni ha goduto di protezioni politiche da parte di certa sinistra - prosegue il leghista -. Ora la situazione è degenerata. Nel mondo delle coop ci sono troppe metastasi è chiaro che va riformato e che i privilegi anche fiscali di cui ha goduto per decenni si sono rivelati pericolosi incentivi a delinquere». Nelle irregolarità finalmente «scoperte» da Poletti non c'è sicuramente soltanto la questione fiscale ma anche quella dell'inquadramento dei soci dipendenti che, grazie allo status privilegiato delle coop, non godono di tutte le tutele previste dalla legge e possono subire in alcuni casi iniqui trattamenti salariali. E tutto questo proprio sotto gli occhi di chi dovrebbe vigilare ovvero sempre Poletti questa volta nel ruolo di ministro del Lavoro.
Scandalo Coop rosse: si paga per lavorare. Dipendenti costretti a versare 4000 euro per essere assunti da una cooperativa, scrive Giorgio Mottola “Il Corriere della Sera”. Quanto sareste disposti a pagare per avere un lavoro da seicento euro al mese? Non serve arrovellarsi troppo, una cooperativa sociale di Padova ha stabilito la cifra congrua: 4000 euro. Questa è la somma che la Codess, membro della Legacoop sociali, chiede ai propri dipendenti neoassunti. Che, almeno sulla carta, sono molto più che semplici dipendenti. In molti casi, la Codess preferisce infatti che i propri lavoratori divengano automaticamente soci della cooperativa. Anzi, «è la condicio sine qua non per essere assunti», spiega Chiara, che per poco più di 600 euro al mese, fino a poche settimane fa, lavorava come educatrice in un asilo nido pubblico di Modena gestito dalla coop padovana. Ed è diventando soci che il posto di lavoro diventa particolarmente “caro”. A prescindere dall’ammontare dello stipendio, che mediamente si aggira tra i 600 e i 1200 euro al mese, un socio lavoratore deve sborsare innanzitutto 3000 euro per comprare la propria quota sociale (molto salata rispetto a quanto chiedono le altre cooperative), soldi che vengono restituiti solo nel caso in cui il contratto di lavoro venga rescisso e il socio chieda di riavere indietro il proprio denaro. Altri 1000 euro devono invece essere versati alla Codess a fondo perduto (quindi senza possibilità di poterli mai rivedere), a titolo di tassa di ammissione soci. Niente paura, però, i 4000 mila euro non bisogna consegnarli subito e in contanti. La cooperativa li scala in piccole e comode rate mensili dalla busta paga. Non parliamo di piccole cifre. La Codess ha infatti circa 3000 dipendenti di cui oltre l’80 per cento è anche socio. In questi anni la cooperativa è cresciuta molto, diventando una tra le più grandi nel settore sociale, capace di aggiudicarsi appalti pubblici in tutta l’Italia centro settentrionale, dal Veneto al Piemonte, passando per l’Emilia Romagna e la Toscana. Lo scorso anno è riuscita a raggiungere un fatturato che supera gli 85 milioni di euro con un utile di 250 mila euro. Ma non è tutto oro quello luccica, ci tengono a sottolineare i vertici di Codess, che in passato hanno fatto parte del direttivo regionale di Legacoop in Veneto: le amministrazioni locali pagano con molto ritardo e per questo la società è “costretta” a chiedere i soldi ai propri dipendenti, è la spiegazione che ci hanno fornito nella nota scritta che ci hanno inviato. Ai soci lavoratori di Modena il “prelievo” dalla busta paga non è andato giù. Tramite la Cgil modenese, hanno contestato i mille euro della tassa di ammissione soci e, dopo una lunga trattativa, la Codess ha preferito restituire i soldi ai dipendenti, evitando un processo davanti a un giudice. Quello emiliano è tuttavia l’unico caso di restituzione della tassa in Italia. Il prelievo sulla busta paga degli altri lavoratori della Codess, per ora, continua.
Cooperative Rosse: cosa sono e perché sono sempre meno sociali? Si chiede Kati Irrente su “Nano Press”. Con l’ultimo scandalo che riguarda una cooperativa sociale di Padova, per entrare nella quale i suoi dipendenti devono versare una somma di 4.000 euro, tornano alla ribalta le cosiddette Cooperative Rosse, società costituite per gestire in comune un’impresa. Il mondo delle coop rosse è cresciuto nel Dopoguerra per volere del Pci, che ne teneva le redini attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa (come Confindustria), che si è invece rivelata esere una sorta di holding attraverso la quale la politica sceglieva strategie e manager. Ma cosa sono le Coop Rosse, nello specifico? Le cooperative nascono in origine per tutelare gli interessi dei soci, siano essi consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali. In teoria, è bene dirlo, alla base del sistema cooperativo ci sono dunque i principi di mutualità, solidarietà, democrazia. Il fatto che il sistema delle Cooperative sia da lungo tempo al centro di critiche e di polemiche deve fare riflettere. Difatti, con il passare del tempo, le cooperative sociali si sono trasformate in un meccanismo sempre meno sociale, rivolto piuttosto al profitto, al pari di una qualsiasi impresa privata, o di una banca. E a questo punto ci si chiede per quale motivo le cooperative non siano oggetto degli stessi controlli rivolti alle aziende private o agli Istituti bancari. Perchè le cooperative sono sempre meno sociali? Nel mirino c’è la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, talora abbreviata in Lega delle Cooperative o Legacoop, ovvero l’associazione di tutela e rappresentanza delle cooperative ad essa aderenti. Il motivo principale delle critiche verso le coop risiede nel fatto che esse godono di agevolazioni fiscali notevoli rispetto alle normali imprese. Queste agevolazioni vengono riconosciute perché le Cooperative si dichiarano essere senza scopo di lucro e dimostrano di avere scopo mutualistico. Quella che però sembra venire alla luce in questi ultimi anni è una prassi diversa: sebbene molti soci affermino che è normale pagare una cifra (talvolta anche molto alta) per associarsi, il vero problema risiede altrove, ad esempio nei contributi versati al 50%, nella non retribuzione delle ore di malattia, nella gestione non sempre corretta dei giorni sottratti al lavoro a causa di infortuni, e poi le retribuzioni orarie più basse, le 48 ore settimanali di lavoro obbligatorie contemplate dal regolamento di alcune coop, o il pagamento degli stipendi posticipati a 90 giorni. La domanda che sorge naturale a questo punto è: chi comanda le Cooperative? L’assemblea dei soci lavoratori o soltanto alcuni dirigenti? In definitiva, queste aziende mutualistiche (ma solo sulla carta), sono davvero senza scopo di lucro, o servono ad arricchire qualcuno? Dai dati ufficiali del 2009 elaborati dal Centro Studi Legacoop, le cooperative aderenti sono oltre 15000, con otto milioni e mezzo di soci, e sviluppano un fatturato attorno ai 56 miliardi di euro, dando occupazione ad oltre 485.000 persone. Gli scandali più eclatanti. L’ultimo scandalo in ordine di tempo ha coinvolto la Codess, membro della Legacoop sociali, che di norma chiede ai propri dipendenti neoassunti la cifra di 4.000 euro per divenire soci della cooperativa. Il tutto per un lavoro retribuito dai 600 ai 1.200 euro al mese. Inoltre 1000 euro devono essere versati alla Codess a fondo perduto, a titolo di tassa di ammissione soci. Qualche anno fa, invece, la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata costituì, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. Ed è proprio in Emilia Romagna, patria del Pd, e sede anche della Unipol, che l’attività della Legacoop ha il suo fulcro. Ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, facente parte della Legacoop, è naufragata nei debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l’accusa di fare affari col clan dei Casalesi. A Milano, l’affaire EXPO ha evidenziato il ruolo giocato dalle cooperative rosse. Si guardi al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d’asta e utilizzazione di segreti d’ufficio.
La grande torta delle coop rosse tra scandali e soldi dagli amici. La galassia delle aziende legate al Pd è finita spesso nel mirino dei pm per tangenti e appalti sospetti. Ma con le imprese di sinistra le procure chiudono un occhio, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Quasi mezzo milione di occupati e un giro di affari globale vicino ai 60 miliardi di euro». Si presenta così, sotto il titolo «Come coniugare etica e affari», la Legacoop, casa madre di tutte le coop rosse, un sistema di 15mila imprese che fanno affari da nord a sud e in tutti i settori: edilizia, grande distribuzione, servizi, assicurazioni, banche. Una galassia da sempre parallela al partito - prima Pci, poi Ds, ora Pd - con intrecci di vario tipo: nomine, travaso di dirigenti (che diventano sindaci o anche ministri, come il renziano Poletti ex capo di Legacoop), favori, appalti da amministrazioni amiche. Etica e business, ma ogni tanto, e nemmeno raramente, qualche scandalo. Quando scoppia il bubbone, di quelli grossi, scavi e ci trovi dentro una coop. Nel giro di mazzette attorno all'Expo ecco spuntare Manutencoop, colosso bolognese da 1 miliardo di euro l'anno di fatturato (per il 60% arriva dal pubblico), guidato da sempre dall'ex Pci Claudio Levorato, indagato dalla Procura milanese come presunta sponda a sinistra della cricca. Levorato era finito già nei guai a Brindisi, l'estate scorsa, anche lì per una storia di appalti (la Manutencoop si occupa di pulizia), stavolta alla Asl della città pugliese dove «negli anni la cooperativa emiliana di area Ds - scrive la Gazzetta del Mezzogiorno - ha preso 70 milioni di appalti». Quando si scoprono le magagne il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista ad oltranza (vedi Bersani sul Fatto: «Se la magistratura accerta reati trarremo le conseguenze...»). Eppure i buchi neri del sistema sono frequenti, anche se spesso le Procure archiviano. Qualche anno fa la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata ha costituito, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. La Guardia di Finanza ha scoperto tutto e segnalato 46 nomi alla Procura di Reggio Emilia, che ne ha indagati due, riconoscendo la finalità dell'operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone». Condannati? No, perché poi il pm ha chiesto l'archiviazione. Coop rosse anche nel «sistema Sesto», quello che ruotava attorno a Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, capo del Pd lombardo ed ex braccio destro di Bersani. Lì la coop rossa in questione è il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, che avrebbe imposto consulenze fittizie da 2,4 milioni di euro a Giuseppe Pasini, l'immobiliarista proprietario delle aree ex Falck, elargite come «condizione per compiacere la controparte nazionale del partito», racconterà proprio Pasini ai pm. Anche lì coop rosse e lieto fine. Al vicepresidente della Ccc bolognese, insieme ad altri due rappresentanti delle coop, tutti accusati di concussione, è andata infatti bene: prescritti. Affari dappertutto, ma cuore pulsante in Emilia Romagna, vero ombelico della vecchia «ditta» Pd, sede anche della Unipol (a Bologna, Via Stalingrado...), quella della tentata scalata a Bnl per opera di Consorte, finita male («abbiamo una banca?»). Lì le coop si aggiudicano un appalto su quattro e hanno un monopolio di fatto nella grande distribuzione (70%). Ne sa qualcosa Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, che ha ingaggiato una battaglia sanguinosa, a suon di denunce, con Coop Estense, che gli ha impedito l'apertura di due supermercati in provincia di Modena, abusando della sua «posizione dominante». Si è dovuti arrivare al Consiglio di Stato (che ha sanzionato la coop per 4,6 milioni di euro), dopo che il Tar aveva accolto il ricorso della società emiliana. Una battaglia durata 13 anni. Ancora in Emilia-Romagna, ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, una delle corazzate di Legacoop, è naufragata in un mare di debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l'accusa di fare affari col clan dei Casalesi. Fuori dai guai, invece, il governatore piddino Vasco Errani, finito in mezzo al cosiddetto «scandalo Terre Emerse», dal nome della cooperativa agricola che per la costruzione di una cantina vinicola a Imola aveva beneficiato di un finanziamento regionale di 1 milione di euro. Piccolo dettaglio: il presidente della coop è Giovanni Errani, suo fratello. Ma tutto è finito bene per Vasco Errani, accusato di falso ideologico in atti pubblici: assolto dal giudice «perché il fatto non sussiste». Ma il potere coop si ramifica molto lontano dall'Emilia. «Si respira un clima pesante attorno alla struttura di prima accoglienza di Lampedusa» disse il presidente di Legacoop Sicilia dopo lo scandalo suscitato dalle riprese del Tg2 sui maltrattamenti in un centro di accoglienza per i clandestini, a Lampedusa, gestito da una coop. Un «business» da 2 milioni al giorno, in cui non potevano mancare anche loro. E nemmeno nelle grandi opere. Al nodo Tav di Firenze lavora la Coopsette, altro gigante degli appalti pubblici. Anche di loro si sta occupando la Procura di Firenze, che ha messo sotto indagine 36 persone, tra cui l'ex presidente Pd della Regione Umbria, la dalemiana Lorenzetti. Il sospetto è che si siano usati materiali scadenti, in business addirittura con la camorra. E meno male che lo slogan è «coniugare etica e affari».
Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su “Il Fatto Quotidiano”. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
Le mille zone grigie delle cooperative rosse, scrive Ruben Razzante su “la Nuova BQ”. Già nel 2007 Bernardo Caprotti, patron della catena di supermercati Esselunga, dando alle stampe il volume Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, provò a scoperchiare il pentolone delle cooperative rosse, ricco di esempi di malaffare, di conflitti di interessi, di appoggi incondizionati da parte delle giunte “rosse”. In quel libro, l'autore raccontò la storia della sua azienda e dei contrasti con le cooperative rosse, criticando il sistema di agevolazioni fiscali e denunciando appoggi politici alle cooperative da parte di amministrazioni locali o istituzioni di centrosinistra. Caprotti documentò in quel volume le scorrettezze messe in atto dalle cooperative che gestiscono i supermercati Coop, in particolare in Emilia Romagna, al fine di impedire l'espansione di un concorrente "scomodo" come Esselunga. L’attacco frontale da parte di Caprotti fu catalogato frettolosamente dalla stampa più influente come una rivendicazione “pro domo sua” e ciò impedì di abbattere quel muro di ipocrisia e di omertà che da decenni avvolge il sistema delle cooperative rosse, ancora pieno di zone d’ombra. Lo scandalo di Mafia Capitale ha evidenziato gli imbarazzanti legami tra il mondo cooperativo di sinistra e la criminalità organizzata e il sistema di diffusa impunità che riguarda le coop. Penoso il ping-pong tra giornali di destra e giornali di sinistra all’indomani dell’apertura di quell’inchiesta, come se dalle carte non fosse nitidamente emerso il carattere trasversale del malaffare. La giunta Alemanno, unica di centrodestra negli ultimi vent’anni di governo romano, si è indubbiamente avvitata su pratiche spartitorie e sulla gestione affaristica dei soldi pubblici, riproducendo dinamiche già collaudate dai governi cittadini precedenti. E le cooperative rosse, come emerge dai trascorsi di Carminati e Buzzi, hanno concluso affari indifferentemente con le giunte rosse o con le giunte nere. Ma anche in altre parti d’Italia, come il Friuli Venezia Giulia di Debora Serracchiani, la governance delle cooperative annaspa; si sono registrati buchi milionari in due cooperative di Udine e Trieste che, attraverso incaute operazioni di prestito sociale (simili ai libretti di risparmio postali), hanno dilapidato i risparmi di 20.000 persone. Se certo giornalismo ha affrontato nelle settimane scorse le notizie su Mafia capitale con le lenti deformanti dell’ideologia e del preconcetto, alcuni esponenti della politica e del management hanno riacceso i riflettori sulle torbide manovre che hanno consentito al mondo delle coop di saccheggiare risorse pubbliche, contando su appoggi politici in tutti i partiti, soprattutto, ma non solo, quelli della sinistra. Sta per uscire un libro di Giovanni Consorte proprio su queste trame oscure. Ex presidente e amministratore delegato di Unipol, realtà di riferimento della finanza rossa, diventato celebre per la famosa intercettazione con l’allora segretario Ds, Piero Fassino, che esultava (“Abbiamo una banca”), Consorte nei giorni scorsi ha rilasciato un’intervista al quotidiano Libero e ha denunciato la mancanza di controlli sulle coop e sulla loro gestione, che ha potuto determinare casi di corruzione come quelli smascherati dall’inchiesta su Mafia capitale. D’altronde, l’attuale sistema, così com’è, non può funzionare: i sistemi di controllo sono affidati alla stessa Lega coop, in una logica di autoreferenzialità e di autarchia non più tollerabili. La revisione dei bilanci non può essere interna. Il ministero del Lavoro dovrebbe intervenire. Consorte ricorda nell’intervista che Unipol ha ristrutturato la situazione finanziaria della direzione dei Ds dal 2002 al 2004, un debito da 300 milioni che i Ds avevano anche sulla base delle fideiussioni rilasciate a favore delle banche, accumulatesi nel tempo da parte dei segretari. Ancora più illuminante in tal senso appare l’edizione aggiornata del volume di Fabrizio Cicchitto L’uso politico della giustizia, che riproduce il profilo assai spregiudicato dei dirigenti coop collusi e dei quali parla sorprendentemente lo studioso comunista Ivan Cicconi ("In essi – si legge nel volume di Cicchitto- c’è da un lato l’interesse economico di moltiplicare il fatturato della loro azienda senza guardare troppo per il sottile, dall’altro lato la convinzione che un comunista può fare affari anche con il diavolo senza sporcarsi le mani perché in ultima analisi quello che fa porta vantaggi al partito e al mondo cooperativo"). E’ verosimile che un tale sistema di disinvolta gestione del potere sulle spalle dei cittadini si sia perpetuato per decenni all’insaputa dei vertici del maggiore partito della sinistra italiana? Cicchitto si spinge oltre: "E’ possibile che il gruppo dirigente del Pci non si sia reso conto a suo tempo di questa 'spregiudicatezza' affaristica delle cooperative rosse nel rapporto con la mafia e la camorra? O il gruppo dirigente comunista è stato di una straordinaria 'ingenuità' , oppure fra le dichiarazioni di principio dei dirigenti sulla questione morale e la pratica seguita specie sul terreno degli affari c’era un’enorme contraddizione". Queste domande che Cicchitto alimentano un atroce sospetto. Non è che in Italia le strumentali polemiche sui conflitti di interesse più visibili ma, tutto sommato, anche meno pericolosi, sono in realtà la foglia di fico per coprire le commistioni di interesse più gravi e avvolgenti, quelle che hanno provocato sistematiche e infamanti distorsioni sul mercato dei beni e servizi e nella distribuzione delle risorse collettive?
COOPERATIVE. SOLDI E CORRUZIONE. UNA MANGIATOIA IN CUI TUTTI SI DANNO DA FARE. LAICI E CATTOLICI, BIANCHI E ROSSI SPESSO CON UN UNICO INTENTO INCONFESSABILE. (a cura di Claudio Prandini su “Parrocchie”)
INTRODUZIONE. Negli anni Settanta li chiamavano «boiardi rossi», quasi a rivendicare il peso del Pci negli appalti pubblici ai tempi d'oro dell'Italstat di Ettore Bernabei. Poi, con la svolta di Achille Occhetto nel 1989, sono arrivati i primi «cesaristi», i padri-padroni delle coop, che lentamente cominciavano a sfilarsi dal controllo e dall'inquadramento politico di Botteghe Oscure; quindi la lunga stagione di Tangentopoli che ha restituito al Paese un gruppetto di aziende sottocapitalizzate e senza più numi tutelari. Che cosa è rimasto oggi di questo ritratto ingiallito delle coop rosse? Assai poco. Il fil rouge della solidarietà nazionale, i principi mutualistici e il radicamento al territorio hanno resistito negli statuti delle imprese cooperative, così come i nomi dei signori dell'economia sociale. Tutto il resto è una storia ancora da scrivere. A cominciare dai protagonisti e dalle partite che si stanno giocando sul tavolo dei futuri assetti economici in Italia. Da Sesto San Giovanni alla rossa Emilia. Un viaggio non particolarmente lungo, che in queste ore i magistrati, che indagano sul presunto giro di tangenti, che vedrebbe tra i protagonisti il vice presidente del consiglio della Regione Lombardia, Filippo Penati, del Partito Democratico, stanno intraprendendo. Infatti la Procura di Monza ha fiutato una pista che porterebbe direttamente alle coop rosse.
Circa due milioni e quattrocento mila euro sarebbero stati versati da Giuseppe Pasini, indagato, imprenditore edile ed esponente del centrodestra, a due cooperative. Per gli inquirenti si tratterebbero della Fingest di Modena e la Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza. In tutto sarebbe stato fatto attraverso maxi rate. È il 2002: quattro versamenti da 619 mila euro ciascuno, giustificati con delle fatture riguardanti lavori mai compiuti. I due pm, Walter Mapelli e Franca Macchia, stanno ricostruendo il tutto. Partendo proprio dall'area Falk. Pasini,interrogato dai magistrati, avrebbe raccontato che dopo aver comprata l'area, pagando 380 miliardi di vecchie lire, arrivò l'accordo con Penati, che amministrava la "Stalingrado italiana". Non dovevano esserci intralci burocratici sui progetti riguardanti le nuove costruzioni da realizzare nell'ex Falk. Ecco perché sarebbe stata versata una tangente da venti miliardi. Inoltre l'accordo prevedeva l'intervento della Ccc di Bologna per dei lavori nell'area. Infine quei due milioni e quattrocento mila euro, partiti dalla Lombardia e arrivati in Emilia e di cui gli inquirenti vogliono scoprirne la destinazione finale e capire che cosa si nasconde realmente dietro tutta questa vicenda. Ma in questo dossier vedremo anche che lo "sterco del diavolo" fa gola anche ai cattolici della Compagnia delle Opere....
COMPAGNIA DELLE OPERE. DIETRO GLI INTENTI RELIGIOSI, GLI AFFARI DEL DIAVOLO. Fonte “L’Infiltrato”. Centro propulsore del potere ciellino rimane il perfetto connubio con la Compagnia delle Opere, braccio economico di Cl. Ed è proprio questa associazione imprenditoriale che dirotta soldi e favori, gestendo, in questo modo, grosse fette dell’economia nazionale e non solo. Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’associazione ha la finalità di “promuovere lo spirito di mutua collaborazione e assistenza per una migliore utilizzazione di risorse ed energie, per assistere l’inserimento di giovani e disoccupati nel mondo del lavoro, in continuità con la presenza sociale dei cattolici e alla luce degli insegnamenti del Magistero della Chiesa” (dall’art. 4 dello Statuto). Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’adesione alla Cdo, inoltre, cresce con ritmi esponenziali: 10% in più ogni anno. Ma è presto spiegato il motivo: chiunque voglia fare affari (soprattutto in quelle aree nelle quali l’organizzazione attecchisce maggiormente) deve entrare nei meccanismi ciellini e, dunque, nella Compagnia delle Opere. Ma, come detto, il controllo economico non avviene solo in Italia: la Cdo ha già uffici in 12 Paesi stranieri e ci si prepara allo sbarco negli Stati Uniti. Non è un caso, d’altronde, che, dopo Vittadini e Raffaello Vignali, l’associazione sia oggi presieduta dal tedesco Bernhard Scholz. L’organizzazione della Cdo è semplice: ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste piccole associazioni fa capo alla setta che le guida e le istruisce. Principali partner sono Bombardier, Finmeccanica, Sai e Intesa Sanpaolo. Insomma, una struttura gerarchica. Massonica dunque. Ma chi sono gli uomini legati alla Cdo? Un ottimo (e attendibile) termometro è l’analisi dei presenti all’ultimo meeting di Rimini: da Cesare Geronzi (Generali) a Corrado Passera (Intesa), a Ettore Gotti Tedeschi (Ior, la banca del Vaticano), mentre mancava all’appello Alessandro Profumo (Unicredit) che, tuttavia, era presente l’anno precedente. Altra questione. Come funziona la Cdo? Ci sono diversi “gradini” tra gli affiliati. Il primo è quello di chi utilizza l'associazione per avere facilitazioni burocratiche in attività che, per le pmi, sarebbero troppo onerose da affrontare. Non è un caso, infatti, che la Cdo svolge anche un ruolo molto spesso di “medium” tra due o più aziende per concludere affari e trattative. E, in questo, si appoggia a partner pubblici. Per esempio, Coexport, il consorzio della Cdo per l'esportazione, è punto operativo della Regione Lombardia in Argentina, Cile, Cuba, Germania, Kazakhistan, Romania e Stati Uniti. Il secondo gradino è invece quello di chi trova nella Cdo occasioni di business, incontrando altre aziende che poi diventano clienti, fornitori, o, addirittura, soci. Ma la Cdo presenta anche un aspetto che rimane, per molti aspetti, ancora oscuro. Cerchiamo di capire meglio. Giorgio Vittadini, quando lascia la guida della Compagnia delle opere, si dedica anima e corpo ad un nuovo progetto: la fondazione per la Sussidiarietà, legata comunque alla Compagnia delle Opere (molti compaiono nello “staff” sia dell’una che dell’altra: lo stesso Schulz è collaboratore nell’Area Formazione della fondazione di Vittadini). Si legge nel sito della fondazione: “La Fondazione è mossa dall’interesse in chiunque desideri cercare la verità e affermare la libertà di ogni singolo uomo. Ha costituito in questo modo un’ampia trama di collaborazioni multidisciplinari a livello nazionale e internazionale”. Ma quanto vale questo “desiderio” che nutre la “Sussidiarietà”? A livello nazionale risulta molto complesso avere una stima precisa perché appalti, delibere, finanziamenti sono divisi tra migliaia di sigle, spesso riferibili alle stesse persone. Sappiamo, però, che in Lombardia otto dei 16 miliardi di euro di spesa sanitaria sono passati ai privati. E pare che di questi otto, una grossa fetta è finita nelle mani di ciellini legati alla “Sussidiarietà” lombarda. Ma Cdo e Cl non sono attivissimi solo in Lombardia: si stanno espandendo con forza anche nel Veneto (dove possono contare sull’appoggio della Lega), in Emilia Romagna (dove c'è un asse con le cooperative rosse), ma anche in Piemonte, in Lazio e sempre di più al Sud. Ed è proprio qui che gli affari economico-politici pare convergano con quelli delle criminalità organizzate. Molti, infatti, sostengono che prospettare un’intesa tra membri del Cdo e mafie non sia affatto una fantasia. Alcuni mesi fa, in piena estate, alcuni imprenditori, potendo contare su un appoggio politico, hanno partecipato ad un convegno sulla “Sussidiarietà”. Per quanto detto sinora si penserebbe: nulla di strano. Ma se l'imprenditore è Ivano Perego della ”Perego General Contractor”, recentemente finita sotto inchiesta per i suoi rapporti con la ‘ndrina capeggiata da Salvatore Strangio, e il politico è Antonio Oliverio, ricoprente, secondo gli inquirenti, un ruolo centrale nei rapporti tra imprenditori e cosche della ‘ndrangheta, allora la questione si fa molto più interessante. Ma d’altronde Cl e Cdo sono finite diverse volte nel mirino degli inquirenti: la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia, scandalo scoppiato all’inizio dell’anno e che ha già interessato diversi politici ciellini vicinissimi al governatore Roberto Formigoni (inchiesta nella quale si accertano anche infiltrazioni di diverse ‘ndrine). Tra questi ricordiamo la moglie di Giancarlo Abelli. E chi è costui? Coordinatore regionale del PDL, deputato ciellino di Forza Italia, già assessore alla Sanità in Lombardia, anche lui è stato toccato da inchieste su possibili rapporti con le criminalità organizzate (i direttori delle Asl di Monza e di Pavia, entrambi coinvolti nella maxi inchiesta dei 300 arresti per infiltrazioni di ‘ndrangheta, spedivano mail con su scritto “votate Abelli“). E ancora Giuseppe Grossi, socio della Signora Abelli, imprenditore legato – chiaramente - alla Cdo, finito sotto inchiesta per presunte dazioni di denaro. Ma di Cdo si parlò anche in “Why Not”: nell’inchiesta che portò alla ribalta Luigi De Magistris, iscritto nel registro degli indagati anche Giorgo Vittadini, di cui abbiamo già ampiamente parlato. Ma, ancora, di ciellini, si parla nell’inchiesta “Oil for food”. Originariamente questo era il nome di un programma inaugurato dall’Onu nel 1996 e avrebbe dovuto permettere all’Iraq di vendere petrolio in cambio di forniture umanitarie, cibo e medicinali. Ma in realtà cosa accadde? Le trattative furono occasione di favoritismi nei confronti di politici e società internazionali ritenute “amiche” del regime. E ciò si verificò anche in Lombardia, dove al Presidente della Lombardia, o meglio, alle società da lui indicate, sarebbero stati assegnati 24,5 milioni di barili di greggio a prezzi decisamente “competitivi” (come riportato nel documento “Report on program manipulation” in cui si dedica un intero capitolo al caso-Formigoni). Tra i “beneficiari” del trattamento privilegiato persone vicine a Formigoni e – neanche a dirlo – a Comunione e Liberazione: una di quelle aziende, la Cogep, faceva capo ai fratelli Catanese, amici di vecchia data del Presidente della Lombardia e, soprattutto, tra i padri fondatori della Compagnia delle Opere. Coinvolto, ancora, Marco Mazzarino De Petro, uomo-chiave della vicenda secondo il rapporto dell’Onu (il suo è uno dei nomi più ricorrenti), e soprattutto, insieme all’amico Formigoni, tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione. Insomma, una fitta rete tra religione, strutture massoniche, interessi economici, rapporti con l’alta finanza senza disprezzare quelli con le criminalità organizzate. Il tutto per arricchirsi e arricchire l’organizzazione, puntando sempre più spregiudicatamente al controllo dei punti nevralgici del potere.
Corsi e ricorsi delle coop rosse. Intanto il coinvolgimento nell’inchiesta del mondo cooperativo fa tornare vecchi fantasmi. Fonte “Europa Quotidiano”. Sono passati quasi quattro anni dalla nascita del Partito democratico, ma il Pd potrebbe dover fare i conti con una delle eredità della fusione fra Margherita e Ds: il collateralismo fra la vecchia Quercia e il mondo delle cooperative rosse. Una cinghia di trasmissione, quella fra Legacoop e Botteghe oscure, che ha funzionato con grande efficienza fino al 2007, scaraventando però più di una volta i vertici diessini sotto i riflettori per diverse inchieste giudiziarie e dando più di un argomento a chi ha sempre attaccato la sinistra evidenziando come la berlingueriana “questione morale” sia più che mai trasversale. Nell’inchiesta della procura di Monza che ha portato alle doppie dimissioni del dem Filippo Penati, emerge una pista che porta direttamente al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita Legacoop. L’imprenditore edile Giuseppe Pasini accusa l’ex sindaco di Sesto San Giovanni di alcuni fatti precisi: nei primi anni Duemila, per ottenere dal comune una deroga al piano regolatore che gli consentisse di costruire più del previsto nell’area ex Falck, sarebbe stato costretto a dare degli appalti per alcuni lavori proprio alla Ccc bolognese. Inoltre, nello stesso affare, sarebbe stato il vicepresidente del consorzio cooperativo, Omer Degli Esposti, a indicare due società di consulenza per commissioni da due milioni e 400 mila euro, soldi che secondo i pm brianzoli non sarebbero serviti a pagare lavori effettivi ma a finanziare illecitamente i vertici nazionali dei Ds. Il sospetto dei giudici Mapelli e Macchia deve ovviamente essere ancora dimostrato, e nel frattempo Degli Esposti smentisce ogni passaggio della ricostruzione di Pasini, dicendo di non aver mai imposto a nessuno alcuna consulenza e soprattutto di escludere che quei soldi fossero poi finiti ai Ds. In ogni caso, a prescindere da come finirà la vicenda giudiziaria, dal mondo cooperativo arriva un’altra grana per il centrosinistra. E non è un caso che Bersani arriva a minacciare azioni legali contro chi si permette di infangare la trasparenza e la correttezza degli amministratori democratici. La Seconda repubblica ci presenta altre due occasioni in cui l’eccessiva vicinanza fra cooperative e Pds-Ds ha nuociuto e non poco all’immagine del partito e dei suoi leader. Il 2005 è l’anno dei furbetti del quartierino e della doppia scalata bancaria Antonveneta-Bnl. A dicembre salta fuori un’intercettazione telefonica destinata a rimanere impressa nell’immaginario collettivo, quell’«Allora, abbiamo una banca?» con il quale Piero Fassino (allora segretario Ds) si rivolge a Giovanni Consorte, presidente Unipol e deus ex machina della scalata delle coop rosse alla Bnl. Scalata che vuole garantire il salto di qualità nell’economia che conta alla Legacoop, ma che per i magistrati viene portata avanti con metodi tutt’altro che puliti e rispettosi delle regole di Borsa: i pm milanesi hanno chiesto quattro anni e sette mesi per Consorte (già condannato per Antonveneta) e poco meno al suo vice dell’epoca, Ivano Sacchetti, a conclusione della requisitoria nel processo Unipol-Bnl. Come poi dimenticare il coinvolgimento del mondo cooperativo rosso nella stagione di Tangentopoli? Il pool di Mani pulite non è riuscito mai a dimostrare che le tangenti finite nei conti di Primo Greganti, il famoso compagno G, fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti pubblici.
Coop padane, il buco reggiano della Lega Nord. Fonte di Flavio Maiocco su “Reggio 24 ore”. Lo scandalo delle cooperative padane, il tentativo leghista della fine degli anni '90 di convertire il sistema delle coop “di sinistra” a favore dell’ideale padano, ha prodotto alla fine dei conti solo un buco da diverse centinaia di milioni di lire e una serie di fallimenti a catena, oltre alla scia di delusioni e debiti lasciati in giro che ha lambito anche l’Emilia, e nemmeno troppo marginalmente, avendo toccato in prima persona la stessa militanza reggiana del partito del Nord. La vicenda, raccontata ora dal giornalista Leonardo Facco - ex redattore del quotidiano verde "La Padania" - nel suo ultimo libro “Umberto Magno, la vera storia dell’imperatore della Padania” (edizioni Aliberti) risale all'ultimo scorcio del secolo scorso e coinvolge direttamente i big del Carroccio, a partire dal senatùr e gran capo della Lega Nord, Umberto Bossi, fino all'attuale ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. La strategia delle cooperative leghiste, tra le tante iniziative promosse dal partito con l’obiettivo di finanziarsi, pubblicizzare e dare concretezza al progetto indipendentista padano, ha visto fin da subito nomi illustri: se l'idea viene dallo stesso vertice del movimento politico, infatti, all’atto costitutivo - sottoscrittori di quote per centomila lire - figurano anche i nomi dei parlamentari Davide Caparini e Paolo Grimoldi e di Ludovico Maria Gilberti (amministratore del quotidiano "La Padania" e vicepresidente della prima coop di Paderno Dugnano), Piergiorgio Martinelli (già sindaco di Chiuduno e amministratore della Lega lombarda), Davide Boni (oggi presidente del Consiglio regionale lombardo ed ex presidente della Provincia di Mantova), Andrea Angelo Gibelli (parlamentare e vicegovernatore della Regione Lombardia). Non manca naturalmente Roberto Calderoli, a quel tempo segretario della Lega lombarda, in veste di legale rappresentante e presidente della neonata società cooperativa a responsabilità limitata.
Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani è un libro pubblicato da Marsilio Editori nel mese di settembre 2007, scritto dall'imprenditore Bernardo Caprotti, patron di Supermarkets Italiani (Esselunga). I ricavi dalla vendita del libro sono devoluti in beneficenza.
II Parlamento, il governo, l'Unione Europea, le Corti di giustizia. Non soltanto questi soggetti si sono occupati della Lega delle Cooperative. Anche le Procure della Repubblica, soprattutto negli anni '90. L'inchiesta "madre", per molti aspetti, fu quella condotta dal pubblico ministero veneziano Carlo Nordio. Il magistrato indagò i segretari nazionali del PDS, Achille Occhetto e Massimo D'Alema, e li prosciolse. Dagli atti emerge chiaramente la funzione delle Coop rosse, e delle finanziarie controllanti-controllate, come braccio economico dell'ex Partito Comunista. Il meccanismo fu messo in luce da Giuliano Peruzzi, consulente delle Coop e braccio destro di Primo Greganti, responsabile amministrativo del PDS. Sui rapporti economici tra Coop e PCI-PDS in quegli anni fu alzato un vero fuoco di sbarramento, teso a negare l'esistenza dell'asse tra "partito" e aziende. Nei mesi scorsi, invece, nel turbine dello scandalo Unipol, il giudizio è mutato. Si è detto che «il collateralismo è finito», non che non è mai esistito. Che i legami tra la parte politica e il suo braccio economico si sono allentati rispetto al passato: dieci anni prima, invece, si negava tutto, anche l'evidenza. Ora la linea è cambiata. «Il rapporto era organico, con finanziamenti indiretti ma occulti», ha spiegato il pm Nordio. «Furono raggiunte prove evidentissime del fatto che le Coop rosse finanziassero il "partito", ma per il Codice la responsabilità penale è personale. E io non ho mai accettato il principio secondo cui chi sta al vertice "non può non sapere". Una cosa sono i finanziamenti al "partito", altra cosa la responsabilità penale individuale rispetto al finanziamento clandestino e continuativo delle società cooperative, dimostrato dall'inchiesta». Peruzzi svelò come funzionavano l'economia nascosta del "partito" e gli intrecci tra Finsoe, Finsoge e PCI-PDS. Il magistrato Veneto arrivò a calcolare l'esistenza di un patrimonio immobiliare della Quercia dell'ordine di mille miliardi di lire, ma a Botteghe Oscure non spiegarono come si fosse potuta accumulare una fortuna del genere, che riconduceva a decine di società immobiliari e a intestazioni fittizie: centinaia di prestanome, fedeli militanti del "partito" che ne era il vero proprietario. Era stata la Procura della Repubblica di Milano nel 1993, durante una perquisizione a Botteghe Oscure, a scoprire una stanza piena di fascicoli relativi agli immobili posseduti dalla Quercia, ma la documentazione per un errore non fu sequestrata subito. E il giorno dopo era sparita: un episodio sul quale si aprì un'inchiesta. «Avevamo fatto uno "screening" degli organigrammi di Coop e PCI-PDS verificando come i vertici delle aziende fossero interscambiabili con quelli della Quercia», ha raccontato Nordio. «Poi scoprimmo che le assunzioni fittizie fatte dalle Coop servivano a favorire il trattamento economico-previdenziale dei dipendenti del "partito". Fatti ampiamente confermati ai magistrati inquirenti di Milano, Napoli e Venezia da chi vi aveva lavorato. Il primo canale di finanziamento del PCI era quello che veniva dall'Unione Sovietica, un Paese che teneva i suoi missili puntati su di noi. Inoltre il "partito" incassava provvigioni sul commercio con i Paesi dell'Est». E le Coop? «Esse avevano una riserva rigorosa di appalti pubblici frutto di accordi politici spartitori a livello nazionale e regionale», ha ricostruito il magistrato. «In questo senso non c'era alcuna differenza tra DC, PSI e PCI: si erano divisi equamente tutto, con qualche briciola per gli alleati minori. Democristiani e socialisti sponsorizzavano le imprese amiche, i comunisti le Coop. Ai primi due partiti giungevano contributi in denaro con i quali si pagavano i funzionari e le altre spese; a Botteghe Oscure i funzionari erano pagati dalle Coop, ma lavoravano per il "partito". Risultato identico attraverso strumenti diversi. Anche dal punto di vista penale: la mazzetta integra il reato di corruzione, il sistema del PCI no. Un altro modo di finanziamento era quello della pubblicità inesistente: le Coop pagavano cifre enormi per farsi pubblicità sui giornaletti del "partito". Spesso le inserzioni, pagate, non venivano nemmeno pubblicate». Anche la Procura di Napoli condusse lunghe indagini con i Reparti Operativi Speciali dei Carabinieri. Un'inchiesta sterminata: migliaia di documenti, testimonianze, bilanci, intercettazioni telefoniche; il solo riassunto finale occupa 1.200 pagine. Le carte parlano di bilanci falsi, fondi neri, licenze edilizie "facili", collusioni con la camorra, finanziamenti illeciti, truffe allo Stato, tangenti, società di comodo. «La Lega delle Cooperative», si legge in un passo della relazione conclusiva dei ROS, «beneficiando dell'apporto incondizionato dell'organismo politico, accrescerebbe la propria forza economi coimprenditoriale garantendo ai partiti di riferimento il mantenimento economico e riversando, mediante alcune società, finanziamenti stornati, soprattutto illecitamente, dalle imprese del movimento cooperativo». E più avanti i ROS spiegano così il successo di Unipol: «La compagnia comincia la sua crescita inarrestabile, forte del consenso di tutti i sindacati italiani che senza esclusione partecipano al capitale sociale e garantita dalla protezione politica del PCI che impone a tutte le sue amministrazioni locali di sinistra di stipulare esclusivamente con Unipol qualsiasi polizza assicurativa di loro competenza». Lo scandalo giudiziario più clamoroso che ha investito Legacoop, dopo quello Consorte-Unipol, ha come protagonista un ragioniere di Argenta (Ferrara), Giovanni Donigaglia, finito stritolato negli ingranaggi del "partito" che aveva fedelmente servito per tutta la vita. Un uomo che si accontentava dello «stipendio di un capomastro» (1.500 euro al mese), che per 43 anni ha guidato la Coopcostruttori, quarta impresa nazionale dopo Impregilo, Astaldi e Condotte, che era arrivata a fatturare 680 milioni di euro nel 2001 e a stipendiare 2.518 dipendenti impegnati in decine di cantieri in mezza Italia: i giornali l'avevano battezzata «la perla dell'universo rosso». Poi il crac. Il primo gruppo edilizio del pianeta Legacoop crollò sotto l'insostenibile peso di 870 milioni di euro di debiti. Donigaglia per decenni fu il principale collettore di finanziamenti verso il PCI-PDS-DS. Negli anni di Mani Pulite fu arrestato cinque volte, passò 12 mesi in carcere, subì 32 processi finiti con 32 assoluzioni. Ma la sua creatura era finita: 900 lavoratori licenziati, altri 1.100 in cassa integrazione, senza contare il disastro finanziario per migliaia di famiglie - a cominciare dalla sua - che avevano investito tutti i loro risparmi nella Coop costruttori e li hanno perduti. Tra manifestazioni di piazza, assemblee di "partito", comitati spontanei si creò un clima di forte tensione. A casa di Donigaglia fu recapitato un pacco-bomba. Nel Ferrarese la cooperativa era vista al pari di una banca tale era la sua solidità e l'investimento nel prestito sociale, peraltro ottimamente remunerato, era considerato un punto d'onore. Qualche dipendente confessò che quasi si faceva riguardo a ritirare lo stipendio a fine mese. Chi aveva già raggiunto la soglia massima di deposito investiva attraverso i parenti oppure sottoscriveva le "azioni a partecipazione cooperativa" emesse più volte da Donigaglia per fronteggiare le crisi di liquidità, spesso senza avvertire i risparmiatori che si trattava di capitale di rischio. Nell'aprile 2004 il giornalista Stefano Lorenzetto convinse il ragioniere ferrarese a parlare per la prima volta. L'intervista uscì su Panorama. Donigaglia raccontò che la Legacoop o direttamente il "partito" (il PCI ad Argenta era arrivato al 78%) gli avevano ordinato di salvare per convenienza elettorale, dal 1975 in poi, la CERCOM di Porto Garibaldi, la COPMA, la Felisatti e la GEI di Ferrara, e la CMR (Cooperativa Muratori Riuniti) di Filo d'Argenta, tutte destinate al fallimento. La Costruttori fu obbligata a rilevare perfino la GIR Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei vene-ti, per fare un favore al ministro democristiano Antonio Bisaglia.Questo patto consociativo, aggiunse Donigaglia, spalancò a Coopcostruttori le porte dell'edilizia pubblica: strade, ferrovie, ponti, dighe, viadotti, parcheggi, porti, trafori, scuole, ospedali, municipi, carceri, caserme, musei, centri sportivi, inceneritori, depuratori, opere di difesa ambientale, pozzi, discariche, centrali elettriche e del gas, reti fognarie, mattatoi. La terza corsia dell'autostrada Serenissima, l'alta velocità ferroviaria Roma-Napoli, l'aeroporto di Malpensa 2000, la ferrovia Firenze-Empoli, la Salerno-Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro. La Lega delle Cooperative, riferì ancora l'imprenditore, pretese da lui un obolo cospicuo per l'acquisto del Molino Moretti di Argenta, che aveva tra i suoi pro-prietari il marito dell'alierà sindaco diessino Silvia Barbieri, la quale sarebbe poi entrata nello staff del segretario nazionale Piero Passino e successivamente diventata senatrice e sottosegretario. Per ordine di scuderia Donigaglia nel 1990 dovette persine acquistare la Spal, la squadra di calcio di Ferrara: bisognava dare una mano al Comune, amministrato dal PDS. Su sollecitazione del "partito" distribuiva quattrini a tutti, compresi organi di informazione e parrocchie. «Ero diventato il refugium peccato-rum», spiegò. «E il "partito" come ricambiava?», gli chiese Lorenzetto. «Vigeva il consociativismo. La Lega-coop otteneva la sua bella quota di lavori in ciascuna opera pubblica. Ma per costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le concessioni edilizie arrivino. Serve la politica per questo. E l'amicizia». «Quando ho lasciato», rievocò Donigaglia, che adesso amministra una ditta nel Ragusano, «i debiti verso le banche ammontavano a 327 milioni di euro ma in portafoglio c'erano ordini per 1.086,5 milioni». Se la situazione non era così drammatica, perché la Costruttori fallì? Egidio Checcoli, presidente della Legacoop regionale ed ex sindaco comunista di Argenta (nonché ex dipendente della Coopcostruttori), ha sempre proclamato: «Noi, a differenza delle società di capitali, non abbandoniamo i nostri soci in caso di crac». Eppure nel caso della Coopcostruttori la Lega delle Cooperative si chiamò fuori, limitandosi a puntualizzare che la sua funzione di vigilanza era limitata «alla verifica del rispetto dei requisiti di mutualità», che le banche valutavano la possibilità di intervenire e che era stata avviata «un'azione di solidarietà in due direzioni: verso i lavoratori e verso i soci risparmiatori». «Io ho sempre aiutato il "partito", ma nel momento del bisogno, quando il peso della crisi si abbattè tutto sulle mie spalle, il "partito" non ha aiutato me», è l'accusa di Donigaglia. «Io ho effettuato sottoscrizioni elettorali, sponsorizzazioni, ho comprato pubblicità sul-l'Uni fa e affittato spazi a festival e congressi. Tutto legale, tutte spese fatturate e messe a bilancio». Nel 1997 la Legacoop inizia un'opera di ricostruzione e riorganizzazione delle cooperative uscite ammaccate da Tangentopoli, e tra queste c'era anche quella di Argenta. «Consorte studiò un piano di ristrutturazione finanziaria e organizzativa che fu abbandonato dopo qualche mese», rincara oggi la dose Donigaglia. «Quando la situazione si aggravò, il pool di tre banche era pronto a finanziare il progetto industriale, ma la Lega-coop disse che i soldi sarebbero arrivati a patto che io lasciassi. Obbediente, mi dimisi. Però alla fine l'Unipol negò l'appoggio al piano di salvataggio. E fu il tracollo. Consorte aveva soldi per tutti fuorché per la Costruttori. Noi non fummo aiutati, e poi abbiamo visto che tipo di fideiussioni si scambiava con Giampiero Fiora-ni della Banca Popolare di Lodi... C'è da farsi venire il voltastomaco. Io non ho mai rubato, ho creato posti di lavoro, ho aiutato il "partito". Invece il capo di Unipol trafficava in proprio con l'appoggio della Lega delle Cooperative, che nel frattempo aveva mollato me». L'ultimo scandalo giudiziario ha come teatro sempre il settore delle costruzioni e una regione rossa, ma lo sfondo è diverso: non l'Emilia, bensì l'Umbria. Il 30 maggio 2006 sono finiti in carcere il costruttore perugino L. Gi (legato alle Coop) e un architetto di Foligno, Raffaele Di Palma. G. ha costruito gli Ipercoop di Collestrada e di Terni, super-mercati a Spoleto e Chianciano, immobili dell'Unipol, edifici pubblici. Il suo fatturato è "esploso" nel 1997, in coincidenza con gli appalti del dopo terremoto. Secondo le accuse, l'impresario avrebbe messo in piedi un sistema di fondi neri grazie alle sue attività con la Coop Centro Italia, il cui presidente Giorgio Raggi è stato sindaco diessino di Foligno ed è vicepresidente della Banca Popolare di Spoleto in rappresentanza di Montepaschi. L'immobiliare ICC della Coop affidava alla società SG Capital Sri di G. gli studi di fattibilità per la realizzazione di centri commerciali, super-mercati, parcheggi, pagando prezzi superiori a quelli di mercato; poi aziende compiacenti facevano figurare con fatture false spese inesistenti a carico della SG: ed ecco la provvista in nero. Che secondo gli inquirenti serviva anche a pagare tangenti a politici. Il terremoto in Umbria non fu tra i più disastrasi registrati in Italia. A questo punto v'è da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere in passato se le Coop avessero avuto mano libera nel Belice, in Friuli, in Irpinia... È proprio il caso di dirlo: la provvidenza c'è. Un bel quadretto, mai smentito.
Soldi al partito e coop rosse. L’inchiesta Penati punta su Roma. Fonte “Il Fatto Quotidiano”. Il ruolo del Consorzio costruzioni nell'affare Falck. Numerosi imprenditori hanno ammesso di avere versato contributi per il Pd all'ex vice presidente del Consiglio regionale lombardo. Un nome blasonato nel mondo delle coop rosse: Ccc, Consorzio cooperative di costruzioni. Il colosso di Bologna è l’unico operatore sempre presente nell’affare immobiliare delle ex aree Falck di Sesto San Giovanni, che in dieci anni è passato attraverso tre diverse cordate. È un vecchio schema noto fin dall’inchiesta Mani pulite: la presenza di una coop rossa in un grande affare garantisce la quota di interessi del Pci e dei suoi derivati, oggi il Pd. Fu per primo l’imprenditore Giuseppe Pasini, oggi grande accusatore di Filippo Penati, a subire l’imposizione della Ccc come futura protagonista dell’edificazione delle aree Falck quando le acquistò nel 2000. Quando Pasini vendette all’immobiliarista Luigi Zunino, nel 2005, il ruolo della Ccc non fu messo in discussione. E quando l’anno scorso a Zunino è subentrato Davide Bizzi, nella eterogenea squadra dei suoi partner (con Paolo Dini di Paul&Shark e il fondo coreano Honua) si è ripresentata l’immancabile Ccc, stavolta addirittura come socio. L’inchiesta del pm di Monza Walter Mapelli sull’ex sindaco di Sesto, nonché ex braccio destro del segretario del Pd Pierluigi Bersani, punta a Roma. C’è una pista fatta di indizi che induce i magistrati a sospettare Penati di essere al centro di un sistema intrecciato con le esigenze di finanziamento del partito. E infatti tra i reati per i quali è indagato, oltre a concussione e corruzione, c’è anche l’illecito finanziamento ai partiti. L’inchiesta, che ha subito un’improvvisa accelerazione due giorni fa con una raffica di perquisizioni tra cui quelle negli uffici di Penati, sembra destinata a esplodere, come dimostrano i toni quantomeno prudenti, per non dire timorosi, con cui gli esponenti del Pd lombardo hanno dato la solidarietà di rito all’esponente indagato. Questa mattina Penati, accompagnato dal suo difensore Nerio Diodà, si presenterà nell’ufficio di Mapelli per chiarire e spiegare. Sarà un confronto difficile per l’ex presidente della Provincia di Milano. Dallo scorso mese di gennaio, quando l’inchiesta avviata nel luglio del 2010 dalla pm di Milano Laura Pedio è passata per competenza territoriale agli uffici giudiziari di Monza, Mapelli ha interrogato decine di imprenditori. Numerosi tra essi hanno ammesso di aver versato contributi al Partito democratico, non registrati in bilancio, su sollecitazione di Penati o di uomini a lui vicini. Il filo che gli inquirenti stanno seguendo è quello che lega i numerosi reati ipotizzati e la carriera politica di Penati. Si punta dunque a ricostruire i meccanismi di un vero e proprio sistema di potere che partendo da Sesto San Giovanni (Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001) ha proiettato l’ex professore di scuola media verso il ruolo di braccio destro di Bersani. La caratteristica dell’inchiesta di Monza è proprio la molteplicità degli spunti investigativi. Proviamo a elencarli. C’è il costruttore Pasini che accusa Penati di concussione per aver preteso nel 2001 prima il pagamento di 4,5 miliardi di lire (in due tranche da 2 e 2,5) in cambio di un occhio di riguardo nell’operazione di sviluppo edilizio delle aree ex Falck; e poi di ulteriori 1,2 miliardi di lire, con la stessa finalità, per le aree ex Ercole Marelli; i magistrati considerano queste “dazioni” sufficientemente provate. Ci sono poi episodi di corruzione riguardanti altri affari e altri imprenditori. Un troncone dell’indagine attiene all’affidamento dei trasporti pubblici locali, e vede coinvolto il titolare della Caronte, Piero Di Caterina, indagato non solo come presunto corruttore di Penati, ma anche come collettore di tangenti destinate al leader del Pd lombardo. Di Caterina è un personaggio chiave dell’inchiesta. Perquisendo gli uffici della Cascina Rubina, società veicolo per l’operazione Falck ceduta da Pasini a Luigi Zunino, gli inquirenti hanno trovato alcune fatture a fronte di prestazioni inesistenti emesse proprio dal titolare della Caronte. Ci sono due possibili spiegazioni: o Di Caterina fungeva da “cartiera” per consentire a Zunino la costituzione di fondi neri destinati anche al pagamento di tangenti; oppure, come testimoniato nel caso dei 2 miliardi consegnatigli da Pasini in Svizzera, Di Caterina incassava direttamente il denaro destinato al finanziamento di Penati, per il quale fungeva, a quanto ipotizzano gli inquirenti, anche da collettore. Quel che è certo è che proprio Di Caterina è stato protagonista di una rottura piuttosto velenosa con Penati dopo essere stato per anni in squadra con lui. Infine c’è la storia mai chiarita dell’autostrada Milano-Genova. Penati, come presidente della Provincia di Milano, acquistò nella primavera 2005 dal costruttore Marcellino Gavio, un pacchetto di azioni che gli dettero la maggioranza assoluta del capitale. L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che con il suo pacchetto di azioni garantiva comunque il controllo pubblico dell’arteria, accusò Penati di aver fatto solo un regalo a Gavio, pagando 8,93 euro l’una azioni che diciotto mesi prima l’imprenditore piemontese aveva pagato 2,9 euro. Albertini, per dare un senso a un’operazione altrimenti inspiegabile, ipotizzò che costituisse la contropartita, voluta da una parte del Pd, per convincere Gavio a partecipare con la Unipol alla scalata della Bnl. Albertini consegnò il tutto a un esposto alla magistratura.
LA GRANDE INCOMPIUTA: LA SALERNO-REGGIO CALABRIA.
Inchiesta di Danilo Loria su StrettoWeb: Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, l’eterna incompiuta. L’autostrada A3 Napoli-Reggio Calabria ha un’estensione totale di 494,9 km. Rappresenta il secondo tratto della cosiddetta Autostrada del Sole, arteria che collega il nord con il sud dell’Italia, da Milano a Reggio Calabria. Si divide in due tratti principali che corrispondono alle tratte in gestione di due società: la Sam concessionaria del Gruppo Autostrade per l’Italia, da Napoli a Salerno e l’Anas da Salerno a Reggio Calabria. È affiancata dalla SS 18, che parte da Napoli e arriva a Reggio Calabria e che costituisce il percorso alternativo per chi non vuole prendere la SA-RC. La A3 attraversa tre regioni meridionali: la Campania per 171,0 km, la Basilicata per 30,0 km, la Calabria per 293,9 km. Il 1962 è l’anno decisisvo per la costruzione dell’opera. Difatti, il governo di Amintore Fanfani decise di finanziare la costruzione di un’autostrada che collegasse il resto dell’Italia al profondo Sud. Nel 1966 il governo italiano, guidato da Aldo Moro, inagura il primo lotto completato. Ecco le fasi di apertura dei vari tratti:
1966: apertura tratto Salerno – Lagonegro
1968: apertura tratto Lagonegro – Cosenza tratto difficilissimo da costruire data la conformazione del territorio, ricco di montagne e viadotti
1969: apertura tratto Cosenza – Gioia Tauro
1972: l’autostrada viene completata fino a Reggio Calabria.
A lavori ultimati, l’autostrada aveva più “sembianze” di una strada statale che ad una arteria ad alta velocità, viste le curve continue, la ristrettezza della carreggiata, priva, tra l’altro, di corsie d’emergenza. Per di più, nel corso delle giornate di maggior percorrenza della strada, persistono numerosi ingorghi ed incidenti in vari punti dell’A3. Cosicchè, alla fine degli anni ottanta, i vari governi che si sono succeduti si resero conto che l’autostrada doveva essere assolutamente modificata. Ciò nonostante la situazione non cambiò, cosicchè l’Unione Europea, ha obbligato l’Italia a far sì che la Salerno-Reggio Calabria corrispondesse a chiare normative Europee. Nel 1997 si decise di dar vita a lavori di ammodernamento dell’arteria, che dovevano essere ultimati in pochi anni. L’anno di conclusione doveva essere il 2003, ma nulla, poi con la legge obiettivo n° 443 del dicembre 2001, si parlò del 2005 ma men che meno. Successivamente i tempi si allungarono a dismisura: si parlò del 2011, ma l’incompiutezza rimase, ad oggi i lavori non sono ultimati. Alcuni giurano che finiranno entro l’anno, altri, con più accuratezza, entro il 2018. Un disastro epocale, quindi, per la più grande opera mai realizzata direttamente dallo Stato.
A luglio 2012, sono stati completati 271 km, 91,5 km sono in fase di ammodernamento o ricostruzione, mentre 75.5 km devono ancora essere appaltati.
I tratti già completati sono quelli tra gli svincoli di:
Salerno Centro – Lagonegro nord (123 km)
Sibari – Cosenza (51 km)
Altilia – Lamezia Terme (31 km)
Sant’Onofrio – Mileto (22 km)
Rosarno – Bagnara (26 km)
I tratti dell’autostrada attualmente in fase di ammodernamento sono tra gli svincoli di:
Lagonegro Nord – Laino Borgo (29 km)
Campotenese – Morano (11 km)
Lamezia Terme – Pizzo (11 km)
Mileto – Rosarno (10 km)
Bagnara Calabra – Campo Calabro (30 km)
I tratti da ammodernare sono 75.5, cioè tra gli svincoli di:
Laino Borgo – Campotenese (21,5 km)
Morano – Sibari (21,5)
Cosenza – Altilia (26 km)
Pizzo Calabro – Sant’Onofrio (9,5 km)
Campo Calabro – Reggio Calabria (8,5 km)
E’ opportuno sottolineare che, sulla costruzione dell’A3 e sui lavori di ammodernamento, ha avuto un peso rilevante la mafia calabrese. Nella fase iniziale della costruzione le ditte che vincono gli appalti si organizzano con la ndrangheta per la fornitura del calcestruzzo e l’assunzione di personale. Nel 1997 con l’inizio dei lavori per l’ammodernamento comincia la vera e propria infiltrazione della malavita. Le ditte vengono obbligate a pagare il pizzo, pena intimidazioni. La magistratura inizia un lavoro enorme: varie le cosche che, come polipi, si avvinghiano sull’opera: Dieco, Giampà, Iannazzo, Mancuso, Pesce, Piromalli, Tripodo. Varie inchieste portate avanti: “Tamburo”, operazione “Arca”, “Alba di Scilla 2”. Coinvolti imprenditori, sindacalisti, gente insospettabile. Ad oggi viaggiare sulla Salerno-Reggio Calabria è un vero e proprio strazio: un labirinto infinito in cui è facile incontrasi con traffico, con incidenti spesso mortali, con rallentamenti, con uscite autostradali chiuse, con illuminazione precaria. Siamo consapevoli delle difficoltà, ma è opportuno completare e definire un opera che rappresenta una vera e propria vergogna: anni ed anni di lavori infiniti senza riuscire ad arrivare alla meta, ossia dar vita ad un arteria di “decente” percorrenza per tutti coloro che la percorrono.
La Salerno-Reggio Calabria finisce nel lato oscuro del potere.
Un reportage estero tratto dalla testata: Die Welt; articolo originale di Rachel Donadio del 11 ottobre 2012 tradotto da Claudia Marruccelli, Valeria Lucchesi e Elena Acquani per Italiadallestero.info e pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”. L’incompiuta A3 finisce nel lato oscuro del potere. Il lavori di costruzione della A3, che va da Salerno a Reggio Calabria, durano da decenni ed è soprattutto la criminalità organizzata a trarne vantaggio. Un esempio di come i fondi europei possano consolidare strutture corrotte. Iniziata negli anni ‘60, l’autostrada italiana A3 inizia poco lontano da Napoli, vicino a Salerno e termina 480 chilometri più a sud, diventando una strada secondaria nel bel mezzo di Reggio Calabria, il capoluogo. A circa 50 anni di distanza la realizzazione dell’A3 ancor oggi non è stata portata a compimento. In numerosi punti l’autostrada si riduce a due sole carreggiate con un percorso a ostacoli fatto dai cantieri stradali. Cavalcavia a due campate si allungano pericolosamente sui burroni, mentre l’acqua piovana filtra nelle gallerie senza illuminazione, in cui le auto che passano vengono colpite da pezzi di cemento o altri materiali da costruzione. Non esistono opere simili a quest’autostrada del sud Italia che rappresentino in modo così emblematico il fallimento dello stato italiano. Alcuni detrattori la definiscono il frutto marcio di una “cultura basata sui posti di lavoro in cambio di voti” che, alimentata dalla criminalità organizzata, ha frodato sistematicamente lo stato, indebolendo i cittadini e isolando geograficamente e politicamente la Calabria.
Simbolo dei timori dei paesi del Nord Europa. L’autostrada rappresenta anche i timori di alcuni paesi del Nord Europa che fanno parte della zona euro: lo sviluppo di un sistema di trasferimento, in base al quale il nord appoggia un’Europa del Sud bloccata e in cui troppo spesso le sovvenzioni spariscono finendo nei favoritismi e nella corruzione, mentre ai governi locali sembra mancare la capacità o la volontà di fare qualcosa per impedirlo. L’autostrada incompiuta dimostra che i sussidi erogati in passato non sono stati destinati agli investimenti auspicati per il futuro. Questo alimenta i dubbi sulla validità di simili aiuti finalizzati a consentire all’Europa del sud di uscire dall’attuale crisi economica.
Il denaro finisce alla mafia. In Italia l’uso improprio dei fondi europei “ha arrecato enormi danni, dato che sono stati utilizzati in maniera scorretta e quindi, secondo alcuni giudici, hanno favorito anche la criminalità organizzata” sostiene Sergio Rizzo, coautore di successi editoriali sulla corruzione politica. Da quando in Europa si discute di favorire la crescita economica, i funzionari europei raccomandano con sempre più enfasi una maggiore responsabilità. “Più i fondi europei vengono considerati un viatico per la crescita, come espediente per uscire dalla crisi economica, più occorre intensificare i controlli” sono le parole di Giovanni Kessler, capo dell’ufficio dell’UE per la lotta antifrode. Dal 2000 al 2001 l’Italia ha ricevuto più di 47,7 miliardi di euro, finalizzati al consolidamento delle infrastrutture e per l’agricoltura in alcune regioni. La maggior parte è stata in sostanza destinata al sud del paese, che ora non può vantare altro se non un’autostrada completata solo in parte.
Risanamento della A3 dal 2001. L’Italia ha iniziato il risanamento della A3 sin dal 2001, con l’inserimento di un’adeguata corsia di emergenza. Da allora sono stati investiti nel progetto quasi 7.6 miliardi di euro. Dopo che la magistratura italiana ha messo in luce numerose prove di frode, le autorità europee quest’estate hanno imposto al paese di far confluire in altri progetti i 389 miliardi stanziati dall’Europa per l’autostrada. Percorrendo la A3, si può allo stesso tempo percorre il lato oscuro della recente storia italiana. Una storia in cui un misto di corruzione e clientelismo ha contribuito a incrementare la seconda montagna di debiti d’Europa, misurato sul PIL. La A3 è la principale arteria stradale in una regione in cui manca l’alta velocità ferroviaria e la disoccupazione arriva al 20 percento.
Sguardo sul lato oscuro della storia italiana. Si passa per Rosarno con le sue squallide case di cemento ancora da ultimare, un territorio noto per i problemi legati agli stranieri presenti sul territorio. Si passa la città portuale di Gioia Tauro, dove le tombe del cimitero sono tenute quasi meglio di certe case. Il porto è noto alle autorità come punto di arrivo della maggior parte della cocaina proveniente dal Sudamerica e diretta in Europa. Da quando è stata inaugurata la A3, si sono succedute tre generazioni di aziende in subappalto, nominate da personaggi politici di altrettante generazioni. Dal 2000 sono state arrestate centinaia di persone, coinvolte nei cantieri dell’autostrada, per lo più accusati di corruzione ed estorsione.
Strutture mafiose. La Calabria è soggiogata dalla ‘Ndrangheta, considerata dalle autorità come l’organizzazione criminale più pericolosa. “Le grandi opere pubbliche attirano l’interesse della ‘Ndrangheta“, afferma il magistrato Roberto di Palma, che ha presieduto due processi per corruzione legati all’A3. Esistono stretti legami tra la criminalità organizzata e i politici locali. Recentemente il governo italiano ha addirittura ordinato lo scioglimento del Consiglio Comunale di Reggio Calabria per contiguità con la mafia e ha commissariato l’amministrazione comunale. Secondo il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, tra l’altro, non si è indagato abbastanza sui rapporti che legherebbero appalti pubblici e malavita. Solo lunedì sono stati arrestati 3 dei 51 membri della giunta regionale calabrese con l‘accusa di concorso in associazione mafiosa.
Mancanza di responsabilità. Per molti aspetti la Calabria spiega la mancanza di responsabilità all’interno dell’EU. La commissione europea, diversamente dal Fondo Monetario Internazionale, non sarebbe in grado di stabilire le condizioni per l’assegnazione di crediti, dice Massimo Florin, docente di economia presso l’università di Milano. Inoltre mancherebbe il potere di un’autorità di controllo che sorvegli le uscite. In Calabria, questa situazione è stata un chiaro invito alla corruzione. In uno dei tanti processi legati all’A3, gli accusatori hanno spiegato che non meno di una dozzina di cosche della ‘Ndrangheta ha elaborato “un accordo di pace” per spartirsi lavoro e tangenti.
La regola del 3 %. In un altro processo, in cui sono state condannate 22 persone per concorso in associazione mafiosa e per altri reati, gli accusatori, esaminando uno dei sei più grandi cantieri dell’autostrada, hanno trovato ampie prove della cosiddetta “regola del 3 %“. Ciò vuol dire che i subappaltatori chiedono allo stato un 3 % in più che poi finisce nelle tasche delle cosche. E’ stato addirittura documentato come le famiglie mafiose decidano gli appalti e stabiliscano chi deve essere assunto – spesso si tratta di amici e parenti. Nel corso degli anni sono stati assunti circa 6000 lavoratori da centinaia di subappaltatori. “Il sud è una terra di lavori mai terminati, poiché un lavoro finito non frutta più”, dice Aldo Varano, giornalista e autore di diversi libri sulla Calabria.
Il problema sta nel sistema politico. Ma il problema va oltre la corruzione. E’ insito nel cuore del sistema politico di molti paesi dell’Europa del sud, nella tradizione che prevede che i politici offrano lavori statali ai cittadini in cambio di voti. “Il sud un tempo era un serbatoio di manodopera che negli anni ’70 ha subito un cambiamento diventando un gigantesco bacino di consensi elettorali“, dice Varano. Si riferisce ai voti della Calabria che hanno aiutato tutti i governi degli ultimi 25 anni a restare al potere. Per assicurarsi questi voti, i governi hanno dovuto sborsare soldi, “non per investimenti e sviluppo, ma in modo clientelare.“
Ormai senza fiducia. Secondo la società italiana autostrade, nei lavori dell’A3 sono stati sempre impiegati circa un migliaio di lavoratori, ma negli ultimi tempi, percorrendo l’autostrada, si intravedeva a fatica una manciata di operai. Pochi sono i calabresi che nutrono ancora fiducia nel loro governo e che credono che l’A3 sarà un giorno completata. Eppure non è tutto così desolante. Oggi 270 chilometri dei 500 totali sono stati risanati e circa 400 chilometri sono percorribili. Gli ultimi 120 chilometri, dicono le autorità, dovrebbero essere terminati entro la fine del 2013. A Roma Fabrizio Barca, ministro per la coesione territoriale, afferma che per lungo tempo sono stati stanziati pochi fondi per il sud. “In Calabria la situazione è particolarmente problematica”. Alla domanda se lì abbia alleati politici, cambia espressione e conclude così: “Diciamo che il rinnovamento del sud non partirà dalla Calabria”.
A3: morte per l’operaio, milioni per il manager, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se leggete il sito “Viaggiare informati”, i dati che riguardano la Salerno-Reggio Calabria sembrano un bollettino di guerra e se trovate i punti esclamativi (quattro), insieme all’indeterminatezza della scadenza, dovrebbero mettervi sull’allarme. Per chi viaggia sulla Salerno-Reggio Calabria non c’è bisogno di punti esclamativi: uno sta già in allarme di suo. Guidare un Hammer, uno dei veicoli americani usati negli scenari di guerra, capaci di resistere anche a un Ied, Improvised explosive device, che so un’autobomba o un ordigno collocato in una buca sul terreno, piuttosto che la vostra automobile vi sarebbe di conforto, vi darebbe un po’ di sicurezza. Quella coi quattro punti esclamativi è la disposizione dopo l’incidente – il quarto mortale negli ultimi due anni – sul viadotto Italia, 1160 metri di lunghezza, 225 di altezza, con 19 campate, il più alto della Penisola e il secondo in Europa. La campata stradale ha ceduto di schianto. Nel crollo è morto un operaio, un venticinquenne, Adrian Miholca, rumeno. Miholca era alle prese con la demolizione della quinta campata del viadotto, direzione Reggio Calabria, quando c’è stato il crollo che ha fatto sprofondare la fetta di asfalto su cui stava spostandosi il trattorino guidato dall’operaio. Ottanta metri di volo. Adesso hanno chiuso tutto, anche perché precipitando la campata è andata a sbattere su un altro pilone rendendo instabile tutta la struttura. I lavori sul viadotto sono stati appaltati nel 2005. Poi, tra contenziosi vari, il cantiere è stato aperto un paio d’anni fa. Il progetto prevede la messa in sicurezza del collegamento, con una parziale demolizione «dell’impalcato del vecchio viadotto», per stare alle parole ufficiali dell’Anas. Cioè, su una carreggiata si viaggia in doppia corsia e sull’altra si facevano quelle che l’Anas ha definito «prove di demolizione». Poteva essere una tragedia. Che la giungla di appalti e subappalti, costringendo a lavorare anche dodici ore al giorno in condizioni di precarietà di contratti a termine, sia la causa principale della mancanza di sicurezza appare talmente scontato da ritenere irritanti le parole del sottosegretario alla presidenza Delrio: «Fatto indegno di un Paese civile». Già, lo si scopre solo quando muore qualcuno. Una lunghezza di 443 chilometri. Nel 1962, l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani prevedeva la pratica risolta in due anni e invece n’è venuto fuori un cantiere lungo più di cinquant’anni. Solo le profezie sono rimaste incessanti. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro Nerio Nesi (governo Prodi). «Finiremo nel 2004- 2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché nel settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Nel 2011 Giulio Tremonti, ministro all’Economia in carica, fece un blitz a sorpresa sulla Salerno-Reggio Calabria e scoprì che tanti cantieri erano aperti, ma senza uomini al lavoro. Se sulla A3 «ci sono molti cantieri, vuol dire che qualcosa è in atto però serve l’autostrada». Qualcuno chiese: bisogna finire questi cantieri? «Infatti. Prima è meglio è», rispose Tremonti. Entro il 2013? «Vediamo, vediamo». Sì, ciao. Tutto era iniziato con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione che quella strada rappresentava dopo un secolo «il compimento dell’Unità d’Italia». Craxi, nel 1987, allora premier, assicurò: la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata sistemata con mille miliardi di lire, ovvero 983 milioni di euro di oggi. Cinque anni più tardi i miliardi erano diventati già cinquemila. Altri cinque anni e il preventivo salì a seimila. E ancora: su a 6,9 miliardi di euro nel 2004, a nove nel 2008, a nove miliardi e 698 milioni nel 2010. In un articolo del 2007, sul Corriere della Sera Sergio Rizzo scrive che ogni chilometro dell’A3 è costato 20,3 milioni di euro. Una cosa senza possibilità di paragone nel mondo. L’Europa a un certo punto s’è stufata. Nel 2012, dopo le ripetute testimonianze riguardanti pizzo e mazzette accertate nei tribunali, l’Unione europea ha ingiunto all’Italia di dirottare su altri progetti i 388 milioni di euro di fondi europei destinati al tratto autostradale. Certo, la Salerno-Reggio Calabria non è solo una storia di mazzette, pizzo, sprechi, errori, morti. D’altronde, la pessima condizione dei viadotti e delle strade è dappertutto in Italia. In Sicilia, l’ultimo viadotto a crollare, lo Scorciavacche sulla statale 121 tra Palermo e Agrigento, ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana: inaugurato alla vigilia di Natale del 2014 è stato chiuso alla fine dell’anno. All’inizio di luglio 2014 collassò il viadotto Petrulla sulla statale 123 tra Licata a Ravanusa. Subito dopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nella stessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della Balata Baida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di un anno prima, febbraio 2013, s’era ammosciato il Verdura sulla statale 115 tra Trapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta venne giù un pezzo del ponte Geremia II. Succede anche al Nord: il caso più grave, con un autista di camion morto, risale a una decina d’anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò il viadotto Capodiponte. L’incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Po tra San Rocco al Porto e Piacenza. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nel fiume un’intera arcata trasformando la strada in una botola. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il 2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano in provincia di Matera si abbassarono all’improvviso di 2 metri. Nello stesso periodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopo in Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L’11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzo sulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all’altezza di Scoppito. Però, come dire, la Salerno-Reggio Calabria è ormai una metafora del paese. Quando i lavori dell’Autostrada del Sole ebbero inizio, nel 1956, il boom economico era dietro l’angolo e quello era inizio di un sogno. Doveva unire Nord e Sud, velocizzare i trasporti, dunque il mercato, e la mobilità degli uomini. Doveva rappresentare una prova concreta di quello che era, almeno a quei tempi, lo spirito italiano. Il terminale dell’infrastruttura doveva essere la Calabria, fino allora considerata la terza isola, proprio per la scarsità di collegamenti con il resto del Paese. Però, invece di raggiungere l’estremo sud, si fermò a Napoli. È così che nasce la Salerno-Reggio Calabria, declassificata nel piano dell’Iri tra le cosiddette autostrade aperte, quelle cioè che non potevano essere soggette a un pedaggio per le particolari condizioni di sottosviluppo dei territori attraversati, e la si affida all’Anas. Così, il sistema autostradale del centro nord, gestito da Società Autostrade per conto dell’Iri, cresce fino a far raggiungere all’Italia il primo posto in Europa quanto a dotazione autostradale, mentre al Sud inizia il calvario. La scelta di abbandonare l’iniziale progetto sulla litoranea tirrenica e di addentrarsi nel cuore della montagna calabrese, sulle pendici del massiccio della Sila, orograficamente molto complessa, per acconsentire il passaggio a Cosenza voluto da Mancini e Misasi – allungando il suo percorso di 40 km, entrando per 22 km in galleria e dispiegandosi per 45 km su viadotti -, fu determinante: opere di ingegneria colossale, viadotti su viadotti, il trenta per cento del percorso dentro gallerie. Quasi trent’anni dopo il termine del percorso, nel 2001, il Piano generale dei trasporti e della logistica pronuncia una sentenza inequivocabile: «L’A3, la Salerno-Reggio Calabria non ha caratteristiche autostradali, anche se è classificata come tale». Non ci sono gli standard minimi richiesti per un’autostrada. Dal 1997 in avanti l’A3 diventa un enorme cantiere senza soluzione di continuità che attraversa tutto il tracciato dell’Autostrada, montagne comprese. Le condizioni difficili permangono. L’autostrada più difficile da costruire adesso è ovviamente la più difficile da ammodernare. Di fatto, ha raggiunto l’obiettivo opposto per il quale era stata pensata, voluta, progettata, costruita: separare il Nord dal Sud, isolando logisticamente il Meridione. La Calabria rimane la terza isola d’Italia. Dopo l’incidente mortale al rumeno Adrian Miholca sul viadotto Italia, il presidente dell’Anas Pietro Ciucci ha pensato di mandare un telegramma di condoglianze. Pochi giorni prima, è stata presentata un’interpellanza urgente alla Camera per chiarire la questione dei compensi percepiti da Ciucci. Succede che nel 2013 l’attuale presidente e amministratore dell’Anas Pietro Ciucci decida di non fare più il direttore generale. Forse un uomo e tre cariche erano davvero troppe. Così, si autolicenzia, cioè il Ciucci presidente e il Ciucci amministratore delegato licenziano il Ciucci direttore generale. Risoluzione consensuale. Succede pure però che lo stesso Ciucci direttore generale avanzi al Ciucci presidente e al Ciucci amministratore delegato riconoscimento “dell’indennità di risoluzione senza preavviso”. Questa vale circa ottocentomila euro, e quella, la risoluzione consensuale, vale circa un milione. Totale un milione e ottocentomila euro. Una somma che non potrebbe sommarsi, dato che delle due l’una, o è consensuale o è senza preavviso. Ovviamente, aspettiamo tutti di sapere quanto varrà la buonuscita del Ciucci presidente e anche quella del Ciucci amministratore delegato. Ora, certo, l’A3 è stata una gruviera, la ‘ndrangheta ci ha bagnato il pizzo per decenni e le cosche hanno fatto affari di lusso, la follia della scelta del percorso più complesso è stata il male dell’origine e strologate dei politici succedutesi e le porcate di appalti e subappalti hanno fatto il resto. Però, ecco, almeno i soldi del telegramma di condoglianze sentite se li poteva risparmiare Ciucci.
GRANDI OPERE...TRUCCATE.
Riecco la cricca delle Grandi Opere, scrive Domenico Camodeca su “L’Indro”. Arrestato per corruzione il boiardo di Stato Incalza. Mafia Capitale prepara la festa ai cristiani. Calma piatta in parlamento. Le irrimandabili riforme (almeno secondo Matteo Renzi) restano congelate fino a dopo le elezioni regionali del 31 maggio a causa dei soliti, squallidi, giochi di Palazzo. Ma le attenzioni mediatiche sono tutte concentrate sui nuovi clamorosi casi di corruzione. Ancora tangenti Tav e Expo, tra gli arrestati anche il manager bipartisan e Signore delle Grandi Opere Ercole Incalza: Beppe Grillo pretende una legge anticorruzione subito. Il M5S chiede le dimissioni di Maurizio Lupi: il figlio assunto da uno dei fermati (ma il ministro nega sia un favore), rolex e abiti sartoriali regalati da un altro. Intanto Mafia Capitale si prepara al Giubileo delle poltrone: voci per ora smentite su Francesco Rutelli commissario straordinario. Sul versante politico, Maurizio Landini lancia una ‘coalizione sociale’ a sinistra del Pd, ma per il momento anche Susanna Camusso si smarca. Solo il dissidente Dem Alfredo D’Attorre raccoglie in parte l’appello del leader Fiom e convoca un’assemblea per sabato prossimo. Grazie all’effetto Mose il civatiano Felice Casson trionfa nelle primarie del centrosinistra a Venezia battendo il renziano Nicola Pellicani. Dopo la defenestrazione di Flavio Tosi, Matteo Salvini prova a ricucire con Silvio Berlusconi, ma perde 3 senatori. Sergio Mattarella a via Fani per il 37° anniversario del rapimento di Aldo Moro, ma il mistero sulla vicenda resta fitto. Muore a 88 anni l’ex AN Gustavo Selva. Expo, Tav, Mose, ma anche l’intramontabile G8. L’elenco delle Grandi Opere finite nelle inchieste delle procure del Belpaese è veramente completo. Già da tempo, grazie a galantuomini come Guido Bertolaso, Angelo Balducci, Diego Anemone e agli altri protagonisti della cosiddetta cricca delle Grandi Opere, gli italiani erano al corrente dell’immenso giro di denaro sporco allestito nel 2009 in occasione del G8 dell’Aquila e dei Mondiali di Nuoto. Oggi arriva la notizia dell’arresto per corruzione ordinato dalla procura di Firenze di Ercole Incalza (insieme ad altri pesci piccoli), il potentissimo ex dirigente del Ministero dei Lavori Pubblici (con 2 governi Berlusconi, ma anche Prodi, Monti, Letta e Renzi), attualmente solo consulente esterno. Tutte le principali Grandi Opere, in particolare gli appalti relativi alla Tav Firenze e alcuni riguardanti l'Expo, ma non solo, rende noto la procura fiorentina che coordina le indagini, sarebbero state oggetto dell’«articolato sistema corruttivo» architettato dalle persone arrestate e indagate. Sul cadavere della legalità italiana si getta come un rapace Beppe Grillo che, riferendosi ad Incalza, commenta sul web: «L'hanno appena arrestato. Ora ne vedremo delle belle. Tutti in galera. Ora subito legge anticorruzione». In realtà il M5S già a luglio aveva presentato un’interrogazione parlamentare al ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi sull’ambiguo ruolo di Incalza. In quell’occasione il rappresentante di ‘Comunione e Fatturazione’ (così i detrattori chiamano CL) si era speso in una sperticata quanto improvvida difesa del supermanager. E oggi il grillino Alessandro Di Battista posta su twitter l'imbarazzante video di Lupi aggiungendo spietato: «Ministro si ricorda come difendeva Incalza di fronte a noi? Oggi l'hanno arrestato!». Il governo Renzi sarà finalmente costretto ad approvare una vera legge anticorruzione scontentando Berlusconi e Alfano? Difficile. A proposito di affari sporchi, il gioco delle ‘quattro poltrone’ (una volta si chiamavano cantoni) colpisce anche Roma Capitale, meglio nota come Mafia Capitale. L’annuncio di un Giubileo straordinario fatto a sorpresa da papa Francesco venerdì scorso, ha avuto l’effetto di un terremoto sulle istituzioni italiane e capitoline, scatenando al contempo gli appetiti affaristici della solita cricca dei Grandi Eventi. Il sindaco Ignazio Marino ha subito battuto cassa con il governo, respingendo al mittente l’ipotesi di affidare la gestione dell’evento ad un commissario straordinario. Dal Campidoglio hanno fatto sapere che «nel 2000 il commissario lo fece il sindaco di allora», proprio quel Francesco Rutelli che adesso molti indicano come possibile coordinatore del nuovo Giubileo. Ipotesi a cui Marino ha subito chiuso la porta specificando che «questo è il Giubileo della Misericordia, non della cuccagna e delle poltrone». Ma quando si parla di Roma Ladrona la lingua del solito Salvini si scioglie senza freni: «Per Marino e Renzi la città è pronta, per me no. Lo sono affaristi, trafficoni e amici di Mafia Capitale». E come dargli torto visti i precedenti? Stasera, comunque, è in programma un summit tra sindaco e assessori in Campidoglio, mentre il sottosegretario alla P.A. Angelo Rughetti (Pd) provoca il Vaticano proponendo ai taccagni porporati di mettere mano al portafoglio. Le primarie del centrosinistra svoltesi domenica scorsa a Venezia stanno lì a dimostrare che il ‘sistema Renzi’ può implodere facilmente di fronte agli scandali di corruzione di cui si rende responsabile la classe dirigente e imprenditoriale italiana. Non si spiegherebbe altrimenti, se non con l’effetto Mose (l’inchiesta su tangenti e corruzione in Laguna), la limpida vittoria ottenuta dall’ex magistrato Felice Casson. Vero che Casson è persona conosciuta e stimata per la sua probità, ma è altrettanto vero che lui stesso ha scelto di essere civatiano, ovvero seguace delle ‘idee’ di Pippo Civati, l’eterno oppositore interno del Pd. Vincere, anzi stravincere, pur essendo civatiano, con oltre il 55% delle preferenze contro il 24% del favorito del Palazzo Nicola Pellicani, significa per l’ex pm aver intercettato appieno lo scontento e il disgusto per il renzismo imperante del ‘veneziano medio’. «Il nostro popolo», così festeggia oggi Casson intervistato da ‘Repubblica’, «ha chiesto di voltare pagina con forza, nel nome della trasparenza, della legalità e dell'etica. Un segnale importante, ha vinto tutta Venezia». A sinistra del Pd, invece, qualcosa si sta muovendo. Sabato scorso il segretario della Fiom Maurizio Landini ha riunito a Roma il primo nucleo (assai sparuto per la verità) di quella coalizione sociale che, nelle intenzioni del Saldatore della sinistra, dovrebbe opporsi alla visione neoliberista brussellese di cui il governo Renzi è il fedele esecutore in Italia. Ieri, ospite della tribuna domenicale di Lucia Annunziata, Landini ha confermato di non voler trasformare il sindacato in partito, criticato le iniziative di governo e Confindustria che «hanno tolto diritti a tutti», ribadito la necessità di «una riforma del sindacato e anche della Cgil» che in passato hanno commesso l’errore di abbandonare i lavoratori non garantiti e, infine, ripetuto di voler combattere «la battaglia contro il jobs act e per un nuovo statuto dei lavoratori». Tiepide, per non dire gelide, le reazioni dei liderini degli altri partitini della galassia rossa, tutti ciecamente gelosi del loro misero orticello. Il discorso vale per Nichi Vendola di Sel, Paolo Ferrero del Prc, ma anche per Susanna Camusso della Cgil e per lo stesso Pd. Paradossalmente, però, è proprio dal partitone della nazione renziano che arrivano dei tiepidi segnali di apertura. Le famigerate minoranze Dem hanno organizzato per sabato prossimo un’assemblea, a cui parteciperanno esponenti di Cgil e Sel, dal titolo inequivoco: A sinistra del Pd. Anima dell’ennesimo rassemblement della gauche italica è il bersaniano Alfredo D’Attorre che oggi su Repubblica definisce Landini un «interlocutore importante», ma nega che sabato «nascerà un correntone antirenziano». Sarebbe stata troppa grazia per chi in Italia ha ancora il coraggio di definirsi di sinistra. Ma il cortocircuito delle alleanze si sta verificando, ormai da tempo, anche nel centrodestra. Dopo essere stato cacciato dalla Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi ufficializza la sua personale candidatura a governatore del Veneto. Contro il leghista ufficiale Luca Zaia e contro la ‘ladylike’ renziana Alessandra Moretti. Un Tosi riscopertosi moderato (gli ex alleati di Forza Nuova hanno inscenato il suo funerale politico nel capoluogo scaligero) che adesso fa paura a Salvini. Il leader leghista si dimostra sprezzante verso un traditore che potrebbe allearsi con il «nulla» di Angelino Alfano e con Corrado Passera, ma teme la decisione di Forza Italia. Il consigliere di Berlusconi Giovanni Toti ha già avvertito l’altro Matteo di moderare i toni se non vuole perdere l’alleanza con gli azzurri in Veneto. Per questo è già in programma un nuovo incontro tra il Cav e felpetta nera.
L'inchiesta sulle "grandi opere" e quelle preoccupazioni di Renzi. Anche per le ombre sull'Expo, l'indagine rischia di offuscare agli occhi della Ue l'immagine delle riforme del governo. Che chiede chiarezza immediata, scrive “Panorama”. "Chi sta realizzando l’Expo", ha detto Matteo Renzi nel corso dell'ultima sua visita ai cantieri milanesi, "sta costruendo una grande cattedrale laica". Ma a quanto pare con qualche peccato laico di troppo, almeno stando alle carte dell'inchiesta sulle "grandi opere" condotta dalla procura di Firenze, che ha portato all'arresto di quattro persone tra cui Ercole Incalza, dirigente ai Lavori pubblici per 7 governi incluso l'attuale esecutivo (anche se dal ministero delle Infrastrutture precisano che non ha più incarichi dallo scorso dicembre e che era un consulente esterno), e ad altri 51 indagati. Secondo i magistrati, tra le "grandi opere" macchiate da affari illeciti ci sarebbe infatti anche l'appalto per il Palazzo Italia, progetto di "architettura-paesaggio" del padiglione italiano dell'Expo, con la commessa del valore di oltre 25 milioni di euro che sarebbe stata pilotata grazie agli stretti rapporti tra Stefano Perotti, imprenditore arrestato contemporaneamente a Incalza, e l'allora manager di Expo 2015 spa Antonio Acerbo, finito ai domiciliari lo scorso ottobre in una tranche dell'inchiesta milanese sulla cosiddetta "cupola degli appalti". Stando all'imputazione, Acerbo - che ha firmato il bando per Palazzo Italia - avrebbe turbato la gara "pilotandone l'aggiudicazione in favore" dell'impresa Italiana Costruzioni, alla guida di un'associazione temporanea di imprese (composta anche dal Consorzio Veneto Cooperativo). Suoi presunti complici sarebbero stati Perotti, "quale professionista interessato alla progettazione e direzione dei lavori" dell'opera, Giacomo Beretta, ex assessore milanese al Bilancio della Giunta Moratti, Castellotti e anche i "referenti della stessa Italiana Costruzioni", Attilio Navarra (presidente del cda), Luca Navarra e Alessandro Paglia. Sempre secondo gli inquirenti, che basano le loro accuse anche su una corposa serie di intercettazioni telefoniche, Acerbo - che avrebbe redatto un bando ad hoc - e gli altri indagati si sarebbero accordati "preventivamente e clandestinamente" per quella gara, aggiudicata nel dicembre 2013. Inoltre, nel capitolo dell'ordinanza del gip di Firenze relativo a Palazzo Italia si parla anche di una richiesta da parte di Perotti di incontrare il ministro dell'Infrastrutture Maurizio Lupi. Il 3 gennaio 2014, si legge, "Perotti nel riportare che si è accordato con l'ing. Incalza per incontrarsi presso la sede di Expo 2015, chiede a Franco Cavallo (altro imprenditore arrestato nella giornata di lunedì, ndr) di fare in modo, tramite Emanuele Forlani, di incontrare in ministro Lupi prima che inizi il sopralluogo". E Cavallo "ribatte che il ministro è già informato della richiesta di incontro". Anche se si è ancora nel terreno delle indagini e dei condizionali d'obbligo, ce n'è però abbastanza per preoccupare Palazzo Chigi, che rimane in attesa di un chiarimento da parte del ministro Maurizio Lupi, finito appunto nelle intercettazioni, auspicando al contempo che si faccia luce al più presto sul tutto, non solo sull'Expo, affinché l'impegno del governo contro la corruzione, incarnato in particolare dal commissario Raffaele Cantone, non venga offuscato agli occhi tanto dei cittadini quanto dell'Europa, considerando che sul tema l'Italia è da sempre nel mirino dell'Ue e delle istituzioni internazionali per i danni che ciò comporta alla nostra economia. Concentrato nel cercare di dimostrare all'Unione Europea che il Paese è impegnato nelle riforme e sta cominciando lentamente ad uscire dal tunnel, Matteo Renzi viene raccontato come a dir poco "infastidito" dalle notizie provenienti dall'inchiesta. "Serve chiarezza, in gioco sono l'immagine e la credibilità dell'Italia", incalzano i renziani che, per voce del capogruppo in commissione Giustizia Walter Verini, chiedono di riferire "presto" in Parlamento. E in attesa che la magistratura definisca i confini dell'inchiesta, il premier vuole mandare segnali politici chiari: per questo la "riflessione" per un "tagliando" sulla legge Severino, ipotizzata ieri proprio da Cantone, viene derubricata a opinione personale del commissario. "La Severino non si tocca almeno fino alla sentenza della Consulta", spiegano fonti di maggioranza, che non vogliono alimentare l'idea di cedimenti al proposito, mentre lo stesso Renzi ha chiesto agli alleati di trovare immediatamente (e finalmente) l'accordo sul ddl anti-corruzione per arrivare in tempi brevi alla sua approvazione da parte del Senato. Proprio nella serata di lunedì, tuttavia, la seduta della Commissione Giustizia del Senato con in discussione il disegno di legge anti-corruzione è stata sospesa per mancanza del numero legale dovuta all'assenza proprio dei parlamentari del Pd. Con un presumibile aumento del "disappunto" del premier Renzi.
Grandi opere, spuntano regali al ministro Lupi. "Abito sartoriale per lui e un lavoro al figlio". Nelle carte dell'inchiesta sugli appalti anche il titolare delle infrastrutture, che non è indagato. Secondo l'accusa avrebbe ricevuto doni per sé e per il figlio, incluso un rolex. La replica: "Mai chiesto favori", scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L’inchiesta di Firenze che ha portato all’arresto dell’uomo delle grandi opere Ercole Incalza punta dritta al ministro delle infrastrutture. Maurizio Lupi, uomo di peso nel governo Renzi in quota Nuovo Centrodestra, non è indagato ma secondo l’accusa, avrebbe goduto di incarichi di lavoro per il figlio Luca e di regali per la famiglia: un vestito sartoriale per Lupi e un Rolex da 10mila euro al figlio, in occasione della laurea. A regalare il vestito al ministro sarebbe stato Franco Cavallo, uno dei quattro arrestati che secondo gli inquirenti aveva uno “stretto legame” con Lupi tanto da dare “favori al ministro e ai suoi familiari". «Da una telefonata del 22 febbraio 2014 – si legge nell'ordinanza – emerge che Vincenzo Barbato (un sarto che avrebbe confezionato un abito per Emanuele Forlani capo segreteria del ministero e ciellino come il suo mentore ndr) sta confezionando un vestito anche per il ministro Lupi». Scambi di favori per accedere direttamente ai ricchi affari di progettazione dei lavori pubblici: dall’Alta velocità ferroviaria ai cantieri per le autostrade come Orte–Mestre e Cispadana fino al porto di Trieste. Al centro il manager pubblico Ercole Incalza che, puntualmente, affidava gli appalti all’imprenditore Stefano Perotti. Secondo il gip «effettivamente Stefano Perotti ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi». Secondo quanto riportato, uno degli indagati, Giulio Burchi, «racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro». Ecco l’intercettazione che svela lo strano intreccio: «Ho visto Perotti l’altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?». Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: «Il nostro Perottubus (soprannome di Perotti) ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco», ha vinto «anche il nuovo palazzo dell’Eni a San Donato e c’ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita».Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere. «Perotti – continua il Gip – nell’ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l’incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale persona fissa in cantiere Luca Lupi» per 2 mila euro al mese. La replica di Lupi è secca: «Non ho mai chiesto all’ingegner Perotti né a chicchessia di far lavorare mio figlio. Non è nel mio costume e sarebbe un comportamento che riterrei profondamente sbagliato. Mio figlio si è laureato al Politecnico di Milano nel dicembre 2013 e in attesa del visto per lavorare negli Stati Uniti ha lavorato da febbraio 2014 a febbraio 2015 presso lo studio Mor di Genova con un contratto a partita Iva per 1.300 euro netti al mese»."Le spiegazioni il ministro Lupi le ha già fornite. Prematuro trarre le conclusioni di colpevolezza di un intero sistema e un intero Governo". Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, ospite a "Otto e Mezzo", a proposito dell'inchiesta di Firenze su appalti di Grandi Opere e Tav. Il ministro conferma quindi l’incarico ricevuto dal figlio dallo studio Mor di Genova, uno degli snodi dell’inchiesta visto che Giorgio Mor è il cognato di Perotti. I due ne parlano a lungo al telefono: il 16 febbraio 2014 Mor sembra voler salvare almeno le forme e chiede al cognato Perotti se fosse possibile assumere il giovane Lupi “in maniera meno formale”: «Ci siamo, abbiamo fatto una riflessione che sembrava poco opportuno era la triangolazione». La “triangolazione”: secondo il gip è un’espressione che mette in relazione tre nomi, cioè Perotti, Mor e Luca Lupi. Il primo riceve l’incarico da Eni per un’attività di progettazione, stipula un contratto con il secondo affidandogli un incarico di coordinatore e il secondo nominerà come “persona fissa in cantiere” il terzo. Ovvero il neolaureato con il cognome di peso. Ecco uno scampolo dell’articolato sistema corruttivo “che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori” secondo i magistrati di Firenze. Tutto partiva dalla “struttura tecnica di missione”, un ufficio del ministero cucita su misura da Incalza e crocevia di presunti favori e mazzette per le imprese che lavorano nei ricchi appalti pubblici. Questa l’intercettazione della telefonata del 16 dicembre 2014 tra il ministro e il suo braccio destro. Secondo gli inquirenti la conversazione «ben rappresenta» l’importanza della struttura alle dirette dipendenze del ministro. «Su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la struttura tecnica di missione non c’è più il governo!», urla la telefono Maurizio Lupi con Ercole Incalza di fronte alla proposta di soppressione o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio. Una crisi di governo con il mancato appoggio del suo partito, il Nuovo Centrodestra, solo annunciata: Incalza lascia il ministero con la fine dell’anno e della ristrutturazione non c'è nessuna traccia. Ora la difesa a spada tratta dell’operato del suo factotum: «L’ingegner Incalza – spiega Lupi – era ed è una delle figure tecniche più autorevoli che il nostro Paese abbia sia da un punto di vista dell’esperienza tecnica nazionale che della competenza internazionale. Non a caso è la persona che viene definita come il padre della “legge obiettivo” ed il padre della possibilità che nel nostro Paese si siano realizzate le grandi opere».
Ercole Incalza arrestato: cinque anni dopo la cricca, la storia si ripete. Appalti truccati, affidamenti pilotati, mazzette e pressioni, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Cinque anni dopo la storia si ripete. Forse è meglio dire che non si è mai interrotta. Cinque anni fa, più o meno in questi tempi, il Ros dei carabinieri e la procura di Firenze misero le mani sulla cricca del G8, su Balducci, De Santis, Della Giovampaola, Rinaldi, Anemone e tutti gli affari del “sistema gelatinoso” che per anni, dalla cabina di regia della struttura Grandi eventi della presidenza del Consiglio dei ministri ha sottratto al Paese miliardi e miliardi in corruzione e malaffare al Paese. Ieri mattina gli stessi magistrati fiorentini, Luca Turco, Giulio Monferini e Giuseppina Mione sulla base delle indagini svolte dagli stessi uomini del Ros dei carabinieri, hanno firmato l’atto secondo della stessa storia. Cambiano i protagonisti. Salgono sulla ribalta nomi che in quell’indagine erano rimasti sullo sfondo, come il superdirigente del ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza. Forse sono un po’ meno sfacciati i metodi. Il risultato è lo stesso: corruzione, appalti truccati, affidamenti pilotati, il mercato degli appalti pubblici falsato da mazzette, pressioni, ricatti. E il solito giro di “altre utilità”: orologi, abiti, viaggi, posti di lavoro, incarichi. Non pervenuti, al momento almeno, i benefit in forma di massaggi e cene eleganti. Presente, invece, anche oggi il prelato, il monsignore di turno con spiccato senso degli affari. Quanta politica tra gli indagati. Quattro gli arrestati: il super-dirigente del Ministero dei Lavori Pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza, il suo collaboratore Sandro Pacella e gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo. Sono tutti accusati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà delle gare pubbliche e altri delitti contro la pubblica amministrazione. Il gip ha rifiutato un quinto arresto (l’imprenditore Massimo Fiorini). Ma sono una cinquantina gli indagati, ex sottosegretari, ex parlamentari ed ex amministratori locali. C’è Rocco Girlanda, ex sottosegretario ai trasporti ed braccio destro di Denis Verdini; Antonio Bargone, anche lui ex sottosegretario ai Trasporti ai tempi dei governi Prodi e D’Alema e poi presidente della autostrada Sat; l'ex sottosegretario allo Sviluppo economico Stefano Saglia (pdl) poi nel cda di Terna; Vito Bonsignore, ex presidente del gruppo Ppe; l’ex senatore azzurro Fedele Sanciu. Non sono indagati ma nelle intercettazioni spuntano spesso i nomi del ministro Maurizio Lupi, del figlio Luca in quanto beneficiario di un posto di lavoro, un Rolex da diecimila euro e qualche abito di sartoria. E di Riccardo Nencini, viceministro alle Infrastrutture con delega ai lavori pubblici. Sopra tutto e tutti c’è Ettore Incalza: li controlla, li contatta e ottiene il via libera per affidamenti, perizie, direzioni lavori e appalti. In cambio la sua società, la Green Field System, ottiene consulenze e direzioni lavori. Il ruolo di Incalza. Sopravvissuto a sette governi (l’unico che lo allontana è Di Pietro) e una dozzina di inchieste, Ercole Incalza, nonostante la pensione, continua a guidare, come consulente esterno, la struttura tecnica di missione della cosiddette Grandi Opere, organismo del ministero delle Infrastrutture che, ripreso il potere che gli aveva sottratto Balducci con una struttura concorrente, decide la sorte di miliardi di fondi pubblici, segue la progettazione e l'approvazione delle grandi opere. II nome di Incalza è spuntato nell’inchiesta G8, nelle intercettazioni sul Mose e sull'Expo, è indagato per la Tav di Firenze (associazione a delinquere finalizzata a corruzione e abuso). A luglio 2014 i Cinque stelle avevano fatto un’interrogazione alla Camera. Il ministro Lupi aveva difeso fino alla morte l’integrità e le capacità professionali di Incalza. Intanto il figlio lavorava già per una sua società. Il cuore dell'inchiesta. Il gip Angelo Pezzuti affronta in 268 pagine e 19 capitoli tutte le singole accuse mettendo insieme intercettazioni, testimonianze e accertamenti bancari. E individua proprio nella legge il principale alleato dell’oggetto dell’inchiesta: nel 2001, per snellire i tempi di realizzazione delle opere pubbliche, il governo decise che il general contractor era anche il direttore dei lavori. L’inchiesta prende il nome “Sistema” dalla Green Field System srl, società affidataria di numerosi dietro la quale ci sarebbero lo steso Incalza e il costruttore Stefano Perotti. Il “modus operandi” è fondato, scrive il gip, sui “reciproci rapporti di interesse illecito” tra gli indagati. Le società consortili aggiudicatarie degli appalti delle Grandi Opere sarebbero state indotte da Ercole Incalza - capo della struttura di missione competente sulle Grandi Opere - a conferire all'imprenditore Stefano Perotti, o a professionisti e società a lui riconducibili, incarichi di progettazione e direzione di lavori “garantendo di fatto il superamento degli ostacoli burocratico-amministrativi”. In cambio Perotti avrebbe assicurato l'affidamento di incarichi di consulenza o tecnici a soggetti indicati dallo stesso Incalza, destinatario di incarichi “lautamente retribuiti” conferiti dalla Green Field System srl, società affidataria di direzioni lavori. A Francesco Cavallo, sempre secondo l'accusa, veniva riconosciuto da parte di Perotti, tramite società a lui riferibili, una retribuzione mensile di circa 7.000 euro “come compenso per la sua illecita mediazione”. Perotti, responsabile della società Ingegneria Spm e “figura centrale dell'indagine”, sono stati affidati da diverse società incarichi di direzione lavori per la realizzazione di numerose "Grandi Opere", ferroviarie e autostradali. Tra queste figurano l’Alta velocità Milano-Verona, il nodo Tav di Firenze per il sotto attraversamento della città; l’alta velocità Firenze Bologna, la Genova-Milano, il Terzo Valico di Giovi, l'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, l'autostrada Reggiolo Rolo-Ferrara, l’autostrada Eas Ejdyer-Emssad in Libia, il nuovo terminal del porto di Olbia. Perotti avrebbe anche “influito” illecitamente sull’aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo 2015. La commessa del valore di oltre 25 milioni di euro sarebbe stata pilotata grazie agli stretti rapporti tra Perotti e l'allora manager di Expo 2015 spa Antonio Acerbo, finito ai domiciliari in ottobre. In generale l’inchiesta documenta le relazioni instaurate da Perotti con funzionari delle stazioni appaltanti interessate alle opere in questione, “indotti – si legge nell’ordinanza - ad inserire specifiche clausole nei bandi finalizzate a determinarne l'aggiudicazione”. Il valore degli appalti affidati a Perotti si aggira sui 25 miliardi (anche la Metro C di Roma). I costi sono lievitati anche del 40 per cento. Ognuno dei 19 capitoli dell’ordinanza ricostruisce l’affidamento di un appalto e la rete di favori e pressioni. Ed è arricchito e supportato da intercettazioni telefoniche. Illuminante per capire il ruolo e il potere di Incalza sono le parole di Giovanni Gaspari, alto dirigente delle Ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture. “Ercolino...è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...è il dominus totale” dice il 25 novembre del 2013. Dall’altra parte del telefono c’è Giulio Burchi, allora presidente di Italferr Spa e indagato nell'inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. “Come emerge dalle indagini - si legge nell'ordinanza - Incalza dirige con attenzione ogni grande opera, controllandone l'evoluzione in ogni passaggio formale: è lui che predispone le bozze della legge obiettivo, e' lui che, di anno in anno, individua le grandi opere da finanziare e sceglie quali bloccare e quali mandare avanti, da lui gli appaltatori non possono prescindere”. E senza il suo intervento, dice Gaspari a Burchi, “al 100% non si muove una foglia, fa sempre tutto lui”. Il bando di gara per l'incarico di collaborazione temporanea al ministero, poi vinto da Incalza, Gaspari sostiene che quel bando “naturalmente si adatta solo ad Ercolino”. Tra i requisiti c’è che l’incaricato deve aver fatto il capo della struttura tecnica di missione per 10 anni. “Cioè – osserva Gaspari - solo Incalza. Vabbè...non l'hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino”. Alla fine di una lunga trattativa per sbloccare uno dei lavori, Perotti commenta: “Finalmente la chiesa è tornata al centro del villaggio”. Il gip spiega che si tratta di un proverbio francese che sta a significare “rimettere le cose al loro posto”. Gli investigatori mettono in evidenza il legame tra Sandro Pacella ed Ercole Incalza dove il primo “funge da segretario, mediatore e consulente del secondo”. Sono indispensabili l’uno all’altro. Ed entrambi si preoccupano molto a giugno 2014 quando il decreto madia sulla Pubblica amministrazione stabilisce che non è più possibile restare nella pubblica amministrazione, neppure con incarichi di consulenza, dopo la pensione. Dice Pacella a Incalza: “ Stai lavorando, no? Che cazzo stai a fare, hai visto la norma che hanno fatto? Chi è in pensione non potrà più lavorare ottenendo incarichi dirigenziali o di consulenza per le pubbliche amministrazioni. Questi figli di mignotta stavano ad aspettare apposta perche cosi una volta approvato manco ti danno lo stipendio di quest'anno. Siamo sulla strada…”. Incalza saprà lavorare. E saprà trovare il modo per restare come consulente. Sono quelle ricevute – o capitate – a Luca Lupi, il figlio del ministro che pure, come sottolinea il padre, “è laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano e forse non avrebbe bisogno di tante raccomandazioni”. In questo caso è meglio far parlare direttamente il gip. “Effettivamente – scrive - Stefano Perotti ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi”. Il 21 ottobre 2014, uno degli indagati, Giulio Burchi, racconta al telefono al dirigente Anas, ing. Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi. “Ho visto Perotti l'altro giorno - dice Burchi al telefono - tu sai che lui e il ministro sono più che intimi perché gli ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi”. Il primo luglio, sempre Burchi a Averardi: “Ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco, ha vinto anche il nuovo palazzo dell'Eni a San Donato e c'ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita”. Il gip spiega che “nell'ambito della commessa Eni, Perotti stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l'incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà Luca Lupi” per 2 mila euro al mese. Il ministro Lupi corregge e dice che sono “1.300”. Luca Lupi sarebbe destinatario anche di un Rolex dal valore di circa 10mila euro come regalo di laurea della famiglia Perotti. Qualche cosina sarebbe scappata fuori anche per il babbo, ad esempio un vestito sartoriale, regalo, questa volta, di Franco Cavallo (uno dei quattro arrestati). Abiti di sartoria anche per E.F. membro della segreteria del ministro. In qualche telefonata Perotti e Mor si preoccupano circa l’opportunità di aver assunto il figlio del ministro. Il gip scrive che “la preoccupazione di Stefano Perotti e Giorgio Mor non è comprensibile al di fuori di uno scenario illecito. Nulla può impedire a costoro di assumere le persone che vogliono” salvo che la collaborazione “possa essere immaginata quale corrispettivo di qualche utilità fornita da Maurizio Lupi per il tramite di Ettore Incalza”. Incalza suggeritore di Ncd? II legame tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi ed in generale con il Nuovo Centro Destra risulta evidente nel messaggio e nella telefonata che il primo ha con una tal Daniela che adopera un telefono intestato al Ministero delle Infrastrutture. In queste telefonate Incalza afferma di “aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi”. Nell’ordinanza si segnala che “questa Daniela potrebbe essere la stessa persona che il 7 febbraio 2014 ha inviato un sms ad Ercole Incalza avvisandolo del ritorno di un tal Carlea “quello cattivo” che “ha detto che te la farà pagare a te e ad Aiello!!”. Daniela suggerisce ad Ercole Incalza di allearsi con Aiello. Illuminante dei rapporti tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi è la telefonata del 17 febbraio 2014 in cui il ministro si lamenta di essere stato “abbandonato” e il super-dirigente lo contesta dicendo: “Ma se ti ho pure scritto il programma”. Il 28 febbraio 2014, sempre al telefono, Lupi ricorda ad Incalza di aver nominato Nencini solo per la “tua sponsorizzazione” e lo prega di invitarlo a “non rompere i c…..”. In altre telefonate Incalza sottolinea come al ministero siano arrivati “due suoi amici socialisti: Umberto Del Basso De Caro e Riccardo Nencini”. Nencini bolla queste parole come “millantato credito”. Anche perché il 17 febbraio il governo Letta non era neppure caduto. Nella segreteria del viceministro Riccardo Nencini lavora Massimo Romolini, ispettore della Guardia di finanza una volta in servizio presso la procura. Il 6 agosto 2014 lo chiama al telefono Sandro Pacella per avere informazioni circa “quella cosa in procura”. Romolini lo rinvia al giorno dopo. Quando lo incontrerà in ufficio.
Grandi opere, tangenti e favori. «Se ti cacciano cade il governo». Il legame tra Lupi e il manager. L’imprenditore Perotti racconta al cognato di aver trovato un lavoro al figlio del ministro. Pressione per le nomine degli emendamenti, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Il loro legame era talmente stretto che il 2 luglio scorso, quando ha dovuto rispondere alle interrogazioni parlamentari, il ministro Maurizio Lupi si è fatto scrivere il discorso dal difensore di Ercole Incalza, l’avvocato Titta Madia. E pur di difendere il ruolo di quel manager ormai in pensione, ha minacciato addirittura di far cadere il governo. Perché in realtà era proprio Incalza il vero potente, capace di guidare le scelte di politici e imprenditori, di condizionare le scelte degli uomini di governo pronti a correre in suo soccorso quando era in pericolo la riconferma come dirigente della Struttura tecnica di missione, cabina di regia di tutte le grandi opere, dalla Tav all’Expo passando per la Metro C di Roma, quella di Milano e i grandi tratti autostradali, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Nel computer conservava una lettera spedita nel 2004 a Silvio Berlusconi per chiarirgli i motivi della nomina a Provveditore di Angelo Balducci, a riprova dell’esistenza di una «rete» clientelare che dura da oltre dieci anni. E gli avrebbe permesso di ottenere tangenti da centinaia di migliaia di euro, oltre all’assunzione di figli e parenti degli amici, primo fra tutti proprio il rampollo di Lupi, Luca, beneficiato con un incarico all’Eni da 2.000 euro al mese. Il ministro non aveva evidentemente bisogno di chiedere: arrivavano abiti di sartoria, un Rolex da 10.000 euro per la laurea del ragazzo, fine settimana nella splendida dimora fiorentina di quello Stefano Perotti diventato l’alter ego di Incalza e ora come lui finito in carcere. Sono le indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente a svelare i retroscena degli appalti assegnati negli ultimi anni. Comprese le assunzioni di altri parenti «eccellenti»: il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, quello dell’ex parlamentare Angelo Sanza, il nipote di monsignor Francesco Gioia. Lupi è certamente uno dei maggiori sponsor e lo dimostra a fine dicembre quando si fa aspro lo scontro nel governo sulla gestione dei Lavori pubblici. Scrive il giudice nell’ordinanza di cattura: «La sera del 16 dicembre il ministro Lupi chiama l’ingegner Incalza e rivendica il merito di aver bloccato l’emendamento con la richiesta di trasferire la Struttura tecnica di missione alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri: “L’altra cosa che mi dispiace e ne parlerò con la Ida domani, è questa roba per cui è evidente che... cioè ancora continuare a dire che nessuno ha difeso la Struttura tecnica di missione mi fa girare molto i c... eh! scusami, perché se non l’avessi detta io, se non fossi intervenuto io, lasciate stare il Pd che la vuole trasferire, non entrava nell’emendamento governativo questa cosa qui”. Il ministro Lupi intende difendere a qualsiasi costo la Struttura fino a minacciare una crisi di governo: “Vado io guarda, siccome su questa cosa, te lo dico già. Però io non voglio, cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che sennò vanno a c...! Ho capito! Ma non possono dire altre robe! Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura non c’è più il governo! L’hai capito, l’hanno capito?!”». Incalza dispensa favori proprio grazie a Perotti. E così «sistema» Luca Lupi. Il 30 gennaio 2014 «Perotti informa il cognato Giorgio Mor che è riuscito a convincere i dirigenti Eni per avviare l’attività di progettazione loro affidata, gli prospetta che ha il “bisogno” di dover impiegare proprio per questa attività un “ragazzo” che verrà pagato dallo stesso Stefano Perotti: “È un ragazzo che vale molto, l’ho visto, l’ho conosciuto”. Il “ragazzo” è Luca Lupi». Annota il giudice: «Va rimarcato che il 21 febbraio 2014 Philippe Perotti, figlio di Stefano Perotti, come misura di precauzione in seguito alla pubblicazione di un articolo, invia al padre Stefano un messaggio, richiedendo di valutare l’opportunità di allontanare Luca Lupi dal cantiere Eni, e di adottare le dovute cautele nelle comunicazioni sia telefoniche che per posta elettronica: “Bisogna pensare a tirar fuori Luca da Eni. Evitiamo il problema”». Nella primavera scorsa è Franco Cavallo, collaboratore di Perotti, a saldare gli abiti ordinati dal ministro e da suo figlio, mentre il manager regala al ragazzo il prezioso orologio. Perotti e Lupi sono evidentemente amici di famiglia. Annota il giudice: «Il 14 settembre 2013, il ministro Lupi avvisa Perotti che stanno per arrivare per la cena: “Noi dovremmo essere lì verso le 8 e mezza”. Due giorni dopo Christine Mor (moglie di Perotti) racconta alla sorella che ha avuto degli ospiti a cena nel weekend: “Tutto a posto, finalmente sono andati via, anche se è stato bello però molto impegnativo. Erano in 8 con due guardie del corpo, quindi hanno mangiato da venerdì, c’era Maurizio con sua moglie, c’era Frank con la moglie, c’era Toccafondi con la moglie, i primi quattro hanno dormito in casa...». In realtà Lupi non è l’unico a difendere la struttura e soprattutto Incalza. L’inchiesta condotta dai pm di Firenze coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo svela i nomi degli altri. Il 19 febbraio 2014 Giovanni Gaspari, nipote del dc Remo, consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, parla con il manager Giulio Burchi e commenta la conferma di Incalza. Gaspari :
«È veramente una cosa, una schifezza tale che non ne posso più, mi viene anche a me da vomitare. Si sono scatenati tutti alla difesa di Incalza oggi, sono passati da Alfano a Schifani, ai general contractor».
Burchi : «Beato Perotti che prende tutte le direzioni dei lavori d’Italia».
Gaspari : «Si, si, Perotti si prenderà tutto».
In realtà a parlare dei propri rapporti con il ministro dell’Interno Angelino Alfano è lo stesso Incalza al telefono con un’amica alla quale racconta «di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che il Nuovo centrodestra avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Alfano e di Lupi».
Incalza parla con i ministri e tratta con i sottosegretari. A leggere le intercettazioni si comprende che è in grado di orientare le loro scelte politiche. «Altro esempio dell’influenza che Ercole Incalza sembra avere sulle decisioni del ministro - scrive il giudice - si trae il 28 febbraio 2014 quando Maurizio Lupi ha telefonato al primo e lo ha informato che, in seguito alla “sponsorizzazione” di quest’ultimo, avevano nominato viceministro per le Infrastrutture il senatore Riccardo Nencini: “Dopo che tu hai dato, hai coperto, hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro alle Infrastrutture”. Lupi invita quindi Incalza a parlargli per dirgli “che non rompa i c...!”. Nel corso di successive telefonate Incalza fa presente che al ministero per le Infrastrutture sono arrivati due sue compagni socialisti facendo riferimento a Nencini e Umberto Del Basso De Caro. Il suo amico commenta le nomine: “Complimenti, sempre più coperto”. Effettivamente Del Basso De Caro si spende molto per farlo riconfermare». E ottiene vantaggi.
«Il 20 ottobre 2014 Incalza gli segnala che non è stato presentato un emendamento che riguarda la Struttura. Del Basso assicura che provvederà subito a far presentare l’emendamento dall’onorevole Enza Bruno Bossio. Un’ora dopo manda un sms e conferma l’avvenuto deposito». La norma in realtà viene bocciata ma la sua collaboratrice rassicura Incalza «perché sarà riproposto nella legge di Stabilità presentata direttamente dal governo avendo Del Basso già parlato con il ministro Lupi». Due giorni dopo Del Basso manda un sms a Incalza e «chiede aiuto perché un emendamento relativo a un’opera di suo interesse non è passato: “Mi affido, come sempre, al tuo senso di responsabilità e alla tua esperienza della quale ho assoluto bisogno per realizzare l’opera”».
Tangenti, arrestato Ercole Incalza: dirigente dei Lavori pubblici per sette governi. Inchiesta della procura di Firenze su appalti di Grandi Opere e Tav. Blitz dei Ros: in manette anche gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, e il collaboratore di Incalza Sandro Pacella. 51 indagati, anche politici. Nelle carte presunti favori al figlio di Lupi e regali. Il ministro: "Mai chiesto nulla". Le intercettazioni: "Ercolino fa il bello e il cattivo tempo", scrivono Franca Selvatici e Gerardo Adinolfi su “La Repubblica”. Corruzione, induzione indebita, turbativa d'asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione: sono alcune delle accuse che hanno portato all'arresto dell'ex super-dirigente del ministero dei Lavori pubblici Ercole Incalza, uno dei quattro arrestati nell'inchiesta condotta dal Ros e dai pm fiorentini Giuseppina Mione, Luca Turco e Giulio Monferini. In tutto gli indagati sono 51. Gli altri tre finiti in manette sono gli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, nonché Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. Nel mirino dell'inchiesta la gestione illecita degli appalti delle grandi opere, in quello che i magistrati definiscono un "articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori". L'inchiesta nasce dagli appalti per l'Alta velocità nel nodo fiorentino e per la costruzione del sotto-attraversamento della città. Da lì l'indagine si è allargata a tutte le più importanti tratte dell'Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altre Grandi Opere, compresi alcuni che riguardano l'Expo. "Il Gip non ha ritenuto che sussistessero gli elementi di gravità per contestare l'associazione per delinquere e l'ha rigettata", ha precisato poi il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo. Il comandante del Ros, Mario Parente, ha parlato di costi di opere pubbliche che "lievitavano anche del 40 per cento". Creazzo ha inoltre reso noto che "il totale degli appalti affidati a società legate a Perotti è di 25 miliardi di euro". Nel mirino della procura i cantieri della linea ferroviaria Av Milano-Verona e Genova-Milano, l'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre e l'autostrada regionale Cispadana. E ancora l'hub portuale di Trieste, l'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria e l'autostrada in Libia Ras Ejdyer-Emssad.
CHI E' INCALZA. Il principale indagato dell'inchiesta, denominata Sistema, è proprio Ercole Incalza. "Ercolino, che fa il bello e il cattivo tempo", come lo descrive un alto dirigente delle Ferrovie dello Stato, da oltre trent'anni figura di primissimo piano nell'ambito del ministero dei Lavori Pubblici, passato per sette diversi governi, fino all'esecutivo Renzi. Ma lo stesso ministero precisa che dallo scorso dicembre non ha più alcun incarico, neppure a titolo gratuito. "Come emerge dalle indagini - si legge nell'ordinanza - Incalza dirige con attenzione ogni grande opera, controllandone l'evoluzione in ogni passaggio formale: è lui che predispone le bozze della legge obiettivo, è lui che, di anno in anno, individua le grandi opere da finanziare e sceglie quali bloccare e quali mandare avanti, da lui gli appaltatori non possono prescindere". E senza il suo intervento, dice Giovanni Paolo Gaspari, già alto dirigente del Gruppo ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, al telefono con Giulio Burchi, già presidente di Italferr spa, "al 100% non si muove una foglia... si sempre tutto lui fa... tutto tutto tutto!... ti posso garantire... ho parlato con degli amici..". Ma aggiungono anche: "Vabbè...ma non l'hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino?".
I POLITICI INDAGATI. Fra gli indagati anche politici già sottosegretari come Vito Bonsignore, ex Forza Italia e Ncd, e Antonio Bargone, Pd ed ex sottosegretario ai lavori pubblici nei governi Prodi e D'Alema, in relazione alla promessa della direzione lavori all'ingegnere Stefano Perotti da parte della sociatà consortile Ilia Orme che proponeva il project financing per la realizzazione dell'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre. Tra i politici coinvolti anche Stefano Saglia, ex Pdl e Ncd ed ex sottosegretario al ministero per lo Sviluppo economico, indagato per turbativa d'asta in relazione al bando di gara emessa dall'autorità portuale di Trieste per il collaudo della Hub portuale di Trieste in cui compare anche il nome di Rocco Girlanda, ex Pdl.
IL MINISTRO LUPI E IL FIGLIO LUCA. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Firenze compare anche Luca Lupi, figlio del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, entrambi non indagati "Effettivamente, Stefano Perotti", l'imprenditore arrestato, "ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi", dice il magistrato. Il gip annota che il 21 ottobre 2014, uno degli indagati, Giulio Burchi, "racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi". Segue l'intercettazione: "Ho visto Perotti l'altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?". Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: "il nostro Perottubus ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco", ha vinto "anche il nuovo palazzo dell'Eni a San Donato e c'ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita". "Perotti - continua il gip - nell'ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l'incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale 'persona fissa in cantiere' Luca Lupi" per 2 mila euro al mese. Replica però il ministro: "Non ho mai chiesto all'ingegner Perotti né a chicchessia di far lavorare mio figlio. Non è nel mio costume e sarebbe un comportamento che riterrei profondamente sbagliato".
I REGALI. Nell'ordinanza si parla anche di regali che gli arrestati avrebbero fatto al ministro e ai suoi familiari: un vestito sartoriale a Lupi e un Rolex da 10mila euro al figlio, in occasione della laurea. A regalare il vestito al ministro sarebbe stato Franco Cavallo, uno dei quattro arrestati oggi che secondo gli inquirenti aveva uno "stretto legame" con Lupi tanto da dare "favori al ministro e ai suoi familiari". "Da una telefonata del 22 febbraio 2014 - si legge nell'ordinanza - emerge che Vincenzo Barbato", un sarto che avrebbe confezionato un abito per Emanuele Forlani, della segreteria del ministero, "sta confezionando un vestito anche per il ministro Lupi". Tra le pagine dell'ordinanza spuntano anche le intercettazioni delle conversazioni di Lupi con Incalza. "Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura tecnica di missione non c'è più il governo!..", dice in una conversazione telefonica il ministro all'ingegnere ora in arresto. "L'importanza della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture - scrive il Gip - è ben rappresentata" nel colloquio: "Il ministro Lupi, infatti, a fronte della proposta di soppressione di tale struttura o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio arriva a minacciare una crisi di governo". Tra i luoghi perquisiti - oltre ad uffici della Rete Ferroviaria Italiana Spa e dell'Anas International Enterprises - anche ambienti della Struttura di Missione presso il ministero delle Infrastrutture, delle Ferrovie del Sud Est srl, del consorzio Autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, dell'autostrada regionale Cispadana spa e dell'Autorità portuale Nord Sardegna. Alcune perquisizioni sono state svolte con il concorso di personale dell'Agenzia delle Entrate per gli accertamenti di competenza in materia fiscale. L'esecuzione dei provvedimenti ha interessato le province di Roma, Milano, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Padova, Brescia, Perugia, Bari, Modena, Ravenna, Crotone e Olbia. Sono passati 731 giorni da quando il presidente del Senato Grasso ha presentato il suo disegno di legge, uno strumento utile per fermare la corruzione", dice il procuratore antimafia Franco Roberti commentando gli arresti. "Bisognerebbe approvare la legge sulla corruzione nella versione, a mio avviso, proposta dal presidente del Senato Grasso, e poi probabilmente bisognerebbe intervenire anche sulla cosiddetta legge Obiettivo del 2001. Adesso - ha spiegato - è presto per definire i cordoni di questo eventuale intervento ma probabilmente qualcosa bisogna rivedere anche in quella legge". Proprio oggi, in commissione il governo ha presentato il proprio emendamento alla legge anti-corruzione che dovrebbe arrivare in aula la settimana prossima.
Caso Incalza, le intercettazioni: «Ercolino è il dominus totale». Dalle telefonate registrate la rete di rapporti intorno a Incalza e agli altri indagati. Compare anche il ministro Lupi, che minaccia la crisi di governo «se viene abolita la struttura» dello stesso Incalza, e che avrebbe ricevuto favori per il figlio Luca, scrive “Il Corriere della Sera”. «...su questa roba ci sarò io e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo!»: con queste parole il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi si rivolge il 16 dicembre 2014 ad Ercole Incalza in una telefonata intercettata dal Ros nell’ambito dell’inchiesta di Firenze. Secondo gli inquirenti la conversazione «ben rappresenta» l’importanza della Struttura tecnica del dicastero delle Infrastrutture di cui era a capo Incalza e che opera - almeno secondo l’organigramma - alle dirette dipendenze del ministro. Maurizio Lupi è anche citato nelle intercettazioni dell’inchiesta in relazione ad alcuni favori avuti per il figlio Luca da Stefano Perrotti, uni degli arrestati. Secondo Lupi, Incalza «era ed è una delle figure tecniche più autorevoli che il nostro Paese abbia sia da un punto di vista dell’esperienza tecnica nazionale che della competenza internazionale, che gli è riconosciuta in tutti i livelli». Il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini sarebbe stato nominato grazie alla «sponsorizzazione» di Incalza. È quanto emerge da una telefonata tra Lupi e lo stesso Incalza. La telefonata è del 28 febbraio 2014 e a chiamare è Lupi: «Dopo che tu hai dato...hai coperto...hai dato la sponsorizzazione per Nencini...l’abbiamo fatto viceministro». Maurizio Lupi è chiamato in causa anche per altre telefonate. «Il ministro - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Incalza e di altri tre indagati - a fronte della proposta di soppressione» della Struttura di Missione «o di passaggio della stessa sotto la direzione della presidenza del Consiglio arriva a minacciare una crisi di governo». Nel provvedimento viene quindi riportato un brano della conversazione intercettata. Dice Lupi: «...vado io guarda... siccome su questa cosa...te lo dico già...però io non voglio...cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che senno’ vanno a cagare!...cazzo!...ho capito!... ma non possono dire altre robe!... su questa roba ci sarò io li e ti garantisco che se viene abolita la Struttura Tecnica di Missione non c’è più il governo!...l’hai capito non l’hanno capito?!». «Effettivamente, Stefano Perotti», l’imprenditore arrestato, «ha procurato degli incarichi di lavoro a Luca Lupi»: è quanto si legge nell’ordinanza del Gip. Secondo quanto riportato, uno degli indagati, Giulio Burchi, «racconta anche al dirigente Anas, ingegner Massimo Averardi, che Stefano Perotti ha assunto il figlio del ministro Maurizio Lupi». Segue l’intercettazione: «Ho visto Perotti l’altro giorno, tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più. Perché lui ha assunto anche il figlio, per star sicuro che non mancasse qualche incarico di direzione lavori, siccome ne ha soli 17, glieli hanno contati, ha assunto anche il figlio di Lupi, no?». Poi, il primo luglio 2014, sempre Burchi a Averardi: «Il nostro Perottubus ha vinto anche la gara, che ha fatto un ribasso pazzesco», ha vinto «anche il nuovo palazzo dell’Eni a San Donato e c’ha quattro giovani ingegneri e sai uno come si chiama? Sai di cognome come si chiama? Un giovane ingegnere neolaureato, Lupi, ma guarda i casi della vita». «Perotti - continua il Gip - nell’ambito della commessa Eni, stipulerà un contratto con Giorgio Mor, affidandogli l’incarico di coordinatore del lavoro che, a sua volta, nominerà quale persona fissa in cantiere Luca Lupi» per 2 mila euro al mese. «Ercolino...è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...o dominus totale». Così un alto dirigente delle Ferrovie dello Stato e consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, Giovanni Paolo Gaspari, descrive Ercole Incalza in una telefonata intercettata dal Ros il 25 novembre del 2013. Al telefono con Gaspari c’è Giulio Burchi, allora presidente di Italferr Spa e indagato nell’inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. «Senza l’intervento di Ercolino, dice Gaspari al telefono con Burchi, «al 100% non si muove una foglia...si sempre tutto lui fa...tutto tutto tutto!...ti posso garantire...ho parlato con degli amici..» Anche parlando del bando di gara per l’incarico di collaborazione temporanea, poi vinto da Incalza, Gaspari sostiene che quel bando «naturalmente si adatta solo ad Ercolino. Cioè deve aver fatto il capo della struttura tecnica di missione per 10 anni senno’ non può concorrere a fare il capo della struttura tecnica...hai capito?». E poi conclude: «Vabbè...non l’hanno capito che la gente si sta scocciando di tutte queste porcate e prima o poi farà casino». Nelle intercettazioni si parla anche di Expo. In una telefonata registrata e agli atti dell’inchiesta, Stefanno Perotti riferisce ad un professionista, l’architetto Marco Visconti, delle «entrature» tra i responsabili dell’iniziativa milanese: «Sappia che in quel tipo di cliente abbiamo delle relazioni molto elevate quindi... abbiamo recentemente vinto la gara per il Palazzo Italia con Italiana Costruzioni... quindi siamo un supporto di ingegneria per questa attività e abbiamo relazioni anche assolutamente trasparenti ma di grande stabilità con l’amministratore delegato, direttore generale e commissario...».
Il "Sistema" grandi opere tra vendette, favori e tangenti. Dalla Tav a Expo, blitz dei pm di Firenze: costi lievitati del 40%, giro da 25 miliardi. Le intercettazioni contro Incalza: "Ercolino è il dominus, fa il bello e cattivo tempo", scrivono Massimo Malpica Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Appalti pubblici e grandi opere ancora nel mirino della magistratura. Un blitz del Ros disposto dalla procura di Firenze ieri ha fatto scattare le manette ai polsi di Ercole Incalza, grande burocrate del ministero delle Infrastrutture e Trasporti che ha attraversato sette governi nell'arco di tre lustri, fino al dicembre 2014 capo della struttura tecnica di missione del dicastero. Oltre a Incalza, l'ordinanza del gip fiorentino Angelo Antonio Pezzuti spedisce dietro le sbarre Sandro Pacella, funzionario dello stesso ministero e stretto collaboratore di Incalza, l'imprenditore Stefano Perotti e Francesco Cavallo, presidente del cda di Centostazioni, spa del gruppo Fs. Gli indagati sono in tutto 51, tra loro anche gli ex sottosegretari alle Infrastrutture Rocco Girlanda (Pdl) e Antonio Bargone (Pds), l'ex sottosegretario allo sviluppo Economico Stefano Saglia e l'ex europarlamentare Vito Bonsignore, gli ultimi due ora nel Ncd. Ma nella bufera finisce anche il ministro Maurizio Lupi (Ncd), del quale l'ordinanza sottolinea la vicinanza con alcuni degli indagati. E il cui figlio avrebbe ricevuto un incarico di lavoro con una «triangolazione» organizzata da Perotti. Secondo la procura - che ipotizza tra i vari reati la corruzione, l'induzione indebita e la turbata libertà degli incanti - quello colpito dal blitz era «un articolato sistema corruttivo» il cui dominus era Incalza, attivo nella gestione illecita di appalti di «grandi opere», soprattutto su ferrovie, industrie e strade, facendo lievitare i costi anche del 40%. Un sistema collaudato, che «coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti e imprese esecutrici dei lavori», e che muoveva cifre importanti. Secondo il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, infatti, «si indaga su un valore di 25 miliardi di euro di appalti». «Ercole Incalza (...) - scrive il gip nell'ordinanza - è stato in grado e lo è tuttora di condizionare il settore degli appalti pubblici da moltissimi anni». È lui «che suggerisce al general contractor o all'appaltatore il nome del direttore dei lavori, cioè di soggetti sempre riferibili a Stefano Perotti (l'altro arrestato, ndr )», è ancora lui «che si mette a disposizione dell'impresa, svendendo la sua funzione ed assicurando, in violazione dei doveri di trasparenza, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, un trattamento di favore». L'ex alto dirigente delle Fs Giovanni Paolo Gaspari, nipote dell'ex ministro Remo, intercettato mentre parla con l'ex presidente Italferr Giulio Burchi a novembre 2013, rivela i «poteri» di Incalza. «Ercolino... è lui che decide i nomi (...) tra tutti i suoi, sì, sì ancora... fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro, il dominus totale, al 100 per cento, non si muove foglia, sì... sempre tutto lui fa». L'8 giugno 2014 Incalza è «particolarmente infastidito», annotano gli inquirenti, per un'intervista al Fatto quotidiano in cui Francesco Boccia caldeggia un ricambio di una «certa alta burocrazia ministeriale», riferendosi evidentemente al manager. Intercettato, Incalza sbotta con qualcuno che gli sta vicino: «Chiamiamo... avvisiamo D'Alema». E la sera, al collaboratore Pacella spiega, a proposito dell'articolo: «Mi devo vedere con Lupi assolutamente… questa cosa è molto seria». Giulio Burchi, che è indagato, viene spesso intercettato mentre manifesta la sua malsopportazione dello strapotere di Incalza e dell'asse tra questi e Perotti. In un'occasione ipotizza di fargli fare un'interpellanza parlamentare contro, «c'ho due o tre episodi circostanziati ... prendo Pippo Civati che mi rompe sempre i coglioni così gli faccio fare una cosa utile». Poi cerca di incontrare «il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini, in quanto lo vuole mettere in guardia su quello che avviene all'interno del Ministero da trent'anni sotto il controllo di Incalza». Infine accenna a un «dossier» su Incalza che avrebbe preparato «per la Serracchiani». Ma alla fine, quasi giustifica il «sistema»: «pensiamoci ... forse si sta bene solo in questo Paese qua (...) i soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato ... non li avrei mai guadagnati in Inghilterra o in America». Saltano fuori anche i rapporti tra l'imprenditore Pierotti e monsignor Francesco Gioia, col prelato che secondo l'ordinanza si sarebbe anche attivato a ottobre 2013 per «dare una mano» ad alcuni imprenditori perché lavorassero all'appalto del «Palazzo Italia» dell'Expo di Milano. Inoltre Pierotti avrebbe assunto un nipote del prelato, e - scrive il gip - da una conversazione tra i due «si rileva che l'assunzione è avvenuta grazie all'interessamento del ministro Lupi ("ti volevo dire che ieri ho visto Maurizio … gli ho detto che tu lo ringrazi moltissimo") e di Luigi Fiorillo, presidente del cda della società Ferrovie del Sud Est». Il gip scrive che «il legame tra Ercole Incalza e Maurizio Lupi e in generale con il Nuovo Centro Destra» sarebbe «evidente» per lo scambio di sms e telefonate tra il manager e una certa Daniela, alla quale Incalza «afferma di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che l'Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi». Per il gip la «migliore sintesi» della figura di Stefano Perotti, che avrebbe tra l'altro «influito illecitamente sulla aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo», emerge da un'intercettazione tra la moglie Christine e il figlio Philippe, che non si sente all'altezza del padre. La donna lo consola e gli spiega che «a 25 aveva appena appena iniziato a lavorare, come te, uguale, e non aveva fatto un cazzo nella vita... (...) perché che tu ti devi paragonare con i soldi che fa papà è questo che sbagli Philo, perché papà oltretutto se guadagna bene e tanto è anche perché ci sono state delle coincidenze ... papà è bravo... però papà ha avuto delle coincidenze fortunate di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre (...) grazie a un certo giro di politica, lavori pubblici eccetera che non è detto che in futuro sarà sempre uguale a come è stato fino adesso».
Inchiesta Grandi opere, l'accusa: "Incalza scriveva il programma di Ncd e ha sponsorizzato la nomina di Nencini nel ministero di Lupi", scrive “Libero Quotidiano”. Ercole Incalza era così influente all'interno del ministero delle Infrastrutture da aggiornare il ministro Maurizio Lupi, in procinto di farsi intervistare da un quotidiano, sullo stato dei lavori e dei finanziamenti delle Grandi Opere, da buttare giù il programma di governo che il Nuovo Centro Destra avrebbe dovuto presentare e da ottenere la nomina del senatore Riccardo Nencini a sottosegretario, dietro sua sponsorizzazione. E' quanto emerge dalle 268 pagine di ordinanza cautelare scritta dal gip di Firenze nell'inchiesta che ha portato all'arresto di quattro persone tra cui lo stesso Incalza e che avrebbe portato alla luce il rapporto stretto tra il ministro Lupi e alcuni imprenditori, con tanto di abito sartoriale regalato all'esponente di Ncd e lavoro dato al figlio Luca insieme a un Rolex da 10mila euro per la laurea. "Incalza scrive il programma di Ncd" - Il magistrato si sofferma, anzitutto, sullo strettissimo legame tra Ercole Incalza e il ministro Lupi. "Una relazione - scrive - che ha sicuramente contribuito, da ultimo, all'affermazione del potere di Incalza nei rapporti con i dirigenti delle imprese e anche con altri soggetti istituzionali". Il 28 dicembre del 2013 è significativa per gli investigatori del Ros una conversazione tra i due che esalta "l'effettiva importanza" rivestita dall'ingegnere all'interno del dicastero delle Infrastrutture. Sul Corriere della Sera del 29 dicembre 2013 viene pubblicata l'intervista concessa dal ministro Lupi proprio sui temi trattati il giorno prima con Incalza. Ma era stretto anche il legame che Incalza aveva, più in generale, con il Nuovo Centro Destra: in una telefonata tra l'ingegnere e una tal Daniela il primo "afferma di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che Ncd avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Angelino Alfano e di Maurizio Lupi". C'è poi una telefonata del 17 febbraio 2014 indicativa dei rapporti tra il ministro e Incalza: in questa conversazione Lupi - scrive il gip - "si lamenta con l'altro per essere stato da lui abbandonato. Incalza contesta tale affermazione dicendogli di aver scritto anche il programma". La sponsorizzazione per Nencini - Altro esempio dell'influenza che Incalza "sembra avere sulle decisioni del ministro si trae - evidenzia sempre il giudice di Firenze - il 28 febbraio 2014 quando Maurizio Lupi ha telefonato al primo e lo ha informato che, in seguito alla sponsorizzazione di quest'ultimo, avevano nominato viceministro per le infrastrutture il senatore Riccardo Nencini". Lupi - si legge ancora nell'ordinanza - "invita quindi Incalza a parlargli per dirgli che non rompa i coglioni. Nel corso di alcune successive telefonate Ercole Incalza fa presente che al ministero per le Infrastrutture sono arrivati due suoi compagni socialisti facendo riferimento a Nencini e a Umberto Del Basso De Caro. Il suo amico commenta tali nomine dicendo complimenti... sempre sempre più coperto...".
Maurizio Lupi: "Soffro per mio figlio, non mi dimetto", scrive “Libero Quotidiano”. Pensa soprattutto a suo figlio il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Il nome dell'ingegner Luca Lupi è spuntato nelle carte dell'inchiesta di Firenze su Tav e Expo. "Provo soprattutto l' amarezza di un padre nel vedere il proprio figlio sbattuto in prima pagina come un mostro senza alcuna colpa. Quando per tutta la vita ho educato i miei figli a non chiedere favori, né io ho mai cercato scorciatoie per loro", dice il ministro in un'intervista a Repubblica. Precisa che non ha mai pensato alle dimissioni anche se, confessa, che per la prima volta si è chiesto se il gioco valga la candela: "Se fare politica significhi far pagare questo sacrifico alle persone che ami. Sa la battuta che faccio sempre a Luca? Purtroppo hai fatto Ingegneria civile e ti sei ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture". Il curriculum - E ancora: "Mio figlio si è laureato al Politecnico di Milano nel dicembre 2013 con 110 e lode. Dopo sei mesi in America presso uno studio di progettazione, nel febbraio dello scorso anno gli hanno offerto un lavoro. Ci ha messo un anno, come tutti, ad avere il permesso di lavoro e da marzo di quest'anno lavora a New York. Lo scorso anno ha lavorato presso lo studio Mor per 1.300 euro netti al mese in attesa di andare negli Usa". E continua: "Se avessi chiesto a Perotti di far lavorare mio figlio, o di sponsorizzarlo sarebbe stato un gravissimo errore e presumo anche un reato. Non l'ho fatto. Stefano Perotti conosceva mio figlio da quando, con altri studenti del Politecnico, andava a visitare i suoi cantieri. Sono amici, così come le nostre famiglie". Quando il giornalista gli chiede se per questo motivo gli ha regalato un Rolex da 10mila euro, lui risponde: "L' avesse regalato a me non l' avrei accettato". Lupi parla poi di Ercole Incalza, il supermanager ingegnere e architetto molto vicino a lui arrestato nell'inchiesta sul "sistema grandi Opere". "Incalza, che è stato al ministero per anni e ha lavorato con tutti i ministri, tranne Di Pietro, è stato il padre della Legge Obiettivo. È uno dei tecnici più stimati nel suo settore, anche in Europa ce lo invidiavano". Il ministro spiega che è sempre stato riconfermato per "le capacità tecniche riconosciute da tutti. In questi venti mesi non ho mai incontrato un presidente di Regione che non mi abbia dato un giudizio positivo su di lui. L'obiettivo era realizzare le Grandi Opere e recuperare il drammatico gap infrastrutturale dell' Italia ed Ettore Incalza poteva garantire la professionalità necessaria"..
Maurizio Lupi non è indagato, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Né lo è il figlio, un ragazzo poco più che ventenne che fa il responsabile di cantiere di un’azienda che costruisce il nuovo palazzo dell’Eni, a San Donato milanese. Però, nonostante il ministro dei Lavori pubblici non sia stato raggiunto da alcun avviso di garanzia, né gli venga contestato alcunché, il suo nome è già finito nel tritacarne dell’inchiesta di Firenze: diciamo che gli hanno cucito addosso un vestitino su misura, che sembra fatto apposta per indurlo a gettare la spugna e lasciare l’incarico. La nostra non è una battuta: negli atti dell’indagine, il nome dell’esponente di Ncd non viene fatto per qualche cosa di illecito, ma a proposito di un abito che l’uomo politico si sarebbe fatto fare. C’è davvero il completo? Oppure è una chiacchiera telefonica? Ma se giacca e pantaloni non bastassero ecco che dai brogliacci delle intercettazioni spunta anche un orologio che un altro imprenditore avrebbe donato al figlio del responsabile dei Lavori pubblici in occasione della sua laurea. Il Rolex probabilmente vale di più dell’abito, ma basta questo per sospettare qualcosa di losco intorno agli appalti su cui il ministero dovrebbe vigilare? È sufficiente che Luca Lupi sia uno dei quattro ingegneri che si occupano di un appalto per puntare il dito?
Perotti, spunta anche Julia Roberts nell'inchiesta sugli appalti, scrive “Libero Quotidiano”. Spunta anche il nome di Julia Roberts nell'inchiesta che ha travolto Stefano Perotti, il general manager con laurea in ingegneria e una serie di collaborazioni eccellenti con ministeri e comitati nazionali. "Figlio d'arte" - suo padre Massimo è stato presidente della Cassa del Mezzogiorno e direttore generale dell'Anas, arrestato negli anni Ottanta durante Tangentopoli - è ritenuto dalla Procura il grande gestore di appalti per almeno 25 miliardi di euro. Sua moglie Christine, riporta il Corriere della Sera, parla di lui con il figlio Philippe, 27 anni, anche lui indagato, in questi termini: "Si è sposato a 23 anni, a 24 ha dato la tesi, a 25 aveva appena iniziato a lavorare..., come te, uguale, … e non aveva fatto un c… nella vita… aveva avuto tanto da suo padre… perché aveva già avuto una casa… il permesso di sposarsi, senza guadagnare però". "Ha avuto delle coincidenze fortunate… di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre". In effetti a Stefano Perotti è andato sempre tutto bene. Per dirne una possiede una strepitosa villa con vista su Firenze in via di Forte San Giorgio 10, che è stata il set di una pubblicità di Calzedonia con protagonista la meravigliosa Julia Roberts. E ne ha una altrettanto esclusiva a Punta Ala. La sua carriera è tutta in ascesa, soprattutto a Milano non c'è grande opera che non veda la sua presenza diretta o indiretta. Si va dalla linea 5 del metrò che collega Garibaldi a San Siro alla realizzazione di CityLife con i tre grattacieli firmati Isozaki, Hadid, Libeskind, passando per la Fiera di Rho-Pero.
Da Italia 90 alle ferrovie, Incalza, 25 anni di inchieste. L’avvocato Titta Madia: «Un recordman dei proscioglimenti, ben 14 e nessuna condanna», scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera”. Incarichi e inchieste si accumulano in due pile parallele nella carriera di Ercole Incalza, il cui nome in atti giudiziari comincia a circolare, con pesanti accuse, all’indomani dei Mondiali di calcio di Italia ‘90. Nella memoria rimangono le imprese sportive, nelle città che le hanno ospitate restano invece opere incompiute, inutilizzabili o fatte male. A Roma si muove il sostituto procuratore Giorgio Castellucci, che chiede otto rinvii a giudizio al termine dell’inchiesta sugli illeciti nella fase di costruzione e nella mancata utilizzazione di strutture realizzate nella Capitale. Tra tutte, le stazioni ferroviarie di Vigna Clara e Farneto. I reati ipotizzati sono abuso e omissione di atti d’ufficio. Ercole Incalza (che verrà prosciolto) era all’epoca direttore generale del ministero dei trasporti. Coinvolti con lui dirigenti e funzionari delle ferrovie. Sotto sequestro finiscono le due stazioni e il tratto di binari che le unisce. Costate 81,5 miliardi di lire durano giusto il tempo dei mondiali perché, come spiegò Fs, «si trattava di un collegamento provvisorio che usato a pieno regime non avrebbe offerto sufficienti garanzie di sicurezza». Passano due anni e la Corte dei conti di Cagliari chiede la condanna a un risarcimento complessivo di 11 miliardi di lire degli ex ministri dei Trasporti Giorgio Santuz e Carlo Bernini, e di altre 19 persone, tra cui Incalza, dirigente del ministero, per la costruzione e il mancato utilizzo, durato oltre quattro anni, del parcheggio realizzato nell’aeroporto di Cagliari-Elmas ancora in occasione di Italia 90: 1076 posti auto su tre piani e 25 piazzole per i bus dei tifosi che però dovettero parcheggiare altrove. I ministri vennero condannati a risarcire 2 miliardi e oltre 950 milioni di lire. Nel 1996 comincia invece il lungo capitolo legato alla Tav, di cui Incalza è amministratore delegato. La procura di La Spezia fa arrestare l’ad di Fs Lorenzo Necci, il finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia, l’allora ad della Oto-Melara Pier Francesco Guarguaglini (fino al 2011 presidente di Finmeccanica). Una presunta associazione a delinquere che a seconda delle pozioni degli indagati si sarebbe resa responsabile di corruzione, peculato, truffa, falso, riciclaggio. Incalza avrebbe pagato i magistrati Renato Squillante e Giorgio Castellucci per ammorbidire l’inchiesta sulla Tav. «Notizie incredibili - le definisce Incalza - se avessi ricevuto dazioni di denaro da chicchessia, come incautamente scritto da alcuni giornali, i magistrati di La Spezia non mi avrebbero consentito di proseguire nella mia attività». Poi si dimette «per evitare che mie vicende personali vengano strumentalizzate a danno del progetto Alta velocità». Il suo nome compare in alcune intercettazioni in cui Pacini Battaglia affermava di avergli dato del denaro per «far fronte ad una scommessa persa sulle partite di calcio». In un’ altra intercettazione invece lo stesso Incalza parla con l’ ex amministratore delegato delle Fs, Lorenzo Necci, di progetti e finanziamenti collegati all’alta velocità. Questo capitolo giudiziario viene aperto a Roma, dove Incalza è accusato di abuso di ufficio. La cosiddetta Tangentopoli 2 da La Spezia viene trasferita a Perugia per competenza. La posizione di Incalza si aggrava e il manager finisce agli arresti Secondo i pm «appare pienamente partecipe dei disegni criminosi dell’associazione e protetto dalla stessa, anche a livello giudiziario, in relazione alle indagini sul conto della ‘Tav spa». Tutte le accuse, escluso il riciclaggio che non coinvolge Incalza, vengono prescritte. E sempre sulla Tav la procura capitolina apre un altro filone per presunte false fatture, coinvolti ancora Necci e Incalza per i quali viene poi chiesta l’archiviazione. Arriva poi, e siamo agli anni scorsi, il coinvolgimento nell’inchiesta sui lavori per il G8 gestiti dalla «cricca degli appalti» di Balducci, Anemone e Zampolini, grazie ai quali Incalza, dal 2004 capo struttura al ministero dei trasporti su nomina del ministro Lunardi, avrebbe pagato a un prezzo stracciato un appartamento di lusso nel quartiere Flaminio: 390 mila euro per 5 stanze. «È una vicenda che mi lascia assolutamente tranquillo» precisava Incalza, mentre il suo avvocato Titta Madia lo definiva «un vero e proprio recordman dei proscioglimenti, ben 14 e nessuna condanna». Oggi il nuovo arresto.
Incalza, l'"Ercolino" delle grandi opere. Il suo nome ricorre in tutte le inchieste degli ultimi 30 anni: dalla Tav al G8 al Mose, scrive invece “la Repubblica”. Secondo Giovanni Paolo Gaspari, alto dirigente delle Ferrovie, "è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...o dominus totale". Dal G8, alla Tav, al Mose: il nome di Ercole Incalza ("Ercolino", come lo chiama lo stesso Gaspari in una telefonata intercettata dal Ros il 25 novembre del 2013), arrestato oggi, ricorre in tutte le grandi opere - e inchieste - degli ultimi 30 anni in Italia. L'ingegnere pugliese nato nel brindisino il 15 agosto del '44, è stato per molti anni dirigente di vertice al ministero delle Infastrutture e dei Trasporti per poi divenirne consulente esterno: ultimo incarico come capo della struttura tecnica di Missione per l'esame delle questioni giuridiche connesse alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. Incalza appare nel mondo dei lavori pubblici alla fine degli anni '70 alla Cassa per il Mezzogiorno, della quale diventa dirigente nel 1978, assumendo nel marzo 1980 la responsabilità del Progetto Speciale dell'Area Metropolitana di Palermo.Giovane socialista pugliese approda al ministero dei Trasporti con Claudio Signorile. Nel 1983 è consigliere del ministro dei Trasporti, poi nel giugno 1984 assume la responsabilità di Capo della Segreteria Tecnica del Piano Generale dei Trasporti. Dal gennaio 1985 Dirigente Generale della Direzione Generale della Motorizzazione Civile e dei Trasporti in Concessione, passa alle Ferrovie dello Stato nell'agosto 1991, per diventare Amministratore Delegato della Treno Alta Velocità TAV S.p.A. dal settembre 1991 al novembre 1996. Nel 1998 finisce ai domiciliari insieme all'ex presidente di Italferr Maraini. Dopo la bufera della Tangentopoli di Necci e Pacini Battaglia a metà degli anni Novanta, Incalza torna alla ribalta al ministero di Porta con Pietro Lunardi e diventa poi il braccio destro del ministro Altero Matteoli con l'incarico di capo della struttura tecnica di missione. Negli ultimi anni sempre più numerose le inchieste; a febbraio i pm fiorentini Giulio Monferini e Gianni Tei ne avevano chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre 31 persone nell'inchiesta sul sottoattraversamento fiorentino della Tav. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Firenze compare anche il nome di Luca Lupi, figlio del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio.
Arrestato l’uomo delle Grandi Opere italiane. Ercole Incalza, dirigente del ministero delle Infrastrutture per quattordici anni, ha attraversato sette governi finendo spesso nelle maglie delle Procure. Voluto a Roma dall’ex ministro azzurro Pietro Lunardi è una costante di tutti i lavori milionari degli ultimi trent’anni in Italia: dal G8, alla Tav fino alla cricca di Diego Anemone, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L'amministratore delegato della Tav Ercole IncalzaGrandi opere, grandi affari e grandi inchieste. Al centro sempre lui Ercole Incalza, braccio destro del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi e potente burocrate. Oggi è arrivato l’epilogo con l’arresto per corruzione, induzione indebita, turbativa d'asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione insieme agli imprenditori Stefano Perotti e Francesco Cavallo, e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. Gli indagati sono oltre cinquanta e toccano anche il mondo della politica: l’europarlamentare alfaniano Vito Bonsignore è anche il capo del gruppo privato che spinge per la costruzione della nuova autostrada Mestre-Orte, una lingua d’asfalto dal Lazio al Veneto attraversando cinque regioni, l’opera pubblica italiana più rilevante dopo il ponte sullo Stretto di Messina. Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere. Nel mirino della Procura di Firenze la gestione illecita degli appalti nostrani delle cosiddette grandi opere per quello che i magistrati definiscono un “articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”. Un sistema gelatinoso dove i ruoli si confondono ma la costante, il perno degli affari è il super manager pubblico che guida dal 2001 gli uffici del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Tra i lavori coinvolti ecco le principali nuove tratte ferroviarie, il Palazzo Italia del sito milanese di Expo 2015 e poi porti, cantieri monstre fino alla metropolitana di Parma dove emergerebbe che l'opera, non realizzata, è costata trenta milioni di euro. Soldi pubblici con l’approvazione del finanziamento arrivata grazie al ruolo dentro i palazzi del potere di Ercole Incalza. Partito come consulente del ministro parmigiano Pietro Lunardi nel 2001, Incalza è una costante in tutte le grandi opere degli ultimi trent’anni in Italia: dal G8, alla Tav, al Mose. Ingegnere pugliese, classe 1944, è stato per molti anni dirigente di vertice al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per poi divenirne consulente esterno: ultimo incarico come capo della struttura tecnica di missione per l'esame delle questioni giuridiche connesse alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. Per quattordici anni all’ex ministero dei Lavori Pubblici, attraversando sette governi: da Berlusconi a Renzi, passando per Prodi e Monti. Dal 31 dicembre del 2014 non riveste nessun ruolo o funzione neanche a titolo gratuito arrivato al traguardo dei 70 anni. L’ingegnere appare nel mondo dei lavori pubblici alla fine degli anni settanta alla Cassa per il Mezzogiorno, della quale diventa dirigente nel 1978, assumendo nel marzo 1980 la responsabilità del progetto speciale dell'area metropolitana di Palermo. Giovane socialista pugliese approda al ministero dei Trasporti con Claudio Signorile. Nel 1983 è consigliere del ministro Claudio Signorile, poi nel giugno 1984 è capo della segreteria tecnica del piano generale dei Trasporti. Dal gennaio 1985 dirigente generale della direzione della motorizzazione civile per poi passare alle Ferrovie nell'agosto 1991, per diventare amministratore delegato della “Treno Alta Velocità Tav Spa” dal settembre 1991 al novembre 1996. Nel 1998 finisce ai domiciliari insieme all'ex presidente di Italferr Eugenio Maraini. Dopo la bufera della Tangentopoli di Lorenzo Necci e Pierfrancesco Pacini Battaglia a metà degli anni Novanta, Incalza torna alla ribalta dei palazzi romani con Pietro Lunardi e diventa poi il braccio destro del ministro Altero Matteoli con l'incarico di capo della struttura tecnica di missione. Negli ultimi anni sempre più numerose le inchieste: un mese fa i pm fiorentini ne avevano chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre trentuno persone nell'inchiesta sul sottoattraversamento fiorentino della Tav: l’accusa è traffico illecito di rifiuti, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, frode e truffa. Ecco come Incalza lodava la legge obiettivo presentata come fiore all’occhiello dal Governo Berlusconi per smuovere l’economia e rompere il tabù italiano dei cantieri infiniti:«L'accelerazione dei tempi dell'apertura dei cantieri delle grandi infrastrutture, di quelle opere cioè strategiche e di preminente interesse nazionale è uno degli scopi della legge obiettivo che come finalità di regolare organicamente e sulla base di principi innovativi la realizzazione delle opere pubbliche maggiori». Nel 2012 in una nuova tranche dell’inchiesta della cricca delle grandi opere di Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Diego Anemone si scopre un favore per Incalza: assegni da 562mila euro, firmati dal "riciclatore" di Diego Anemone, l'architetto Angelo Zampolini, dietro l'acquisto per soli 390mila euro di un appartamento di cinque camere a Roma, a due passi da piazzale Flaminio. Il denaro, scrivono i pm nella richiesta d'arresto, era destinato ad “investimenti finanziari in immobili con intestazione a favore di terzi per la remunerazione dei pubblici ufficiali”. Denaro proveniente dai conti di Zampolini ma anche dai trenta intestati nella banca delle Marche alla segretaria dell'imprenditore, Alida Lucci. Ed ecco spuntare la compravendita di un appartamento in via Emanuele Gianturco 5 a Roma. A vendere sono Maurizio De Carolis e Daniela Alberti, ufficialmente giardinieri, mentre a comprare è tale Alberto Donati, dirigente. Ma dietro Donati ci sarebbe, secondo gli inquirenti, Ercole Incalza. Quest'ultimo è infatti il padre della moglie di Donati, e sarebbe il potente manager pubblico ad aver indicato al genero l'imprenditore Anemone per trovare una casa nella capitale. Dopo la svolta nelle indagini e gli arresti di stamane i grillini alzano il i tiro: «Più volte il Movimento 5 Stelle ha chiesto le dimissioni dell’ingegnere Ercole Incalza come capo della struttura di missione sulle Grandi Opere. Ma la risposta del ministro Maurizio Lupi è stata sempre la stessa è l’uomo giusto al posto giusto. Adesso è la magistratura a spiegarci cosa volesse intendere il ministro», è il commento dei deputati del Movimento 5 Stelle delle commissioni trasporti, infrastrutture e ambiente della Camera. «Non importa che oggi, come sottolinea il ministro in un pronto comunicato stampa, Incalza non ricopra più ruoli pubblici. Lo sappiamo bene che da qualche mese è ufficialmente pensionato. Ma Lupi lo ha difeso quando era pluri-indagato. Quando solo la prescrizione lo salvava dalle indagini, quando le intercettazioni rivelavano il suo “impegno” per le Grandi Opere. Incalza in quattordici anni ha attraversato indenne sette governi. Ora il ministro dovrebbe fare un’unica scelta di dignità: dimettersi», attaccano i deputati Alessandro Di Battista, Michele Dell’Orco e Andrea Cioffi.
Incalza: chi è il grande vecchio delle opere pubbliche italiane. Da trent'anni al ministero dei Trasporti. E' sopravvissuto ai governi, alle inchieste. A settant'anni era ancora il "dominus", scrive Carmelo Caruso su “Panorama”. Da trent’anni è l’ingegnere del cemento e del ferro pubblico italiano. Ed è stato il “vigile” per quanto riguarda le strade, “ferroviere” per quanto riguarda le ferrovie e l’alta velocità, “capocantiere” per quanto riguarda le opere pubbliche, se ancora si possono chiamare tali. Trent’anni, sette governi, cinque ministri, se non è un papato cosa altro può essere quello di Ercole Incalza al ministero dei Trasporti? E se i procuratori di Firenze non lo avessero fermato per un elenco di malversazione contro la pubblica amministrazione (corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta) chissà dove sarebbe arrivato, dicono in Europa per un incarico alla Bei (Banca europea investimenti) quasi a premiare una carriera di indefesso servizio. Di certo, al ministero dei lavori pubblici, e in particolar modo per volere di Maurizio Lupi, che lo definì pubblicamente “un patrimonio per il nostro paese”, ci sarebbe rimasto anche oltre i suoi anni, grazie a un codicillo che ne garantiva la consulenza esterna come capo della stuttura tecnica di Missione. E dato che in Italia esistono solo creatori, ma non creature che possono fare a meno di chi le ha messe in piedi, a Incalza non solo era stata offerta la guida di questa struttura, ma se ne era quasi chiesto la disponibilità per ineluttabilità, quasi come fosse l’unico chirurgo che sapesse maneggiare il bisturi, insomma il solo che potesse a "settant’anni” dirigerla. Per Incalza ci sono state solo le grandi opere mentre le piccole sono «le puttanate» perché dopo «sta gente se non ha continuità lavorativa e sono cazzi». E dunque, dite se possa essere questa la lingua di un dirigente, anche con l’attenuante di essere al telefono. Sarà che il turpiloquio è contagioso, fatto è che quello di Incalza ha colpito il ministro Lupi che nelle intercettazioni dismette il linguaggio sobrio del cattolico praticante per indossare quello del consumato uomo con il sopracciò rassicurando Incalza: «Vado io guarda, siccome su questa cosa, te lo dico già. Però io non voglio, cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che sennò vanno a c...! Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura non c’è più il governo!». Entrato al ministero delle Infrastrutture con il leader socialista Claudio Signorile, Incalza che nelle intercettazioni chiamano «il dominus» è passato dai progetti sull’aria metropolitana di Palermo, il suo primo incarico da dirigente della cassa del Mezzogiorno nel 1978, alla Motorizzazione civile, amministratore delegato della Alta Velocita, la Tav nel 1991, e non si contano i servizi da fedele consigliori dei ministri di destra e di sinistra, Pietro Lunardi, Antonio Di Pietro («Ma io lo cacciai senza complimenti»), Altero Matteoli, Corrado Passera e oggi lo sfortunato Lupi con un figlio che da quanto si ascolta nelle intercettazioni ha pure accettato un Rolex. Incalza ha sùbito 14 inchieste (lo si evoca anche per quanto riguarda l’Expo) uscendone indenne, ammaccato con prescrizioni, ma subito guarito dalla prodigalità della politica che lo corteggiava e dagli imprenditori che avevano cominciato a omaggiare la sua famiglia con case. L’architetto Zampolini, quello dei grandi eventi per intenderci, si premurò a pagare un milione di euro per la casa della figlia di Incalza, Antonia, che nel 2003 ne acquistò una per soli 390 mila euro, un edificio a piazzale Flaminio a Roma, senza sapere che il resto lo pagava Zampolini. Ebbene, dell’ultima appendice del libro a fascicoli “corruzione italia”, Incalza con i suoi settant’anni è nelle intercettazioni degli imprenditori «dominus totale. Maurizio crede di fare qualcosa. Ma fa quello che gli dice quest’altro», è lo sponsor dei socialisti al governo almeno secondo Lupi: «Dopo che tu hai dato, hai coperto, hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro alle Infrastrutture». A gennaio di quest’anno Incalza ha lasciato il ministero nonostante i giovani volessero trattenerlo. Chiamatela intuizione o forse solo l’imprenscindibile prevalenza del grande vecchio. La qualità dell’ingegnere italiano che non costruisce nulla di solido, ma sa conoscere le crepe che anticipano i crolli.
La giustizia ad alta velocità, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Tempo”. Sacra è per noi la presunzione d’innocenza. E non sarà certo un vestito su misura e un Rolex da diecimila euro, a farci cambiare idea. Strano, anzi, è che certi dettagli finiscano nelle carte di un’inchiesta, perché se qualcuno si vuol vendere, non lo fa certo per un piatto di lenticchie. È anche vero, però, che se solo un decimo delle accuse emerse rispondesse a verità (e molti indizi vanno in questo senso) allora saremmo di fronte ad un altro esempio di endemica e ormai imbattibile corruzione all’italiana. E saremmo anche all’ennesima inchiesta che tocca quell’Ncd di Angelino Alfano e Maurizio Lupi, ministri dell’Interno e delle Infrastrutture, che per inseguire sogni di governo, hanno mollato le battaglie «garantiste» di Berlusconi per schierarsi con quella sinistra storicamente vicina ai magistrati anche quando sbagliano (al netto di un premier che ha voluto la norma sulla responsabilità civile delle toghe), senza con questo riuscire a creare una classe dirigente, soprattutto locale, coerente con il nuovo percorso filo-magistrati. Vogliamo ripeterlo: un buon orologio regalato al figlio del ministro e un vestito donato al ministro stesso, non hanno nulla di penalmente rilevante. Forse è solo malcostume italico. Occorre, anzi, stare attenti alla potenza degli schizzi di fango, che in passato hanno rovinato la vita a persone innocenti, inducendone alcuni a togliersela. Così come sarebbe il caso di riflettere sulla puntualità con cui, quando in parlamento si parla dell’opportunità di inasprire le pene sulla corruzione, ecco l’inchiesta sui presunti corrotti; e quando si discute di allungare i tempi della prescrizione, ecco la sentenza su caso Eternit che assolve gli imputati proprio per l’eccessiva lunghezza del processo. Valutare tutto e rimanere vigili, ma senza condannare qualcuno prima di una sentenza. Ercole Incalza per 14 volte è stato indagato, per 14 volte prosciolto. Inorridiamo pure ma un po’ di prudenza non guasta.
Grandi Opere e vecchi pirati. L’ultima Tangentopoli scoperchiata a Firenze costringe il premier a occuparsi di corruzione. Mentre anche la mafia ora paga le mazzette, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. La corruzione è una guerra corsara combattuta con altri mezzi. Illeciti. Violenti quanto basta per depredare una nazione fingendo di avere le mani pulite. Questi pirati scorrazzano dal Nord al Sud pressoché impuniti; cambiano bandana e vessillo; razziano tutto quel che hanno a disposizione e restano sempre a galla. Professionisti della mazzetta e boss del riciclaggio, un’alleanza perversa che ha ispirato la copertina. L’ennesima Tangentopoli, scoperchiata con gli arresti effettuati lunedì 16 marzo, ripropone il desolante scenario di un Paese indifeso di fronte a tanta protervia. Ercolino sempre in piedi, il potente capo della “struttura di missione” (quale?) del ministero delle Infrastrutture, Ercole Incalza, è uno dei più longevi combattenti di quest’avventura piratesca. Non c’era bisogno di aspettare un eventuale avviso di garanzia, dunque, ora che la procura di Firenze ha reso nota l’inchiesta sulle ruberie delle Grandi Opere, per arrivare alla conclusione che Maurizio Lupi non potesse ricoprire l’incarico che gli affidò nel 2013 Enrico Letta e, un anno dopo, gli riconfermò Matteo Renzi. C’è un codice non scritto, quello della responsabilità politica, che dovrebbe precedere gli articoli del codice penale. Perché se la responsabilità di un reato di fronte alla legge è sempre e soltanto personale – e di questo dovrà rispondere chi è finito agli arresti – esiste pur sempre un livello di consapevolezza della propria condotta nello svolgimento di incarichi di governo. Ebbene Lupi è stato mentore e protettore politico del potente burosauro dei grandi appalti. Altrettanto potente Lupi e ben addentro ai meccanismi che reggono il ministero di Porta Pia, come ricostruisce il servizio di Gianfrancesco Turano. Sorvoliamo per un momento sul Rolex dal valore di 10mila euro ricevuto in regalo dal figlio: questione in bilico tra etica ed estetica. Ed anche sull’assunzione arrivata subito dopo la laurea, dovuta sempre al generoso Stefano Perrotti, altro dominus dei grandi appalti. Le dimissioni sono l’unico strumento per ridare senso e credibilità al valore della politica. Una politica che – secondo il rinnovamento renziano – vuole riprendersi il suo legittimo potere di decisione smantellando incrostazioni burocratiche, pratiche opache, patti segreti tra imprese e controllori. Sin dai primi giorni del suo insediamento Matteo Renzi è sembrato deciso nel procedere in questa direzione, nel ridimensionare lo strapotere di apparati fuori controllo e irresponsabili del loro operato. È un’opera necessaria, anche se le forme giuste non sono state ancora individuate. Sarà sufficiente la rotazione degli incarichi, auspicata da Antonio Di Pietro, l’ex pm che in politica ha collezionato insuccessi ma che su questi affari aveva vista lunga? Altra contraddizione. L’eccessiva prudenza con cui la maggioranza – di cui il Ncd di Lupi è forza costituente – affronta in Parlamento la discussione sulla legge anti-corruzione. Persino il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale, parla di «mal esempio che sembra un regime». I dati sono sconfortanti: su circa 60mila detenuti nelle carceri italiane, solo 598 pari all’1 per cento rispondono di reati contro la pubblica amministrazione. «Se la corruzione non viene scoperta, significa che c’è un problema, nelle procure o negli inquirenti, e questo è anche specchio dell’inefficienza della magistratura nell’affrontare questioni complesse», ammette con onestà intellettuale Raffaele Cantone. Nel suo ultimo libro scritto insieme a Gianluca Di Feo, “Il male italiano”, il presidente dell’autorità anti-corruzione non tace critiche anche ai suoi colleghi magistrati. Perché, se ci sono tante toghe impegnate con dedizione nel contrasto al crimine, altre – una minoranza, dice Cantone – non hanno fatto tutto ciò che potevano e dovevano. Per inadeguatezza culturale o, peggio, per collusione con poteri intoccabili. Capita di rado di leggere un’analisi così fuori dagli schemi. In questa terra di mezzo cresce e prospera un contropotere criminal-finanziario. Lo racconta Lirio Abbate nella nostra inchiesta esclusiva sulle mafie (pagina 14): dai colpi di lupara ai colpi di mazzette, così si combatte una guerra silenziosa quanto spietata per il controllo del potere affaristico-economico. Una guerra corsara, senza regole. È qui che si gioca la capacità di stratega del premier-segretario. Solo vincendola Matteo Renzi riuscirà davvero a cambiar verso all’Italia. Auguriamoci che ce la faccia.
Dalle monete in Vaticano alle perizie "taroccate". Monsignor Gioia: "Non fare nomi per telefono", scrivono Andrea Ossino e Vincenzo Imperitura su “Il Tempo”. Alti prelati, imprenditori, monete del Vaticano e gite in Svizzera. Si colora di giallo l’inchiesta condotta dai procuratori di Firenze sul presunto «Sistema» capace di mettere le mani sui più grandi appalti italiani. Tra gli atti dei carabinieri del Ros, guidati dal generale Mario Parente, spuntano anche le «monete vaticane» che monsignor Gioia, non indagato, avrebbe preso oltre Tevere insieme a un imprenditore. La vicenda è narrata nelle intercettazioni tra l’ex delegato pontificio e alcuni esponenti della cricca. Nel dicembre del 2013, infatti, le telefonate tra l’alto prelato e gli indagati si erano intensificate. Erano in molti a muoversi per trovare un posto di lavoro al nipote del monsignore. Nonostante il parente del prelato si accontentasse anche di un impiego umile, l’impresa era diventata ardua perché, come afferma lo stesso Gioia, «purtroppo» il ragazzo «non ha alcuna invalidità da far valere - trascrivono i carabinieri - ma in ogni caso è sufficiente un posto anche da usciere...poi dopo è giovane e Dio vede e provvede». Tra una telefonata e l’altra si arriva alla conversazione del 19 dicembre del 2013, tra Stefano Perotti e Francesco Gioia. «Richiamando il contenuto della conversazione appena avuta con Matterino Dogliani - si legge negli atti - mons. Gioia riferisce di aver ricevuto 2000 euro come donazione, come se fosse il compenso che l’imprenditore ha ritenuto di elargirgli per l’apporto fornito per l’evento che Gioia indica come "quando fece monete qui in Vaticano...mi aveva dato 2000 euro...non per me! Insomma....lui voleva anche per me...ma non l’avrei accettata"». «Di questa operazione in Vaticano, vi è traccia in una precedente conversazione del 17 ottobre 2013, sempre fra Perotti e Gioia, laddove quest’ultimo riferisce che in mattinata è andato con un "amico" a prendere "monete in Vaticano"». Secondo gli inquirenti, «l’amico» sarebbe «Matterino Dogliani». «Mons. Gioia - continuano i militari - in connessione a questa operazione effettuata in Vaticano, raccomanda subito al suo interlocutore di non fare nomi per telefono». Inoltre il prelato afferma: «Io non mi voglio far vedere da nessuno tanto c’è Stefano che è addetto a queste cose». Il rapporto tra Perotti e Gioia verterebbe su diversi fronti. Il prelato sarebbe stato coinvolto dall’imprenditore anche quando quest’ultimo voleva evitare che la seconda moglie mettesse le mani sul suo patrimonio. La situazione avrebbe poi portato sia Perotti sia Gioia fino al Canton Ticino, a Lugano. Ci sarebbe anche una perizia modificata ad arte (relativa a un arbitrato tra la Fiat e le aziende di Perotti sull’appalto Tav Firenze Bologna) nelle carte della maxi inchiesta fiorentina. Un documento che avrebbe consentito allo stesso Perotti («sollecitato, scrivono i carabinieri del Ros, da Incalza per presumibili interessi economici comuni») di intascare da Fiat quasi 69 milioni di euro e che presenta una data di sei mesi antecedente alla richiesta dello stesso arbitrato.
Grandi Opere, il senso ciellino per gli affari. Nelle indagini c’è un filone che arriva fino a Giovanni Li Calzi. Figlio d’arte, il padre Epifanio è passato dal Pci a Comunione e Liberazione. E dopo tangentopoli sullo studio di famiglia sono piovute commesse: dall’Alta velocità agli appalti milionari dell’ospedale milanese di Niguarda, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L’inchiesta di Firenze sul sistema corruttivo degli appalti ha svelato un sistema in grado di gestire lavori pubblici di autostrade, porti e alta velocità per 25 miliardi di euro, con un corrispettivo di tangenti stimate dai magistrati in almeno 250 milioni di euro. Una pista che parte negli anni di tangentopoli e arriva fino a noi. Dai palazzi di Roma fino al cuore della Lombardia. Un cambio di casacca, un passaggio di mano tra padri e figli ed ecco i protagonisti della stagione di corruzione e mazzette ancora pronti a fare affari: tra lobby, sanità e fede gli ex comunisti si riciclano sotto il cappello di Comunione e liberazione. Dai cantieri fino alla ricca torta degli appalti per gli ospedali lombardi. Solo per la sanità gestita dal Pirellone il giro d’affari annuo è di quasi venti miliardi di euro. Il ministro Maurizio Lupi, non indagato ma nell’occhio del ciclone per le presunte pressioni per l’assunzione del figlio , è di stretta osservanza ciellina. È l’uomo su cui puntare voti e speranze, dopo la fragorosa caduta dell’ex governatore lombardo Roberto Formigoni. E con il suo placet di responsabile delle infrastrutture si apre ogni porta. Partiamo dalle indagini che hanno portato all’arresto del potente numero uno delle grandi opere italiane, il super burocrate Ercole Incalza , e scopriamo che nel filone che arriva dritto alla linea alta velocità tra Brescia e Verona c’è come indagato un figlio d’arte: Giovanni Li Calzi. Figlio di Epifanio, ex assessore comunale all'edilizia del Pci, architetto di grido, docente del Politecnico, coinvolto nel 1992 nell'inchiesta Mani Pulite. Ecco, vent’anni dopo, il figlio rispunta sulle orme del padre. L’occasione è la progettazione della ferrovia veloce per collegare Milano con Venezia: quasi quattro miliardi di euro di soldi pubblici, una linea figlia di un progetto degli anni novanta, pensata senza una vera gara e affidata direttamente a società finite nei guai per appalti e tangenti della maxi torta milanese dell’Expo e le barriere del Mose per Venezia. Ecco quanto scrivono i magistrati di Firenze sul sistema di corruzione: «Ercole Incalza di intesa con Stefano Perotti, Francesco Cavallo e Giovanni Li Calzi abusando della sua qualità e dei suoi poteri, compiva atti idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre i referenti del consorzio “Cepav Due”, incaricato della progettazione e della costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità a promettere indebitamente a Stefano Perotti ed ai professionisti a lui vicini (tra cui Li Calzi), il conferimento dell'incarico di progettazione e direzione lavori con riferimento alla realizzazione del lotto funzionale Brescia-Verona». Su questa grande opera che dovrebbe aprire i cantieri entro un anno si è speso lo stesso ministro Maurizio Lupi, trovando una corsia preferenziale per sbloccare gli investimenti: «Ci sono un miliardo e 980 milioni di euro per l’alta velocità da Brescia a Padova. Tutti e disponibili, ma adesso la cosa importante è spenderli. I cantieri adesso vanno aperti», rassicurava a dicembre in una visita in Veneto.
QUANDO ERAVAMO COMUNISTI
Il padre di Giovanni Li Calzi, Epifanio, ebbe un posto in pole position durante la stagione di tangentopoli: fu Mario Chiesa ad accusarlo nel primo verbale firmato a San Vittore. Architetto di grido, docente al Politecnico, ex sindaco di Cesano Boscone ed ex assessore al Comune di Milano nelle file del Pci, è stato coinvolto e poi prosciolto nella storia delle tangenti Codemi, lo scandalo delle carceri d’oro con 17 miliardi di lire in bustarelle. Soprannominato «l’architetto rosso», era stato uno dei primi politici arrestati nell'inchiesta del pool di Antonio Di Pietro. Accusato per le tangenti all'ospedale Paolo Pini, era rimasto coinvolto in altre due indagini: quella sulle tangenti per il Piccolo Teatro e quella sugli abusi edilizi nell'hinterland milanese in cui era stato indagato anche Paolo Berlusconi. Quando nel 1994 sono scattate le manette per il consigliere regionale Antonio Simone, uno dei padri fondatori del Movimento popolare, il "braccio politico" di Comunione e liberazione (e vicinissimo al governatore Formigoni tanto da ricomparire vent’anni dopo per l’affare Maugeri ) ecco che i destini «dell’architetto rosso» e del politico di fede ciellina si incrociano. Simone viene accusato di intascare una tangente di 300 milioni pagata da Li Calzi, in cambio del via libera alla variante generale del piano regolatore del Comune di Pieve Emanuele. Dopo quella stagione di soldi e manette Li Calzi esce di scena con una condanna in primo grado e dai processi in appello grazie alla prescrizione. Con l’ala migliorista del Pci passa armi e bagagli con Cielle e il suo braccio economico Compagnia delle opere (Cdo). Insieme a Li Calzi senior ecco Massimo Ferlini dal Pci a capo della Cdo milanese e Fabio Binelli, ex capogruppo dei Ds al Pirellone che ora gestisce con una fondazione privata i reparti di ostetricia, neonatologia e pediatria dell’ospedale San Gerardo di Monza. Tutti folgorati dalle parole di don Giussani, hanno sposato le idee di sussidiarità care all’ex governatore Roberto Formigoni: il pubblico deve lasciare spazio alle iniziative private con i ciellini a controllare gli appalti. Perché basta un direttore generale nei posti chiave dei grandi ospedali pubblici e il gioco è fatto. L’ex assessore rosso di Palazzo Marino (scomparso nel 2013) per tornare in sella crea con il figlio Giovanni la InAr, società di ingegneria e architettura specializzata in edilizia sanitaria. E puntuali arrivano gli appalti: cliniche dentistiche private nei poli di Milano e Como, laboratori al Sacco di Milano, gli istituti clinici di perfezionamento “Vittore Buzzi”, il dipartimento di ostetricia con due sale operative a Vimercate, e poi in provincia Magenta, Cuggiono e Saronno. Anche la ristrutturazione della Villa Reale di Monza, 10 mila metri quadri di residenza dei reali austriaci, dopo anni di abbandono arriva alla famiglia Li Calzi. Tutto grazie alla Regione Lombardia che attraverso la società controllata Infrastrutture Lombarde smista i lavori.
GLI APPALTI D’ORO DEL NIGUARDA
Il bingo per InAr e Giovanni Li Calzi arriva però con il maxi-progetto per il nuovo Niguarda, uno dei più importanti ospedali d’Europa con quasi 1.300 posti letto e trentaquattro sale operatorie. Cinque anni di lavori per il più imponente piano di edilizia sanitaria realizzato in Italia: 266 milioni di euro preventivati solo per la costruzione, a cui se ne sommano almeno 820 di altre spese pubbliche per i «servizi di supporto» che l’ospedale pagherà per trent’anni. Giovanni Li Calzi è il capo dei progettisti (la moglie Laura Lazzari compare per la parte di architettura) e la sua InAr fa parte del consorzio che realizza 170.000 metri quadri, 1.000 posti letto e ventitré sale operatorie. Oltre alla costruzione di nuove servizi come cucine, farmacie e negozi. Nel 2009 un’ispezione ministeriale contesta ai manager lombardi, tutti ciellini di ferro, di avere sistematicamente favorito una cordata di cooperative e le imprese entrate nell’affare d’oro. Il dossier elenca ben 47 vizi di illegittimità, dalla progettazione all'esecuzione, dal collaudo agli appalti esterni. Una strana storia di presunti favoritismi trasversali tra cattolici lombardi e costruttori emiliani. La “verifica” accusa i vertici del Pirellone di aver garantito ai costruttori privati «un potere contrattuale enorme, monopolistico e ricattatorio» causando «danni gravissimi» alle casse pubbliche. Ogni fase del piano, sempre secondo il ministero dell’Economia, è costellata di «illegittimità» e da varie «ipotesi di reato». La progettazione è stata affidata a una società mista, la Nec spa, controllata al 60 per cento dal Niguarda e per il restante 40 da progettisti privati «illegalmente assistiti dai tecnici interni dell'ospedale». Nonostante le gravi irregolarità la cordata di aziende conclude i lavori e incassa circa 230 milioni e, in aggiunta, una rendita costante garantita e fino al 2034. Lo schema delle grandi opere italiane.
Lupi, le consulenze d'oro del suo ministero. Sul sito delle Infrastrutture, 48 pagine e 478 file raccontano dei contratti (e dei rinnovi di anno in anno) degli “esperti” scelti fuori dai ranghi della Pubblica Amministrazione di cui si è avvalso il dicastero. Dai 136 mila euro per Incalza ai 60 mila netti per Girlanda. Con buona pace della spending review, scrive Sonia Oranges su “L’Espresso”. Quarantotto pagine per poco meno di 480 file che, sul sito del ministero della Infrastrutture , raccontano della valanga di consulenze e collaborazioni, spesso ottimamente pagate, di cui si è avvalso in questi anni il dicastero guidato da Maurizio Lupi. Di certo lo era quella di Ercole Incalza, il superdirigente arrestato lunedì scorso per un presunto giro di tangenti sulle grandi opere. Incalza lo scorso anno, ha ricevuto 136mila euro dal ministero per guidare la struttura tecnica di missione: un cococo d’oro, che fa sbiadire la pensione da 60 mila euro annui, pure percepita dal dirigente ora in manette. D’altra parte, la struttura di missione brilla per quantità e consistenza delle consulenze assegnate: circa una ventina quelle da 75mila euro annui, destinate a professionisti (soprattutto avvocati e ingegneri) che spesso portano avanti carriere parallele: quelle svolte privatamente, e quelle costruite negli anni all’interno della pubblica amministrazione, con redditi da quadro, senza aver mai vinto alcun concorso. Carriere parallele in cui i confini tra pubblico e privato sono pericolosamente sfumati, almeno a leggere i dettagli dei curriculum. Sergio Mastrangelo è al ministero dal 2011 come esperto, pur essendo presidente di consorzi privati impegnati nella ricostruzione in Abruzzo. Alfredo Cammarano, fino al 2009 è stato dipendente dell’Economia e funzionario apicale del Cipe, poi consulente per il gruppo che doveva costruire una pezzo di autostrada tra l’aeroporto di Grazzanise e la Domitiana, infine consulente delle Infrastrutture. La lista di nomi è lunga. C’è il brindisino Donato Caiulo che da dirigente del porto pugliese finì pure lui in un’inchiesta sul rigassificatore. C’è un manager dell’information technology come Domenico De Rinaldis che contemporaneamente lavora anche con il ministero dello Sviluppo economico, e c’è l’avvocato Massimo Ricchi, pedeegree forense maturato nello studio di Giuseppe Consolo, che si è già sperimentato al Cipe e al ministero della Giustizia. Ma anche negli altri settori del ministero, gli appannaggi dei collaboratori non lasciano a desiderare. Di certo non si lamenta Nicola Bonaduce, consigliere per gli affari regionali di Lupi, già suo capo segreteria alla Camera e con un passato milanese a dirigere le relazioni istituzionali della Compagnia delle Opere: porta a casa un compenso da 90mila euro l’anno, che arrotonda con i 28mila euro provenienti dall’incarico di consigliere di indirizzo dell’Istituto nazionale di Ricovero e Cura degli Anziani. Che nulla hanno a che fare con ponti, strade e porti, ma poco importa nella logica dei giri di poltrone del palazzo. La stessa logica che spiega la permanenza al ministero delle Infrastrutture di Rocco Girlanda, pure lui indagato nell’ultimo scandalo delle opere pubbliche. Nel dicastero era sottosegretario forzista durante il governo Letta, e quando gli azzurri abbandonarono il governo, preferì lasciare gli azzurri ed entrare in Ncd, conservando la poltrona. E se il cambio della guardia a Palazzo Chigi gli è costato il sottogoverno, alle Infrastrutture è rimasto lo stesso. Come consulente “esperto per l'approfondimento delle problematiche inerenti l'autotrasporto ed il trasporto merci e concernenti il miglioramento dell'efficienza del trasporto pubblico locale, nonché per i rapporti con il Cipe”, per un corrispettivo di 60mila euro annui. Netti.
Il sistema di potere dell'ex ministro Lupi. Non ha più il sostegno della lobby di Cl. E ora l’indagine di Firenze con i favori al figlio investe il politico del Ncd. Che ha cercato di tenere insieme destra e sinistra, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Non aspetti il tuo lavoro ideale ma ti metti in gioco. Anche per me è stata la stessa cosa. Ho venduto bibite a San Siro, ho dato ripetizioni, ho insegnato religione in una scuola media al quartiere Tessera, estrema periferia ovest di Milano, e ho fatto pure l’autista. Anche se non mi piaceva molto guidare». Maurizio Lupi si è raccontato così alla fanzine della sua fondazione “Costruiamo il futuro” nel maggio del 2013, poco dopo essere diventato ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel governo di Enrico Letta. È sempre stato quello il lavoro ideale per lui. Il ministero delle Infrastrutture ha consentito a Lupi di fare ciò che fa meglio: creare relazioni e consenso diffuso. Il Mit non si occupa soltanto di infrastrutture e trasporti. È anche il ministero delle Inaugurazioni e del Trasversalismo, delle coop rosse, di quelle bianche e della Compagnia delle opere (Cdo), dell’Expo di Milano e di chi l’ha voluta, con Lupi fra i padri fondatori. È il ministero dei nuovi aeroporti, dei nuovi porti, delle nuove autostrade, del Mose, del tunnel del Brennero, dell’alta velocità ferroviaria a ovest, a est e a sud, dei grandi lavori in ritardo, zavorrati dai costi delle mazzette, spesso inutili ma gestiti in armonia fra un pugno di grand commis di Stato e i costruttori. È il posto giusto per uno come Lupi, stakhanovista del lavoro e delle presenze a “Porta a Porta”. Ed è il lavoro ideale per chi non ama guidare. Il Mit fornisce autisti di primissimo ordine. È il paradiso dei gattopardi, dominato da un’alta burocrazia che non cambia col cambiare dei fattori politici. Fino allo scorso gennaio l’autista principale era Ercole Incalza, mister sette governi, finito in carcere lunedì 16 marzo dopo oltre un quarto di secolo a fare il bello e cattivo tempo negli appalti della Prima e della Seconda Repubblica. In gennaio Incalza si era messo in disparte, forse inquieto per un tintinnare di manette annunciato dalle interpellanze dei grillini fin dal luglio scorso. Ma non c’è stato il tempo di capire se il suo sistema di potere era davvero finito o se, più verosimilmente, proseguiva con altri mezzi. Forse lo spiegheranno i magistrati fiorentini. Forse sarà lo stesso Lupi a chiarire come mai suo figlio avesse un lavoro procacciato da Stefano Perotti, anche lui arrestato in quanto perno di un sistema tangentizio tanto efficace quanto elementare con le società di ingegneria del gruppo Spm a fare da cartiera per lavori inesistenti. La raccomandazione “triangolata” per il figlio Luca Lupi e il Rolex da 10 mila euro come regalo di laurea sono circostanze imbarazzanti per un politico che dichiara 282 mila euro di imponibile annuo, ha una Fiat 500 di proprietà, una casa, 31 mila euro di Btp, 5 mila euro in azioni Fiera di Milano e 50 euro di quota della cooperativa Tempi, editrice presieduta da Luigi Amicone e amministrata in passato da Franco Cavallo, faccendiere in quota Cdo finito in carcere con Incalza. Le spese per la campagna elettorale del 2013 hanno prezzi semipopolari e sfiorano i 59 mila euro. I costi di viaggio e missione fino al dicembre 2014 non raggiungono i 10 mila euro per trasferte a Bruxelles, a Genova e quattro giorni a Singapore per parlare di collaborazione fra autorità portuali. Insomma, il discepolo di don Giussani è uno che può vivere del suo, che non abusa dell’altrui e che è stato creduto senza difficoltà quando ha smentito i contatti con Gianstefano Frigerio, un altro highlander della Prima Repubblica finito in carcere per l’Expo dieci mesi fa. Per dirla con Agatha Christie, Frigerio è un indizio, Frigerio più Incalza sono una coincidenza e solo un terzo indizio sarebbe una prova. Ma la pressione sull’esponente del Ncd è destinata a salire. Di recente qualcuno lo ha visto immerso in preghiera nella cattedrale milanese di Sant’Ambrogio, a due passi dall’Università Cattolica dove è incominciata l’avventura politica del figlio di immigrati abruzzesi sotto le bandiere di Comunione e liberazione. Ma le bandiere invecchiano e le amicizie si logorano. Il primo incarico ministeriale, confermato da Matteo Renzi, aveva offerto all’ex venditore di bibite allo stadio la possibilità di rinnovarsi. Da buon maratoneta e fondatore del Montecitorio running club, l’ex vicepresidente della Camera ed assessore all’Urbanistica con Gabriele Albertini sindaco stava ricostruendo la sua carriera lungo tre direttrici: una nuova identità politica, le opportunità offerte dalle grandi opere e nuove relazioni più romane che milanesi. Bisogna vedere che cosa resterà di questo lavoro. L’abbraccio con Incalza rischia di essere letale, con soddisfazione nemmeno troppo segreta di qualche compagno di strada. Lo schema delle alleanze dello “scoppiettante Lupi” (copyright Silvio Berlusconi) procede a slalom. Molte sue amicizie sono nate in ogni zona dell’emiciclo parlamentare quando, nel 2003, Lupi organizzò l’Intergruppo della sussidiarietà, parola-simbolo dell’universo Cdo (36 mila iscritti per un giro d’affari annuo stimato fra i 70 e i 100 miliardi di euro). Intorno al mantra della sussidiarietà, verticale o preferibilmente orizzontale, si sono raccolti esponenti del centrosinistra come Enrico Letta, Pier Luigi Bersani ed Ermete Realacci. Non tutti i rapporti si sono conservati. Letta ha assistito con una certa freddezza all’autoriciclo di Lupi nel governo Renzi e Realacci ha appoggiato l’Anac di Raffaele Cantone contro il ministro che avrebbe voluto allungare la durata delle concessioni autostradali senza passare per una gara, in cambio di nuovi investimenti e pedaggi calmierati. Con Renzi non è mai stato amore anche per le radici molto differenti nel mondo cattolico dove fra Cl e gli scout Agesci cari al premier non c’è cordialità, per non parlare dell’antipatia esplicita fra ammiratori di don Giussani e ragazzi dell’Azione cattolica come il braccio destro di Renzi, Luca Lotti. Con l’ex cavaliere Berlusconi, in compenso, l’ad di Fiera Milano congressi (autosospeso) mantiene una stima che si è rafforzata nel momento del bisogno, quando Lupi non ha esitato a difendere il diritto dell’allora premier al bunga bunga. La sua veemenza è parsa fuori dal perimetro dell’etica ciellina. Il punto dolente è proprio nei rapporti con il mondo di Comunione e liberazione che è passato dal monolitismo dei bei tempi, con Roberto Formigoni front-man per la politica, a un frazionamento degno di un movimento di estrema sinistra. Dell’amicizia di antica data fra Lupi e Mario Mauro, ministro della Difesa con Letta passato prima ai montiani e poi ai Popolari per l’Italia, rimane poco. I due hanno abbandonato il Pdl a breve distanza l’uno dall’altro ma alle Europee del 2014 Lupi si è imposto su Mauro, ex vicepresidente del parlamento di Strasburgo, come capolista della circoscrizione Nord. Gelo con Mauro significa gelo con “il Vitta”, al secolo Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà e riferimento ideologico dell’intero movimento. Anche per tenere sotto traccia il dissidio, era stata presa la decisione di non invitare politici all’ultimo Meeting di Rimini dove Lupi è ospite fisso ab ovo. Con una manovra degna del suo passato, l’ex public relation man della Fiera di Milano ha aggirato l’ostacolo grazie alla conferenza stampa del gruppo Fs che presentava proprio nel centro congressi riminese i nuovi collegamenti dell’alta velocità con gli aeroporti di Fiumicino, Malpensa e Venezia. Mentre i cronisti si accalcavano attorno al ministro, qualche sala più in là il presidente della Cdo Bernhard Scholz guidava un dibattito sulla sfida della crescita disertato dalla stampa. Con queste premesse la candidatura di Lupi a sindaco di Milano, che tutti danno per certa fin dai tempi di Letizia Moratti, diventa improbabile e forse nemmeno così attraente. Da un lato, la macchina del volontariato ciellino gratis et amore Dei non sembra disposta a sostenere Lupi come nelle precedenti campagne elettorali e il centrodestra è nel caos, con un Ncd guidato in tandem da Lupi e da Angelino Alfano che non si sa bene su quale base elettorale possa contare. Dall’altro, l’aspettativa di vita del governo Renzi si è allungata fino al termine naturale del 2018. Il Mit avrà molto da fare e tanti appalti da amministrare in un’Italia dove l’economia torna a crescere. S’intende, se l’inchiesta non avrà conseguenze più pesanti. Per minimizzare danni ulteriori, Lupi ha invocato la presunzione di innocenza nei confronti di Incalza, il capo della missione tecnica del Mit che, di fatto, aveva potere di vita o di morte sugli appalti proposti per i finanziamenti pubblici del Cipe. Nel sito del Mit al posto del manager brindisino cresciuto alla scuola della sinistra ferroviaria Psi di Claudio Signorile e Rocco Trane c’è il nome di Paolo Emilio Signorini, incaricato ad interim. Ma il ministro ha operato altri rimpasti nello staff. A ottobre è uscito il capo della segreteria Emmanuele Forlani, citato nell’ordinanza della Procura fiorentina per un vestito da 700 euro in regalo. Forlani, sostituito da Luca Novara (ex Fiera Milano), era un lupiano della prima ora, coinvolto nella fondazione “Costruiamo il futuro” e segretario dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà celebrato da un incontro al Meeting 2011 con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Enrico Letta e Vittadini. Forlani si è dimesso per stanchezza, dicono alcuni. Altri notano che la stanchezza è in parte dovuta all’ascesa nello staff del capo di gabinetto Giacomo Aiello, avvocato dello Stato ed ex consulente della Protezione Civile con Guido Bertolaso. Anche Aiello è citato nei documenti della Procura per i suoi scontri con l’ex provveditore di Lazio e Abruzzo, Donato Carlea. Restano stabili le quotazioni del segretario particolare di Lupi, l’ex parlamentare Pdl Marcello Di Caterina, in passato molto vicino a Marcello Dell’Utri. Noto per avere fuso la macchina mentre correva a presentare le liste azzurre in Campania per le politiche del 2013, Di Caterina è considerato ancora oggi un buon aggancio con i berlusconiani e contribuisce a garantire quel consenso multipartisan che è il dogma di Lupi. Nel migliore dei mondi possibili questa strategia è vincente. Nel mondo reale, il politico deve rendere conto dei suoi rapporti con gli Incalza, con i Perotti, i navigatori di lungo corso come Vito Bonsignore e Antonio Bargone, con i signori delle ruspe da Ghella a Gavio, da Navarra a Pizzarotti. Sotto la guida di Lupi l’agenda del Mit si è allungata come non si vedeva dai tempi della legge obiettivo, lanciata da Berlusconi nel 2001 con Pietro Lunardi ministro. A dispetto delle ristrettezze finanziarie, lo slancio neo-keynesiano del politico del Nuovo centrodestra ha contagiato tutti i settori di attività. La scadenza più immediata è quella dell’Expo milanese. Nella sua città Lupi ha dovuto accettare il diktat renziano che ha messo ai comandi il democrat Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura cresciuto nelle giovanili del sistema Sesto San Giovanni alla scuola di Filippo Penati, uno degli ex comunisti più amati dal mondo Cl-Cdo. Lupi ha accettato di mettere in secondo piano la sua primogenitura sull’Expo perché non aveva altra scelta e perché, tutto sommato, il suo passo indietro lo colloca in una posizione che i consulenti d’impresa chiamerebbero win-win. Se Expo va bene, lui ci ha creduto fin dall’inizio. Se va male, è colpa di Martina e di Renzi. Per adesso, di sicuro hanno fatto flop la Brebemi di Beniamino Gavio, amministrata dall’indagato Giulio Burchi, e la Pedemontana lombarda (18 mila veicoli al giorno invece dei 60 mila previsti). Restando al settore autostradale, fra le partite più spinose che Lupi ha dovuto gestire c’è l’Anas, che anche nell’inchiesta fiorentina ha una parte importante. Fra gli incarichi dati dalla società di Pietro Ciucci a Perotti c’è la direzione lavori del macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio dove è da poco crollato un pilastro uccidendo un operaio. Ciucci è stato messo sotto pressione dai parlamentari dell’ottava commissione del Senato per contestazioni che vanno dallo smottamento del viadotto Scorciavacche in Sicilia all’autoliquidazione milionaria del presidente. Alle audizioni davanti al presidente della commissione Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture indagato per il Mose, Ciucci si è fatto accompagnare dal viceministro Riccardo Nencini, segnalato negli atti dell’inchiesta fiorentina come uno dei politici sostenuti da Incalza. Lupi, che non si presenta in commissione dallo scorso luglio, ha voluto che fosse un democrat a sostenere il suo protetto Ciucci. Così ha messo in difficoltà l’ala del Pd che chiede aria nuova all’Anas insieme a buona parte dell’opposizione, costretta a recedere dalla commissione di inchiesta sull’Anas dopo le pressioni di Matteoli sul capogruppo forzista al Senato Paolo Romani. Le autostrade e il possibile prolungamento delle concessioni sono centrali nella politica del Mit, che ha in gestione la vigilanza delle concessionarie. Rinviare le gare è vitale per i profitti dei due maggiori imprenditori del settore, Atlantia-Autostrade del gruppo Benetton, e le holding Aurelia-Argo della famiglia Gavio. I Benetton sono anche i protagonisti, attraverso Adr, dei nuovi progetti sull’aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino, con prospettive da definire dopo l’alleanza Alitalia-Etihad, un altro accordo dove Lupi ha messo la faccia. Il fronte alta velocità ha ripreso slancio grazie ai buoni rapporti del ministro con la dirigenza Fs, soprattutto durante il lungo regno di Mauro Moretti, oggi sostituito da Michele Mario Elia. La prospettiva è di partire con una nuova tratta al Sud, la Napoli-Bari, entro il 2018, mentre a breve termine si continuerà con la Torino-Lione e con la caduta del diaframma del tunnel del Brennero. In lista ci sarebbero anche lo snodo sotterraneo e la nuova stazione Av di Firenze. Ma si prevedono ritardi per la presenza di magistrati sui binari.
Quanto è facile trovare lavoro se ti chiami Lupi. Per gli altri neolaureati la gavetta a zero euro. «Un giovane uscito dal Politecnico il giorno dopo ha 15 offerte di lavoro», è riuscito a dire Gaetano Quagliariello nel goffo tentativo di difendere il ministro finito nello scandalo Grandi opere. E' davvero così? Abbiamo fatto qualche verifica...scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Gaetano Quagliariello e Maurizio Lupi Mentre cresce il pressing su Maurizio Lupi affinché rassegni le dimissioni, gli unici rimasti a difendere il ministro sono i colleghi di Nuovo Centrodestra. A dare il meglio di sé il coordinatore ed ex ministro del governo Letta Gaetano Quagliarello che prima parla di «fango mediatico nel ventilatore» e oggi in un intervista al Corriere della sera azzarda una ricostruzione forzata. Alla domanda dello scandalo di un padre politico che cerca lavoro per il figlio risponde:«Da professore universitario so bene che un giovane uscito dal Politecnico, laureato con lode, il giorno dopo ha 15 offerte di lavoro». Doppio salto mortale e il padre che chiama per far trovare lavoro al figlio neolaureato (e puntualmente assunto in un cantiere dell’Eni nel giro di qualche settimana) passano dalla parte giusta. In realtà ad ogni neolaureato del Politecnico tocca un iter lungo: prima l’esame di stato per poter firmare i progetti e poi tirocinio obbligatorio, con paghe da fame da 300-400 euro al mese o troppo spesso completamente gratuito. E poi un futuro da contratti in partita Iva per anni. Ecco il racconto di un progettista anch’esso uscito da Politecnico: «Ho iniziato a lavorare in uno studio di progettazione d'interni. Mi hanno fatto fare all'inizio una settimana di prova, prolungata poi a un mese, con la promessa di darmi 500 euro. Sono passati tre mesi, io continuo a lavorare, e di chiedere i soldi non ho ovviamente voglia, dato che mi assale la vergogna. L'ambiente, purtroppo, è tutt’altro che rilassato, i capi fanno continuo pressing, costringendoci ad orari di lavoro massacranti e i colleghi sono agitati e in continua competizione. Sto spendendo soldi per lavorare e non ho nessun diritto. Domanda: funziona così dappertutto?». Lo storie di giovani e sfruttati con il titolo di architetto e ingegnere in tasca si somigliano tutte: 10-12 ore al giorno, prima delle consegne dei progetti si lavora nel week-end e la notte. Per i neolaureati la paga è spesso un semplice rimborso spese da 1 o 2 euro l’ora. I duemila euro al mese come primo impiego di Lupi junior sono un sogno per tutti. La ricostruzione di Quagliariello («Il fatto che il figlio di Maurizio Lupi si trovi a New York e abbia detto no a quello offerte è una scelta di moralità») ribalta anche quanto scritto dai magistrati e raccontato dall’Espresso. Oltre oceano Luca Lupi ci arriva grazie ai contatti del potente ingegnere Stefano Perotti contattato da Incalza dopo la telefonata del padre Maurizio. Confermato anche dalle carte nell’ordinanza: «L’aiuto fornito da Stefano Perotti a Luca Lupi non è si limitato al conferimento dell’incarico sopra descritto. Il 4 febbraio 2015 Perotti chiede all’amico Tommaso Boralevi che lavora negli Stati Uniti, di dare assistenza ad un loro ingegnere che al momento lavora presso lo studio Mor e verrà impiegato a New York». E continua: «Lavorerà in una prima fase per lo studio Mor (cognato di Perotti) come commerciale per cercargli delle opportunità eccetera. Gli abbiamo dato anche noi un incarico collegato per le nostre attività di direzione lavori, management, te lo volevo mettere in contatto che sicuramente tu che sei una specie di motore acceso qualche dritta gliela puoi dare no?». Trovare lavoro e contatti quando tuo padre è un ministro non è poi così difficile.
Dimissioni Lupi e grandi opere. 15 anni di appalti e favori. I politici, gli imprenditori i tecnici e il monsignore. Tutti i 51 indagati dell’operazione dei Ros ribattezzata «Sistema» che ha portato all’addio del ministro alle Infrastrutture, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Il fascicolo è già stato trasmesso «per conoscenza» alla Procura di Roma. Riguarda l’appalto per il prolungamento della Metro C, si concentra sull’affidamento della direzione dei lavori a Stefano Perotti, manager finito in carcere insieme al suo amico e socio in affari Ercole Incalza, alto funzionario delle Infrastrutture. I magistrati di Firenze ritengono di dover condividere questa parte dell’indagine sulla gestione delle Grandi opere, con i colleghi capitolini che hanno da tempo avviato verifiche sulla regolarità delle procedure e sulla lievitazione dei costi che al 2011 erano fissati in tre miliardi e 400 milioni di euro e secondo alcune stime potrebbero arrivare alla cifra record di 6 miliardi. Agli atti c’è la trascrizione di una telefonata del febbraio 2014 tra l’ex presidente di Italferr Giulio Burchi e il manager Giovanni Gaspari che gli inquirenti ritengono «significativa» proprio per dimostrare gli accordi illeciti per spartirsi nomine e appalti. Nel colloquio Burchi si lamenta infatti del numero di incarichi affidati a Perotti e tra l’altro afferma: «Gli ha fatto avere un lotto che non volevano dargli a tutti i costi quando c’era ancora Bortoli di Roma Metropolitane». È il «sistema» che secondo i pubblici ministeri «ha consentito ad un gruppo di soggetti di istituire una sorta di filtro criminale all’ordinario accesso ai grandi appalti pubblici da parte delle imprese private». È quella che il giudice ha ritenuto una «organizzazione criminale di spessore eccezionale, che ha condizionato per almeno un ventennio la gestione dei flussi finanziari statali destinati alla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali». E da oggi cominciano gli interrogatori di tutti. La lettura delle carte processuali conferma come uno dei personaggi chiave di questo «sistema» messo in piedi, secondo l’accusa, da Incalza e Perotti, sia Francesco Cavallo. Nelle conversazioni lo indicano come «uomo di Lupi». Molto legato ai vertici della cooperativa «La Cascina» - coinvolta in numerose inchieste, compresa Mafia Capitale - «ha un rapporto contrattuale per l’erogazione di servizi professionali in favore della società “Ingegneria Spm” riferibile a Perotti Stefano» e ciò vuol dire che «intrattiene nel suo interesse una serie di rapporti con soggetti istituzionali». Cavallo alterna incontri con monsignor Francesco Gioia per far avere un lavoro al nipote del prelato e chiedere in cambio voti per Maurizio Lupi, ai contatti con numerosi titolari di azienda, fa da tramite tra questi ultimi e i politici. È amico dell’imprenditore friulano Claudio De Eccher e di quello pugliese Roberto De Santis, il compagno di vela di Massimo D’Alema, non indagato ma perquisito una settimana fa proprio perché il suo nome compariva agli atti dell’inchiesta per un affare che avrebbe dovuto concludere proprio grazie a Cavallo. Il giudice ritiene che il «sistema» si regga su quel patto tra «i professionisti nominati direttori dei lavori e gli stessi funzionari dello Stato, parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni, proventi illeciti». Hanno gestito in quindici anni decine di appalti per un totale di 25 miliardi di euro, ma si sono occupati anche di orientare nomine che consentono di percepire compensi da centinaia di migliaia di euro. E allora si comprende perché Burchi abbia interesse a tenere ottimi rapporti con amici politici del calibro del socialista Riccardo Nencini sottosegretario alle Infrastrutture, con il quale «bisogna discutere ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone», e con il parlamentare ed ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che gli chiede aiuto per far avere incarichi a manager di sua fiducia. Molto attivo appare anche Stefano Saglia che ottiene una consulenza da Perotti e dopo avergli procurato «un appuntamento in Eni». Commenta Cavallo: «Si è messo di buzzo buono a lavorare, Stefano gli ha già dato una consulenza, ma è così che si lega questa gente, cioè mica gli puoi dire “quando chiuderò, può darsi”». Ci sono i capitolati «su misura» e quelli modificati in corsa, ma i carabinieri del Ros hanno trovato anche una perizia contraffatta, svolta nell’arbitrato tra Perotti e la Fiat sui lavori della Tav Firenze-Bologna che hanno portato nelle tasche del manager - nominato general contractor - ben 68 milioni di euro. Sull’assegnazione dei lavori ferroviari e autostradali il ruolo dei politici si fa dominante con Vito Bonsignore del centrodestra che entra nella Civitavecchia-Orte-Mestre e Antonio Bargone del centrosinistra interessato alla Tirrenica. Entrambi disponibili a trattare e per questo finiti tra gli indagati.
Grandi opere, i politici, gli imprenditori e il monsignore: 15 anni di appalti, scrive “Il Corriere della Sera”.
Ugo Sposetti, 68 anni, ex tesoriere dei Ds, senatore pd, non indagato: la Procura lo indica come «molto vicino» a Burchi, che più volte si attiva per trovare incarichi a persone segnalate da Sposetti.
Maurizio Lupi, 55 anni, deputato di Ncd, ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture nel governo Letta, mantiene lo stesso incarico con Renzi fino alle sue dimissioni dello scorso 20 marzo.
Stefano Perotti, 56 anni, è l’ingegnere che per la Procura di Firenze sarebbe stato messo a capo dei lavori di diverse grandi opere grazie agli accordi con Incalza. Anche lui è stato arrestato lunedì.
Vito Bonsignore, 71 anni, ex pdl, ex vicepresidente del Ppe, indagato: in un’intercettazione agli atti discute della non ammissibilità di un emendamento vitale per l’appalto della Orte-Mestre.
Francesco Cavallo, 54 anni, ex presidente del cda di Centostazioni, arrestato, per gli inquirenti aveva uno «stretto legame» con Maurizio Lupi tanto da fare «favori a ministro e familiari».
Antonio Bargone, 67 anni, avvocato, ex ds, ex sottosegretario ai Lavori pubblici, presidente della Sat, la concessionaria per l’autostrada tirrenica, anche lui è indagato nell’inchiesta «Sistema»Giulio Burchi, 65 anni, ex presidente di Italferr, tra i 51 indagati, è una delle figure chiave dell’inchiesta: per i pm un «soggetto perfettamente inserito nel sistema di illiceità».
Stefano Saglia, 44 anni, ex deputato pdl, ex sottosegretario allo Sviluppo economico e consulente in materia di energia, poi nel cda di Terna. Il suo nome è nell’elenco degli indagati.
Massimo Averardi, ex direttore centrale progettazione dell’Anas: nell’ottobre 2014, dalle carte dell’inchiesta, risulta che Burchi gli raccontò che Perotti aveva assunto il figlio di Maurizio Lupi.
Ugo Sposetti, 68 anni, ex tesoriere dei Ds, senatore pd, non indagato: la Procura lo indica come «molto vicino» a Burchi, che più volte si attiva per trovare incarichi a persone segnalate da Sposetti.
Ettore Incalza, 70 anni, una carriera da dirigente e poi da consulente ai Lavori pubblici. Arrestato lunedì scorso, fino a fine 2014 è stato capo della struttura tecnica di Missione del ministero.
Caso Incalza, l’accusa dei pm: «In quei pacchi carte e soldi». Secondo la procura cinque foto scattate il 22 gennaio 2015 testimoniano il passaggio di soldi. La conferma in una telefonata intercettata: «5 per ello e todo per me», scrive “Il Corriere della Sera”. Cinque foto, scattate in via Salvini a Roma, di fronte agli uffici della Green Field, società che secondo gli inquirenti rappresentava una specie di «camera di compensazione» per far arrivare soldi da commesse pubbliche a Ercole Incalza. E una frase sibillina, ma non troppo: «5 per ello, toto per me». Una frase dal cui «tenore», si legge nelle carte dell’inchiesta «Sistema» avviata dai pm di Firenze sulle Grandi Opere, «è chiaro che si tratta di denaro» in parte destinato a Incalza, il super consulente finito in manette. Le foto ritraggono i due collaboratori di Incalza, Sandro Pacella e Angelo Pica, mentre scaricano dall’auto una serie di scatoloni e pacchi di documenti, provenienti dal ministero delle Infrastrutture, per portarli dentro il civico 25 di via Salvini. Siamo a fine gennaio e sta per chiudersi il rapporto di consulenza di Incalza con il dicastero di piazza di Porta Pia. Il 22 gennaio scorso Pica e Pacella si sentono al telefono e Pica chiede a Pacella a che ora pensa di passare a via Salvini per recapitare i documenti di Incalza. Oltre ai pacchi, cinque, c’è anche un «regalo» e Pica dice a Pacella: «Per il regalo, quando te lo do?». «Lì appunto» risponde Pacella. In una successiva telefonata Pica chiede al suo interlocutore se Incalza «le vuole tutte insieme le carte che gli devo dare?... quei fascicoli..» Dopo un’ora, «evidentemente dopo essersi consultato con Incalza» - scrivono gli inquirenti - arriva la risposta: «Senti, 5 per ello e todo per me». E secondo gli investigatori «dal tenore della risposta è chiaro che non si tratta della consegna da parte di Pica né di carte né di fascicoli, ma di denaro in parte destinato a Incalza e in parte allo stesso Pacella». A questo punto Pica si accorda con Pacella per vedersi l’indomani mattina. E proprio del 23 gennaio sono le 5 foto scattate durante il servizio di osservazione e allegate agli atti, che documentano il trasferimento del materiale.
Ecco l’impero di Incalza tra pubblico e privato. gli investigatori del Fisco hanno passato al setaccio i conti di Incalza dal 1999 al 2012, scoprendo tutti gli enti e società private che lo hanno pagato per attività, scrive Ivan Cimmarusti su “Il Tempo”. Flussi di denaro continui. Fino a 3 milioni 502 mila euro finiti sui conti correnti dell’ex superburocrate alle Infrastrutture, Ercole Incalza. Compensi che il presunto «burattinaio» del «sistema» svelato dalla Procura della Repubblica di Firenze, ha ottenuto attraverso vari lavori svolti non solo per il pubblico, ma anche per il privato. Come il milione di euro pagato da due società finite nella bufera giudiziaria: la «Green field system», giudicata la «camera di compensazione» per ottenere denaro e commesse, e la «Cooperativa Muratori & Cementisti Cmc» di Ravenna, impegnata negli appalti all’Expo di Milano. L’analisi è contenuta in un’informativa dell’Agenzia delle Entrate, allegata agli atti della vasta inchiesta che ha svelato un’ipotizzata ragnatela di interessi intessuta – stando all’accusa – da Incalza e dai fedelissimi Francesco Cavallo e Stefano Perotti, imprenditori che fanno man bassa di direzioni lavori. Sono loro gli uomini ombra dietro l’ex ministro Maurizio Lupi, che ne sfruttano il potere politico e amministrativo. Così, gli investigatori del Fisco hanno passato al setaccio i conti di Incalza dal 1999 al 2012, scoprendo tutti gli enti e società private che lo hanno pagato per attività. Analizzando i tabulati si scopre che nel periodo di riferimento ha ottenuto 675 mila euro dalle Infrastrutture, in quanto a capo della Struttura tecnica di missione. E nello stesso periodo ha avuto compensi da società che, a vario titolo, erano interessate alle grandi opere italiane, come la Cooperativa Muratori & Cementisti Cmc di Ravenna, per 501mila 926 euro. Nell’elenco, poi, ci sono anche Aeroporti di Roma e Sviluppo Lazio spa. Stando a quanto scrivono gli investigatori del fisco, «da una prima lettura è immediato notare che, se si esclude il ministero delle Infrastrutture, i due soggetti da cui Incalza ha percepito compensi più elevati sono Green Field System e Cmc di Ravenna. In particolare, la prima società ha corrisposto 670mila euro» anche se nei bilanci «non emerge alcun accenno all’attività svolta». La Cmc, invece, ha «corrisposto compensi per 501mila 963 euro». L’azienda è «salita alla ribalta delle cronache giudiziarie, quando, nell’ottobre 2013, si è conclusa l’indagine della Finanza che ha visto i dirigenti della cooperativa indagati per l’appalto nel porto di Molfetta». Un’inchiesta che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati del presidente della commissione Bilancio, Antonio Azzolini, che avrebbe fatto portare nelle casse della società 10 milioni di euro per il completamento del porto di Molfetta (Puglia). E, forse, non è un caso se lo stesso Azzolini è citato negli atti della Procura della Repubblica di Firenze, quanto con altri senatori asseconda le intenzioni di Incalza di salvare la Struttura tecnica di missione delle Infrastrutture, nel momento in cui il Governo la voleva annettere sotto il controllo della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Le giornate di Incalza a Regina Coeli, nella cella sperando nei domiciliari. Il supermanager è detenuto da lunedì 16 marzo, l’avvocato Titta Madia chiederà la scarcerazione nei prossimi giorni, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. «Signorile», «educato», «tranquillo», questa la prima impressione riportata dagli agenti della polizia penitenziaria di Regina Coeli, lunedì 16 marzo, all’arrivo di Ercole Incalza, il «dominus» del ministero delle Infrastrutture, nella settima sezione del carcere romano, quella dei «Nuovi Giunti», al piano terra. Il supermanager, però, li ha colti di sorpresa, qualche minuto dopo, mentre si sistemava nella sua cella singola di dodici metri quadrati: svuotando la borsa degli indumenti, ha incominciato infatti ad allineare con cura maniacale sulla cuccetta superiore del letto a castello - poiché aveva scelto di dormire sotto - un numero imprecisato di camicie, «davvero tante» - hanno raccontato meravigliati più tardi quegli stessi agenti a un ispettore - tutte camicie bianche e celestine, perfettamente piegate dall’ingegnere dell’Alta Velocità. Una scorta di cambi assai previdente, visto che è già passata una settimana dal suo ingresso. Ma le sorprese quel giorno non erano ancora finite e alle guardie è venuto da sorridere quando Incalza, 71 anni, ha domandato loro se in caso di eventuali spostamenti all’esterno, per un’udienza in tribunale o altro, ci fosse una macchina a disposizione. «Veramente dottore - gli hanno risposto anche con un certo imbarazzo - qui abbiamo solo furgoni blindati e con quelli trasferiamo tutti i detenuti, nessuno escluso». Nessun turbamento, comunque, da parte sua. Dopo i primi giorni di isolamento completo (niente contatti nè giornali e tv), Ercole Incalza ora ha cambiato reparto, è sempre in cella singola ma è stato inserito nel «circuito ordinario» della prigione. In settimana il suo avvocato, Titta Madia, confida di fargli ottenere almeno i domiciliari. La direttrice di Regina Coeli, Silvana Sergi, incontrandolo, lo ha trovato «sereno». Lui si è complimentato «per la grande umanità di tutto il personale».
Il sistema Incalza anche negli appalti della metropolitana C di Roma, la più cara d'Europa. Le carte: i sondaggi con Burchi perché assumesse la guida della società committente e l'imposizione dell'onnipresente Perotti. I pm di Firenze inviano gli atti nella Capitale, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Le intercettazioni telefoniche sugli appalti per la Metropolitana C di Roma rimaste impigliate negli ascolti del Ros dei carabinieri sul Sistema Incalza-Perotti prendono la strada di Roma, dove la Procura di Firenze ne ha trasmesso copia "per conoscenza" e dove è aperta un'indagine che promette di spalancare altri abissi di malversazione. Del resto, il filo che annoda il Grande Mandarino delle Infrastrutture alla più costosa opera pubblica della storia repubblicana (per 25 chilometri di linea, dai 2,7 miliardi di euro di costo in sede di aggiudicazione, si è oggi a 3,7), passava non solo attraverso il lavoro istruttorio della Struttura tecnica di missione del Ministero, ma, come sempre, attraverso Stefano Perotti e la sua Spm, che si era aggiudicata la direzione dei lavori del terzo tronco della linea, da San Giovanni ai Fori Imperiali (incarico che è stato revocato il giorno dell'arresto). Un lotto a tutti i costi. È ancora una volta Giulio Burchi, ex presidente di Italferr e indagato nell'inchiesta fiorentina, a portare involontariamente l'indagine nei cantieri della Metro C. "Grazie a Incalza - si sfoga al telefono parlando del ruolo da asso pigliatutto di Perotti - gli hanno dato un lotto che non volevano dargli a tutti i costi quando c'era Bortoli... di Roma Metropolitane". Ed è ancora Burchi che, al telefono, prima con l'assessore alla mobilità del Comune di Roma ed ex sottosegretario alle Infrastrutture del governo Monti, Guido Improta, e quindi con l'ex tesoriere del Pd Sposetti, evoca il nome di Incalza sullo sfondo della Metro C. Accade infatti che, nel gennaio 2014, Improta chieda a Burchi la sua disponibilità per assumere la guida di "Roma Metropolitane", la società controllata dal Comune committente dell'appalto. Un carrozzone che impiega quasi 200 persone e spende di soli stipendi 13 milioni l'anno. "Ovviamente - dice l'assessore a Burchi - è una situazione prestigiosa perché è la più grande opera pubblica che si sta realizzando. Quindi, ci vuole qualcuno che abbia competenze giuridiche, tecniche, sensibilità politica e abbia fatto già tanti soldi...". Ma, a sentire Burchi in una telefonata successiva al suo incontro con l'assessore Improta durante il quale si è discusso del suo possibile incarico, c'è anche dell'altro. "L'assessore mi ha detto: "Lei conosce Ercole Incalza?". E io gli dico: "Lo conosco da 30 anni perché eravamo nello stesso partito. Ma non mi gode. Incalza ha ancora un ottimo rapporto con Lunardi e io l'ho guastato"". Burchi e l'assessore capitolino non si incontreranno più. E, in quel gennaio 2014, presidente di "Roma Metropolitane" sarà nominato Paolo Omodeo Salé. Ma perché, dunque, quella domanda su Incalza? E perché bussare alla porta di Burchi? La verità dell'assessore. Raggiunto telefonicamente, l'assessore Improta la ricostruisce così. "Ho incontrato Burchi due volte. La prima, si presentò da me per illustrarmi un progetto della società del fratello. Mi disse che era stato presidente di Italferr e prima ancora della Metropolitana milanese, durante Tangentopoli e che in quella circostanza aveva collaborato con la magistratura di Milano. Mi lasciò un curriculum e, quando con il sindaco Marino decidemmo che era venuto il momento di azzerare i vertici di "Roma Metropolitane", da cui arrivavano "rumori" che non ci piacevano, pensai a lui. Proprio per quell'esperienza milanese di collaborazione con la magistratura. E così lo chiamai per sondarlo. Anche perché avevamo bisogno di qualcuno disposto ad andare a Roma Metropolitane non solo accettando il tetto di stipendi fissato in 65mila euro l'anno, ma anche impermeabile alle "sirene" che un'opera di quel genere, con quella quantità di denaro che muove, produce. Dopodiché, non se ne fece nulla. Burchi non arrivò neppure al lotto ristretto di candidati tra i quali venne scelto Salé". Forse perché non era in buoni rapporti con Incalza? "Il senso della domanda che feci a Burchi durante il nostro colloquio aveva esattamente il significato opposto. Cercavamo una figura indipendente. A maggior ragione da Incalza. Tanto è vero che quando decidemmo di procedere alla nomina del nuovo presidente di Roma Metropolitane mi limitai a comunicarlo a Incalza. E il nome della persona che avevamo scelto la apprese dai giornali. A cose fatte". Le varianti migliorative. Che Incalza non sia "neutro" nella storia della Metro C è del resto una di quelle circostanze che, ancora una volta, non solo sono scritte nella gestazione dell'opera (la gara venne affidata nel 2006, proprio con la "Legge Obiettivo" di cui lo stesso Incalza e l'ex ministro delle Infrastrutture Lunardi sono "padri"), ma anche in quel che accade lungo la strada della sua realizzazione. Tanto per dirne una, la commissione di collaudo di Metro C è presieduta dall'ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, legatissimo ad Incalza e padre di quel Giandomenico che insieme a Perotti ha le direzioni dei lavori della tratta ad Alta velocità Milano-Genova. Metro C nasce con il progetto di una "galleria unica", ma, immediatamente dopo, cambia fisionomia, collezionando ben 45 varianti in corso d'opera. Lo strumento capace di gonfiare come una mongolfiera i costi. Ebbene, come documentano gli atti del primo troncone dell'indagine della Procura di Firenze sulla Tav (quella che ha visto recentemente rinviata a giudizio Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd dell'Umbria ed ex presidente di Italferr, dove era succeduta proprio a Burchi) si scopre che, proprio nei cantieri della Metro di Roma, è stata per la prima volta "sperimentata con successo" un tipo particolare di variante. La cosiddetta "variante migliorativa". Apparentemente, necessaria a risparmiare denaro rispetto al progetto iniziale. In realtà, con la sola funzione di evitare che il committente pubblico chieda conto al general contractor di progetti esecutivi errati eppure già pagati.
LIBERA E LE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA: TROVI UN AMICO, TROVI UN TESORO.
Facile farsi belli con la clacche di sinistra. Bologna, in 200mila per Libera e don Ciotti: "Corruzione e mafia facce della stessa medaglia". In decine di migliaia sfilano periferia al centro: associazioni, studenti, cittadini: "Al Nord non è infiltrazione, ma occupazione". Applausi e fiori dai cittadini alle finestre. Il presidente del Senato Grasso: "Le norme non devono essere annacquate". I parenti delle vittime: "Ogni giorno sia il 21 marzo", scrivono Eleonora Capelli ed Ilaria Venturi su “La Repubblica”. Decine di migliaia di persone, almeno 200mila secondo gli organizzatori, hanno partecipato alla Giornata contro le mafie di Libera a Bologna. Don Luigi Ciotti alla fine ne parla come di "una giornata solo per la legge, una giornata per la coscienza". Un lunghissimo corteo ha attraversato la città dalla periferia al centro, per concludersi in piazza VIII agosto con i discorsi dal palco. Una marea umana con a capo don Ciotti, il fondatore di Libera, che dal palco ha lanciato il suo messaggio alla politica: "Nella lotta alla mafia bisogna avere più coraggio", ha detto. E ancora: "Su corruzione e falso in bilancio occorrono leggi più determinate, corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia, lo dicono qui migliaia di giovani. Siamo qui - ha proseguito don Ciotti - non per commemorare ma per graffiare dentro le coscienze di tutti". In una terra che, ha dimostrato la recente inchiesta Aemilia, è permeata dalla mafia, e per la quale la parola corretta "oggi è occupazione",non più infiltrazione. Le mafie "in questi anni hanno trovato tante porte aperte, hanno trovato strade spianate, passerelle, a volte perfino comitati di accoglienza". Don Ciotti: ''C'è chi non vuole una legge chiara contro la corruzione''. "Nessuno ci strumentalizzi". Don Ciotti scandisce quali azioni sarebbero necessarie sin da subito da parte della politica: "Introducete il reddito di cittadinanza, cancellate il vitalizio ai deputati e senatori condannati in via definitiva per mafia e corruzione". E avverte: "Libera è libera, nessuno la strumentalizzi o la usi, ma sia ben chiaro che ogni lotta per la giustizia sociale ci vedrà al fianco di chi ci mette la faccia". L'urlo di Bologna: ''No alla mafia''. Il corteo. In testa al corteo hanno marciato i famigliari delle vittime della mafia, dietro Libera Emilia-Romagna, poi gli studenti e i giovani, da tutta la provincia ma anche dalla Calabria e dalla Sicilia, da Mestre, da Savona, scout laici e cattolici con bandiere e zaini, intere classi delle medie e delle superiori, accompagnate dalle insegnanti, persino dalla Sardegna. Per arrivare in piazza Maggiore c'è voluta più di un'ora, due ore per piazza VIII agosto: ad accogliere lì don Luigi Ciotti centinaia di bambini delle scuole, e semplici cittadini, che lo salutano con un "Grazie don Luigi". Il presidente del Senato Pietro Grasso arriva e abbraccia i parenti delle vittime; in particolare il padre di un agente ucciso nel 1989, Antonino Agostino: Vincenzo, sempre presente alle manifestazioni di Libera, ha 86 anni e una lunga barba, che, ribadisce, si taglierà solo quando avrà giustizia per il figlio. In piazza VIII agosto, piena all'inverosimile, in un silenzio surreale, mentre la gente è con gli occhi chiusi, inizia la lettura dei nomi delle vittime innocenti delle mafie, delle stragi e del terrorismo, mentre ancora in migliaia scorrono in via Indipendenza. Dal palco di piazza VIII agosto prende la parola, a nome di tutti i famigliari colpiti da un lutto per mano della mafia, Margherita Asta, che ha perso la madre e i fratelli nella strage di Pizzolungo: "Questa piazza chiede un salto di qualità alla politica. Ogni giorno sia il 21 marzo". Fra i giovani in tanti con gli striscioni per don Beppe Diana del liceo di Sassuolo, "L'Emilia vede la mafia" è lo striscione dei ragazzi di Reggio. "La vera tragedia della vita è un uomo che ha paura della luce", è lo striscione dei ragazzi di Bergamo, che citano Platone. Un gruppo di signore del presidio di Libera di San Casciano commentano guardando i giovani: "Stringono il cuore". I ragazzi dell'istituto Marconi di Cagliari gridano saltando: "La mafia è dura ma non ci fa paura". C'è il comitato bolognese "Io lotto" per rendere testimonianza della tragedia della Terra dei fuochi, Fabrizio: "Essere qui, anche questo è lotta alla camorra". Tante le siglie delle associazioni: Emergency, centri sociali, le coop, la Fiom, la Cgil, lo Spi. Ci sono l'ex magistrato Giancarlo Caselli e il leader delle tute blu Maurizio Landini. Le uniche bandiere sono quelle di Libera, sventolate o portate addosso come scialli. Gli scout portano uno striscione arcobaleno della pace, lungo dieci metri. Viali bloccati, i pullman parcheggiati ai lati, corrono i ragazzi delle scuole. Dalle finestre la gente lancia fiori e petali sul corteo, saluta e applaude. "Oggi Bologna è la capitale dell'antimafia, ma è anche la capitale di un no deciso alla criminalità organizzata e alla corruzione", commenta il sindaco Virginio Merola. "Oggi deve essere un momento di svolta nella vita civile del nostro paese". Stefano Bonaccini, governatore della Regione, abbraccia il popolo di Libera: "Questa è la nostra regione, una terra che in questi giorni apre le braccia per accogliere un popolo che, come dice il carissimo don Luigi Ciotti, con la sua partecipazione vuole dire con chiarezza da che parte sta. "C'è un pezzo rilevante dell'Italia che scommette sull'onestà, sulla legalità e la voglia di dire che c'è un paese che sa reagire". Per Romano Prodi è "una bella giornata, spero per tutta l'Italia, non solo per Bologna. Spero che aiuti le coscienze perché la lotta alla mafia va fatta tutti i giorni. E' uno dei cortei più belli visti a Bologna". Grasso: "Non annacquare le norme anticorruzione". Per il ministro Giuliano Poletti "il Governo deve continuare a fare il lavoro che ha fatto sul piano della lotta alla corruzione, fare il proprio mestiere sul piano dell'assunzione delle responsabilità e delle decisioni che deve prendere, essere coerente da questo punto di vista, migliorare la normativa sui beni sequestrati e fare questo percorso insieme a tutta la società civile". Don Ciotti, incontrando il ministro del Lavoro, lo pungola: "L'unica legge di questo governo che è passata velocemente è la responsabilità civile dei magistrati". E il presidente di Palazzo Madama Grasso: "Spero che le norme contenute nella proposta di legge sulla corruzione arrivata nell'aula del senato "non vengano annacquate per renderle assolutamente non efficaci". Pensando a quanto è emerso in Emilia-Romagna con l'inchiesta Aemilia sulla penetrazione della 'ndrangheta al Nord, aggiunge: "Le ultime inchieste hanno dato riscontro alle cose che diciamo da anni, non da ora. L'abbiamo sempre detto anche quando ero magistrato e procuratore nazionale antimafia. Ho sempre valutato il pericolo di questo risvolto negativo anche di criminalità organizzata che utilizza la corruzione e non più tanto l'intimidazione". Il leader della Fiom Maurizio Landini sottolinea che "il problema non sono i diritti di chi lavora, ma la criminalità organizzata. Occorrono leggi radicali e in fretta". E sull'inchiesta Aemilia: è stata "preoccupante soprattutto perché dobbiamo prendere atto che è dovuta arrivare la magistratura. Partiti, sindacati e istituzioni non hanno più antenne, il problema sono gli appalti". Da Bologna parte "un messaggio di forza della legalità, coraggio e speranza all'Italia", dice Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia. "Qui ci sono i familiari delle vittime bisogna ripartire da loro e ci dimostrano che per difendere la democrazia si può anche dare la vita". Sfila anche lo scrittore Alessandro Bergonzoni, che dice una sola parola: "Noi".
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).
Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.
«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».
Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.
« Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»
Continua Antonio Giangrande.
«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Le associazioni antiracket ed antiusura riconosciute dal Ministero dell’Interno sono pubblicate sul sito ministeriale.
Alcune non sono schierate, molte di loro, invece, fanno capo al FAI (Federazione Antiracket Antiusura Italiana) di Tano Grasso ed a LIBERA di Don Ciotti. Notoriamente, questi coordinamenti sono destinatari dei fondi statali e regionali.
Quei sette milioni che spaccano l' antiracket, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. L'ultima polemica nell'antimafia è scoppiata dopo la firma di quattro convenzioni, per quasi 7 milioni di euro, fra il ministero dell'Interno e le associazioni che fanno capo al leader storico del movimento antiracket, Tano Grasso. «Convenzioni basate su un finanziamento milionario», accusa Lino Busà, presidente nazionale di Sos Impresa, animatore di un'altra rete nazionale di associazioni antiracket, la Rete per la legalità: «D'ora in poi potremo dire che esiste un antiracket no profit e un'industria dell'antiracket», accusa Busà. «Stiamo valutando la legittimità di quelle convenzioni, che hanno assegnato finanziamenti davvero esorbitanti senza alcun bando pubblico», aggiunge il presidente di Sos Impresa. «Quei finanziamenti tolgono soprattutto autonomia alle associazioni», dice l'avvocato Fausto Amato, legale di parte civile in molti processi di mafia, impegnato anche lui nelle iniziative di Sos impresa e della Rete per la legalità. Una delle convenzioni riguarda anche l'attivissima associazione palermitana Addiopizzo: con la collaborazione della federazione di Tano Grasso si occuperà di promuovere la diffusione del "consumo critico antiracket", fra Palermo e Gela. Per questa iniziativa, che proseguirà per tre anni, il commissario antiracket del governo ha previsto un milione e 400 mila euro. Dice Tano Grasso, presidente onorario della Fai, federazione delle associazioni antiracket e antiusura: «È necessario dare una svolta all'impegno importantissimo delle associazioni sul territorio. E per farlo sono necessari strumenti. Per il resto, le associazioni continueranno ad operare in autonomia, senza alcuna soggezione nei confronti della politica, anche perché quei finanziamenti arrivano dall'Unione Europea, non dallo Stato. Cosa avremmo dovuto fare? Rinunciare a questa opportunità, che è anche un riconoscimento che l'Europa fa del lavoro svolto dalle associazioni sul territorio?». Grasso spiega che Fai e Addiopizzo avranno solo il compito di coordinare le iniziative: «Gli operatori degli sportelli sono stati selezioni attraverso rigide selezioni avvenute attraverso un bando pubblico», spiega. «Sono stati scelti professionisti che neanche conosco - dice ancora Tano Grasso - sono tutte persone che concretamente, e in modo professionale, potranno aiutare le vittime degli esattori». È ormai scontro fra le due anime del movimento antiracket: da una parte il Fai, dall'altra la Rete per la legalità. «Da due anni abbiamo fatto una scelta netta - dice Busà - vogliamo essere liberi dalla politica. Non riesco davvero a comprendere come si possa arrivare a finanziamenti così elevati: vengono dati 700 mila euro per realizzare uno sportello che noi offriamo da anni gratuitamente». La settimana prossima, il ministro dell'Interno firmerà un'altra convenzione, questa volta con il presidente Confindustria Emma Marcegaglia: il cuore di altre iniziative antiracket sarà la provincia di Caltanissetta. «L' antiracket non è solo Palermo o Napoli, dove tanti commercianti hanno scelto di denunciare», prosegue Tano Grasso: «In tante realtà, soprattutto in provincia, la situazione è ancora difficile, e non basta il volontariato delle associazioni, bisogna costruire progetti e sostenerli con adeguate professionalità, solo così potremo vincere davvero la lotta al pizzo». Busà ribatte: «Le associazioni antiracket devono nascere dal basso, dagli stessi commercianti. Non servono soldi, solo tanta buona volontà».
Il venticello della calunnia sfiora e avvelena il fronte dell' antiracket, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” . Non perché i boss siano passati al contrattacco nell'era della ribellione di commercianti e imprenditori. Ma perché a temere una burocratizzazione delle strutture «anti» e, addirittura, a sospettare un giro di mazzette per pilotare i rimborsi del Fondo appositamente costituito è qualche «vittima» adesso lanciata contro i vertici delle associazioni. E un nome s'impone su tutti, quello di Tano Grasso, mitico condottiero dei commercianti di Capo d'Orlando ai tempi di Libero Grassi, presidente onorario della Fai, la federazione antiracket, casa a Napoli dove è consulente del sindaco per la stessa materia. «Spazzatura», dicono di ogni accusa i suoi amici, da don Luigi Ciotti a Pina Grassi, comprese le icone dell' antiracket in Calabria e Campania, Maria Teresa Monaco e Silvana Fucito. Come l' avvocato di Grasso, Fausto Amato, già alla settima querela. Mentre lui sale al Viminale temendo la «delegittimazione» e trovando solidarietà nel ministro Amato. Sembra riecheggiare la polemica sui professionisti dell'antimafia dopo le prime frecciate arrivate attraverso «L'Espresso» con la storia di Giuseppe Gulizia, il costruttore siciliano che ha denunciato il coordinatore Fai nell'isola Mario Caniglia, altro simbolo dell'antiracket. Un terremoto. Perché Gulizia sostiene di avere «ringraziato», dopo i primi rimborsi del Fondo, con bottiglie di champagne imbottite da mazzette da cento euro e di avere dovuto comprare olio a prezzo maggiorato. In totale, una tangente di circa 60 mila euro, il dieci per cento di una prima tranche da 600 mila euro incassata dallo stesso imprenditore con le pratiche antiracket. La vicenda è complessa. Di certezze nessuno ne ha. L'indagine appare difficilissima. E chi denuncia potrebbe passare per un calunniatore. Ma il sospetto soffia come una bufera. Anche contro Grasso che Gulizia giura di avere informato. Quanto basta per scatenare un fuoco di sbarramento a difesa, ma anche nuovi forti attacchi. Come quello di Sonia Alfano, quasi conterranea di Grasso visto che la mafia le ha ucciso il padre giornalista a Barcellona, vicino a Capo d'Orlando, adesso candidata per Grillo alla presidenza della Regione: «L'antiracket non può essere una sola persona. Si faccia da parte per un momento Grasso, se ci sono ombre. Come abbiamo chiesto tante volte a chi ha i riflettori della giustizia puntati addosso. E' il caso di Caniglia. Altrimenti si da la sensazione di una casta. Se si tocca uno di loro ci si scotta...». Non piace questa posizione a don Ciotti che invita piuttosto «ad accertare le responsabilità di chi sparge zizzania». Un po' come Pina Grassi, arrabbiata con i cronisti: «Le notizie vanno verificate prima di questi subdoli attacchi...». E Maria Teresa Morano, coordinatrice dell'antiracket in Calabria: «Noi, con Grasso, siamo quelli che da 15 anni accompagniamo le vittime in tribunale. Il resto lascia il tempo che trova». Severa Silvana Fucito, presidente dell'associazione San Giovanni a Teduccio, tre anni fa indicata da Time «personaggio dell'anno in Europa»: «Sono infuriata contro chi si erge a giudice additando le associazioni e Tano Grasso. Mi sento parte offesa in prima persona». Un fiume in piena e anche se Rita Borsellino non risparmia «solidarietà» a Grasso, la Fucito che sa di una frizione con Don Ciotti bacchetta pure su questo fronte: «La Borsellino ormai non riesce a guardare verso il basso, dove noi operiamo accanto a chi soffre e vive i problemi...». Altra frecciata interna ad un mondo sul quale non tollera «il rischio delegittimazione» lo stesso Grasso: «Per questo sono andato da Amato, pronto alle dimissioni. Ma io sono sciasciano puro. E, da professionista dell'antimafia, convinto che Sciascia avesse ragione, ho usato la sua lezione come antidoto. Ombre? Vedo solo quelle di chi vuole ridimensionare il ruolo dell' antiracket e normalizzare».
In data 2-3-4 marzo 2010, il servizio di Stefania Petix, inviata di Striscia La Notizia, per la prima volta in Italia ha sollevato il problema della destinazione clientelare dei beni confiscati alla mafia. In quel caso si evidenziava che a Palermo la destinazione a fini sociali dei beni confiscati era stata effettuata a favore di associazioni inesistenti o a fini di lucro. Inascoltata la “Associazione Contro Tutte le Mafie” da sempre ha denunciato che il fenomeno è nazionale. Si riscontra che l’associazione “Libera” ha un rapporto privilegiato con le strutture Prefettizie a scapito delle tantissime associazioni indipendenti che non fanno capo a quel coordinamento. In questo caso vi è silenzio assoluto delle Istituzioni e degli organi di stampa su un fatto gravissimo. Allo stesso sodalizio nazionale denominato “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto al n. 3/2006, è impedita l’iscrizione presso altre prefetture pur operando nel loro territorio, in virtù del Decreto del Ministero dell’Interno n. 220 del 24/10/2007, che prevede l’iscrizione delle associazioni antiracket solo ed esclusivamente presso le prefetture competenti sulla sede legale. In data 3 marzo 2010, anche grazie ad una legge regionale, denominata appunto “Libera il bene”, attraverso la quale la Regione Puglia si assume il 90% dell’onere economico delle spese per la ristrutturazione degli immobili, il commissario straordinario prefettizio di Manduria Giovanni D’Onofrio ha promosso ed ottenuto, con la firma del protocollo di intesa, la collaborazione della stessa associazione Libera (rappresentata da Davide Pati e Annamaria Bonifazi) e della Prefettura di Taranto (rappresentata dalla dott.ssa Distante), finalizzata all’analisi dei beni confiscati agli esponenti mafiosi di Manduria, al monitoraggio delle loro condizioni strutturali, alla verifica del possibile riutilizzo e alla progettazione per la trasformazione in centri di aggregazione o per altro uso (da stabilirsi). “Libera” è un coordinamento, non un’associazione, e come tale, in virtù del Decreto citato, non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, in quanto il coordinamento non ha la sede legale in quella città, ma in via IV Novembre, 98, Roma, per cui il protocollo d’intesa è nullo e la Prefettura di Taranto e il Comune di Manduria, dovrebbero collaborare con le associazioni con sede legale nella provincia di Taranto, e l’Associazione Contro Tutte le Mafie, ha la sede legale in Avetrana, 15 Km da Manduria. Se passa il principio che chiunque spenda il nome “Libera” possa essere iscritto e privilegiato dagli enti Prefettizi, è normale che in Italia si formi un monopolio illegale delle assegnazioni dei beni, specie se poi questa attività è sostenuta dai finanziamenti pubblici. E’ ancor più grave se poi i coordinamenti hanno sede presso la CGIL. In questo caso parrebbe un’espropriazione proletaria. Poi non si capisce come mai la Regione Puglia possa riconoscere finanziamenti solo a “Libera”, escludendo le altre associazioni indipendenti, specie se dopo tanta enfasi, dopo anni non è ancora stato istituito l’albo regionale delle associazioni antiracket, che dovrebbe legittimare gli stessi finanziamenti. Spero che questa denuncia pubblica sia approfondita, nell’interesse della collettività, delle associazioni antimafia indipendenti e della vera lotta alla mafia e cessi l’ostracismo a danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Per tutti questi fatti non si è aperto alcun procedimento d’ufficio da parte delle Autorità locali, né hanno avuto seguito le denunce penali presentate, le cui indagini erano delegate alle stesse Autorità.
Per questo, dopo aver pubblicato la richiesta di archiviazione sulla mia denuncia contro un sistema che poi in molti lo hanno definito mafioso, non posso non pubblicare qui di seguito quello che per fini tutelati dal diritto di cronaca e dal diritto di critica, oltre ad interessi puramente culturali ed artistici nel predisporre un’opera accademica di sociologia storica, non è altro che un lavoro letterario di risposta a quelle istituzioni che lasciano il cittadino alla mercé di un sistema corrotto ed in balia dei pregiudizi e dei luoghi comuni di chi, giornalista padano ed ignorante, non conosce vergogna. Divulgazione di atti pubblici od atti privati pubblicati, senza, altresì, avere alcun intento diffamatorio nei confronti dei soggetti indicati, dei quali si apprezza e si loda il coraggio di raccontare una verità che deve rompere tutte le omertà e le censure. Si solidarizza e si propagandano, inoltre, le sorti di chi, come me ha cercato nel torbido la verità, ma per me, quando io ho cercato le stesse verità ed avuto le stesse ritorsioni, non ha avuto identica pietà, schierandosi, di fatto, dalla parte dei carnefici, anziché dalla parte della vittima.
Di seguito vi è un articolo di "la Repubblica", noto giornale fan sfegatato dei magistrati e di Libera di Don Ciotti. Un esempio lampante di come il sistema di pennivendoli corrotti dall’ideologia, prono alla sinistra ed ai magistrati, riesca a fare una pubblicità ingannevole a favore di Libera, infangando centinaia di associazioni antimafia locali, che non possono difendersi, proprio perchè non hanno soldi per pagare l'informazione. Sì. Perchè l'informazione si paga.
«Cari miei amici giornalisti e magistrati comunisti – afferma Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte Le mafie” – il fatto che denigrate o ignorate o addirittura perseguitate quelli che come me danno fastidio al vostro tornaconto, non mi esime dal dirvi che non un euro è stato versato alla mia associazione, sia da privati, che dallo Stato, né un bene confiscato alla mafia mi è stato affidato. Non per questo, però, mi si impedisce di far leggere i miei libri in tutto il mondo. Giusto per raccontare una verità storica in antitesi alle vostra verità artefatte ed ingannevoli.»
Il lato oscuro dell'antimafia. Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo e Alan Davis Scifo su “La Repubblica”. Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.
Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparente.
Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.
Gli inganni dell'antimafia. Nel composito - e talvolta oscuro - universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".
A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.
Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?
"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: 'O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casinò".
Lei come ha risposto?
"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".
Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?
"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".
Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.
"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".
Da chi è composta questa associazione antimafia?
"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".
Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telematico.
"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".
Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?
"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".
Lei ha paura di queste persone?
"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".
Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?
"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".
La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.
Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".
Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?
"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".
Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?
"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".
Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?
"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".
Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?
"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".
Che tipo di controlli si possono fare?
"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".
Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?
"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".
Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?
"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".
Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?
"Assolutamente sì".
Un'associazione per tutti i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie tutti i testimoni di giustizia d'Italia.
Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione che raccoglie tutti i testimoni di giustizia?
"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.
Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?
Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.
Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?
Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?
Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?
Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.
Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.
Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
MAI DIRE ANTIMAFIA.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia. «Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
Parliamo di Antimafia e dell’esigenza di essere sempre sulle prime pagine dei giornali. Bisogna dare un senso alla santificazione dei magistrati, quasi tutti di sinistra. Ed allora, quando la politica con Renzi ha le prime pagine di tv e stampa, ecco che si inventa una minaccia per dare lustro ad una immagine appannata dei magistrati. L’ultima sensazionale minaccia è quella di Totò Riina. Salvatore Riina, soprannominato Totò o ancora Totò u' curtu (Corleone, 16 novembre 1930), è un criminale italiano, legato a Cosa Nostra e considerato il capo dell'organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Viene indicato anche con i soprannomi U curtu, per via della sua statura e La Belva, adottato per indicare la sua ferocia sanguinaria. Un vecchio rinchiuso in un carcere di sicurezza dallo Stato. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento?». Comunque un dato è rilevante: può lo Stato, dico lo Stato, avere paura di un vecchio rinchiuso da decenni in un carcere? Può un solo magistrato essere tanto osannato e protetto rispetto ad altri suoi pari che svolgono il suo stesso lavoro e ricevono le stesse minacce? La storia parla chiaro: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti solo perché è lo Stato e la Magistratura che li ha uccisi, abbandonandoli al loro destino, lasciandoli soli, emarginandoli. Quello Stato e quei magistrati che invece avrebbero dovuto difenderli e tutelarli. Ma tanto, in una Italia caposotto, la verità sarà sempre stravolta.
Quando la mafia si combatte soltanto a parole. Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia, scrive Vittorio Sgarbi. «Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia. C'è qualcosa di inquietante nell'attrazione per il martirio che induce a dare pubblicità a notizie riservate, ignorate perfino dai ministri dell'Interno e della Giustizia. Invece di agire, si parla. E si diffondono altre parole, da intercettazioni riservate. Rinunciando a tutela e prudenza si praticano proclami e allarmi. La persona minacciata rilascia interviste, stuzzica lo Stato, pretende solidarietà e convocazioni. Se Napolitano tace è perché è il garante dell'innominabile patto Stato-mafia, anzi della «trattativa». Non lo dice un facinoroso, ma il fratello di un magistrato ucciso dalla mafia, che non conosce limiti e pudori, e tanto meno senso dello Stato. È tollerabile che su un quotidiano nazionale Salvatore Borsellino dichiari: «Napolitano è garante di quella trattativa Stato-mafia sulla quale è oggi in corso un processo che si vuole fermare»? Naturalmente il processo è quello voluto da Di Matteo, che ha comunque ragione perché è stato minacciato. E Borsellino può continuare affermando: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». È possibile accettare queste posizioni senza che nessuno, un altro e diverso Di Matteo, apra un'inchiesta per vilipendio al capo dello Stato? Per una dichiarazione non sua, su un magistrato, il vituperato Sallusti è stato condannato a un anno di reclusione. Borsellino invece può dire ciò che vuole. Io non considero Napolitano garante di alcuna trattativa, ma semplicemente amico del «suo» vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Ma chi minaccia Di Matteo? Il pericolosissimo Totò Riina? E qual è il suo potere reale? Da 20 anni sta in un carcere di massima sicurezza. Ogni sua azione e ogni suo pensiero sono controllati. Chi dovrebbe ascoltarlo e mettere in atto i suoi propositi, i suoi ordini espressi in sfoghi privati che mai non conosceremmo se non fossero stati intercettati e scelleratamente resi pubblici? Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri. Se Riina è reso inoffensivo dallo Stato che lo ha arrestato, perché dobbiamo ritenerlo pericoloso e potente anche in carcere? Perché dobbiamo alimentarne la leggenda? Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione. La mafia firma un crimine, non lo annuncia. Il rischio della tutela eccessiva dei diritti è il ridicolo. Tra le tante categorie che chiedono attenzione per non essere discriminate viene difficile immaginare che ci siano anche gli «ambasciatori gay». Senza molta diplomazia, alcuni di loro hanno chiesto che a chi, tra gli ambasciatori, ha un compagno omosessuale, venga garantito lo stato di «coniuge». Gli ambasciatori hanno moglie o marito con passaporto diplomatico, assicurazione sanitaria, rimborso delle spese di viaggio, oltre all'indennità per servizio estero, quando, al pari di un coniuge, il «compagno» o la «compagna» non abbiano lavoro autonomo. Che dire nel caso in cui il lavoro fosse di scrittore o giornalista? In riferimento all'articolo dal titolo «Stato-mafia, Sgorbi Quotidiani: "Riina complice di Di Matteo"», a firma di Claudio Forleo, pubblicato in data 03.01.2014 sul sito http://it.IBTimes.com [...], si chiede la pubblicazione della seguente lettera di rettifica e replica: Coloro che mi hanno verbalmente aggredito, non hanno ancora contraddetto le analoghe osservazioni del Procuratore Antimafia. Io non mi farò intimidire dal loro squadrismo. Alla luce di questa idea dello Stato, nel quale mi rispecchio, e che ritengo più forte della mafia, io non mento. Mente Salvatore Borsellino, esattamente «facinoroso», sospettoso dello Stato, anche nei suoi vertici più alti, come il Presidente della Repubblica, e che non è giustificato, nella offesa, da essere fratello del magistrato Paolo Borsellino. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini ? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento ?» E' esattamente il mio pensiero, evidentemente legittimo. Lo Stato non è colluso se non nella ipotesi di Di Matteo, già smentito da altri magistrati che hanno assolto Mori, negando la presunta «trattativa tra Stato e mafia». Ma non si può dire e neanche pensare. Allo stesso modo nessuna valutazione, in quanto tale, e non per sentito dire, può essere falsa, ma, semmai, opinabile. Né può essere contestato il mio diritto di parlare con argomenti insensati. Siamo o eravamo in democrazia. Io non «ignoro» e non faccio «finta di ignorare» che Di Matteo è sotto minaccia da oltre un anno, come lo è Domenico Gozzo, ma anche io lo sono stato, e non ho chiesto particolari protezioni avendo denunciato gli sporchi affari della mafia nella cosiddetta «energia pulita». E, benché sotto scorta, non ho avuto alcuna solidarietà. Evidentemente, in quel caso, l'azione della mafia non era ritenuta preoccupante. E si trattava di minacce trascurabili, diversamente da quelle a Di Matteo. Nessuno, tra gli «specialisti dell'antimafia», ha osservato che, se non per retorica, non c'era alcun elemento di riscontro per sciogliere Salemi per infiltrazioni della criminalità organizzata. Non esiste a Salemi «criminalità organizzata», e l'inchiesta indiziaria contro uno non può essere assimilata a nessuna associazione, né diretta né per concorso esterno. Anche questa è una grave anomalia: l'espressione di uno Stato che agisce sotto la pressione di chi possiede la verità rivelata. Per questo ribadisco, con forza, e pretendendo davanti a un Tribunale, che le mie affermazioni siano rispettate. Punto primo. Siamo di fronte a un'impostura. E siccome lo Stato è anche il mio Stato, io non intendo che nessuno lo umili in nome di una sua personalissima lotta alla mafia, di cui non discuto la buona fede, ma la sostanza delle affermazioni. Che, che se appassionate, possono essere false. Anzi, sono false. Per questo fra il Presidente Napolitano e Salvatore Borsellino, io sto con Napolitano, e ne ho tutto il diritto. Mentre Salvatore Borsellino non ha il diritto, in nome della morte di suo fratello, di fare affermazioni senza fondamento, del genere di quella intollerabile, e nemica dello Stato quanto lo è la mafia (e non giustificata dal martirio di Paolo Borsellino): «Da 20 anni Napolitano è il garante della trattativa Stato-Mafia». E siccome sono convinto di quello che dico, e ho fiducia nella magistratura quando essa agisce in nome della verità, ho dato mandato al mio avvocato, come cittadino di questo Stato, di denunciare anche Salvatore Borsellino per vilipendio al Capo dello Stato. Sarà dunque un Tribunale, e non un sito autoproclamatosi «antimafia», a stabilire quale è la verità. E se Napolitano sia stato il garante della trattativa Stato-Mafia. Punto secondo. Siccome nessuno ha più titolo di altri, se non rispetto alle cose che ha fatto, e alle esperienze politiche di vita, di dichiararsi «rappresentante dell'antimafia», «sindaco antimafia» e altre suggestive formule, dovrebbe essere stata una sufficiente lezione vedere i recenti casi in cui chi si è rispecchiato in queste categorie, e lo ha manifestato pubblicamente, sia stato scoperto per il suo inganno. Dunque non ho alcuna fiducia in chi fa proclami e pretende di avere più titoli e dignità di me, insultandomi e aggredendomi. Ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, ma non esiste qualcuno che ha un'investitura con libertà d'infamare, di mentire e d'insultare. Io ho espresso una opinione discutibile, ma per smontarla occorre dimostrare il contrario. Non farsi forte di un presunto diploma o attestato di antimafia che può essere miseramente e tristemente sconfessato. Punto terzo. Sono fermamente convinto che il Pm Di Matteo non corra reali rischi. E credo di poterlo dire. La mafia non avvisa, ma soprattutto, chi è minacciato, non deve necessariamente farlo sapere, ne è opportuno che intercettazioni o notizie riservate siano fatte circolare per creare allarme. Ho espresso molti dubbi sul potere attuale e reale di Totò Riina. Ritengo che una dichiarazione o uno sfogo non coincidano con una minaccia sostanziale da parte di chi è in stato di cattività e isolamento. Ognuno può decidere di dare il peso che desidera alle parole di un criminale in carcere. Mi chiedo però perché, superata l'attività di magistrato, non debba correre lo stesso rischio Antonio Ingroia, del quale nessuno sembra preoccuparsi. La mia sensazione è che, per mostrarsi al centro di una possibile azione criminale, Di Matteo abbia come obiettivo di affiancarsi ai martiri Falcone e Borsellino. Ma in una situazione nella quale non s'intende da dove arrivi il pericolo, e si può pensare che il magistrato, mostrandosi in una strada senza uscita e in condizioni di pericolo, mediti di entrare in politica, come il suo collega. In tal caso le minacce paventate aumentano la popolarità e credibilità. Ma il rischio vero è molto discutibile, come ha ricordato, del resto, il Procuratore Nazionale antimafia. E io sono assolutamente certo, ma tutto è discutibile, che nessuno torcerà un capello a Di Matteo. Questo è il mio pensiero, e non vedo perché, averlo espresso, mi abbia esposto a insulti inaccettabili e per i quali promuoverò l'azione penale confidando nell'equilibrio dei magistrati che si occuperanno del caso. Vittorio Sgarbi».
Ci limitiamo a mettere in parallelo due notizie, scrive Filippo facci. La prima la sapete, Grillo ha chiesto alle Forze dell’ordine di non proteggere più la classe politica, tutta, indiscriminatamente: e l’ha chiesto nel periodo degli ultimi quarant’anni in cui l’odio per la classe dirigente è in assoluto più forte, col movimento dei forconi che semina tempesta e un movimento di coglioni che si aggrega e spacca tutto. Avrete orecchiato anche la seconda notizia: per gli spostamenti del pm siciliano Nino Di Matteo, a proposito di sicurezza, si è invece valutato l’utilizzo di un carro armato modello Lince (già usato in Afghanistan) e anche di un bomb-jammer, avveniristico marchingegno che neutralizza i dispositivi attivabili con telecomando. Il dettaglio, a margine delle due notizie, è che l’odio antipolitico è un dato palpabile e certo, mentre le minacce a Di Matteo non sono certe manco per niente: gli stessi giornali che hanno montato il caso ammettono che «si sa poco» e citano delle frasi genericissime di Totò Riina, intercettato in carcere - pare - anche se il ministro Anna Maria Cancellieri ha dichiarato che «non esistono minacce esplicite di Riina nei confronti di magistrati». Tanto è bastato perché una cronista del Fatto Quotidiano scrivesse su Twitter: «Che razza di Stato è questo che permette alla mafia di condizionare l’attività dei suoi servitori... Vergognatevi, peracottari da strapazzo». Colpa dei politici. Di che? Non sappiamo, ma è colpa loro.
Dalle stragi all'antimafia. Riina: "Il capo dei capi sono io", scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. È difficile credere che non immaginasse di essere intercettato. Totò Riina ci consegna, forse volontariamente, il suo pensiero. Parla, anzi straparla. Al di là della sua reale o presunta chiamata alle armi che affida alle microspie, il capo dei capi si autoaccusa di delitti e stragi. Si apre, andando oltre il suo ostinato dichiararsi innocente. Ci porta alle origini del male di cui è stato incarnazione vivente. Si conferma quell'uomo rabbioso che all'inizio degli anni Novanta sfidò lo Stato a colpi di bombe. Una rabbia alimentata dal regime del carcere duro. Il padrino corleonese non ha ceduto, ma il 41 bis è stata una batosta persino per uno come lui. Non a caso, lo definisce “una condanna nel codice penale italiano che non può ingoiare nessuno”. E così si sfoga. Quello stesso Stato che aveva messo in ginocchio lo ha sepolto in galera. “Se io verrò fra altri mille anni io verrò a fargli guerra per questa legge”. Di sé parla spesso al passato: “Io sono stato un nemico pericoloso, non ne avranno mai, non gliene capiteranno più. Uno e gli è bastato e se ne debbono ricordare sempre. Per dire come quello non ce n'è, quello ci ha combinato tutte le cose del mondo”. E le "cose del mondo" a cui fa riferimento sono stati soprattutto gli attentati e le stragi di Capaci e via D'Amelio. A cominciare dal tritolo che uccise il giudice Rocco Chinnici nel 1983:“... prima fanno i carrieristi a spese dei detenuti... poi saltano in aria quando gli succede quello che gli è successo... quello là saluta e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi, Minchia truuu e poi e sceso, disgraziato, il procuratore generale era di Palermo... per un paio di anni mi sono divertito quando vi mettevamo quella va suona". Poi, toccò a Giovanni Falcone: "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì dall'aeroporto, non è a Palermo... fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua”. E proseguì con Paolo Borsellino: “Cinquantasette giorni dopo minchia la notizia l'hanno trovata là dentro.. l'hanno sentita dire... deve andare da sua madre.. allora gli ho detto preparati, aspettiamolo lì”. Riina sembra, però, prendere le distanze dalle stragi in Continente. Quella di Firenze per esempio, per la quale tira in ballo un suo compaesano eccellente: "A Firenze ci devi mandare a Binnu Provenzano... se sono siciliano perché le devo andare a fare fuori dalla Sicilia?". Con Provenzano non è tenero, deve essere successo qualcosa che ha incrinato il loro rapporto: "Non era del convento mio, certo lo rispettavo ma lui era convinto che le cose erano a tarallucci e vino". Lo critica per il modo in cui avrebbe trattato i suoi figli, quei "picciutteddi che sono un pezzo di pane" e che Binu avrebbe "lasciato in mezzo alla strada. Mischini". Forse il riferimento è al ritorno a Corleone della moglie e dei figli di Provenzano poco prima della strage di Capaci". Strage fa lui spesso richiamato, come quando cita il giudice Antonino "Caponnetto che piangeva. Disgraziato ma cosa ci piangi. Ora lo piangi che stava facendo morire a me (si riferisce a Giovanni Falcone) perché non glielo dicevi prima che smetteva". Poi, il riferimento forse al appello: "La cosa si fermò... ma non è che si è fermata... Comunque... Io l'appunto gliel'ho lasciato". Parla proprio delle richieste avanzate ad alcuni esponenti delle Istituzioni per mettere fine alla stagione stragista? Sta, insomma, parlando della trattativa fra la mafia e lo Stato per cui è in corso un processo nel quale è imputato anche Nicola Mancino? Sul punto Riina sembra avere le idee piuttosto chiare: "Ma che vogliono sperimentare... che questo Mancino tratto' con me... così loro vorrebbero... ma se questo non è venuto mai". E quella di via Capaci e D'Amelio non sarebbero state neppure le ultime stragi. Se solo lo Stato, quello Stato che lo ha sepolto al 41 bis, non lo avesse fermato: “... se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello”. Anche perché, se ne rammarica, nessuno ha saputo raccogliere il suo testimone. Neppure Matteo Messina Denaro a cui non risparmia parole dure: “Questo qua questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia tutto in una volta si è messo a fare luce in tutti i posti... fanno altre persone ed a noi ci tengono in galera, sempre in galera però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare”. Ecco, se lo Stato ha rialzato la testa, la colpa è anche e soprattutto di chi non ha fermato il lavoro dei magistrati. I magistrati sono la sua ossessione. Quei magistrati che si fanno, a suo dire, propaganda per fare carriera: “Ci strisciano, ci mangiano, ci bevono sopra e ci sfasciano…perché si ringalluzziscono, perché c’è la popolazione che li difende, che li aiuta... sono magistrati quelli, fanno i carrieristi a spese dei poveri detenuti, carrieristi e denaro”. E così si arriva al paradosso. A Riina che celebra Sciascia: “Vivono così e Salvatore Sciascia (sbaglia il nome di battesimo dello scrittore di Racalmuto) li chiamava per questo i professionisti dell’antimafia". "Così sono i professionisti dell’antimafia - spiega stizzito il padrino ad Alberto Lorusso - tanto professionisti che a questi Sciascia non li poteva vedere, li aveva come l’uva da appendere, ma sempre li attaccava, dalla mattina alla sera, perché vedeva quello che facevano, lo constatava lui, che sembrava un mafioso vero, ma poi quello era una persona studiosa, onesta, però l’Italia è fatta così…”.
Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.
Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.
SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia.... perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".
LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone - che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa - sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene.. ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".
SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.
LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce - aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto - ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.
CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo.... fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.
IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".
LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa - volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.
I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io 'ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?'". Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".
Le parole di Riina per Di Matteo: "Mazzata nelle corna, fine del tonno", scrive “La Repubblica”. "Facciamola grossa e non ne parliamo più", "Ci vuole una mazzata nelle corna": depositata parte delle intercettazioni del capo dei capi di Cosa nostra con il boss della Sacra corona unita Alberto Lo Russo in cui il capomafia minaccia Di Matteo, che rappresenta l'accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia che vede tra gli imputati proprio il boss corleonese" "Ma perché questa popolazione non vuole ammazzare nessun magistrato?". I boss a conoscenza di notizie riservate. "E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più". Sono le 9.30 del 16 novembre 2013 e il boss mafioso Totò Riina parla con il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lo Russo durante l'ora della cosiddetta 'socialita' nel carcere milanese di Opera. I due parlano del pm antimafia Antonino Di Matteo, che rappresenta l'accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia che vede tra gli imputati proprio il boss corleonese. Mentre Riina dice "organizziamola questa cosa", tira fuori la mano dal cappotto e gesticolando mima il gesto di fare in fretta, come scrivono gli uomini nella Dia nella parte delle intercettazioni depositate questo pomeriggio dai pm nel processo per la trattativa. Riina dimostra di non avere paura di Di Matteo: "Vedi, vedi - dice - si mette là davamti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce...". Poi sul progetto di attentato: "Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari". "Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono", continua Riina con Lorusso. "Questo pubblico ministero di questo processo che mi sta facendo uscire pazzo". Riina nei dialoghi intercettati nel carcere di Opera con il boss Lo Russo è incontenibile: "Se io restavo fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo, al massimo livello. Ormai c'era l'ingranaggio, questo sistema e basta. Minchia, eravamo tutti, tutti mafiosi". Ma Riina, aggiornato in tempo (quasi reale) da Lorusso, apprende della richiesta di testimonianza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al processo sulla trattativa. Lorusso lo informa che le tv rilanciano le dichiarazioni del vice presidente del Csm (Vietti) e di altri politici che ritengono che il capo dello Stato non debba testimoniare. Riina approva: "fanno bene, fanno bene... ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nelle corna... a questo pubblico ministero di Palermo". Al che Lorusso dice: "sono tutti con Napolitano dice che non ci deve andare. Lui è il presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina afferma: "Io penso che qualcosa si è rotto...". E poi i primi (cronologicamente) riferimenti riconducibili al pm Nino Di Matteo: "Di più per questo, per questo signore che era a Caltanissetta, questo che non sa che cosa deve fare prima. E' un disgraziato... minchia è intrigante, minchia, questo vorrebbe mettere a tutti, a tutti, vorrebbe mettere mani... ci mette la parola in bocca a tutti, ma non prende niente, non prende...". In Procura cresce la preoccupazione perché i boss sarebbero a conoscenza di notizie mai pubblicate: il 14 novembre scorso gli inquirenti trascrivono l'ennesima intercettazione captata nel cortile di Opera. Quando la notizia delle minacce di Riina al pm Di Matteo era finita sui giornali, i magistrati decisero di presentarsi in massa in Tribunale per manifestare ai pm del processo per la trattativa tra Stato e mafia la loro solidarietà. Ma la decisione non era stata ancora ufficializzata nè era finita sui giornali o in tv e se n'era parlato soltanto via mail tra pm e poche persone. Così è Lorusso ad avvisare il 14 novembre scorso Riina: "...hanno detto che alla prossima udienza ci saranno tutti i pubblici ministeri all'udienza... saranno presenti tutti". E Riina annuisce: "Ah tutti". Una notizia circolata solo sulla mailing list interna al Palazzo di giustizia. "Mi viene una rabbia - continua Riina - ma perchè questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato? A tutti... ammazzarli, proprio andarci armati e vedere...". Si ingalluzziscono , proprio si ingalluzziscono... perchè c'è la popolazione che li difende, che li aiuta. Quelli però che devono andare a fare la propaganda là, sono quelli che devono andare a fare la propaganda. Hanno lo scopo in testa per uno strumentìo (strumentalizzazione ndr) completamente e le persone sono con loro...". "Quelli si meritavano questo e altro - continua Riina - questo è niente quello che gli feci io! Gli ho fatto, però meritavano. Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato e non hanno continuato e non hanno intenzione di continuare, nessuno". E il boss corleonese, sempre il 30 ottobre, rivendica le sue gesta e sembra che nessuno in Cosa nostra riesca a seguire le sue orme. Tanto che Lorusso dice: "E così subiscono sempre, così subiscono, subiscono, subiscono e continueranno a subire". Nei dialoghi con Lo Russo c'è anche un accenno alla strage Chinnici: "Quello là salutava e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi. Minchia e poi è sceso, disgraziato, il procuratore generale di Palermo". Chinnici fu ucciso da un'autobomba il 29 luglio del 1983. Il capomafia si dice deluso da quello che è ritenuto l'attuale capo di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi. Questo fa i pali della luce - aggiunge riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto - ci farebbe più figura se se la mettesse in c... la luce".
“Il 1964. Nel gennaio nacque Giovanni, un cherubino, pieno di riccioli e con le guanciotte rotonde. Quando venne al mondo, io ed Elvira eravamo in casa con la vecchia Rosalia. Papà telefonò per avvisarci che il fratellino era nato e, per comunicarci quanto era bello, disse: “Sembra una peschina”. Mamma, per entrare di ruolo, avrebbe dovuto prendere servizio nel febbraio a Cittadella del Capo, Bonifati, in Calabria, provincia di Cosenza, Non c’erano tutele di sorta per la maternità, allora, quindi i miei fecero una scelta difficile: papà rimase a Partanna con Elvira, mentre io andai a Cittadella con mamma e Giovanni. (…) Mamma, Giovanni e io vivevamo al piano terra di una casetta nella parte bassa del paese. Era forse la terza di una strada che portava al mare: al mattino, come prima cosa, aprivo le finestre e annusavo l’aria. Attorno, le altre avevano dei giardini: li curava un omone enorme di nome Dante. Mi intimoriva un po’ – con tutte quelle lame e quegli strumenti strani in mano – , io invece dovevo fargli tenerezza perché, qualche volta, quando scendevo al mare con mamma e il fratellino, tagliava una rosa e me la regalava.” * da Caterina Chinnici E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte: Storia di mio padre, Mondadori.
Non sono tutte belle le storie che seguono le tracce della propria memoria, dei propri affetti. E, soprattutto, se rispondono alla necessità, psicologica, affettiva, di chi le scrive, non tutte hanno una corrispondente, ampia, necessità in chi legge. E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte: Storia di mio padre - quasi una lunga, intima, lettera d’amore d’una figlia al padre - è un libro di ricordi bello e necessario. Che, attraverso le parole della figlia, anche lei magistrato figlia di magistrato, attualmente a capo del Dipartimento Giustizia Minorile, restituisce nella sua dimensione di uomo e giudice Rocco Chinnici, magistrato ucciso il 29 luglio del 1983, alla cui grandezza non ha corrisposto, fino ad ora, adeguata memoria collettiva.
MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.
La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!).
Chi tocca i pm dell'antimafia finisce rovinato. Mentre Caselli, Ingroia, Woodcock e Di Matteo vengono osannati dalla stampa amica, il giornalista Jannuzzi per i suoi articoli è stato condannato e umiliato con il carcere, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Viste le mille polemiche sulle minacce rivelate e diversamente valutate al pubblico ministero Nino Di Matteo, rifletto sulle limitazioni della parola e sulle intimidazioni di chi non voglia accettare di avere bisogno di eroi. C'è qualcosa che ricorda terribilmente le mode. Non molto tempo fa, «l'eroe» era Antonio Ingroia; è stato rapidamente dimenticato e messo da parte perché ha fatto l'errore di uscire dall'hortus conclusus di tutte le perfezioni - la magistratura - per entrare nell'inferno della politica, che lo ha travolto e cancellato. Per lui, allora, al di là della verità dei fatti, si sarebbe messo in piedi il «teatro degli affetti» che, immancabilmente, mette in scena il Fatto Quotidiano. Ecco pronto, infatti, il 12 gennaio, a Palermo, al cinema teatro Golden, con il titolo suggestivo «A che punto sono la mafia e l'antimafia», il sottotitolo «Noi stiamo con il pm Nino Di Matteo e con tutti i magistrati minacciati», gli attori Antonio Padellaro e Marco Travaglio, con la partecipazione speciale di Roberto Scarpinato, un po' fuori moda, ma di cui non si può dimenticare la memorabile fotografia di Letizia Battaglia, sulla copertina di un magazine, circondato da tre uomini di scorta con le pistole spianate. Può essere letta in due modi: come la rappresentazione del pericolo o come l'esibizione del rischio, ma so che, solo ipotizzandolo, sarò oggetto di insulti (letteralmente) e insinuazioni che hanno il solo obiettivo d'impormi di tacere o di piegarmi al «pensiero unico». Anch'io sono stato pesantemente minacciato, e sono stato sotto scorta, per avere denunciato, e questo nessuno può negarlo, gli sporchi interessi della mafia nella grottesca e criminale vicenda della falsa «energia pulita». Non conta che i fatti mi abbiano dato ragione, e non conta che mi siano arrivati teste di maiale, cani morti e lettere anonime. Io resto uno «stronzo» e non sono un magistrato. Per di più, non si sa perché, mi hanno costretto a dimettermi e hanno sciolto il Comune di cui ero sindaco senza il minimo indizio di «infiltrazioni della criminalità organizzata», sulla base di una vecchia inchiesta sulla sanità locale che riguarda una sola persona, e che meritava un processo individuale, peraltro in corso, con incerto esito. Io dovevo essere bloccato e infamato. E, per di più, non difeso. Eppure nessun sindaco in Sicilia ha fatto, ed è documentato, senza mezzi e senza solidarietà teatrali, quello che ho fatto io. In ogni caso, le minacce valgono solo se riguardano quelli che stanno dalla parte giusta, gli altri restano, con un procedimento mentale di stampo singolarmente mafioso, «infami». Così mi viene in mente un grande e controverso giornalista, dimenticato, vituperato, umiliato. Fuori dal coro, dalla parte sbagliata: Lino Jannuzzi, più o meno coetaneo di Caselli. Penso alle loro vite parallele. Caselli è arrivato alla pensione (con una liquidazione di 400mila euro e un appannaggio mensile di 8mila), onorato, celebrato, gratificato, in una lunga carriera nella quale non ha mai pagato per i suoi errori, trovando sempre qualcuno pronto a giustificarlo. Caselli santo, con la bianca aureola. E chi lo attacca è un nemico dello Stato, un complice della mafia o di un non meglio definito «potere», stranamente sempre destinato alla sconfitta. E Jannuzzi, pluricondannato, anche arrestato, solo per aver parlato. E, oggi isolato, costretto a cambiare casa per i debiti.
Da un'altra parte gli incriticabili e intoccabili (pensiamo agli innumerevoli errori non solo di Caselli, ma di Di Pietro, Ingroia, Woodcock, De Magistris, tutte star, grazie a giornalisti compiacenti) che non hanno mai pagato per gli errori compiuti, talvolta gravissimi, come il letterale sequestro di persona, con carcerazioni ingiuste per valutazioni sbagliate. Il magistrato non paga l'errore, diretto e riconoscibile contro la persona. Il giornalista paga le critiche come per lesa maestà. Nella manipolazione dei fatti, un collega di Caselli, Lombardini, che si suicida dopo la visita a domicilio di Caselli e di altri quattro magistrati (con volo di Stato e scorte pagate), prima di morire lo ringrazia per la «correttezza dell'interrogatorio». Non c'è speranza. E c'è diffamazione per chi critica Caselli o Di Matteo, mentre c'è approvazione per chi, come Salvatore Borsellino, dietro il sangue del fratello morto, dichiara ripetutamente, insistentemente, che Napolitano è il garante dell'innominabile patto Stato-Mafia, anzi, della trattativa: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». Per Borsellino, per Travaglio e per i pm antimafia, il presidente della Repubblica non è una istituzione che va rispettata, ma può essere insultato, considerato garante dell'intesa Stato-mafia. Caselli no. Non si può nominare se non per lodarlo. Per intanto Jannuzzi sta in una piccola casa di periferia avendo, dopo 60 anni di attività, «complice delle peggiori nefandezze compiute dal potere», appena i soldi per pagarsi l'affitto. Demonizzato, dimenticato, costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per le sue responsabilità giornalistiche, con una sentenza definitiva di arresto, scontata tra carcere e arresti domiciliari fino all'estrema grazia del «complice» Napolitano. Qual è la sua colpa, punita dallo Stato? Avere criticato Caselli e tentato di difendere Andreotti. Questa è la libertà giornalistica in Italia.
E' tornata in libertà e ha parlato al Tg della Calabria, Rosy Canale, la fondatrice dell'associazione antimafia "Movimento delle donne di San Luca" arrestata nei giorni scorsi nell'ambito di un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria, per malversazione e truffa (non per reati mafiosi). «A tutta questa grande montatura non c'è un riscontro oggettivo», ha detto Rosy, tornata in libertà il 31 dicembre scorso e intervistata dopo che il tribunale del riesame ha revocato l'ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. «Non c'è un documento in sette faldoni e migliaia di pagine - ha detto la donna - e non c'è un documento che sia di riscontro a quelle che sono le accuse. Non esiste una minicar, non esiste una settimana bianca, non esistono i vestiti che loro dicono. Voglio le carte che riscontrano le loro accuse, queste carte non esistono». In merito ad una frase intercettata dagli investigatori mentre parla con la madre, Rosy Canale ha detto: «mia madre, in quella intercettazione, anche riassunta, non fa alcun riferimento al denaro del Movimento delle donne di San Luca. Se mia madre mi dice 'non spendere tanti soldi', questa è la frase, viene interpretato che sono quei soldi ma dove è scritto, dove è il riscontro». «Rosy Canale - ha proseguito - lo è tutt'oggi, è un personaggio scomodo perchè San Luca è quello che interessa che rimanga» come ora, «perchè fa comodo a tanti. Difendere San Luca significa toccare i fili e chi tocca i fili muore. Da una parte e dall'altra». «Alle donne di San Luca - ha concluso - dico di non credere ad una parola di quello che hanno letto».
Con tempismo non voluto, ieri avevo fatto questo post su uno spettacolo di Rosy Canale di cui mi era arrivata notizia ma oggi c’è un’altra notizia ben più grave: Rosy Canale è stata arrestata. Motivazione: ipotesi di truffa aggravata e peculato (non aggravate dalla condotta mafiosa), scrive Anna Bandettini su "La Repubblica". Un’accusa pesantissima e orrenda per una donna che era diventata bandiera della lotta delle donne contro la n’drangheta. Il recital di Rosy Canale si intitola Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno il recital di e con Rosy Canale (diretta da Guglielmo Ferro) e racconta la sua vita, ovviamente a modo suo. Nata a Reggio Calabria, 40 anni, nel recital la Canale ripercorre quella che lei definisce la sua lotta contro la ‘ndrangheta. Nello spettacolo dice questo: che quando gestiva la discoteca Malaluna aveva ricevuto minacce, pestaggi (le rompono denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore) per aver impedito di spacciare droga nel locale. I fatti risalgono al 2004. E’ obbligata a anni di riabilitazione, poi si trasferisce a New York. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg in Germania – sei morti per una faida tra due cosche di San Luca – Rosy Canale decide di tornare in Calabria: lavora come volontaria nella scuola, “capisco che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza”, dice in scena. E fonda il Movimento delle Donne di San Luca, esperienza che si chiude per mancanza di sotegno economico. Nel 2008 Rosy Canale ha vinto perfino il Premio per la Legalità del Comune di Locri e poco dopo decide di raccontare la sua storia a teatro. Ad ottobre il Progetto contro le Mafie organizzato da Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano ospita il debutto del suo spettacolo Malaluna Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno .Lo spettacolo era in tournèe in Italia; ieri al Teatro Morelli Cosenza, sarebbe dovuto andare anche a Bologna, Torino. Oggi l’arresto per ipotesi di truffa.
Rosy Canale, classe 72. Un metro e sessanta scarso di tenacia e di buona volontà è la fondatrice del Movimento donne San Luca e della Locride, è scritto sul suo portale. Rosy è la madre di Micol, una dolce brunetta di 18 anni, compagna di avventure. Rosy è una di quelle persone che non ce ne stanno più tante in giro. Una mosca bianca, una sognatrice, una credente!!! Lei lo sa bene e ci ride sopra…alcuni giorni di più di altri. Rosy è una che crede nelle regole, nei valori di una vita sana e cristiana. Crede che chiunque lavori meriti una ricompensa, un salario equo ai propri sforzi, e che forse gli spazzini dovrebbero guadagnare di più' degli avvocati. Senza forse…Crede che la politica debba essere al servizio del cittadino e non che il cittadino debba mantenere i porci della politica. Crede che la ndrangheta, la mafia, la camorra, la malavita tutta sia una conseguenza spesso e non la causa. Crede che i colpevoli debbano essere puniti e gli innocenti non più' perseguitati, criminalizzati, emarginati. Crede che la Calabria non uscirà dall'emergenza bisogno fin quando la gente non si organizzerà autonomamente sputando in faccia a chi li ha derubati e resi schiavi, che non sempre è la malavita. Non quella riconosciuta. Quella con i colletti bianchi, quelli della fascia grigia…Crede che quello è accaduto a San Luca con il movimento donne sia un'esperienza replicabile in tutti quei piccoli centri in cui la vita deve necessariamente ritornare ad essere vita e non più sopravvivenza. Crede nella forza unica delle donne. Crede nella minaccia dell'ignoranza e della superstizione. Crede che la madre dei cretini è sempre incinta, ma a questo mondo c'è spazio per tutti...Crede che è meglio trattare con uno ndranghetista che con un giornalista. Il secondo è molto più' spietato e delinquente del primo. Crede che la vera rivoluzione sia quella del bene. La vera vendetta quella dell'amore. La più grande punizione il silenzio. La più saggia risposta, talvolta, è quella che non si da. "Sono nata in un giorno di maggio a Reggio Calabria, il luogo al quale ero stata destinata, dove sarei dovuta crescere come mia madre, le mie nonne, le zie e tutte le altre donne della mia famiglia. Forse era scritto che lì sarei dovuta anche morire. Mia madre Lidia aveva trentasei anni: un parto tardivo per una donna del Sud nei primi anni Settanta. Le sue sorelle e le cugine più giovani erano già sposate e madri da un pezzo, ma lei aveva inizialmente scelto il cammino della preghiera e della meditazione. Lidia era nata a Fiumara di Muro, un paese di campagna poco distante da Villa San Giovanni, la cittadina portuale dove ci s’imbarca verso la Sicilia. Penultima di sette figli, terza di tre sorelle, era quella più legata alla famiglia. Una donna esile, di piccola statura, con capelli lunghissimi che le scivolavano intrecciati lungo i fianchi. Ubbidiente, rispettosa e laboriosa. Di lei si diceva: «Bucca avi e parola no». Parla poco, ma al momento giusto. Lidia pregava, ricamava e nei pomeriggi della bella stagione passeggiava con le cugine fino al tabernacolo della Madonnina di fronte alla posta del paese. Sono ancora tra le sue foto più care quelle dove lei ragazza sorride poggiata al muretto di cinta, con in mano i fiori di lavanda e le roselline che portava in chiesa all’ora della funzione. Sfogliava la sua esistenza tra il convento delle suore e l’ultima stanza a sinistra oltre il salone con il pavimento in pietra, nella grande casa in via Tobruk. Finché incontrò mio padre. Sua madre, nonna Maria, era cresciuta con una zia senza figli. Un tempo era consuetudine: se in famiglia c’era una sorella sterile, uno dei nipoti avrebbe abitato con lei. Un’adozione all’interno dello stesso nucleo di parenti, senza carte né tribunali, che rafforzava i legami. Così accadde che una zia portò Maria a vivere con sé a Bovalino, sul mare, appena sotto San Luca. E lei divenne adulta alle pendici dell’Aspromonte. Lì imparò a pregare, a ricamare e a cucinare, come tutte le donne di quei luoghi. Conosceva il santuario di Polsi, mia nonna. Era così devota alla Madonna della Montagna che non perdeva occasione per invocarla e rivolgerle ringraziamenti. Mi faceva sedere sugli scaloni tra i due ingressi, dove l’aria era più fresca, per raccontarmi che ogni anno, da quando ne avesse memoria, i primi di settembre partiva a piedi di notte, il pane legato in un fazzoletto, e andava dalla « Vergine bella » con una comare di San Luca che l’aveva cresimata. Fin da piccola Maria aveva il compito di tenere in mano la torcia, nulla più che un ramo di limone con in cima una pezza di iuta legata stretta e im- bevuta nel catrame. Lo zio le camminava al fianco, ma era lei a guidare il gruppo, a segnalare le pietre grandi, i ruscelli freschi e le radici. « Dda puzza l’aiu ancora nto nasu », mi diceva. Le pareva di sentire ancora nelle narici l’odore urtante del catrame bruciato. Conosceva il cammino tra le rocce come la sua casa, e ridendo mi confessava a bassa voce che persino bendata avrebbe trovato la giusta direzione verso Polsi. Quel cammino si dipanava dentro di lei, prima che nei boschi dell’Aspromonte. Descriveva il rivolo di fiaccole in movimento nel nero fitto dei lecci che, come lucciole, si muovevano vibranti. I canti e le preghiere intonati lungo la strada dalle donne al bagliore leggero della luna. Molte facevano voto di camminare scalze fino al santuario, per poi raggiungere l’altare in ginocchio piangendo e pregando. Alcune strisciavano persino la lingua dall’ingresso della chiesa fino alla teca che custodisce la Santa Madre. Era la prima metà del Novecento." "IN QUESTO PERIODO STORICO PARTICOLARE E' UN ONORE ESSERE SULLE PRIME PAGINE DEI GIORNALI E, GRAZIE A DIO, SENZA AVER NE RUBATO NE UCCISO NESSUNO..." Rosy Canale
La popolare rivista svedese Dagens Nyheter, lunedì 31 ottobre 2011, ha dedicato la copertina ed un reportage di 16 pagine a Rosy Canale, alla sua storia personale, al suo impegno per l'affermazione della cultura della legalità e all'esperienza del Movimento donne San Luca. L'articolo è stato scritto magistralmente dal giornalista Peter Loewe, il quale era stato in visita a San Luca e a Polsi la scorsa estate, partecipando anche alla splendida festa della Madonna della Montagna del primo settembre. Una storia, quella documentata, decisamente fuori dagli schemi culturali del popolo svedese, così attento alle regole e al rispetto della vita in ogni senso. Purtroppo una realtà deprimente quella della malavita, uno status a cui ormai i calabresi ma anche gli italiani, tutti, non fanno più caso. Siamo assuefatti all'orrore, alla prevaricazione, al sopruso e all'illegalità diffusa. Viviamo nella normalità dell'orrido. E Corrado Alvaro profeticamente aveva colto, molti anni fa, lo stato d'animo che quelle dinamiche maligne e contorte avrebbero causato: la convinzione che vivere onestamente sia del tutto inutile! La Svezia si indigna, si meraviglia, si interroga di fronte ad una storia che per noi, italiani meridionali, è di normale amministrazione quotidiana. Noi, tiriamo a campare, o meglio a “compare”, alla ricerca di quale “amico” a cui votarci per poi esserne riconoscenti a vita per grazia ricevuta. - “Non sono le copertine dei giornali che cambiano la storia, ne ho avute altre, e purtroppo non è cambiato nulla. Certo è una grande soddisfazione essere nella prima pagina di un giornale internazionale e non per aver rubato, come molti, ma per aver cercato di costruire opportunità in questa terra dimenticata - dichiara Rosy Canale - . “Siamo disorientati e privi di riferimenti credibili. Molte istituzioni a cui ci siamo appellati più volte per ottenere delle risposte, sono proprio quelle che vivono in uno stato di collusione morale con ambienti malavitosi, divenendone anche il più delle volte “soci in affari”. La legalità è un tema attualissimo, ma del tutto controcorrente, scomodo, e non interessa a nessuno. Siamo in pieno Festival degli Orrori. Siparietti, ingiustizie, e danni contro la collettività sono stati ormai legittimati sotto gli occhi di intere popolazioni che invece di ribellarsi a tutto questo continuo dilapidare umano, morale ed economico, si sono messi in fila per entrare nei palazzi e poter bere anche loro dalla coppa della vita...” Continua Rosy Canale “ La lotta alla criminalità parte principalmente dalla costruzione di modelli di vita alternativi legati a formazione e lavoro specie nel mondo giovanile, oltre al fattore culturale, che spesso viene ridotto ad aria fritta nei vari convegni di pura propaganda. Anche la gente deve fare la sua parte, ma il sacrificio non è gradito a tutti. Stiamo lavorando con molti giovani, in diverse cooperative nella Locride. Intagliano il legno e producono oggettistica molto particolare e commerciale. Si potrebbe fare molto di più ma la politica non ci aiuta. Per quanto mi riguarda non vedo distinzione tra destra e sinistra, in quanto a qualità, trasparenza e appartenenza. In Calabria poi, consiglierei il “ chi è senza peccato...scagli la prima pietra...”
Rosy Canale e le telefonate che imbarazzano il Pd. Nelle carte la Finocchiaro, De Sena e Serra, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. L’«eroina antimafia» e il suo «mentore politico». Rosy Canale, simbolo della lotta alle cosche calabresi col suo movimento «Donne di San Luca», accusata di spendere per sé i soldi destinati alle attività antimafia e arrestata pochi giorni fa con l’accusa di truffa e peculato, aveva una guida politica di tutto rispetto: Luigi De Sena, ex vicecapo della polizia di Stato, poi superprefetto a Reggio Calabria, senatore del Partito democratico e infine, nella legislatura 2008-2013, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Dell’indiscussa vicinanza di De Sena all’ormai ex eroina antimafia si parla nell’ordinanza di arresto firmata dal gip Domenico Santoro. In alcuni dialoghi intercettati dal 19 ottobre 2009 in poi, emergono i contatti continui fra la Canale e De Sena, per il tramite del suo staff. «Non si tratta – scrive il gip - di un contatto sporadico ma (…) di un supporto che si concretizza in un aiuto a 360 gradi». Anche se dalle intercettazioni emerge un buon rapporto con Achille Serra, ex prefetto di Roma, transitato in Forza Italia, poi senatore del Pd e infine approdato all’Udc, è con lo staff di De Sena che c’è familiarità. Tanto che per il gip i rapporti «si dimostreranno granitici al punto che il senatore assumerà la veste di vero e proprio “mentore” e consigliere della Canale per ogni tipo di decisione che la stessa prenderà, compresa la candidatura alle elezioni regionali del 2010» poi non concretizzatasi. Si candiderà invece con il Pd al consiglio comunale di Reggio Calabria e prima ancora alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nell’ordinanza si parla anche dell’impegno della Canale per l’apertura di una ludoteca all’interno di un bene sequestrato alla famiglia Pelle e mai entrata in funzione. Sottolinea il gip: «La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca». In una seconda conversazione telefonica, si sottolinea nell’ordinanza, Maria Damiano dice alla Canale che «la villa è già stata destinataria di un contributo del Pon Sicurezza», per poi concludere: «Così De Sena è contento». Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Questa la versione di De Sena: «Ho conosciuto la Canale quando ero già parlamentare. Era venuta in segreteria a chiedermi un aiuto per alcune iniziative. Compatibilmente con il ruolo che rivestivo ho fatto qualche telefonata, ma mai per chiedere finanziamenti o sponsorizzazioni. Deciderò se tutelarmi legalmente. La presentai anche a Veltroni come una giovane speranza per la Calabria. Che ne potevo sapere io?».
Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra, scrive Riccardo Ghezzi. Entrambi forse se la caveranno, dal punto di vista giudiziario: uno si è visto ritirare la denuncia a suo carico, l’altra è stata scarcerata dopo che il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso del suo avvocato. Sono giorni difficili, però, per due paladini dell’antimafia nonché icone della sinistra. I destini di don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, e di Rosy Canale, pasionaria del movimento “Donne di san Luca” in lotta contro la ndrangheta, si sono spiacevolmente incrociati. Nonostante la scarcerazione, dopo tre settimane di arresti domiciliari, a carico di Rosy Canale restano infatti le accuse di truffa e peculato, contestategli dalla Procura di Reggio Calabria. Una brutta storia di finanziamenti per allestire sedi e completare progetti che la paladina dell’antimafia Rosy Canale avrebbe invece utilizzato per scopi privati, acquistando una minicar, le hoogan per la figlia, borse Louis Vuitton, persino una Fiat 500. E di intercettazioni scottanti, che imbarazzano anche il Pd. Ne fa un buon riassunto Il Tempo, in un articolo pubblicato lo scorso 17 dicembre che ben illustra i rapporti tra Rosy Canale e la sua “guida politica” Luigi De Sena, ex senatore del Pd nonché vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Un De Sena che, secondo Il Tempo, avrebbe avuto un ruolo determinante nel proporre la candidatura della stessa Canale alle regionali del 2010. Non se ne farà nulla, ma la stessa Rosy Canale si candiderà poi, sempre con il Pd, alle elezioni comunali di Reggio Calabria oltre che alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nel mirino della magistratura anche l’apertura di una ludoteca, all’interno di un locale sequestrato alla famiglia Pelle, mai entrata in funzione. Secondo il gip Domenico Santoro: “La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca”. Ecco come Il Tempo ricostruisce la vicenda: Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Certo, l’immagine dell’ex paladina di San Luca ne resta compromessa. Stessa sorte per Don Ciotti, fondatore di Libera. Una vicenda risalente al 2011 è stata resa pubblica solo in questi giorni. Una brutta storia di assunzioni in nero e addirittura percosse ad un dipendente. Ecco come la racconta Libero Quotidiano in un articolo a firma Antonio Amorosi. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa – caratteristica preziosa e rara da quelle parti – e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e – stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara – lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l’antimafia…». Dopo Saviano condannato prima per plagio e poi per diffamazione e la Capacchione a processo per calunnia, altre due icone anti-mafia osannate dalla sinistra finiscono in guai mediatico-giudiziari.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
L'azione della DDA di Reggio Calabria non si ferma e torna a colpire la 'ndrangheta a San Luca, scrive il presidente de ”La Casa della Legalità”. Agli arresti con STRANGIO Francesco alias Ciccio “Boutique” e NIRTA Antonio alias “Terribile” sono finiti l'ex Sindaco di San Luca, GIORGIO Sebastiano e l'Assessore all'Ambiente MURDACA Francesco. Questi, secondo gli elementi raccolti nell'indagine, hanno favorito, con le proprie condotte amministrative, le cosche. Agli arresti anche COSMO Giuseppe, che con la sua impresa edile era aggiudicatario di rilevanti appalti pubblici. Questa è una storia che si ripete, in quel Comune già sciolto per condizionamento e infiltrazione della 'ndrangheta. Ma questa nuova operazione, “Operazione INGANNO”, ha posto nuovamente l'attenzione sulla vergogna di certa “antimafia”. Infatti agli arresti è finita anche la promotrice del “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”, Rosy CANALE...Questa signora aveva ottenuto l'assegnazione di un bene confiscato per farci una ludoteca. Aveva ottenuto i finanziamenti pubblici (Stato e Regione) e da Fondazioni per realizzarla. Ma quel bene confiscato è rimasto chiuso, la ludoteca mai vista, i soldi assegnati per quel progetto sono stati usati per comprare autovetture, vestiti e mobili per soli fini personali. Non ci voleva tanto per vedere che nonostante l'assegnazione del bene confiscato ed i finanziamenti ottenuti non era stato fatto nulla dalla CANALE e dal suo “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”... eppure in troppi non hanno voluto vedere quel caso molto concreto, palpabile. In troppi, ancora una volta, nel nome delle dichiarazioni antimafia della signora e del suo movimento hanno portato la stessa CANALE ad essere considerata “icona” dell'antimafia. Da poco era stata insignita del “Premio Paolo Borsellino” (premio ora, immediatamente, ritirato, come deciso dagli organizzatori dello stesso). L'associazione di Don Ciotti e Nando dalla Chiesa, “Libera”, ha portato la CANALE come esempio in giro per l'Italia. A Genova, come in Emilia... persino a Milano al “FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI”. Noi siamo stanchi di ripetere ciò che diciamo dall'inizio del nostro cammino nel fare antimafia (isolati e maciullati). Noi da sempre sosteniamo che la vera antimafia si deve fare concretamente, senza finanziamenti pubblici o grandi sponsor privati. Prima di tutto perché si deve essere liberi e indipendenti e non piegati da condizionamenti derivanti dalla necessità di tenersi buoni i “finanziatori”. Ed allo stesso modo noi sosteniamo da sempre che la vera antimafia deve avere gli adeguati anticorpi per evitare di “farsi usare” da personaggi come la CANALE, o da politici ed amministratori pubblici che, magari addirittura contigui o complici di cosche mafiose, ricercano un “patentino antimafia” per presentarsi bene. Purtroppo nel mondo dell'antimafia siamo isolati, noi e chi la pensa come noi. Veniamo anche insultati, derisi o considerati nemici, per questa nostra linea, tacciata di essere “intransigente”, da “integralisti”. Noi non smettiamo di ripeterlo. All'antimafia non servono “icone”, così come non può essere suo ruolo il fornire “paravento” a quella o questa amministrazione pubblica o impresa con ombre, se non peggio, da nascondere. L'antimafia deve essere vissuta e praticamente come SERVIZIO e non come BUSINESS. E' un lavoro quotidiano di servizio alla comunità, di sostegno alle vittime, di meticoloso lavoro per individuare e denunciare le storture nella gestione delle Pubbliche Amministrazioni, le infiltrazioni, i condizionamenti, le complicità e collusioni che distraggono la gestione delle Amministrazioni Pubbliche, così come del territorio e dei fondi pubblici, per foraggiare e agevolare faccendieri, amici, parenti e cosche. E' collaborare con i reparti dello Stato e la Magistratura, per fornire elementi utili alle indagini e per spingere chi è testimone come chi è vittima a denunciare. E' fare anche informazione, raccontando i fatti, i volti, le storie... facendo i nomi e cognomi per incrinare la cappa di omertà e distruggere quel “consenso sociale” delle mafie, facendo sentire il disprezzo e l'isolamento sociale per i mafiosi e per chi con queste ha contiguità, collusioni, complicità. E' agire quotidianamente, ognuno nel proprio ambito, facendo il proprio dovere di cittadini. Se l'antimafia civile, o sociale se si preferisce questo termine, non fa questo ma diventa una professione per fare business, che deve pensare a come ripagare i politici o imprenditori che la sovvenzionano, allora è un'antimafia che ha fallito dall'inizio e non potrà portare nulla di buono. Ed indicare queste storture, chidere che vengano superate, non è, ancora una volta, compito della magistratura, ma lo è prima di tutto dei cittadini stessi, di ciascuno di noi, anche al costo di essere tacciati di "lesa maestà". Se si tacciono le storture, se le si nascondono sotto il tappeto o le si nega nel nome di questo o quel "simbolo", si diventa complici di queste, non le si affronta e non le si risolve. Ne abbiamo riparlato recentemente in occasione dell'arresto della GIRASOLE a Isola Capo Rizzuto, ne avevamo parlato più volte, prendendoci noi una querela da “Libera” per aver osato porre il problema e che al nostro invito per un “bagno d'umiltà”, per sedersi ad un tavolo tutti, in un confronto netto volto a trovare insieme gli anticorpi ed una “svolta” necessaria nel mondo dell'antimafia civile, non ha mai risposto, se non perpetuando il nostro isolamento. Non si possono dare delusioni a chi è già stato disilluso per tanto, troppo tempo. Non possiamo permettere che accada ed ognuno deve fare la propria parte. Anche da qui passa la credibilità dell'antimafia e la fiducia in un cambiamento possibile. L'ipocrisia di certa antimafia è un danno che rischia di essere irreversibile. E' un atteggiamento intollerabile che non solo rischia di far screditare tutti e quindi rendere difficile l'azione seria che in molti promuovono, ma rischia di tramutarsi anche in una plateale presa in giro. Come vedere, infatti, le dichiarazioni di "dissociazione" o sul modello del "io l'avevo detto", da parte di coloro che, ad esempio, nel caso della CANALE, l'avevano invitata al 1° FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI promosso da LIBERA con anche il COMUNE DI MILANO, se non come una ulteriore presa in giro di chi crede e vuole credere nell'antimafia civile? Dire si è sbagliato, cambiamo rotta, si è stati effettivamente superficiali e siamo pronti a confrontarci con chi ci metteva un guardia sui rischi di essere "troppo permeabili", dovrebbe essere, secondo noi, la risposta da sentire e che invece continuiamo a non sentire e non leggere. Così come ancora non si vuole aprire una discussione seria sulla necessità di una riforma radicale in merito ai sequestri ed alla gestione dei beni confiscati che, da lungo tempo, diciamo inascoltati, non funziona e che non può essere piegata, come prevalentemente è oggi, ad una logica clientelare e monopolistica. Ci confortano oggi le parole del Procuratore Federico Cafiero de Raho, a capo della Procura di Reggio Calabria, che afferma: “Servono manifestazioni e associazioni forti". Ci confortano le parole del Procuratore aggiunto Nicola Gratteri della DDA di Reggio Calabria che afferma: “Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere" ed ancora "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli". E sulla lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti." e “fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa".
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».
Benvenuti al circo dell’antimafia. E allora facciamolo scoppiare, il bubbone, scrive Nando Dalla Chiesa. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire. Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate – ‘ndrangheta, camorra, mafia – a ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona. Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato…); ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto. Così il pubblico milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia. E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare…) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali. Che cosa sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano avevano – come oggi per Di Matteo – la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta. (tratto dal Fatto Quotidiano del 21/12/2013).
Troppa retorica e poca legalità, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari. Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno. Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa. Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.
No, proprio la scuola no, risponde Nando Dalla Chiesa. Partendo dagli stessi due esempi - Carolina Girasole e Rosy Canale – da cui era partito il sottoscritto per denunciare sabato scorso il “Circo dell’antimafia”, domenica Ernesto Galli della Loggia ha sferrato un duro attacco dalla prima pagina del Corriere contro l’azione svolta dalla scuola italiana nell’educazione alla legalità. Un’azione retorica, ha scritto, fondata sulla precettazione “buonista” degli alunni e del tutto inefficace nella lotta alla criminalità organizzata (che si combatte con magistratura e forze dell’ordine efficienti e inflessibili). E infine costosa. Culmine e sintesi di questa galleria di vizi sarebbe la “carnevalata” della nave della legalità, ossia la nave che, piena di studenti, parte da Civitavecchia e da Napoli per ricordare ogni 23 maggio a Palermo, con la strage di Capaci, i giudici simbolo della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino. Qui bisogna esser chiari. Il circo dell’antimafia esiste. La retorica di certe forme celebrative pure. Gli alunni in più occasioni servono a riempire sale ufficiali altrimenti vuote. E qualche inutile soldo gira, sempre a favore di esperti immaginari o di improbabili percorsi formativi, dalla Sicilia alla Lombardia. Ma alla scuola, e al suo ormai trentennale impegno sul fronte della lotta per legalità, il paese deve solo fare un monumento. Pur tra mille difficoltà, con tagli crescenti, a volte battendosi contro le diffidenze ambientali, la scuola pubblica italiana ha fatto quel che non hanno fatto l’impresa, la politica, gli intellettuali, le professioni e l’informazione. Si può anzi dire che se il paese ha retto di fronte all’offensiva criminale lo deve a due pilastri: da una parte magistratura e forze dell’ordine, dall’altra la scuola. Decine di migliaia di insegnanti hanno dedicato tempo, passione, studi aggiuntivi per fronteggiare un fenomeno che il paese ufficiale non vedeva. Hanno accreditato nella cultura delle nuove generazioni magistrati e poliziotti, invitandoli anche tra ragazzi abituati a chiamarli sbirri. Hanno fatto sentire ai rappresentanti dello Stato in trincea il consenso negato dall’alto. Nella scuola si sono così formate generazioni più consapevoli delle precedenti. E forse anche a questo si deve se oggi leve di giovani consiglieri comunali, al sud come al nord, stanno finalmente modificando l’atteggiamento di molti enti locali di fronte alla mafia. O se all’università si trovano studenti eticamente motivati a fare il commissario di polizia o il concorso per maresciallo dei carabinieri. Dirò di più. E’ perfino commovente tornare in una scuola venti o trent’anni dopo e ritrovare la professoressa conosciuta ancora giovane, ormaivicina alla pensione, e che tuttora continua a organizzare corsi, giornalini, teatro contro la mafia. Gratis. Senza gloria. E sarebbe bello che proprio queste persone, regolarmente neglette, venissero finalmente e ufficialmente ringraziate dal presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ecco. La Nave della legalità è ogni anno il punto d’arrivo (gioioso e faticosissimo) di questo immenso lavoro. E ha il pregio di indurre chi vi partecipa a dire, come ho sentito dire dai miei studenti, “mi ha cambiato la vita”. E’ forse più efficace puntare solo sulle forze dell’ordine e sui magistrati? Certo l’applicazione costante e rigorosa della legge incoraggia lo spirito della legalità . Ma è anche vero che quest’ultimo si radica (lo insegnava Tocqueville…) nei costumi civili. Ed è soprattutto vero che se in Italia la legge non viene applicata come vorrebbe (giustamente) Galli della Loggia, è perché l’indolenza delle classi dirigenti, i calcoli elettorali, le complicità politiche e giudiziarie lo impediscono. Da qui la necessità di unire tutte le forze legalitarie per cambiare uno Stato che dovrebbe funzionare in un certo modo ma che in quel modo, disgraziatamente, non funziona. Ci sarà pure una ragione se i magistrati in prima linea hanno sempre assegnato alla scuola, con i suoi tanti ragazzi senza diritto di voto, una funzione fondamentale o se perfino un generale diventato prefetto, uomo per antonomasia della repressione, sentì d’istinto il bisogno e l’utilità di andare a parlare nei licei palermitani. Se esiste il circo dell’antimafia, la scuola ne è in genere la negazione; per questo mette sempre più al bando spettacolarità e assemblee oceaniche per approfondire valori e conoscenze, e scongiurare il clima da applauso facile. Insomma, più che essere il bersaglio delle polemiche, oggi la scuola -sì, la famigerata scuola- dovrebbe essere il modello di tutti. Magari l’Italia ne fosse all’altezza.
Ammetto i miei limiti: non riesco proprio a capire quale «lavoro didattico» che impegni «lunghi mesi di lavoro serio in classe», «anni» addirittura, serva—come scrivono gli autori della lettera pubblicata ieri sul Corriere in risposta al mio editoriale di domenica sulla «cultura dell’antimafia» — per «formare giovani generazioni di adulti più consapevoli e attrezzati a scegliere tra giustizia e illegalità » (forse volevano dire tra legalità e illegalità: la giustizia è un’altra cosa, anche se forse il lapsus non è casuale…), scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Essi sostengono che tale lavoro di mesi e anni serve a «imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale». Cioè? Che cosa significano in concreto queste parole? Di che cosa parla, in concreto, chi è chiamato a insegnare «cultura della legalità»? Spiega forse che cosa è il «pizzo» o un appalto truccato? Che cosa è un «pusher»? Ma davvero è immaginabile —mi chiedo— che un ragazzo palermitano o napoletano abbia bisogno che gli si spieghino queste cose? Che cos’altro gli viene insegnato allora? che queste cose sono proibite dalla legge, che costituiscono un reato e che non bisogna commettere reati? Ma di nuovo: c’è forse qualcuno che lo ignora? Per carità, sono umanamente più che comprensibili «le tante voci dei familiari delle vittime—come essi stessi dicono— che chiedono di ricordare e di far ricordare », ma dopo tanti anni d’insegnamento della cultura della legalità il vero, decisivo, argomento che i rappresentanti dell’ «associazionismo antimafioso» (vedo che esiste addirittura una tale categoria: un po’ come l’associazionismo sportivo o quello della «caccia e pesca») dovrebbero adoperare, se mai potessero, è quello dei fatti: cioè dell’eventuale diminuzione non dico dei reati e del giro d’affari riconducibili alla malavita organizzata (che invece, secondo i nostri Servizi e la Commissione antimafia sono in aumento), ma almeno del numero degli affiliati (ciò che appare altrettanto dubbio). A che servono se no i loro sforzi? In mancanza di quanto ora detto, se ne facciano una ragione, tutto diventa materia opinabile. Anche se naturalmente non sono così sciocco da non capire che mentre dalla parte della «cultura della legalità» stanno il politicamente corretto, l’opportunità e la convenienza sociale, i buoni sentimenti e un facile consenso, dalla parte di chi la critica, invece, c’è solo modo di ricevere commenti indignati e rimbrotti. Ciò nonostante mi ostino a credere che così come si insegna ad amare l’Italia leggendo Leopardi e De Sanctis e non già impartendo lezioni sulla bontà del patriottismo; che così come si insegna a essere dei buoni cittadini apprestando istituzioni efficienti e avendo una classe politica onesta e non già concionando sulla Costituzione «più bella del mondo»; allo stesso modo si insegna davvero la legalità assicurando che chiunque la violi venga processato e condannato sempre e nel più breve tempo possibile, non già organizzando corsi, flotte e convegni vari. È forse un mio limite, ma io la penso così.
Antimafia, che passione! Pubblichiamo la risposta di Davide Mattiello all’articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato il 22 dicembre. Antimafia, che passione! … riflettendo sulle parole di Ernesto Galli Della Loggia. (Corriere della Sera del 24 Dicembre, 2013).
L’antimafia ha bisogno di più concretezza e di meno retorica? Si, certo. Mi sono convinto negli anni che la migliore lezione di “legalità” e quindi di “antimafia” sia far funzionare la Repubblica e poi raccontarlo. Tanto meglio funziona, tanto meno c’è bisogno di mafia: noi sconfiggeremo le mafie, quando le avremo rese inutili. L’innesco di questa convinzione sono state le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che a Bocca disse: “Lo Stato batterà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi elargiscono come favori”. Sull’altra sponda, quella dei mafiosi, fanno eco a queste parole quelle di un boss, Pietro Aglieri, che disse ad un magistrato: “Vede dottore, quando voi andate nelle scuole e parlate ai nostri ragazzi, quelli vi ascoltano. Ma quando poi escono e cercano un lavoro, a chi trovano? A voi o a noi?”. Comincio da qui per sottolineare che il bisogno di concretezza, cioè la sfida di battere le mafie sul terreno della convenienza e di una convenienza che passa attraverso il rispetto delle regole, è sentito e condiviso: anche per questo uno come me, dopo vent’anni passati a fare movimento, sociale e culturale, nell’associazionismo è approdato in Parlamento e oggi sta nella Commissione Antimafia. Ciò posto, perché quando chiesero a Giovanni Falcone cosa ne pensasse dell’esercito in Sicilia, questi rispose: “Certo che lo voglio l’esercito in Sicilia, voglio un esercito di insegnanti, perché la mafia teme la cultura”? Intanto perché un giovane formato e colto è più libero, diventa più capace di auto determinarsi e questo a prescindere da qualunque “corso antimafia”. Evviva quindi Leopardi e De Santis! Evviva la grammatica e la matematica! Evviva la filosofia e la storia! Però avremmo capito molto poco di questo Paese, se non avessimo compreso che la forza specifica delle mafie, intese come organizzazioni criminali, sta fuori dalle mafie e sta in particolare in un humus culturale, non aggredendo il quale, non si contrasta efficacemente il fenomeno. In Italia è radicata una estetica della mafia, della mafiosità, che ha reso e rende “sexy” il mafioso. Il mafioso visto come quinta essenza di un certo modo di intendere le relazioni tout court e le relazioni di potere in particolare. Uno che sa far succedere le cose che vuole. Che comanda perché è il più forte e fintanto che è il più forte. Uno che sa proteggere chi ubbidisce e liquidare l’infame che tradisce l’omertà del branco. C’è una poetica del clan, mortalmente radicata in Italia: tanto che parliamo di familismo, di clientelismo. Gustavo Zagrebelsky parla dei “giri giusti” e non ricordo più chi ha parlato dell’Italia come del Paese “delle conoscenze” e non “della conoscenza”. Un’Italia limacciosa, che fa dell’appartenenza al gruppo un valore intrecciato e avvelenato dalla avidità e dalla violenza. Mutuando le parole di Padre Alex Zanotelli: “Dobbiamo decolonizzare l’immaginario”. Cioè, dobbiamo invertire il paradigma estetico, per consolidare quello etico. Insomma, come direbbe Peppino Impastato, dobbiamo sentire il puzzo di quella “montagna di merda” e di contro imparare ad assaporare quello che per Borsellino era “il fresco profumo di libertà”. Dove si può ragionare di tutto questo? A scuola! Ragionare, riflettere, discutere, approfondire, ascoltando testimoni, famigliari delle vittime innocenti, magistrati e agenti delle forze dell’ordine. Serve eccome. Anzi la cosa più concreta che un essere umano possa fare è pensare, che se poi lo fa insieme ad altri, inizia a diventare realtà. Serve a smontare stereotipi: un immaginario grossolano e parziale, funzionale a non riconoscere i problemi. Serve eccome spiegare che cosa è il racket, come funziona il narco traffico, come e perché le mafie si sono estese all’Italia intera e poi al Mondo. Serve, perché sono cose che il più delle volte si sanno poco, senza una adeguata capacità di connessione. Serve a tutti. Non soltanto ai ragazzi delle scuole che a suo dire saprebbero già tutto quel che c’è da sapere, se si pensa che soltanto qualche anno fa il Prefetto di Milano negava che la mafia fosse in città. Poi sono arrivate le operazioni Crimine, Infinito, Minotauro, Albachiara, Colpo di coda. Poi sono stati sciolti i Comuni di Leinì, Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia, Sedriano. No, non si sanno abbastanza queste cose, se in Piemonte, dove trent’anni (30) anni fa l’ndrangheta uccideva il Capo della Procura di Torino Bruno Caccia, ci fu una levata di scudi istituzionale, alla relazione finale della Commissione Antimafia presieduta dall’On. Forgione nel 2008, che aveva denunciato l’infiltrazione mafiosa nel territorio piemontese. O forse per certi adulti è più comodo far finta di non sapere: anche per questo è importante che se ne parli nelle scuole. Per formare anticorpi in grado di smontare la favola brutta ma rassicurante che vorrebbe i mafiosi una banda di gangster, terroni e folkloristici. I “corsi anti-mafia” questo a mio avviso dovrebbero essere e per quel che ho conosciuto, sono: un mix di saperi puntuali e di ragionamenti ad ampio spettro su quale sia il modo migliore per stare al mondo in Italia, di ragionamenti su ciò che anima il nostro desiderio. Tante volte, negli scorsi anni, mi è capitato nelle scuole con gli studenti e le studentesse di riflettere per esempio su quanto ci sia di comune tra la cultura mafiosa e i terribili episodi di violenza sulle donne. Infine, ha colto bene che il “lapsus” non è un errore: si, l’obiettivo del ragionamento è quello di rintracciare nella discussione con i ragazzi, volta, volta, la linea di confine tra illegalità e giustizia. Non semplicemente tra illegalità e legalità. Perché troppo spesso i sistemi di potere, diciamo così, complessi hanno fatto ingiustizia con la legge. Non serve evocare il nazismo, basta pensare al reato di clandestinità. La sfida è la giustizia attraverso la legge, non la legge per se stessa. Per questo mi hanno sempre profondamente commosso e convinto le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sbirro con la “s” maiuscola come ama dire Gian Carlo Caselli, campione cioè del momento repressivo dello Stato. Quando risponde a Bocca non gli dice, come avrebbe potuto, “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando farà rispettare l’ordine della legge”, ma, appunto: “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi danno come favori”: il lavoro, la casa, la cura, la sicurezza… La giustizia sociale, insomma. Quella di cui all’art. 3 com 2 della nostra Costituzione, la più bella del Mondo! On. Davide Mattiello, Membro della Commissione Antimafia.
Nando, la "primadonna" dell'antimafia, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità”. Il profondo rispetto per Carlo Alberto Dalla Chiesa ed il suo sacrificio non può essere scudo per chi, erede di quel cognome, ha assunto un atteggiamento assai discutibile. Sempre più discutibile. Conseguenza di una convinzione distorta, secondo cui solo lui, Nando Dalla Chiesa, fa bene e solo lui è incarnazione della lotta alla mafia, gli altri non devono esistere e tantomeno devono osare apparire rischiando di "oscurarlo". Questo è l'atteggiamento che già criticammo molto tempo fa, nel silenzio dei tanti, anche di coloro che oggi se ne accorgono, sentendo sulla propria pelle le “ferite” prodotte da quell'atteggiamento di Nando Dalla Chiesa...Nando, considerandosi “icona” dell'altare antimafia, sferra un attacco in piena regola a Giulio Cavalli e ad un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura. Lo fa su “Il fatto quotidiano” di Travaglio che, se vogliamo andare a vedere, con un lavoro capillare di mistificazione dei fatti, è riuscito ad accreditare, invece, un riciclatore mafioso, millantatore e bugiardo patentato, quale Ciancimino Massimo, quale “bocca di verità”, eretto a “simbolo” di certa antimafia cialtrona. Ops, è vero, anche Nando Dalla Chiesa crede in Ciancimino jr (scriveva infatti il 4 febbraio 2010 sul suo blog "io a quel che dice Ciancimino jr ci credo"). Quella di Nando Dalla Chiesa non è una critica, magari anche aspra, su posizioni o azioni, che sarebbe più che legittima... è un puro e semplice attacco frontale. Un attacco che si inquadra nell'atteggiamento del “Nando primadonna” che non tollera che ci siano “altri”, con altri metodi, dettati dalla propria storia, che possano essere promotori di un azione di contrasto alle mafie. Quel ruolo ed il palcoscenico dell'antimafia lui lo considera cosa sua e dei suoi. Nessuno deve osare fare qualcosa che possa renderlo protagonista di quella battaglia, perché lui, il Nando, non sarebbe più l'unico attore su quel palcoscenico. Questo è per il narcisista inaccettabile e per questo, di nuovo, sui nuovi bersagli sputa veleno. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Pessimo. Prima di tutto perché lo screditare un collaboratore di Giustizia, ritenuto attendibile dallo Stato perché la magistratura ha riscontrato quanto da questi verbalizzato, fa comprendere che a Nando Dalla Chiesa non piaccia quello strumento essenziale nella lotta alle organizzazioni mafiose che è proprio quello dei collaboratori di Giustizia. Inoltre, sempre pessimo, perché Nando Dalla Chiesa dimostra la stortura propria di certa antimafia – non solo sua, quindi, sia ben inteso - che vede “collaboratori buoni” ed “collaboratori cattivi”, non sulla base dell'attendibilità verificata da Procure e Tribunali, ma classificati in una o nell'altra categoria su base prettamente “politica”, di convenienza. Sono “buoni” se quanto dichiarano è gradito alla propria parte o alla propria teoria e “cattivi” se invece quanto denunciano “non gradito” e smonta certi teoremi. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Ingiusto e vile anche nei confronti di Giulio Cavalli che, con ciò che sa fare, cioè l'attore, ha promosso un impegno civile di contrasto culturale oltre che di denuncia civile contro le mafie. Può piacere o meno il suo lavoro e la sua scelta, lo strumento usato per promuovere il contrasto alle mafie, ma merita rispetto. Non tutti usiamo gli stessi strumenti, non tutti abbiamo identici metodi di lavoro, operativi, nel promuovere l'azione di contrasto alle mafie, ma quando si è in buona fede, si possono promuovere critiche, non si delegittima e non si aggredisce. Giulio Cavalli è stato minacciato di morte. Non lo dice solo Bonaventura ma anche altri collaboratori. Lo hanno evidenziato diversi elementi valutati dalla magistratura e dalle autorità competenti. Giulio Cavalli merita rispetto e tutela. Nando Dalla Chiesa, inoltre, sa bene che portare avanti l'azione antimafia, di denuncia e contrasto culturale, attraverso il teatro è un importante tassello da promuovere. Dovrebbe anche sapere per l'insegnamento concreto di Peppino Impastato, che i mafiosi, risultano insofferenti e indeboliti, dall'uso dell'ironia e dello sbeffeggio. Anche da questa pratica passa l'esorcizzazione della forza di intimidazione delle mafie, del loro “alone” di potere intoccabile. Lo sa bene, Nando Dalla Chiesa, e lo ha usato anche lui questo strumento. Scrivendo e promuovendo, anche con Libera, con diversi attori e palcoscenici, spettacoli teatrali. Vuole il monopolio? Vuole essere l'unico, per il nome che porta, ad avere il palcoscenico ed il pubblico a disposizione? Anche questo è esclusiva di “Libera”? No, Nando Dalla Chiesa, se pensa questo si sbaglia di grosso. E si sbaglia di grosso anche perché non ha personalmente, come non lo ha Libera, come non lo ha nessuno, il “MONOPOLIO” dell'antimafia. Lo abbiamo già detto e ripetuto (invano) conquistandoci la tua querela e quella di Pio Ciotti... Quando non è “la primadonna”, Nando Dalla Chiesa, non critica in modo serrato, anche duro, parte con l'insulto. Noi, a differenza sua, non abbiamo scelto di portarlo in Tribunale, con le querele che avremmo potuto presentare, perché, a differenza sua, abbiamo la convinzione che le diversità e le divergenze, anche le più pesanti, si debbano affrontare “politicamente”, con il confronto. Ed è proprio questa diversa impostazione che segna la differenza di chi è pronto a mettersi in discussione e chi invece si considera “insindacabile”, tra chi critica l'altro e chi invece sputa veleno contro l'altro, tra chi accetta di non essere il solo a promuovere un impegno civile e chi invece vuole affermarsi come l'unica icona intoccabile. Il professionismo dell'antimafia, con la sete di “monopolio” e business è un cancro che divora l'antimafia. Lo denunciammo da tempo, inascoltati, sia noi che altri. Oggi, purtroppo, sono diversi i casi che ci hanno dato ragione. E, attenzione, questo tipo di “professionismo” distorto, nell'antimafia, devasta la credibilità e l'efficacia di azione anche di chi è in buona fede ed opera in modo pulito. Il cercare di svilire gli “altri”, quelli che con fatica portano avanti il proprio lavoro quotidiano, perché solo alcuni pochi “eletti”, legati alla politica, avrebbero “diritto” di farlo, è una pratica che deve finire. E poi, Nando Dalla Chiesa dovrebbe avere il coraggio di guardasi indietro. Riflettere sul percorso che ha fatto prima di diventare “professore dell'antimafia”. Se lo facesse noterebbe le contraddizioni pesanti che caratterizzano quel percorso. Quando era “garante” della MARGHERITA in Liguria non ricorda che non aveva mosso un dito per mettere fuori certi pessimi soggetti che, la pratica politica, ha evidenziato essere indegni? Non ricordi davvero quell'assalto alla Margherita da parte degli ex teardiani savonesi a cui ha assistito, da “garante”, muto e immobile? Non ricorda che quella Margherita ha spianato la strada alle carriere dei Tiezzi, dei Monteleone, dei Paldini, del Romolo Benvenuto e via discorrendo? Perché, lui che si dice puro e coerente, accettò il compromesso in quel pantano di partito? Ed un esame critico sul proprio lavoro al fianco di Marta Vincenzi – prima a pagamento e poi gratuito – in cui si occupava di costruire occasioni da “paravento” antimafia a quell'amministrazione che – lo dicono le risultanze delle inchieste – era piegata ad assecondare gli appetiti dei MAMONE, individuati dalla Guardia di Finanza, come punto di contatto tra cosche, politica ed imprese, perché Nando Dalla Chiesta non lo vuole fare? Non lo abbiamo sentito indignarsi e denunciare gli appalti e lavori di somma urgenza assegnati ai MAMONE (anche soggetti, con la ECO-GE, ad un interdizione atipica antimafia) o al FURFARO, per citarti due casi, che venivano assegnati (direttamente o con le società partecipate) proprio da quell'amministrazione di cui curava la campagna “Genova città dei Diritti”. Come lo spiega, questo punto, Nando Dalla Chiesa? La mafia, le contiguità e le collusioni, le si vede e denuncia solo quando ad amministrare sono “gli altri”? Solo quando è l'altra parte politica che ha contiguità e connivenze? Anche sulla questione che tanto lo trova ora in prima linea, quella delle critiche a Rosy Canale, dovrebbe vederlo parlare con un pizzico di onestà intellettuale. Chi l'ha invitata in giro per l'Italia, Rosy Canale, come “icona” dell'antimafia? Non è forse Libera, ad esempio, che l'ha portata a Genova, come in Emilia-Romagna ed altrove? Non è forse Libera con il Comune di Milano che l'ha invitata al “I° Festival dei Beni Confiscati”? E Nando Dalla Chiesa non è forse il presidente onorario di Libera? L'avete invitata, l'avete promossa a “icona” e poi Nando Dalla Chiesa dice, ora, dopo l'indagine, che si sentivi in imbarazzo a parlare negli stessi eventi con Rosi Canale? E perché non lo ha detto prima? Perché non è intervenuto, in quelle occasioni, per dire ciò che ora – dopo – afferma e scrive? Nando Dalla Chiesa, criticare gli altri è legittimo. Usare anche toni aspri nel confronto è legittimo. L'atteggiamento da primadonna, che non tollera gli “altri”, che sferra attacchi volti puramente a delegittimare, è invece intollerabile. E' un atteggiamento intollerabile che rischia di inquinare e scoraggiare anche chi opera in buona fede, ad esempio, in Libera. Guardare i problemi, considerare che si sia una moltitudine nel promuovere e compiere una certa battaglia, confrontarsi tra diversi, è lo spirito necessario. Nascondere i problemi, le diversità, il diritto di cittadinanza di chi opera diversamente, in modo indipendente, è intollerabile ed assoluto controsenso ai principi della Legalità che si dichiara di voler affermare. Ancora una volta, come abbiamo già fatto, gli lanciamo l'invito ad un bagno di umiltà. Si assuma che esistono forme diverse e autonome e indipendenti di promozione della lotta alle mafie. Si assuma che serve un confronto serio per superare i limiti – anche rispetto alla gestione dei beni confiscati – tra tutti i soggetti che fanno antimafia in buona fede. Si assuma che nessuno può essere e considerarsi una “primadonna”, nemmeno se porta un cognome importante che, proprio per quello che rappresenta, dovrebbe anche saper rispettare e non, quindi, sfruttare.
… c'è da segnalare un episodio che ha visto il dottor Paolo Borsellino scavalcare, nell'assegnazione al posto di procuratore della repubblica di Marsala, un altro concorrente più anziano, perché questi non era stato mai incaricato di processi contro la mafia...Anche nel sistema democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata - Uomini pubblici che esibiscono a parole il loro impegno contro le cosche e trascurano i propri doveri amministrativi. L. Sciascia, Corriere della Sera, 10 agosto 1987.
Antimafia: è sempre più scontro tra “primedonne” e “professori”, scrive Matilde Geraci. Necessario, invece, un confronto umile tra tutti i soggetti che, in buona fede e con gli strumenti che hanno a disposizione, si battono quotidianamente nella promozione della lotta alla criminalità organizzata. “I professionisti dell’antimafia”: titolava così il famoso articolo di Leonardo Sciascia apparso sulle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, in cui lo scrittore di Racalmuto, commentando l’opera dello storico inglese Christopher Duggan, dedicata all’analisi del fenomeno mafioso nel periodo fascista, osservava come la lotta alla mafia fu, in quell’epoca, strumento di una fazione, interna al fascismo stesso, volta al raggiungimento di un potere incontrastabile. «Insomma, l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e critica mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Eccone uno attuale ed effettuale», scriveva Sciascia, il cui bersaglio principale era Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato procuratore della Repubblica di Marsala, e più in generale il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, i quali a suo dire avevano utilizzato la battaglia al sistema mafioso, come strumento per fare carriera. Borsellino finì sotto la lente incauta dello scrittore, perché aveva vinto il concorso per l’assegnazione di quel prestigioso posto. Posto che sarebbe dovuto spettare ad un collega “più anziano”, ma che si guadagnò di diritto per le specifiche competenze professionali maturate sul campo e riconosciute dal Csm. Inutile dire che quell’articolo scatenò una serie di aspre polemiche e Sciascia fu a poco, a poco sempre più isolato dal panorama politico-culturale dell’epoca. Colui che certamente aveva più diritto degli altri a prendersela, non lo fece. Anzi, quando i due si incontrarono proprio a Marsala, un anno esatto dopo la pubblicazione del pezzo, la querelle montata ad arte da chi evidentemente aveva interesse nel farlo, si concluse con un pranzo sul lungomare della cittadina trapanese. «Sembravano due vecchi amici che si rivedevano dopo tanti anni», ricordò la moglie del giudice poco tempo fa, la quale, in un’intervista rilasciata ad Attilio Bolzoni per la Repubblica, dichiarò: «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri». Un gigantesco fraintendimento, quindi, di cui rimase vittima lo stesso autore del celebre j’accuse. La cui tesi di fondo, non solo cercava giustamente di mettere in guardia da chi sfruttava la lotta alla mafia per un tornaconto personale, ma torna attuale più che mai. Un esempio per tutti: il caso di Rosy Canale, presidente del Movimento Donne di San Luca, accusata di truffa aggravata e peculato per essersi indebitamente appropriata dei finanziamenti erogati dal Ministero della Gioventù, dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, dall’Ufficio territoriale del governo di Reggio Calabria e dalla Fondazione “Enel Cuore”. Una vicenda sulla quale il procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria Nicola Gratteri ha speso parole durissime, ma giuste: «Da tanti anni metto in guardia da chi si erge a paladino dell’antimafia senza avere una storia alle spalle. Non solo da magistrati, da investigatori, da giornalisti, ma da cittadini non possiamo tollerare che ci sia gente che ne abbia fatto un mestiere. Abbiamo tutti l’obbligo di essere vigili nei confronti di queste condotte che non solo sono penalmente rilevanti, ma anche eticamente riprovevoli e inaccettabili». Gratteri prende spunto dalla vicenda della Canale per lanciare pesanti accuse a quella che lui stesso definisce «antimafia delle parole». Troppo spesso, afferma, «manca la coerenza fra ciò che si dice e ciò che si fa». Un singolo episodio vergognoso non può e non deve andare a scapito della “buona antimafia”. Quella vera, che parecchie associazioni e tantissimi cittadini riescono a portare avanti ogni giorno, lontani dai riflettori e dalla corsa a premi e medaglie. L’antimafia è uno strumento necessario e importantissimo per una società che si definisce civile, e non capirlo, pensando che un esempio negativo possa spegnere la luce di quelli positivi, fortunatamente ben più numerosi, è un errore in cui non dobbiamo cadere. Ci è caduto invece, ahimè, Nando dalla Chiesa. Nell’articolo titolato “Benvenuti al circo antimafia”, pubblicato sabato 21 dicembre su Il Fatto Quotidiano, dalla Chiesa, parla di «bubbone da far scoppiare», riferendosi «al variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia» e citando proprio il caso di Rosy Canale, eletta «eroina dell’antimafia». «Perché – si legge ancora – se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa». Critica più che mai legittima, la sua, che però poi, scorrendo l’articolo, diventa un attacco esplicito a chi in realtà è ben lontano da quell’antimafia fatta solo di parole e in cerca di consenso prima di tutto politico. Accuse dirette, di cui risulta difficile capirne le motivazioni, certamente incaute come lo furono quelle che spinsero ventisei anni prima Sciascia ad attaccare Borsellino. Dalla Chiesa scrive che qualcuno «è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore?». Il giornalista parla di Luigi Bonaventura, ex boss di ‘ndrangheta, che sette anni fa è diventato collaboratore di giustizia. «Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa – spiega il giornalista – basta rileggersi il Falcone di “Cose di Cosa nostra”. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. […] Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali». E prosegue, tra esempi (Saviano) e paragoni (Canale), per concludere: «Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta». Lo stupore nel leggere questo attacco è tanto. Ancor più che le parole provengono da un intellettuale, familiare di vittima di mafia. Stupiscono perché con queste accuse si scredita la figura del collaboratore di giustizia Bonaventura, ritenuta invece attendibile dallo Stato, visto che ha collaborato e collabora con decine di Procure, aiutando la magistratura ad arrestare pericolosi ‘ndranghetisti e a fare luce sulla trattativa che pezzi deviati delle Istituzioni avviarono con la ‘ndrangheta (“non contenti” di dialogare soltanto con Cosa nostra). Forse dalla Chiesa non gradisce i collaboratori di giustizia, quali strumento nella lotta alla criminalità organizzata? Eppure il loro contributo, è innegabile, è fondamentale tanto quanto quello dei testimoni di giustizia. Lo avevano capito Falcone e Borsellino e lo aveva compreso ancora prima proprio Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale, infatti, fu un importante innovatore nelle tecniche di investigazione sul terrorismo e sul crimine organizzato con l’uso dei pentiti e degli infiltrati, creando negli anni Settanta il Nucleo Speciale Antiterrorismo, dalle cui ceneri nacque vent’anni dopo il Ros. Se da un lato Nando dalla Chiesa smonta il lavoro della magistratura, dall’altro, parallelamente, sminuisce anche il lavoro di Giulio Cavalli. Attore che dell’impegno civile, quale forma di contrasto alle mafie, ne ha fatto una ragione di lavoro e di vita. Tanto da dover vivere oggi sotto scorta, a causa delle sue denunce e in seguito alle concrete minacce di morte. E nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, è lo stesso Cavalli a scrivere sul proprio profilo Facebook: «A proposito, tanto per sorridere insieme: il mio compenso per la serata al Teatro Biondo di Palermo è stato 0. Zero». Se questo Stato non è in grado di garantire tutela ad ogni suo singolo cittadino (figliol prodigo o meno che sia), che almeno ci sia il rispetto per chi promuove, davanti a una Corte o ad una platea poco importa, la lotta alle mafie. Diversamente, c’è di fondo qualcosa che non va e che dovrebbe preoccuparci: un pregiudizio dell’antimafia nell’antimafia. È vero che ultimamente la lotta alla criminalità organizzata è diventata per molti un business. Troppi libri e film, per non parlare dei convegni che da Nord a Sud si organizzano attorno al tema, durante i quali si fanno i soliti discorsi, ma di azioni concrete nemmeno l’ombra. E non possono che tornare di nuovo alla mente le parole del procuratore Gratteri: «La vera antimafia si fa senza sovvenzioni pubbliche». Finanziamenti di cui invece Libera beneficia largamente, così come di un saldo legame con un ben determinato gruppo politico. Tutto lecito, per carità. Però, forse dalla Chiesa, presidente onorario dell’associazione, dovrebbe pensare anche a questo, prima di lanciare anatemi e procedere a condanne aprioristiche.
Rosy Canale e Sebastiano Giorgi: i simboli antimafia arrestati a San Luca, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Sei fermati in un'operazione contro la 'ndrangheta nel comune in provincia di Reggio Calabria. In manette anche l'ex sindaco. Così come la nota attivista, per truffa aggravata e peculato, ma senza aggravante dalla condotta mafiosa
Sei persone, compresi due boss, una attivista antimafia, un ex sindaco e un ex assessore di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, sono state arrestate dai carabinieri con le accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e reati contro la pubblica amministrazione. Secondo gli inquirenti, avrebbero agevolato la ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale. Tra i fermati c’è anche Rosy Canale, già conosciuta per il suo impegno antimafia: coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca” (un’associazione che si occupa di sostegno sociale), sulla donna pesa l’accusa di truffa aggravata e peculato (ma senza aggravante dalla condotta mafiosa). Il Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Dda coordinata dal Procuratore Federico Cafiero de Raho ha disposto sei misure cautelari, cinque in carcere e una agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta ribattezzata “Inganno”, spiccano i nomi di quelle che erano considerate due icone antimafia, ovvero l’ex sindaco Sebastiano Giorgi, di 48 anni, ma soprattutto Rosy Canale, 41enne, coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”. In carica dal 2009 fino ai primi mesi del 2013, Giorgi era noto per aver partecipato a diverse manifestazioni di denuncia contro la ‘ndrangheta, offrendo un’immagine anti-mafia alla sua Amministrazione. Eppure, nel maggio 2013, era stato deciso lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Un provvedimento disposto allora dal prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, su delega del Ministro dell’Interno. Di fronte alla decisione, l’allora sindaco si era detto “amareggiato e sorpreso”, difendendosi e spiegando di aver sempre operato nel segno della legalità e della trasparenza, come si spiega su Mnews.it. In realtà, secondo gli inquirenti che hanno condotto l’indagine che ha portato al suo arresto, la sua elezione sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta. Tutto in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. Tra questi, quello per la metanizzazione del paese di San Luca, l’appalto più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. Un controllo totale delle attività comunali, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti. Per Rosy Canale, invece, che si trova agli arresti domiciliari, non c’è alcuna accusa di reati mafiosi, ma di peculato e truffa.
CHI E’ ROSY CANALE – La coordinatrice del Movimento delle donne di San Luca avrebbe utilizzato per l’acquisto di beni personali i finanziamenti che dovevano invece essere destinati a finalità sociali. Risorse che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro. La donna, conosciuta per il suo impegno antimafia, è nata e cresciuta a Reggio Calabria: la sua giovinezza – ha raccontato – è stata “scandita dai morti ammazzati della seconda guerra di ‘ndrangheta in riva allo stretto”. Diventata un’imprenditrice di successo nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, era nota per essersi opposta allo spaccio di cocaina nella sua discoteca, imposto dalle ‘ndrine di Reggio. Per questo motivo aveva subito un violento pestaggio, con i malavitosi che le avevano rotto denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore. Era riuscita però a salvarsi e, dopo otto mesi di ricovero e tre anni di riabilitazione, decide di trasferirsi proprio a San Luca, il paese aspromontano considerato la capitale della ‘ndrangheta mondiale. Decisiva per la scelta - si spiega sul suo profilo su Facebook – era stata «la strage di Duisburg del ferragosto del 2007, spartiacque della sua esistenza». Considerata come «una mattanza senza precedenti, pianificata a pochi chilometri dalla sua Reggio e consumatasi in Germania. L’ennesimo orrore della lunga faida tra le cosche di San Luca». Canale aveva deciso di avviare a San Luca una «rivoluzione pacifica fatta di legalità e condanna della violenza». Si spiega: Lavora come volontaria nella scuola media e fonda il Movimento delle Donne di San Luca dove si ritrovano le madri, le sorelle, le mogli e le figlie di tante famiglie toccati da lutti di ‘Ndrangheta. La mission dell’associazione è quello di creare opportunità formative, lavorative e culturali in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa. «La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndrangheta, ma io non sono morta». Tanto da aver deciso di raccontare la sua storia nei teatri italiani con un evento intitolato “Malaluna – storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con regia di Guglielmo Ferro e musiche di Franco Battiato. In pratica, un simbolo della lotta contro la ‘ndrangheta. In manette sono finiti anche due boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, 57 anni, e Francesco Strangio, di 59 anni. Allo stesso modo come Francesco Murdaca, assessore comunale della Giunta che aveva come sindaco proprio Sebastiano Giorgi. Il reato contestato è di associazione mafiosa.
Rosy Canale, l'imprenditrice anti 'ndrangheta arrestata per truffa. Con i soldi dell'antimafia comprava macchine e vestiti. La Dda di Reggio Calabria ha eseguito l'arresto nell'ambito dell'operazione "Inganno". E' accusata di utilizzare i fondi a "fini personali". Il procuratore Gratteri: "No ad 'antimafia delle parole'", scrive Giuseppe Baldessaro su “La Repubblica”. Con i soldi dell'antimafia si comprava macchine, i mobili per la casa e i vestiti. Non si faceva mancare nulla Rosy Canale, viaggi compresi. Beni e vizi pagati con i contributi assegnati all'associazione “Donne di San Luca”. Denaro che doveva servire a sostenere attività per la legalità e che invece sono stati “distratti a fini personali”. Stamattina la Dda di Reggio Calabria ha fatto arrestare un'altra icona della lotta alla 'ndrangheta. Una donna che, come Carolina Girasole (l'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto arrestata la scorsa settimana) era considerata un punto di riferimento, una faccia pulita della Calabria onesta. Non a caso l'indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Nicola Gratteri e condotta dai carabinieri è stata chiamata “Inganno”. La Distrettuale antimafia ha infatti scoperto che i soldi del Ministero della Gioventù, del Consiglio Regionale, della Prefettura e della Fondazione “Enel Cuore”, da utilizzare per la gestione di un bene confiscato alla famiglia Pelle sono stati invece usati a “fini personali”. Per questo che la ludoteca per i bambini di San Luca, inaugurata nel 2009, in realtà non è mai entrata in funzione. "Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere", ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabriasulla vicenda. "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli", ha aggiunto Gratteri riferendosi alle "promesse fatte alle donne di San Luca, anche a quelle colpite da forti lutti". Nella lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti", ha sottolineato. Le donne di San Luca "non hanno mai visto quei soldi". Il monito del procuratore aggiunto della Dda reggina è di "fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa". Rosy Canale, 40 anni, è accusata di truffa aggravata e peculato. Il suo curriculum la racconta come imprenditrice reggina che si è ribellata alla 'ndrangheta a cui impedì di spacciare droga nel suo pub-discoteca. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg, si trasferì per un periodo ai piedi dell'Aspromonte e fondò il “Movimento delle donne di San Luca”. Un'associazione che aveva tra le sue finalità quella di lavorare per i bambini del paese. Un progetto che poi non andò avanti. Nel frattempo Rosy Canale ha continuato la sua attività pubblicando un libro “La mia 'ndrangheta” per le Edizioni Paoline, e portando in giro per i teatri italiani lo spettacolo “Malaluna - Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con le musiche Franco Battiato, già andato in scena in alcune realtà. Nei giorni scorsi aveva ricevuto a Roma il premio “Paolo Borsellino”, e proprio in quell'occasione aveva invitato Papa Francesco ad andare a San Luca. Pur non essendo indagata per reati di mafia, Rosy Canale è finita in un'inchiesta che ha portato all'arresto di altre cinque persone accusate di reati di 'ndrangheta. La Procura guidata da Federico Cafiero de Raho ha ottenuto la custodia cautelare per l'ex sindaco di San Luca (oggi sciolto per mafia), Sebastiano Giorgi, e per l'ex assessore all'urbanistica, Francesco Murdaca. I due amministratori avrebbero in più occasioni favorito le cosche. In particolare è stato rilevato che Francesco Strangio, alias “Ciccio Boutique”, era riuscito ad accaparrasi la gestione del mercato del Comune e della zona di Polsi. Nelle fascicolo ci sono poi storie di appalti e di intestazioni fittizie, dietro le quali ci sarebbero stati i boss della “Mamma”, la “società di 'ndrangheta” di San Luca, riconosciuta come la più “antica, potente e autorevole della Calabria”.
I ruoli dei due personaggi più noti coinvolti nell'operazione "Inganno" sono stati chiariti dalle attività investigative che hanno permesso di ricostruire ogni passaggio, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. L'aspetto più eclatante è legato a Rosy Canale, che è agli arresti domiciliari. Non è accusata di reati mafiosi, ma di peculato e truffa. Secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe utilizzato per l'acquisto di beni personali i finanziamenti, che avrebbero dovuto essere destinati a finalità sociali, erogati al "Movimento delle donne di San Luca". Finanziamenti che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro, ma che potrebbero essere, sulla base di un calcolo definitivo, anche più consistenti. E le intercettazioni e le indagini mettono a nudo le condizioni in cui venivano utilizzati i fondi. Rosy Canale avrebbe usato i finanziamenti dell'associazione per acquistare accessori e abiti firmati alla figlia, quindi i vestiti al padre e beni di lusso. Ma è davanti ai richiami della madre di Rosy Canale che emerge lo spaccato più difficile da accettare. Le spese folli di Rosy Canale fanno scattare, infatti, i richiami, ai quali però lei replica: "Me ne fotto". Dunque, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata una piena consapevolezza dei reati compiuti, e anche una certa sfrontatezza. Nel dettaglio Rosy Canale è accusata di aver «indotto in errore dapprima la prefettura e poi la fondazione Enel Cuore sulla serietà ed affidabilità delle motivazioni del Movimento». Con particolare riferimento ad primo un finanziamento di 160 mila euro utilizzati «per finalità esclusivamente private (ovvero l'acquisto di mobili ed arredamento per la propria abitazione, di abbigliamento e di una minicar per la figlia, di abbigliamento per sé e il padre, di una settimana bianca per sè e la figlia). A questo si sono aggiunti altri finanziamenti minori utilizzati sempre, secondo la ricostruzione degli inquirenti, per finalità private come «l'acquisto di una autovettura Fiat 500, sì intestata al Movimento ma di fatto utilizzata esclusivamente per le sue esigenze personali». Per quanto riguarda l'ex sindaco Sebastiano Giorgi, in carica dal 2009 ai primi mesi di quest’anno, aveva partecipato ad innumerevoli manifestazioni contro la 'ndrangheta accreditando alla sua Amministrazione un forte impegno contro le cosche. Immagine scalfita dal successivo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Dall’indagine condotta dai carabinieri che ha portato al suo arresto è emerso, invece, che in realtà l’elezione di Giorgi a sindaco sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. In particolare, le due cosche, grazie alla Giunta presieduta da Giorgi, avrebbero ottenuto l’appalto per la metanizzazione di San Luca, il più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. In ogni caso, il controllo da parte delle cosche sull'attività del Comune sarebbe stato totale.
Rosy Canale, l'antimafia con troppe ombre. Arrestata con l'accusa di truffa e peculato dopo un'indagine che ha dimostrato come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. In primo luogo nell'anti-ndrangheta. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”.
Metti una serata al teatro Parenti di Milano con la 'ndrangheta. Autrice e protagonista del monologo, presentato in prima il 18 ottobre 2013, era Rosy Canale, arrestata questa mattina con l'accusa di truffa e peculato insieme ad altre cinque persone accusate anche di associazione mafiosa. L'indagine si chiama "Inganno" e il nome è quanto mai azzeccato per dimostrare come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. E in primo luogo nell'anti-ndrangheta. Soltanto pochi giorni fa Rosy Canale aveva ricevuto il premio Borsellino, dedicato a un martire della lotta al crimine organizzato. Ma gli spin doctors dei clan sanno che il modo migliore per svilire un eroe è metterlo in cattiva compagnia. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi. Ecco quello che lei stessa racconta nel monologo, presentato come una storia di vita vera. L'autrice viene da una famiglia originaria di Fiumara di Muro, roccaforte di uno dei protagonisti della seconda guerra di 'ndrangheta, Nino "Nano feroce" Imerti. Rosy, nata nel 1972, è un'adolescente quando la guerra inizia (1985). I morti, alla fine, saranno oltre 700. In questo scenario di bombe e sangue, appena maggiorenne decide di andare negli Stati Uniti per tentare la carriera di cantante. Per mantenersi fa la cameriera in un ristorante a New York dove tenta, con un certo successo, le prime esibizioni. Poi decide di tornare in Italia per trascorrere il Natale ma sull'aereo incontra un concittadino. È il colpo di fulmine. Nel giro di due anni, Rosy si sposa, ha una figlia e divorzia. Dopo la separazione, con una bambina piccola da mantenere, cerca lavoro a Reggio. Siamo all'inizio dell'era Scopelliti (2002) e la città sta facendo rotta verso la movida, le notti bianche e il panem et circenses a spese pubbliche. Qualcuno - non è chiaro chi - procura a Rosy un lavoro come direttrice artistica della discoteca Malaluna, in pieno centro, a due passi dal teatro comunale Cilea. In brevissimo tempo, Rosy ristruttura il locale e lo trasforma nel punto di riferimento della vita notturna con incassi quotidiani enormi: 7mila euro. Su base annuale sono oltre 2 milioni di euro. Sei mesi dopo, Rosy va talmente forte che con un takeover non ostile si compra la gallina dalle uova d'oro. Non dice a quanto. Non dice dove ha preso i soldi. Lo compra, però, e ci lavora duramente finché una sera nota un ragazzo che traffica con palline di stagnola. Lei chiama un buttafuori e gli fa prelevare il ragazzo. La stagnola contiene cocaina. Rosy, invece di chiamare i carabinieri, la sequestra. Il fatto si ripete più volte finché interviene un conoscente di Rosy che la prega bonariamente di lasciare lavorare il ragazzo. Rosy rifiuta e continua a sequestrare la droga anche quando il vecchio spacciatore viene sostituito da altri. Lì incominciano le minacce, i piccoli danneggiamenti, i furti che vengono denunciati invano alle autorità. In una città come Reggio, dove il racket delle estorsioni controlla persino le foglie che cadono dagli alberi, ci si aspetterebbe che la 'ndrangheta mandasse qualche esattore a riscuotere in un locale che incassa migliaia di euro a serata. Ma no, nello spettacolo non si fa menzione di questo. Così una notte Rosy chiude il locale - sono circa le quattro - e si mette in macchina verso casa. Presto si accorge di essere seguita da una moto. Lei accelera e la moto accelera. Rallenta e la moto rallenta. Invece di chiamare il 113 con il cellulare, Rosy continua a guidare. È terrorizzata ma ciò non le impedisce di fermarsi a un distributore automatico per comprare le sigarette. Quando riparte, la moto è sempre là. Poco dopo, però, si affianca. Rosy si vede una pistola puntata in faccia. Sterza, travolge la moto ma anche la sua macchina sbanda e lei finisce contro altre automobili parcheggiate. Gli aggressori si rimettono in piedi senza danno e si avvicinano a lei. Per qualche motivo, decidono di non sparare. Invece la tirano fuori dalla macchina e la picchiano selvaggiamente. Seguono mesi di ospedale e riabilitazione. Rosy perde il locale ma non la voglia di ribellarsi. Dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, parte per San Luca e si impegna nel processo di pacificazione con le donne del paese devastate dai lutti di una faida, quella tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio, che dura da oltre quindici anni. Dal palco dello storico teatro milanese diretto da Andrée Ruth Shammah, Rosy chiude la pièce raccontando di come ha aperto una ludoteca a San Luca in un immobile confiscato. Poi l'ha chiusa perché non riceveva più fondi pubblici per le sue iniziative. Gli stessi fondi per i quali è stata arrestata stamattina. La serata del teatro Parenti, preceduta da un dibattito fra Rosy e Nando Dalla Chiesa, si conclude con un trionfo. Metà della sala piange. Tutti applaudono. L'onda emotiva ha travolto le incongruenze del racconto. Un racconto che, peraltro, è già stato espurgato da particolari imbarazzanti che si trovano nel libro La mia 'ndrangheta che Rosy Canale ha pubblicato per le Edizioni Paoline. Lì il ritratto dell'autrice da giovane rivela qualche particolare imbarazzante. Rosy stessa racconta del suo flirt da diciannovenne, quindi in piena guerra, con un "ragazzo dagli occhi dolci". Incomincia a frequentarlo e conosce i suoi amici. Fra questi, un certo Giuseppe, simpatico e spiritoso, che invita la comitiva a casa sua, ad Archi. Uno strano luogo pieno di telecamere di sorveglianza. Con grande stupore Rosy scopre di essere a casa di Peppe De Stefano, figlio di Paolo boss di Archi ucciso dai Condello-Imerti nel 1985, ed erede del padre con la carica di Capocrimine. Il "ragazzo dagli occhi dolci" fa parte del gruppo di fuoco dei destefaniani in guerra. Forse questo circuito di conoscenze potrebbe spiegare perché il Malaluna ha avuto problemi con la coca ma non con il pizzo. Del resto, il Malaluna non è mai stato di Rosy Canale. Lei si limitava a presiedere un'associazione senza scopo di lucro che gestiva uno dei locali più ricchi di Reggio in un contesto di grande rilassatezza fiscale. Men che meno è di Rosy Canale l'immobile, che adesso ospita una sala di videolotterie e poker elettronico. Lo stabile appartiene a tale Gaetano Tramontano, un gagliardo reggino nato nel 1904 che l'anno prossimo festeggerà i suoi 110 anni, salvo che qualcuno si ricordi di dichiararlo morto e magari riveli al catasto il reale proprietario. Dopo la sera del Parenti, la tournée di Rosy è andata avanti con lo stesso successo della serata di Milano e un accompagnamento di recensioni entusiastiche. Adesso il giro dei teatri registrerà una pausa ma il danno è fatto. Chi ha pianto in teatro la prossima volta non ci andrà più in teatro e la 'ndrangheta avrà trovato un mezzo molto più efficace della censura per tornare sotto traccia: creare un finto martire e aspettare che si screditi da solo.
Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.
Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori. E comunque la mafia segue il denaro, ed al sud denaro ne è rimasto ben poco.
Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.
Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?
"Io, vescovo rimosso dalla Santa Sede per la mia lotta contro mafia e massoni". Il caso di Francesco Miccichè, alto prelato di Trapani, rimosso dal suo incarico nonostante per i magistrati sia "parte lesa". Mentre la curia della città siciliana è al centro di uno scandalo sulla gestione di fondi e beni ecclesiastici. In una trama che vede protagonista anche lo Ior, scrive Piero Messina su “L’Espresso”. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”. Le parole sgorgano come pietre dal memoriale di Francesco Miccichè, documento di oltre cento pagine, redatto del vescovo alla guida della Diocesi di Trapani dal 1998 sino al 16 maggio 2012. Quel giorno la rimozione arriva, a firma di Adriano Bernardini, Nunzio Apostolico in Italia. E’ l’obbligo alle dimissioni. La nota inviata dalla Santa Sede – e classificata con il bollo di "segretissima” – ha il sapore della minaccia: senza l’abbandono immediato della Diocesi, la destituzione si sarebbe celebrata con la pubblicazione sull’Osservatore Romano, entro 72 ore. Per un religioso, peggio di una fucilazione. Da quel momento, Monsignor Miccichè tenterà in tutti modi di aprire un canale con la Santa Sede, prima con Papa Benedetto XVI e poi con il Santo Padre Francesco. Senza ottenere nulla, se non un brevissimo incontro, alla fine dello scorso anno con Papa Bergoglio: "Ho chiesto al Papa udienza per poter raccontare la mia storia – ammette il prelato – e il Santo Padre mi ha pregato di rivolgere la richiesta al suo segretario particolare”. Non è successo nulla: Città del Vaticano, sul caso Miccichè, ha eretto il classico muro di gomma. Ora, in quel memoriale, il vescovo messo ai margini della comunità religiosa ripercorre la sua via crucis laica. Da oltre tre anni la Curia di Trapani è l’epicentro di una serie di inchieste giudiziarie che ruotano attorno alla gestione dei fondi e dei beni ecclesiastici. Sullo sfondo di quelle carte giudiziarie si intravede la lotta per il potere e per il controllo delle Diocesi siciliane, l’inviolabilità dello Ior e l’immancabile ipotesi di inquinamento mafioso. Con in più l’ombra della massoneria deviata. Dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife sono gli ingredienti di questo plot Vaticano in salsa siciliana, racchiuso nel dossier del vescovo. Ora che la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, si avvia a chiudere le indagini, resta l’interrogativo di quella rimozione ex abrupto di Monsignor Miccichè dalla Diocesi. Perché il vescovo siciliano, secondo la ricostruzione dei magistrati, è considerato, almeno sino ad ora, "parte lesa” in quei procedimenti giudiziari. Miccichè è convinto di pagare un conto dalla genesi antica. Sin dall’arrivo nella Diocesi, il vescovo siciliano ha messo nel mirino mafia e grembiulini. Nel marzo del 2000, attacca così le logge trapanesi e la mafia: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le Diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella di Trapani, vivono in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Scoppia un putiferio, con la massoneria italiana che accusa il monsignore di oscurantismo. Miccichè sarà minacciato: "mi venne detto – da un padre della Società religiosa di San Paolo, ndr - che se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria avrei fatto una brutta fine. Tragica profezia”. Il vescovo di Trapani chiederà aiuto al Vaticano: "Chiesi udienza al Cardinale Joseph Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e fui ricevuto dall’allora Segretario della stessa congregazione Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone al quale riferii quanto mi era successo e a lui chiesi lumi su come comportarmi… Alla mia obiezione come mai non si mettesse un freno ai preti che andavano in tutta Italia a fare conferenze in favore della massoneria, Bertone mi rispondeva candidamente: Ma cosa vuole, Eccellenza, anche in Vaticano ci sono cardinali, vescovi e prelati iscritti alla massoneria”. Schizzi di fango colpiranno l’episcopato di Miccichè a Trapani di nuovo nel 2009, quando un esposto anonimo, il primo di una lunga serie, sarà recapitato alla Procura nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, al Cardinale Bertone e al Cardinale Re. In quel documento si accusa Miccichè di avere al suo fianco come "segretario vescovile” un esponente di una famiglia della mafia rurale di Alcamo. In quel documento, per la prima volta, viene citata anche la Fondazione Auxilium, struttura sanitaria guidata dalla Diocesi di Trapani e convenzionata con la Regione siciliana. Miccichè respingerà ogni accusa e dimostrerà che quel "segretario”, era in realtà solo l’autista dalla Diocesi di Trapani, assunto prima del suo arrivo. Miccichè non nega di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in Diocesi fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia, ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Nel mese di febbraio del 2011 la Diocesi di Trapani finisce al centro di uno scandalo finanziario. Si ipotizza un buco milionario nei conti della Curia. Sotto la lente delle Fiamme gialle finisce anche la gestione di due fondazioni della curia siciliana, la Auxilium e la Campanile, già fuse nel 2007. Auxilium è una struttura sanitaria con oltre 300 dipendenti e conta su una convenzione dal valore di 5 milioni di euro con la sanità regionale. Miccichè, nel 2009, ha nominato suo cognato come procuratore della fondazione. La giustizia italiana e quella vaticana si mettono in moto. Le indagini puntano anche al direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani, padre Ninni Treppiedi. Alla fine, nell’inchiesta della Procura di Trapani risulteranno 14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio. Treppiedi avrebbe aperto conti correnti allo Ior: da semplice sacerdote non li avrebbe potuti tenere. Su quelle transazioni la Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ancora oggi ferma su un binario morto. Il nome di Treppiedi apparirebbe anche nel memoriale dell’ex direttore generale dello Ior, Gotti Tedeschi. Sulla base di quelle indagini "laiche” Miccichè sospende a divinis don Treppiedi. La procedura verrà confermata e rafforzata da un decreto della Congregazione del Clero del Vaticano. Tra le spese di quella gestione anche l’acquisto di auto di lusso, donate a cardinali delle alte sfere vaticane. Alla fine, Treppiede – legato un tempo a personaggi della politica siciliana come l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì – deciderà di collaborare con la giustizia. Un contributo, affermano dalla Procura di Trapani, "di assoluto valore”. Ma intanto contro Miccichè si scatena l’inferno. Treppiedi, dopo la sospensione a divinis, sporge denuncia contro il vescovo Miccichè, accusato di avere svuotato i conti della curia. Il Vaticano invia un visitatore apostolico, Monsignor Domenico Mogavero. Miccichè non potrà mai leggere il contenuto della relazione che porterà alla sua rimozione. Accusato di aver depredato la Curia, Miccichè si difende e mostra gli estratti bancari: "altro che senza un soldo, quando ho lasciato la Diocesi di Trapani sul conto c’era più di un milione di euro, mentre la Fondazione Auxilium disponeva di oltre otto milioni di euro”. Sempre in quel periodo, il vescovo deve difendersi da una campagna denigratoria costruita ad arte. Viene diffusa una lettera su carta intestata della Diocesi di Trapani. E’ indirizzata a Luigi Bisignani, l’uomo al centro dello scandalo P4. Nella missiva che reca la firma di Miccichè, si chiede l’intercessione in Vaticano da parte di Bisignani perché "il Papa - a quel tempo Benedetto XVI, ndr - non è in grado di decidere più nulla e il potere è demandato nelle mani dei Salesiani e in particolare del Cardinale Bertone che lo esercita in modo delinquenziale e spregiudicato”. Quella lettera – lo dimostreranno i magistrati - è un falso. Monsignor Miccichè tenta la difesa e veste i panni dell’investigatore: si mette sulle tracce dell’attività svolta da Treppiedi allo Ior. In più, aiuta i magistrati ad accedere nei luoghi di culto coinvolti nell’indagine per transazioni immobiliari sospette. Per la Santa Sede sono peccati mortali. Nel memoriale del vescovo siciliano appiedato dal Vaticano si legge: "Io stesso mi sono recato allo Ior per conoscere se in qualche modo la stessa Diocesi di Trapani o la mia persona fossero stati coinvolti, a mia insaputa, in operazioni di riciclaggio. Allo Ior non ho ottenuto alcuna informazione. Sono stato indirizzato dal Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Angelo Becciu, il quale non ha reputato opportuno ricevermi. Dalla mia visita presso lo Ior ho potuto accertare, però, che molti presso questo istituto conoscevano don Treppiedi. Per loro era capo ufficio alla Congregazione di Propaganda Fide”.
A conferma della gestione allegra dei beni sequestrati con decreti penali mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»
Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”. Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo 14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60% pari a 5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.
Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta. In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.
L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.
Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha, anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati, restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti, detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione, avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”. Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte…. Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.
Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio, ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:
-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;
- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;
- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;
- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;
- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;
- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;
- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese, del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da ritardi, da momentanei malesseri e da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;
-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.
Come si può notare, la richiesta più importante è quella di distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico. L’affidamento della gestione dei beni ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.
La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro. Grigoli chiede un aumento del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata, per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella. Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari, viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro. E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39. Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.
Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara, sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.
La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede, innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour. Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena, ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo, dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti, di associazione mafiosa. Con strana sollecitudine il tribunale dispone il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco. L’intraprendente Valenza ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.
La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi. Sul mercato c’è già l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica. Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità che apre le porte alla Gas spa e al terzetto Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi direttamente gli appalti senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani, e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena, dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.
L'ANTIMAFIA DI PROFESSIONE. Chiude Mori. Facile, oggi, «produrre versioni e ricostruzioni avventurose e decontestualizzate». Tanto più «che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull'elaborazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove che possano in qualche modo confermarli». Roba da «cultori della letteratura fantasma», non da «professionisti della materia». Il paradosso di questa vicenda è costituito dal fatto che «noi non abbiamo memoria della gran parte degli attuali lottatori antimafia. Non li abbiamo visti perché non c'erano accanto a noi o al fianco di coloro che durante quella tragica stagione hanno davvero combattuto Cosa nostra, alcuni fino a perderci la vita. Rimane l'amara constatazione che forse la vera colpa che non ci viene perdonata da qualcuno sia quella di essere sopravvissuti».
La difesa di Mario Mori nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano: Ecco il memoriale di Mario Mori, scrive Anna Germoni su “Panorama”. La verità di un processo in 160 pagine. Coinciso e graffiante per tutti, compresi i pm Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo per le troppe apparizioni in tv in merito al processo in corso. Gioca di fioretto il prefetto Mario Mori, imputato insieme al colonnello Mauro Obinu di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nell’ottobre del 1995. Stamattina, 7 giugno 2013, in aula Mori ha letto il suo memoriale difensivo: difendendo la correttezza istituzionale del suo operato e di quello dei suoi uomini, ha contrattaccato sgretolando il castello accusatorio della presunta trattativa Stato-mafia. Il castello di sabbia della Procura di Palermo viene smantellato, prove alla mano. Il generale accusa il tritacarne mediatico del processo, “ripreso da commentatori, opinionisti, studiosi e politici ideologicamente connotati e ben collegati nell’ambiente mediatico-istituzionale che conta, che come tanti pappagalli, avendo al massimo una pallida e limitata idea dei fatti, distillano pareri ed emettono condanne o assoluzioni sulla base del tornaconto personale, senza accorgersi di fare per lo più dello squallido pettegolezzo”. Poi Mori dichiara: ”Risulta più facile proporre a posteriori analisi e soluzioni, senza mai la controprova del riscontro pratico; criticare col senno di poi ogni decisione a suo tempo assunta sul terreno; mettere in dubbio ed interpretare ai propri fini le azioni di chi concretamente ha operato dovendo decidere nell’immediatezza e non disponendo sempre di dati conoscitivi sufficienti per definire condotte e strategie aderenti alla necessità, piuttosto che operare direttamente, mettendoci la faccia e quindi con rischio personale, contro un’organizzazione criminale spietata e sempre in grado di offendere. Si tratta di operazioni per nulla pericolose e molto redditizie, tenuto conto che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull’elucubrazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove”. Con voce decisa e ferma Mori ripercorre i 5 anni di dibattimento, con oltre un centinaio di udienze e circa 100 testimoni chiamati in aula. Respinge le accuse screditanti nei confronti dei suoi uomini, appellati dal pm Di Matteo come “scudieri”, che avrebbero “perseguito obiettivi di politica criminale”. “Questa grave accusa dichiara Mori “pronunciata in un’aula di giustizia senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte”. Il prefetto mira a in mettere difficoltà tutto quel momento di opinione costituito dai politici (Sonia Alfano, Giuseppe Lumia, Antonio Di Pietro, Fabio Granata, Luigi Li Gotti, Leoluca Orlando e Rosario Crocetta) e da un fronte trasversale composto da vari professionisti: l’avvocato Fabio Repici, Gioacchino Genchi, giornalisti alla Marco Travaglio, Sandra Aurri, Saverio Lodato, Giuseppe Lo Bianco, Concita De Gregorio. Sostenuti dalle associazioni antimafia delle agende Rosse, Antimafia Duemila, La Rete, Libera, associazione nazionale familiari vittime di mafia, Quinto potere, secondo Mori i pm Ingroia e Di Matteo e molti altri magistrati siciliani hanno avuto come scopo quello di “indirizzare surrettiziamente l’opinione pubblica” verso quella che il senatore Gerardo Chiaromonte appellava come “una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica”. Mori, nel suo lungo memoriale analizza le accuse lanciate nei suoi confronti dal colonnello Michele Riccio, a sua volta querelato dal prefetto, per la mancata cattura di Provenzano. Dalle carte di Mori emerge che il principale accusatore di Mori viene criticata dalla dirigenza della Dia, dai magistrati Pignatone e Principato e dallo stesso Di Matteo nonché dal gip di Catania. Le espressioni usate dai togati nei confronti di Riccio, difeso dall’avvocato Repici, delineano “una personalità assai incline all’autoesaltazione con un malcelato desiderio di porsi al centro dell’attenzione che nei suoi appunti si abbandona ad uno sfogo, senza alcun supporto di qualsivoglia natura, nei confronti di magistrati e dei superiori”. Mori poi parla di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino trasformatosi in “icona della nuova antimafia” e recentemente arrestato per la terza volta. Per il prefetto “il movente di Ciancimino è esclusivamente quello di ottenere un miglioramento della sua situazione giudiziaria per la gestione del patrimonio paterno”. La stessa tesi viene sostenuta dalla procura di Caltanissetta, soprattutto nella richiesta di ordinanza di custodia cautelare del processo “Borsellino quater”. Contro Ciancimino jr i magistrati nisseni sono molto più duri. Scrivono infatti che “il comportamento processuale di Massimo Ciancimino è rivelatore di una personalità deviata” e che “il suo atteggiamento processuale è frutto di una strategia di depistaggio nei confronti di personaggi delle Istituzioni”. Il generale fa emergere nitidamente citando le numerose contraddizioni delle dichiarazioni rese dal controverso collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, che mano a mano, nel tempo dal 1998 al 2013, “aggiusta sempre il tiro” servendosi della collaborazione con lo Stato “ non ai fini di giustizia ma in relazione alle sue esigenze e nella personale valutazione che egli faceva su quello che volevano sentirsi dichiarare coloro che lo interrogavano”. Poi sempre di fioretto, con atti alla mano sgretola anche le dichiarazioni del neo pentiti Lo Verso, Spatuzza e Mutolo. Il primo, addirittura, viene paragonato come iter comportamentale a quello di Ciancimino jr. Nelle lunghe pagine dedicate al favoreggiamento di Provenzano, il prefetto ripercorre che il Ros, diretto da lui, ha sempre orientato incessantemente la sua opera alla ricerca del boss corleonese. Spiegando con le varie operazione effettuate anche in sintonia con la Polizia di Stato, da “Grande Oriente” al “Grande Mandamento” che tutti i magistrati siciliani avevano grande fiducia nel fiuto investigativo del Ros e che fra questi vi era anche il pm Di Matteo, che esaltava le qualità del reparto che “aveva condotto da oltre tre anni con grandissima professionalità e notevole impiego di mezzi e di risorse”. Il generale parla anche anche dei suoi contatti con Vito Ciancimino e con gli esponenti delle istituzioni, smentendo più volte le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli Claudio Martelli. Sulla dissociazione, uno dei cardini della pubblica accusa, il prefetto precisa che “dopo la strage di Capaci era argomento di discussione fra gli esperti” e che perfino il magistrato Roberto Scarpinato in una riunione dell’Anm del 2 giugno del 1992 aveva “esposto un pacchetto di proposte per migliore l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, ipotizzando l’applicazione di un provvedimento simile a quello a suo tempo definito per i terroristi disposti a dissociarsi. E che Paolo Borsellino, la cui posizione contraria a riguardo era ben nota, se ne andò durante i lavori del convegno, senza prendere parola”. Altre stoccate arrivano quando si affronta l’argomento del 41 bis, il regime di carcere «duro», la personalità di Francesco Di Maggio e la presunta trattativa Stato-mafia. “Secondo l’accusa” dice Mori “brigando con Vito Ciancimino, su direttiva del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e coordinandomi con il capo della Polizia di allora, Vincenzo Parisi, e con il vice del Dap, Di Maggio e magari recependo ordini del generale Subranni, sarei io il mediatore della trattativa”. Il prefetto dimostra che era stato lui, come comandante del Ros, a svolgere le indagini su Calogero Mannino e sui fondi neri del Sisde che coinvolsero anche Scalfaro, che reagì con il fatidico “Io non ci sto” a reti unificate, pronunciato il 3 novembre del 1993. E’ illogico pensare che da una parte si indaga sui fondi neri, in un’inchiesta in cui viene coinvolto anche il capo dello Stato, e dall’altra parte si facciano accordi sottobanco con la mafia, per un’ipotetica trattativa che con l’attenuazione del 41 bis non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi. Infine si citano anche i colloqui svolti in carcere con Provenzano dagli onorevoli Alfano e Lumia, entrati nella prigione insieme con l’avvocato Repici, senza che questi si qualificasse con il suo tesserino professionale. “Nessuno” dice Mori “ha voluto catalogare questi colloqui come una sorta di trattativa intrapresa con elementi mafiosi a fini inconfessabili e se vogliamo sottilizzare, il nostro tentativo, mio e di De Donno con Vito Ciancimino, era un tentativo messo in atto da due ufficiali di polizia giudiziaria per convincere un cittadino non detenuto alla collaborazione delle indagini, rientrava nelle facoltà che ci erano concesse dalla legge; mentre quello dei due politici, con la presenza inusitata dell’avv. Repici, sarebbe andato ben al di là delle loro prerogative. Se ne deduce che il termine trattativa assume un valore a seconda delle prospettive ideologiche e questo non è corretto”. L’ultima parte delle dichiarazioni di Mori sono rivolte alle stragi del 1992-1994: “Essendo un uomo abituato a considerare i dati di fatto e non le mere ipotesi” dichiara il prefetto “io dico che lo scompaginamento di Cosa nostra è avvenuto per l’impegno e per la dedizione degli uomini delle Istituzioni, alcuni dei quali hanno pagato di persona questo impegno e non per contatti sottobanco o accordi indimostrati e indimostrabili che hanno la fondatezza e l’effettiva consistenza di un castello di carte”.
Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. “Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia” ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale, che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante, pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta.
Mafia e “antimafia” qualcosa si muove, scrive Marco Salfi su “Telejato”. La notizia è molto recente, sembrerebbe che dopo anni di denunce, editoriali e servizi da parte di questa testata qualcosa si stia muovendo. Ad essere sotto indagine per l’accusa d’abuso d’ufficio teoricamente dovrebbe esserci Andrea Modica de Moach ex amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti, tuttavia al momento non si sa nulla in merito. Quello che è certo è che nei giorni scorsi un servizio delle Iene realizzato con la collaborazione della nostra redazione ha messo in luce la storia dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, imprenditori assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e nonostante tutto oggetto ancora di misure di prevenzione patrimoniali. Il processo penale che ha visto l’assoluzione con formula perché il fatto non sussiste che ha visto protagonisti i 6 fratelli del piccolo paesino in provincia di Palermo era incentrato sulle presunte raccomandazioni che questi avrebbero avuto nell’aggiudicazione di alcuni appalti per la metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In realtà i pizzini che secondo l’accusa, e a tutt’oggi secondo le misure di prevenzione di Palermo incriminerebbero i Cavallotti indicavano chiaramente il pagamento del pizzo, la così detta in gergo mafioso “messa a posto” e non una raccomandazione che lascerebbe così spazio all’ipotesi di turbativa d’asta. Modica de Moach è stato nominato amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti nel 1999 dal tribunale di Palermo. Il suo compito era quello di amministrare le aziende in attesa che venisse concluso il processo legato alle misure cautelari che procede parallelamente a quello penale. Stando alla legge Modica avrebbe dovuto mantenere in attivo le aziende preservando i livelli occupazionali e mantenendo inalterato il volume d’affari. Tuttavia nulla di tutto questo è avvenuto. Per quella che in una relazione dello stesso modica è stata definita insolvenza tecnica è stato dato il via ad una serie di operazioni finanziarie, avallate per altro dal tribunale di Palermo, nelle quali attraverso alcune compravendite di rami d’azienda e alla cessione di debiti già prescritti Modica avrebbe percepito indebitamente del denaro dalle casse della Comest azienda del gruppo Cavallotti specializzata nella metanizzazione. Il dottor Vincenzo Paturzo curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica la Comest aveva tutte le risorse finanziarie e non era come affermato in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo parliamo di una azienda sconvolta da una vicenda giudiziari importante ma non così malata. Al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un operazione che nei bilanci non avrà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro. Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti ne esigibili) nel 2009 questi vengono ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Sui fatti esposti, la commissione regionale antimafia dapprima ha audito Pino Maniaci e qualche giorno fa ha ascoltato la testimonianza di Pietro Cavallotti. Sulla scorta di queste audizioni e delle numerose denunce di anomalie la commissione guidata da Nello Musumeci sta preparando un dossier. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria’. «Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Pietro Cavallotti dopo l’audizione si è detto soddisfatto per aver avuto la possibilità di raccontare davanti alle istituzioni la storia della sua famiglia. «Ho avuto la possibilità – ha affermato Cavallotti – di replicare alle affermazioni fuorvianti rese dai magistrati Scaletta e Petralia lo scorso 21 ottobre alla Commissione Nazionale Antimafia» «Viviamo in una condizione di indigenza a seguito dei vari provvedimenti giudiziari e siamo impossibilitati a trovare un lavoro per la cattiva reputazione costruita attorno alla nostra famiglia» Cavallotti ha chiosato «Tuttavia ringrazio Telejato per avere per primi avuto il coraggio di denunciare il malaffare che ruota attorno al sistema dei beni sequestrati». Continuerà l’indagine di Telejato che da anni sta denunciando questa gravissima situazione, anche attraverso la petizione lanciata su change.org nella quale si chiede che Pino Maniaci venga ascoltato dalla commissione nazionale antimafia.
Il lato oscuro dell'antimafia, scrive “La Repubblica” che diventa paladina di quell’antimafia partigiana, di sinistra e pro magistrati che vedono in “Libera” lo sbocco naturale e interessato. Perché al di la di “Libera” c’è un sistema emarginato di associazioni libere di fatto che ogni giorno devono combattere la mafia e l’antimafia.
Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo.
Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà. Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti. Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio. Gli inganni dell'antimafia. Nel composito - e talvolta oscuro - universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".
A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.
Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?
"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino".
Lei come ha risposto?
"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".
Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?
"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".
Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.
"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".
Da chi è composta questa associazione antimafia?
"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".
Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.
"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".
Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?
"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".
Lei ha paura di queste persone?
"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".
Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?
"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".
La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.
Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".
Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?
"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".
Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?
"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".
Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?
"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".
Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?
"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".
Che tipo di controlli si possono fare?
"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".
Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?
"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".
Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?
"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".
Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?
"Assolutamente sì".
Un'associazione per i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d'Italia.
Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?
"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.
Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?
Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.
Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?
Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?
Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?
Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.
Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.
Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.
“Buttanissima Sicilia” a Palermo. Intervista a Salvo Piparo e Pietrangelo Buttafuoco di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”. Il 31 gennaio 2015 Buttanissima Sicilia arriva a Palermo. In questa tappa, che si preannuncia la più importante, sarà il Teatro Biondo a offrire il palco al libro denuncia di Pietrangelo Buttafuoco – già successo editoriale di questa estate – divenuto recitazione per mezzo dello stile inconfondibile di Salvo Piparo, Rosemary Enea e Costanza Licata. Un grido di disperazione e d’amore, amore terribile, verso una terra ormai patria del malaffare e del peggiore costume politico. Ed è il fardello di ogni siciliano: soffrire. Perchè – e qui Carmen Consoli ci permetta la citazione – amare la Sicilia è come amare una prostituta, ti tradirà sempre, ma ne sei così innamorato che non puoi separartene. Abbiamo incontrato per voi i protagonisti: Pietrangelo Buttafuoco e Salvo Piparo, il giornalista scrittore e il cuntastorie, ”un cronista ai tempi in cui non esisteva ancora il telegiornale”.
INTERVISTA A SALVO PIPARO.
Come nasce l’incontro con Buttafuoco e l’idea di portare a teatro Buttanissima Sicilia?
«Salvo e Valentino (Ficarra e Picone) mi parlavano da tempo di Pietrangelo Buttafuoco e della sua scrittura. E’ stato durante le riprese di “Andiamo a quel paese” che poi ci siamo effettivamente incontrati, avevo comprato in quei giorni Buttanissima Sicilia e lo stavo per finire. Lui mi ha detto: se ti piace, hai carta bianca, lo puoi mettere in scena. Lo spettacolo è diventato una sorta di centro di aggregazione dove dentro ci sono finiti Salvo, Valentino (loro è la scrittura del racconto finale), le canzoni e l’ironia di Costanza Licata e anche la satira religiosa: un rosario di Sicilia che si presta al gioco di parole con Rosario Crocetta, la denuncia di una serie di sue farfallonate».
Quale è stata la risposta del pubblico?
«Durante queste repliche abbiamo avuto tutti la sensazione che lo spettacolo sia cresciuto, si sia ormai collaudato. Ci capiamo di più tra noi attori, ma anche il messaggio arriva meglio al pubblico. Ad esempio, per me parlare dell’Autonomia aveva un certo margine di rischio, oggi noi con le repliche e con lo studio che abbiamo fatto sulle cose che sono accadute nel frattempo con il Governo Crocetta, ci trovavamo a infiammarci nel raccontare una regione veramente buttanissima, che si prostituisce, con le trivelle che arrivano, dove si grida ad un No Muos che però poi si fa, e dove tutto diventa una farsa. E poi il teatrino della mafia dell’antimafia…»
Ecco, a proposito di quest’ultimo concetto, la mafia dell’antimafia.
«Parleremo di due mafie e le faremo duellare, sono la mafia e la mafia dell’antimafia che si sta arricchendo. Certo, anche questo è un concetto rischioso, lo sapevamo tutti quanti, per molti è ancora prematuro, però è un concetto antico già affrontato da Sciascia alla sua maniera. Noi siciliani, d’altronde, siamo esattamente spaccati in due. Spiritosi quanto delittuosi. Ma dal voto corrotto in poi si arriva al degrado. Io e Costanza Licata siamo nati in due quartieri popolari, sappiamo benissimo qual è il carattere di questa città e di questa regione, l’animo di noi isolani è pessimista perchè respiriamo l’irredimibile, e possiamo anche aggrapparci a degli specchietti… il fermento, la primavera di Orlando, il tram, ma la verità è che la città ha bisogno di alcune scosse. La Sicilia non può essere solo fiction, mi vergogno di avere partecipato a Squadra Antimafia – Palermo oggi, già il titolo è tutto sbagliato».
«E in questo quale dovrebbe essere il ruolo della satira? Oggi dopo la strage di Parigise ne torna a parlare.
«Il teatro civile questo deve fare: denunciare, innescare nella gente un senso di rivalsa. Ma il teatro non può essere mai violenza. Lungi da noi fare uno spettacolo politico, ma nella satira è così, si prende in giro Crocetta così come Nello Musumeci. Ce la prendiamo con un sistema, non con la persona».
La Sicilia che spazi offre per l’arte?
«Io ho 34 anni, mi considero ancora un giovane. Come giovane ti dico che non si può vivere di teatro in questa nostra terra. Conosco un sacco di talenti palermitani che sono costretti a fare i caffè nei bar per poter andare a fare teatro la sera. Altrimenti significa che ti passano dei finanziamenti, come viveva la vecchia guardia palermitana: impiegati pubblici a tutti gli effetti, prendevano finanziamenti dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione. Erano dei privilegiati. Oggi soldi non ci sono più. Ameno che non diventi Ficarra e Picone, che non hanno bisogno di queste logiche, ma stiamo parlando di eccezioni. La soluzione è fare gruppo con un pugno di persone che hanno le idee chiare e che si stimano a vicenda. Questo è quello che faccio con la cooperativa Terradamare, ragazzi con tanta voglia di fare».
Nell’epoca del teatro sperimentale, tu scegli di ritornare a un genere antichissimo come quello del cunto. Come mai?
«Il cabaret non è mai stato il mio obiettivo, volevo raccontare le cose che mi piacciono, la storia di Palermo. Ho iniziato col raccontare il mio quartiere, l’Albergheria, poi sono andato oltre, Brancaccio, la Guadagna, il Capo, Passo di Rigano che si chiama così perchè era un passo pieno pieno di origano, ho raccontato l’Ucciardone, perchè tutto coltivato a cardoni, la Via Libertà che di libertà non ha niente perchè in una notte Ciancimino la debellò, abbattendo le ville liberty. Ci sono delle storie splendide che ho ereditato da mio nonno. Questo voglio raccontare: noi, chi siamo. Ho lavorato degli anni a Milano, ma ero siciliano solo nella carta d’identità e quindi un perdente perchè di siciliano non sapevo niente. Lì ho aperto gli occhi e tornato a Palermo ho iniziato a divulgare questo verbo, la nostra identità. Ma la cosa più importante è che la gente uscendo da teatro ha capito quello che ha visto, in nome del teatro sperimentale la gente esce dopo aver visto una cosa che non ha capito però ha battuto pure le mani».
Di questa Sicilia forse fra qualche secolo ne faranno un cunto. Manca però la natura epico-cavalleresca, cosa ci sarà da raccontare?
«Ti dico una cosa. In verità il cunto non viene dalla tradizione epico-cavalleresca. Hanno voluto dire così perchè conveniva dire così. I cunti vengono dagli antichi greci, Omero quindi – cuntastorie per eccellenza – raccontava le storie della mitologia greca. Ora, i greci vennero in Sicilia, i francesi vennero in Sicilia, la mistura delle due tecniche fece nascere il mestiere del cuntastorie siciliano che unì le gesta dei paladini di Francia, lasciate in eredità dai francesi, con la metrica greca. I nostri avi si mettevano attorno a un fuoco, quando non esisteva la televisione, e si raccontavano le storie, le sciarre, i duelli all’arma bianca, lo stesso episodio della Baronessa di Carini è una storia delittuosa, non c’è niente di epico-cavalleresco. I cuntastorie, quindi, alla loro maniera, raccontavano fatti di cronaca. Ed è quello che stiamo facendo anche noi con Buttanissima Sicilia, raccontando l’attualità continuiamo la tradizione».
INTERVISTA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”.
Dopo un fortunato tour nel resto dell’Isola, lo spettacolo finalmente va in scena a Palermo, proprio la sede di quel “Palazzo” al centro della sua invettiva. Palermo è il punto di arrivo e contemporaneamente la tappa di partenza. La città, per la sua sensibilità, per la sua storia, soprattutto la tradizione legata al Teatro Biondo laurea questo spettacolo, e mi auguro che il pubblico possa essere partecipe così come a Caltanissetta, a Catania, a Noto, a Comiso. La cosa che più mi coinvolge è che il libro sia diventato uno spettacolo che ha persino un’esigenza, quella di trovare un genere che lo possa definire. E quindi la forma migliore è quella di essere affidata e destinata alla grandezza, alla bravura, alla perfezione che hanno voluto dare loro Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosy Enea.
Come nasce l’incontro con Salvo Piparo?
«Nasce nel solco della mia ammirazione nei confronti della sua bravura che si è saldata anche in un’amicizia. Si è poi stabilita un’elettricità virtuosa determinata anche, anzi vorrei dire soprattutto, dalla firma che noi leggiamo in locandina della regia, che è quella di Peppino Sottile, che per me è stato ed è maestro di scrittura e si conferma maestro nella drammaturgia e nella scrittura scenica. Oggi anche un idolo pop come Pif dice che l’autonomia va abolita».
Il libro è ormai diventato un manifesto controrivoluzionario, rispetto all’epopea crocettiana?
«C’è un sentimento spontaneo nell’opinione pubblica che è diventato patrimonio comune di tanti siciliani a maggior ragione, poi, di chi abitando, vivendo, soffrendo la Sicilia capisce qual è l’urgenza da risolvere. E cioè quella di poter cominciare a costruire un futuro in questa terra. Il fatto è che lui (Crocetta) non sapendo risolvere i problemi li criminalizza, e questo non è certamente il modo per potere governare. Potrebbe soltanto portare e aumentare incenso all’altare del suo ego, ma non è sicuramente questa una soluzione per la Sicilia».
Chi tocca l’antimafia si scotta. Beppe Lumia, che lei definisce “il più professionista dei professionisti dell’antimafia”, le ha risposto attaccandola in prima persona, anche associando il suo nome a quello di figure non specchiate.
«Se si riferisce alle reazioni che hanno nei confronti del mio lavoro giornalistico, come avrà notato, l’atteggiamento è presto detto, e cioè: non avendo nessun argomento per smentire ciò che scrivo, non hanno altra alternativa che quella di delegittimarmi, ed è quella di mascariare, di cercare di ridicolizzare o criminalizzare l’avversario».
L’esempio dell’Abercrombie è esilarante. Il brand americano ha due sedi in Italia: a Milano e… ad Agira. E questo perchè a Mirello Crisafulli tutti dicono I love you. E’ questa la fogna del potere?
«Quello è un esempio scelto apposta per raccontare le contraddizioni di una realtà sociale qual è quella siciliana. La definizione “fogna del potere” si riferisce poi a quell’idea di fare della Sicilia territorio, laboratorio esperimento per operazioni di trasformismo che da sempre hanno visto in Sicilia l’epicentro per sommovimenti che poi hanno coinvolto l’intero territorio nazionale».
Nel libro lei denuncia in tempi non sospetti la realtà del Cara di Mineo. Poi c’è il Muos, le trivelle, sembra che la Sicilia sia riconosciuta a livello internazionale come zona franca.
«Perchè qui trovano un facile terreno che è quello di avere dei compari disponibili ad assecondare qualunque gusto e qualunque menù».
Concludiamo con un invito allo spettacolo.
«La locandina, il titolo, i nomi degli attori in scena, la firma della regia di Peppino Sottile, già questo è un succulento invito, sono sicuro nessuno rimarrà deluso, perfino lo stesso Crocetta».
Pensa che verrà?
«Verrà di sicuro! Tra tanti inciampi e disavventure derivate dal suo essere maldestro, per fortuna conserva una qualità: è un uomo di spirito, e non potrà certo mancare a questo appuntamento».
Ascesa e declino dell'Antimafia degli affari "che non si possono rifiutare", scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York”. Un' inchiesta coinvolge la dirigenza di Confindustria Sicilia e indirettamente quei politiici antimafia che dovevano rappresentare "il nuovo" rispetto ai vecchi "comitati d'affari". Mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, conflitti d'interessi alla Regione, irregolarità sull'utilizzo dei fondi europei, privatizzazione degli aeroporti... La magistratura ultimo baluardo in difesa della legalità? Tira un’aria pesante in questi giorni lungo l’asse Palermo-Caltanissetta-Roma. Agli incroci di mafia e antimafia c’è un po’ di traffico. Un ingorgo da legalità strillata. Storie strane. E un’inchiesta su presunti fatti di mafia che coinvolge il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, considerato uno degli uomini di punta dell’antimafia e dell’antiracket. Si tratta di dichiarazioni di pentiti di Cosa nostra che lo tirano in ballo. Notizie da prendere con le pinze, ovviamente. Ma il fatto che siano venute fuori, beh, è segno che alcune ‘cose’, nell’Isola, stanno cambiando. Anche, anzi soprattutto per chi, dal 2008, di diritto o di rovescio, esercita in Sicilia un potere pieno e, adesso, un po’ controllato: il senatore del Megafono-Pd, Giuseppe Lumia. E’ lui, ormai da sette lunghi anni, l’uomo politico più potente della nuova e della ‘vecchia’ Sicilia. E’ lui il garante di tanti, forse troppi accordi in bilico tra politica, economia e chissà cos’altro ancora. A lui fa riferimento Antonello Montante, oggi sfiorato dal dubbio che dai tempi di Crispi e di Giolitti fino ai nostri giorni illumina come un’ombra sinistra tanti politici siciliani ascesi al soglio del potere. Dubbi che, nel caso dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, si sono trasformati in condanna a sette anni per mafia. Dubbi che hanno accompagnato il suo successore, Raffaele Lombardo, anche lui fulminato da una condanna di primo grado sempre per mafia (in questi giorni dovrebbe iniziare il processo di secondo grado). Ogni storia giudiziaria, ogni inchiesta dei magistrati inquirenti, si sa, è storia a sé. Ma è impossibile non vedere in questa vicenda il contesto politico in cui è maturata la svolta giudiziaria che coinvolge Montante. Proviamo a illustrarla. In politica sono importanti i segnali. E il primo segnale sinistro è arrivato circa una settimana prima del ‘siluro’ che ha colpito il presidente di Confindustria Sicilia. Ed è stata la scoperta che la Regione siciliana della quale Rosario Crocetta è il presidente - anche lui, neanche a dirlo, personaggio legato a doppio filo al senatore Lumia - non si è costituita parte civile in un procedimento giudiziario che coinvolge un funzionario regionale finito in manette per tangenti. Questa mancata costituzione di parte civile da parte della Regione, stando a indiscrezioni, potrebbe essere legata al fatto che il funzionario finito sotto processo, Gianfranco Cannova, era il responsabile del procedimento amministrativo di importanti autorizzazioni ambientali. La firma sui provvedimenti di autorizzazione non poteva essere la sua, perché si tratta, come già accennato, di un funzionario e non di un dirigente. Viene da chiedersi, a questo punto, perché hanno arrestato lui, se a firmare erano, a norma di legge, altri dirigenti. E’ in questo scenario che si inserisce la mancata costituzione di parte civile da parte del governo regionale di Crocetta. Con molta probabilità, dietro questa storia c’è un comitato di affari. E questo comitato di affari che la Regione sta cercando di proteggere non costituendosi parte civile? E’ Cannova non sa nulla di questa storia? Le domande sono più che legittime, perché quello che sta succedendo è veramente strano. In ogni caso, per il presidente Crocetta - un personaggio che, a parole, si proclama sempre antimafioso e paladino della cultura della legalità - è una pessima figura, sia nel caso in cui avesse semplicemente ‘dimenticato’ di costituirsi parte civile, sia nel caso in cui si dovesse venire a scoprire che dietro questa storia c’è un comitato di affari. La cosa strana è che gli ultimi due dirigenti che stavano sopra il funzionario regionale finito in manette non ci sono più. Il primo - Vincenzo Sansone - è andato in pensione negli stessi giorni in cui esplodeva il caso Cannova. Il secondo - Natale Zuccarelo - con parenti importanti nel mondo politico siciliano, è stato trasferito negli uffici del dipartimento regionale dei Rifiuti. Una settimana dopo lo scivolone di Crocetta (che comunque, come già accennato, non è nuovo a questo genere di stranezze, se è vero che il suo governo, in tanti, forse troppi casi, ha ignorato le regole sull’anticorruzione) è arrivata la botta a Montante. Agli osservatori non sfugge che il presidente di Confindustria Sicilia è stato chiamato a far parte dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Una struttura, inventata dalla politica italiana, della cui presenza in vita i cittadini del nostro Paese non avvertivano e non avvertono ancora oggi il bisogno. Su questo punto è bene essere chiari. Dei beni sequestrati e confiscati alla mafia si occupa già la magistratura. Ci sono state polemiche sul fatto che chi va a gestire questi beni - che di solito sono avvocati e commercialisti nominati dai magistrati - non avrebbe e competenze imprenditoriali per gestire aziende confiscate che poi, magari, falliscono. Il problema esiste. Ma non si capisce perché, a risolverlo, dovrebbero essere soggetti nominati da una politica che spesso è collusa con la mafia. Insomma, senza girarci tanto attorno, il dubbio, tutt’altro che campato in aria, è che la politica stia provando a togliere ai magistrati la gestione dei beni confiscati alla mafia. E siccome sono noti i rapporti tra mafia e politica, non è da escludere che i politici, con questo stratagemma, puntino a restituire, sottobanco, i beni confiscati ai mafiosi o ai loro eventuali prestanome. Nessuno, per carità!, vuole offendere i soggetti - Prefetti in testa - chiamati a gestire l’Agenzia per i beni confiscati o sequestrati alla mafia. Le nostre sono semplici considerazioni politiche che non coinvolgono i Prefetti. Considerazioni legate, piaccia o no, alla storia del nostro Paese. E’ un peccato di lesa maestà ricordare - lo faceva nei primi del ‘900 Gaetano Salvemini - che Giolitti, nel Sud d’Italia, esercitava il suo potere proprio con i Prefetti in combutta con i prepotenti e i mafiosi dell’epoca? E ci sono dubbi sul fatto che, in Italia, ancora una volta, l’ultimo baluardo contro un’illegalità mai doma è rappresentato dalla magistratura? Detto questo, la politica farebbe bene a sbaraccare subito questa inutile Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Quanto ai problemi legati alla mancata gestione imprenditoriale delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, beh, è sufficiente affiancare ai commercialisti e agli avvocati imprenditori o associazioni di imprese. Ma questo deve farlo la magistratura e non i politici attraverso un’inutile Agenzia controllata dalla politica! Fine delle considerazioni sull’aria pesante che oggi si respira nell’Isola? Niente affatto. I cambiamenti in corso sono ancora più profondi. Qualcuno, in Sicilia, a partire dal 1994, pensava di essere immune da qualunque controllo di legge. E, in effetti, forse in parte è stato così. Chi scrive ricorda un sindaco di Corleone di sinistra che in quegli anni affidava e rinnovava appalti a una società riconducibile a parenti stretti del boss Bernardo Provenzano. Per non parlare della storia del miliardo di vecchie lire messo a disposizione dall’Onu nel 2000. Soldi, affidati a soggetti dell’antimafia, di cui non si è saputo più nulla. Tra i personaggi che hanno sempre navigato in un’Antimafia molto discutibile c’è il già citato senatore Lumia. Che oggi non sembra più il politico irresistibile di un tempo. Qualcuno ha creduto che lui e i personaggi a lui vicini non sarebbero mai stati chiamati a rispondere del proprio operato. Forse perché ha pensato, errando di grosso, che la magistratura era assimilabile agli altri poteri dello Stato italiano, più o meno addomesticabili. Ebbene, questo qualcuno si è sbagliato. Perché sia la magistratura nel suo complesso (con riferimento, come vedremo, anche al Tar, sigla che sta per Tribunale amministrativo regionale della Sicilia), sia la Corte dei Conti stanno rispondendo ai prepotenti, ai furbi e anche ai mafiosi, vecchi e nuovi con un solo linguaggio: quello della legalità. La vicenda che oggi coinvolge Montante - vicenda, lo ribadiamo, legata a dichiarazioni di pentiti ancora tutte da verificare - arriva da lontano e, con molta probabilità, è destinata ad andare lontano. Toccando tutti i gangli del sistema di potere che dal 2008 tiene in pugno la Sicilia. Chi scrive, già nei primi mesi dello scorso anno, sul quotidiano on line LinkSicilia, segnalava, ad esempio, lo strano caso di Patrizia Monterosso, segretario generale della presidenza della Regione (in pratica, il più alto burocrate della Regione siciliana che, lo ricordiamo, in virtù della propria Autonomia, potrebbe essere assimilato a uno Stato americano se la stessa Autonomia venisse applicata correttamente: cosa che non avviene), e di suo marito, l’avvocato Claudio Alongi. Con la prima che si pronunciava su un incarico del marito presso la stessa amministrazione regionale! E con il secondo che forniva pareri legali alla moglie per fatti che riguardano la stessa amministrazione regionale! Entrambi in palese conflitto di interessi. Quando abbiamo scritto queste cose ci hanno quasi presi per matti. Non ci credevano. Ma oggi questa vicenda è diventata di dominio pubblico. E, con molta probabilità, è al vaglio delle autorità competenti. Superfluo aggiungere che anche la Monterosso fa parte del sistema di potere del senatore Lumia. Il senatore Lumia - che è il vero presidente ombra della Regione siciliana, in quanto inventore della candidatura di Crocetta insieme con i geni dell’Udc, formazione politica in via di decomposizione politica - comincia a perdere colpi. Ben prima del ‘siluro’ che in questi giorni ha centrato Montante, lo stesso segretario generale della presidenza della Regione, la già citata Patrizia Monterosso, è stata condannata dalla Corte dei Conti al pagamento di oltre un milione di euro per fatti riguardanti il settore della formazione professionale. Un altro ‘pezzo’ importante del sistema di potere di Lumia - la dirigente generale del dipartimento Lavoro della Regione, Anna Rosa Corsello - è stata di recente ‘bastonata’ dal Tar Sicilia, che ha dichiarato nullo un atto amministrativo da lei confezionato (si tratta del decreto di accreditamento degli enti di formazione, atto che avrebbe dovuto essere firmato dal presidente della Regione e che, invece, è stato firmato dall’ex assessore regionale, Nelli Scilabra). Il decreto dichiarato nullo dal Tar Sicilia potrebbe avere effetti dirompenti, perché sui soldi già spesi sulla base di un decreto nullo la Corte dei Conti dovrebbe avviare un’azione di responsabilità a carico dei protagonisti di questa incredibile storia (parliamo di milioni di euro). Non solo. Sembra che, adesso, anche l’Unione europea si stia svegliando. Fino ad oggi Bruxelles, sulla formazione professionale, ha fatto finta di non vedere violazioni incredibili. I burocrati legati all’attuale governo regionale hanno bloccato l’assegnazione di fondi europei per rivalersi su errori commessi nell’erogazione di fondi pubblici. Solo che i fondi erogati irregolarmente erano regionali, mentre quelli con i quali la Regione ha provato a rivalersi erano europei. Due tipologie di fondi pubblici non sovrapponibili. Morale: la Regione non avrebbe dovuto bloccare l’erogazione di fondi europei per recuperare fondi regionali erogati illegittimamente. Ma c’è, nella gestione della formazione professionale siciliana, un’irregolarità che sta ancora più a monte. Una storia molto più grave che Bruxelles non ha ancora sanzionato. I fondi europei, per definizione, sono ‘addizionali’: si debbono, cioè, sommare ai fondi nazionali e regionali. La Regione siciliana, invece, dal 2012, utilizza i fondi europei sostituendoli totalmente ai fondi regionali. E questo non si può fare. Non a caso è in corso una class action da parte del mondo della formazione professionale siciliana contro la Regione che, ormai da quattro anni, non si dota del Piano formativo regionale della formazione professionale con fondi regionali, finanziando tutto con le risorse del Fondo sociale europeo. Cosa, questa, che non si dovrebbe fare perché a vietarlo è la stessa Unione europea che, fino ad oggi, violando leggi e regolamenti che essa stessa si è data, fa finta di non vedere tutto quello che succede in Sicilia in questo settore, rendendosi complice di un’irregolarità ai danni di se stessa. Tutto questo vale per il passato e per il presente. Ma il siluro che ha colpito Montante e il sistema di potere del senatore Lumia riguarda anche il futuro. E’ noto a tutti che, guarda caso in questi giorni, si è aperta la caccia alle tre società che gestiscono gli aeroporti siciliani. Sono la Sac, che gestisce gli aeroporti di Catania Fontanarossa e Comiso; la Gesap, che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo; e l’Airgest, che gestisce l’aeroporto ‘Vincenzo Florio’ di Trapani. Per motivi misteriosi queste tre società - fino ad oggi controllate da soggetti pubblici - dovrebbero essere privatizzate. Si tratta di società che, se gestite con oculatezza, potrebbero dare utili e ricchezza alla collettività. Ma siccome siamo in Italia questa ricchezza se la debbono incamerare i privati. A questo sembra che punti il governo Renzi che, non a caso, su questi e su altri argomenti è perfettamente in linea con Berlusconi, alla faccia della sinistra che lo stesso Pd di Renzi dice di rappresentare! L’affare più grosso è rappresentato dall’aeroporto di Catania, il più importante della Sicilia, destinato a diventare un hub. Non a caso su questo aeroporto si è già gettato come un falco Ivan Lo Bello, altro esponente di Confindustria Sicilia vicino a Montante. Chi prenderà il controllo della Sac - società per azioni oggi controllata dalle Camere di Commercio di Catania, Siracusa e Ragusa, dall’Istituto regionale per le attività produttive e dalle Province di Catania e Siracusa - assumerà pure la gestione dell’aeroporto di Comiso, snodo aeroportuale importante per il flusso turistico verso il Barocco di Noto, Siracusa e Ragusa e per il trasporto cargo di tutta l’ortofrutta prodotta nelle serre che, dal Ragusano, arrivano fino a Gela e Licata. Un po’ meno importanti - ma non per questo da tralasciare - gli aeroporti di Palermo e Trapani. Nella Gesap - società che, come ricordato, gestisce l’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’ - troviamo la Provincia di Palermo come socio di maggioranza, poi il Comune e la Camera di Commercio, sempre di Palermo. Mentre l’Airgest fa capo per il 49 per cento alla Provincia di Trapani, per il 2 per cento alla Camera di Commercio, sempre di Trapani, e per il restante 49 per cento a un gruppo di privati. Non sfugge agli osservatori che Montante, oltre che presiedere la Camera di Commercio di Caltanissetta, è presidente dell’Unioncamere, cioè dell’Unione delle Camere di Commercio della Sicilia. E le Camere di Commercio, in tutt’e tre le eventuali privatizzazioni delle società aeroportuali, giocheranno un ruolo centrale. Lo stesso discorso vale per le Province siciliane, tutte commissariate e gestite dalla stessa Regione, cioè dall’accoppiata Lumia-Crocetta…Insomma, i conti tornano. O meglio, cominciano a non tornare per Lumia, per Montante e per Crocetta. Tre personaggi che hanno fatto fortuna utilizzando l’antimafia come trampolino di lancio per la politica (e per gli affari). Ma adesso tutto questo mondo sembra in difficoltà. Una caduta che non sembra risparmiare nemmeno il numero due di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro, titolare della più grande discarica della Sicilia in quel di Siculiana, in provincia di Agrigento. Sotto scacco - non a caso sempre da parte della magistratura - è finita tutta la gestione dei rifiuti in Sicilia imperniata ancora sulle discariche. Una follia tutta siciliana che inquina l’ambiente. Va ricordato che quasi tutte le discariche siciliane non sono a norma di legge. Nelle discariche non possono essere sotterrati i residui organici, cioè il cosiddetto ‘umido’ che andrebbe lavorato a parte. Invece in quasi tutte le discariche siciliane i camion pieni di immondizia entrano, scaricano e vanno via. Ma questo non si può fare, la legge non lo consente. E invece si fa. Ma adesso la festa sembra finita. Non va meglio per la gestione dell’acqua. Tutti in Sicilia sanno che, in due anni e oltre di legislatura, il Parlamento siciliano, di fatto, ha bloccato il disegno di legge d’iniziativa popolare per il ritorno alla gestione dell’acqua pubblica. La mafia, in Sicilia, è sempre stata contro l’acqua pubblica. Era così ai tempi di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Ed è così anche oggi che la mafia opera da Bruxelles, imponendo i proventi delle attività criminali nel calcolo del Pil dei Paesi dell’Unione europea. La mafia non vuole il ritorno all’acqua pubblica. E la politica siciliana si sta adeguando alle ‘richieste della mafia che, come insegna ‘Il Padrino’, in genere, non si possono rifiutare. Questo spiega perché, proprio mentre scriviamo, mezza Regione siciliana è mobilitata a bloccare i tentativi di alcuni Sindaci dell’Agrigentino di gestire l’acqua nell’interesse dei cittadini. Un esempio intollerabile…Insomma, tutto il mondo che gira attorno a Lumia, Montante, Catanzaro, Lo Bello e Crocetta - che è un mondo di politica legata agli affari, dall’agenzia dei beni confiscati alla mafia alla gestione della burocrazia, dalle società aeroportuali ai rifiuti, fino all’acqua - in un modo o nell’altro non sembra più in sintonia con una certa idea di antimafia. La Giustizia da una parte e i grandi interessi che si scontrano, dall’altra parte, stanno disegnando in Sicilia nuovi scenari.
Palermo, un politico ambasciatore dei padrini. 14 commercianti denunciano il pizzo, 27 arresti. In manette il consigliere comunale Giuseppe Faraone, è accusato di concorso in tentata estorsione: per conto dei boss avrebbe chiesto soldi a un imprenditore. Alle ultime regionali in Sicilia era stato candidato nella lista del governatore Crocetta, risultò il primo dei non eletti. All'alba, il blitz di carabinieri, squadra mobile e nucleo speciale di polizia valutaria. Il procuratore Lo Voi: "Agli estorti dico, non avete futuro", scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” In campagna elettorale Giuseppe "Pino" Faraone si definiva un "paladino della legalità" e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: "Amo Palermo". Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D'Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, che hanno fotografato il politico mentre bacia il mafioso, davanti a un bar di viale Strasburgo. Eccola, l'ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un'imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l'insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E' un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent'anni è passato dall'Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Faraone aderisce proprio al gruppo del Megafono. Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le dichiarazioni fatte alle forze dell'ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all'evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c'era anche l'insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della "mesata", ma anche assunzioni. Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia. Il procuratore capo Franco Lo Voi dice in conferenza stampa: "Il contributo delle vittime, sostenute anche da Addiopizzo, è stato fondamentale per questa indagine. Agli uomini che ancora pretendono le estorsioni voglio dire che non hanno molta strada davanti a loro, non hanno futuro. E questo sia grazie alle collaborazioni sempre più numerose delle vittime, sia grazie alle indagini". Il sindaco Orlando annunciato invece la costituzione di parte civile nel processo. La denuncia. "Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all'interno dell'amministrazione comunale". Inizia così il drammatico racconto dell'imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: "E' Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l'ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva". Iniziarono giorni terribili per l'imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, "perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto", disse all'imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: "Rivolgiti agli amici". Fino a quando l'imprenditore decise di affrontare Faraone: "Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda. Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò".
Giuseppe Faraone Arrestato, il consigliere che nessuno vuole: Rosario Crocetta lo scarica e Matteo Salvini non lo riconosce, scrive Gabriella Cerami, L'Huffington Post. La storia è quella di sempre: nessuno sa. Tutti si affrettano a scaricare l’accusato, anzi, in questo caso l’arrestato. Giuseppe Faraone, il consigliere comunale di Palermo finito in carcere con l’accusa di tentata estorsione, viene rinnegato da chiunque. Soprattutto dal presidente siciliano, Rosario Crocetta, che eppure lo aveva candidato alle Regionali del 2012 nella lista il Megafono, movimento che fa capo proprio al governatore. La prima reazione di Crocetta è la seguente: “Hanno fatto bene ad arrestarlo. Se ha lasciato il Megafono vuol dire che non si trovava bene. Mi risulta che aveva aderito alla Lega Nord, così Salvini impara a non utilizzare la Lega come un taxi”. In realtà, non c’è traccia dell’addio di Faraone al Megafono, anzi ancora oggi risulta essere il presidente del gruppo consiliare del comune di Palermo “Megafono-Noi con Salvini”. Dal canto suo il segretario della Lega Nord prende le distanze dicendo di non aver mai conosciuto Faraone, che fa capo al Megafono, mentre il consigliere di Noi con Salvini a Palermo è Giorgio Calì. In sostanza, i due hanno creato un gruppo consiliare unico pur mantenendo il proprio riferimento politico. Per capire la vicenda occorre fare un passo indietro. Faraone entra nel maggio del 2012 nel Consiglio comunale del capoluogo di Regione con la lista “Amo Palermo” e aderisce al gruppo Misto. Nell’ottobre dello stesso anno si candida alle elezioni regionali nella lista il Megafono e risulta il primo dei non eletti. Ma dopo l’esperienza di questa campagna elettorale lascia il gruppo Misto per creare, nell’aprile del 2013, il gruppo consiliare “Megafono-Centro democratico”. Per formare un gruppo occorre essere almeno in due. Il collega di Faraone è Giorgio Calì, eletto con Italia dei Valori e poi passato a Centro democratico. La storia politica di Calì è caratterizzata da diversi cambi di casacca. Dal Centro democratico, nell’aprile del 2014, passa al Dpr (con annesso cambio di nome del gruppo consiliare che ora diventa “Megafono-Dpr”). Alla fine Calì approda alla Lega Nord e annuncia, in conferenza stampa, la sua adesione al movimento di Salvini. A questo punto il 22 gennaio scorso il gruppo consiliare si trasforma in “Megafono-Noi con Salvini”. Alla luce dell’arresto di Faraone, l’associazione del suo nome alla Lega Nord è immediata. Tanto che Salvini annuncia querele “a pioggia”: “Specifico – dice - che non lo conosco, non so chi sia, non fa parte di NcS. Il problema Faraone è tutto di Crocetta”. Ma ecco la replica del governatore della Sicilia, nel gioco dello scarica barile: “Ci sono una serie di personaggi che si vogliono riciclare, Salvini in Sicilia deve stare attento, rischia di imbarcare criminali". E poi ancora: “Faraone non è mai stato autorizzato a utilizzare il nome e il simbolo del megafono”. Fatto sta il simbolo che appare sul sito del comune di Palermo non lascia spazio a equivoci. Così, in tutta questa vicenda, a tanti è rimasto un dubbio: come mai il presidente della Regione non si era accorto che proprio a Palermo, capoluogo di Regione, c’era un gruppo con il simbolo del suo movimento? Adesso Crocetta garantisce che “sta mettendo ordine, istituendo segreterie territoriali e provinciali. Abbiamo cominciato in alcune zone della Sicilia, dobbiamo farlo al più presto anche a Palermo”. I dubbi rimangono. E la Lega Nord era a conoscenza del fatto che un suo consigliere avesse come alleato un esponente del Megafono di Crocetta? “Assolutamente no”, dice il deputato Angelo Attaguile, catanese e uomo del Carroccio che sta organizzando la Lega in Sicilia. “Calì è stato superficiale e noi davamo per scontato che facesse parte del gruppo Misto. Questa mattina l’ho richiamato dicendogli di passare subito al Misto. Faraone invece non so chi sia, non lo conosco e non è mai venuto alle nostre riunioni. Di Calì posso assicurare che è una persona perbene perché ho verificato il suo curriculum”. Alla fine della storia, nel tira e molla tutto politico all'indomani dello sbarco della Lega Nord in Sicilia, ciò che rimane è il simbolo che mette insieme il "Megafono" di Crocetta e il logo "Noi con Salvini", e dunque Faraone e Calì, che dall'aprile 2013 fanno parte dello stesso gruppo in consiglio comunale.
Pif: un selfie antimafia li seppellirà? Scrive Antonio Roccuzzo su “Il Fatto Quotidiano”. Antimafia da selfie? Sì. E poi, in fondo, perché no, se il fine giustifica il mezzo? Postando su Twitter il suo video alla lapide di via Libertà che a Palermo ricorda l’uccisione di Piersanti Mattarella, nel giorno dell’elezione al Quirinale del fratello Sergio, forse quel tardo-post-sessantottino di Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) avrà ricordato la vecchia frase di Michail Bakunin: “Sarà una risata a seppellirvi”. A seppellire almeno un altro pezzettino di consenso ai mafiosi. Lui, Pif, inquieta e – il suo film La mafia uccide solo d’estate cos’è se non questo? – cerca di resuscitare con un sorriso la memoria di fatti tragici che il nostro Paese ha smarrito e non coltiva come si deve. Pur avendo segnato la vita quotidiana di un sacco di gente, anche della gente indifferente. E allora che selfie sia, anche a chi non piace lo strumento di comunicazione renziana per eccellenza. Un selfie non vi seppellirà, ma almeno vi farà pensare. L’amarissimo paradosso e il provocatorio “cazzeggio” di quel selfie da cantastorie antimafia è il seguente: bisogna avere un fratello eletto al Colle, per essere ricordato da tutti come un eroe antimafia! Deve aver pensato questo Pif che è mediaticamente dovunque ma in questo caso apre una sua parentesi (tra uno spot e l’altro, tra una comparsata e un – meritato – premio) per far passare messaggi. E in questo caso qual è il messaggio? “Caro dottor Mattarella (Piersanti, ndr) ho il sospetto che il prossimo 6 gennaio ci sarà un po’ più di gente a ricordarla”, dice il nostro sovraesposto testimonial dell’antimafia che sorride. E poi chissà perché l’idea antimafia deve essere sempre accoppiata soltanto al pianto. Perché? Io un po’ di memoria sicula la custodisco e nei primi movimenti di studenti palermitani negli anni Ottanta ho visto un sacco di sorrisi, speranze, parole dolci. Per esempio tra i ragazzi in corteo a Ciaculli, 1983, quartiere occupato dal boss Michele Greco. Io c’ero e l’aria era di una passeggiata festosa al di là di una porta che nessuno aveva mai aperto: un “cazzeggio” di ragazzi che trasgredivano una regola, quella del non parlare, non gridare, non sorridere. Ricordo il sorriso di Giovanni Falcone, davanti alla notizia di quel corteo variopinto che aveva illuminato quelle strade buie di Palermo. Allora, negli anni Ottanta, non c’erano cellulari e selfie non se ne facevano. La lotta alla mafia, 35 anni dopo, si fa anche così, con un sorriso e l’amarezza di chi ricorda – Pif la cita senza dirla – la frase di Bertold Brecht da Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E per contrasto beato il Paese che di eroi può fare a meno. Non è purtroppo il caso del nostro Paese, perché – per esempio a Palermo – di lapidi simili a quella del selfie di Pif è disseminato quasi ogni incrocio. Ho iniziato a fare il cronista in Sicilia proprio in quel lontano 1980, quando a Palermo la mafia uccideva chiunque e in tutte le stagioni: Piersanti Mattarella (presidente della Regione, 6 gennaio), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri, 4 maggio), Gaetano Costa (procuratore della Repubblica, 6 agosto) e la guerra di mafia mieteva cento-centoventi picciotti morti ammazzati all’anno e negli anni prima e dopo altri omicidi e altre lapidi da selfie antimafia. E allora, alzino onestamente la mano quanti – tra le persone comuni ma anche tra i 1.009 grandi elettori di Sergio Mattarella – ricordano quei lontani eventi. Quel banale e sgangherato selfie di Pif non riesumerà la memoria, ma già aiuta a seppellire la nostra cattiva coscienza.
3 marzo 2015. Predica contro il pizzo, arrestato per estorsione. Il presidente della Camera di Commercio di Palermo, che spesso si era vantato di essere dalla parte della legalità, è stato colto in flagrante dai carabinieri mentre riscuoteva il denaro che aveva preteso in cambio di "un favore", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Negli ultimi dieci anni il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, ha firmato protocolli di legalità per contrastare - sulla carta - le estorsioni; ha pure stretto accordi – sempre sulla carta - per sostenere legalmente ed economicamente le vittime del pizzo che decidono di denunciare gli esattori del racket ed è stato sempre pronto a fare dichiarazioni puntuali alla stampa, con frasi ad effetto in cui diceva di condannare chi si piegava al ricatto della mafia. Tutto questo è accaduto a Palermo dove Roberto Helg, con un passato travagliato fra dichiarazioni di pentiti che lo citavano, è diventato il leader dei Commercianti, prima in Confcommercio e poi alla Camera di Commercio, e ha continuato a rappresentarli anche dopo che la sua azienda è fallita. “La royalty... dal 7 noi passiamo al 10... quindi tu hai un risparmio... (...) Ne paghi 110 di aumento, dal 7 al 10... Cento sono quelli che dobbiamo dare... Tu hai un risparmio di 104 mila 440... E sei dentro, al dieci”. “Quindi praticamente quello che dovrei dare io in più sono questi centomila euro... ”. “Di cui io ho ottenuto anche 50 lunedì, prima del consiglio... Gli altri, 10 mila al mese. Ho detto che ne rispondo io, mi farà un assegno e m’u tegnu sarbatu...”. Ecco i dialoghi tra Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo arrestato mentre intascava una tangente, e Santi Palazzolo, titolare delle omonime pasticcerie di Cinisi e dell’aeroporto di Punta Raisi, che ha denunciato l’estorsione che gli avrebbe permesso un risparmio sui canoni di affitto degli spazi in aeroporto. Il dialogo tra i due è stato interrotto dai carabinieri, che hanno arrestato Helg. A leggere la rassegna stampa degli ultimi anni Helg viene disegnato come un paladino della legalità che sprona i propri associati a denunciare. I palermitani nascondono sempre delle sorprese. Anche in quelle giornate che sembrano uguali alle altre. Non è sempre come appare. Come ieri pomeriggio quando nella stanza super accogliente del presidente della Camera di Commercio si consuma un'estorsione. E si scopre che la vittima non è il presidente, bensì un ristoratore, a cui Helg che lo aveva convocato aveva imposto il pagamento di centomila euro per ottenere la proroga di affitto di uno spazio commerciale all'aeroporto di Palermo dove lo stesso Helg è vice presidente. Basta dunque un pomeriggio come quello di ieri, in cui viene fuori un mondo ribaltato, come pure la coscienza del povero ristoratore che per continuare a lavorare è costretto a versare una somma di denaro, come se fosse un pizzo, e a chiederglielo non è un mafioso, bensì il presidente della Camera di Commercio. L'uomo non ci sta a questa richiesta e si rivolge ai carabinieri, denuncia come spesso lo stesso Helg aveva invitato a fare, e i militari predispongono un servizio di appostamento e mettono addosso alla vittima una microspia per registrare la conversazione. Tutto è pronto. Scatta l'operazione che viene coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia. Ecco la scena: tutto si svolge poco prima delle ore 17 di martedì 2 marzo. Il ristoratore come da appuntamento preso con Helg si presenta nel grande edificio della Camera di Commercio di Palermo che si affaccia sul porto. Raggiunge l'ufficio e il leader dei commercianti lo accoglie sulla porta. Fa accomodare il ristoratore e questo gli consegna una somma in contanti di 50 mila euro, come aveva preteso Helg e poi l'impegno da parte del commerciante della corresponsione rateale di diecimila euro al mese fino a raggiungere il residuo importo di 50 mila euro. A garanzia di questo impegno Helg pretende un assegno in bianco. Il ristoratore lascia l'ufficio e subito dopo fanno irruzione nella stanza i carabinieri che avevano ascoltato la conversazione. Sulla scrivania gli investigatori trovano una busta con trentamila euro in contanti e in una tasca della giacca di Helg c'è l'assegno in bianco. Il presidente della Camera di Commercio viene arrestato per estorsione e portato in carcere. I magistrati lo interrogano ed Helg avrebbe risposto facendo rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini. All'interrogatorio che è durato tutta la notte hanno preso parte oltre all'aggiunto Petralia anche il procuratore Francesco Lo Voi. Roberto Helg, cinque anni fa, quando era presidente di Confcommercio, ricordava Libero Grassi sostenendo che Palermo non era più quella del 1991 quando l'imprenditore venne assassinato perché si era opposto al pagamento del pizzo. E sosteneva pure che Palermo era cambiata anche nel mondo delle associazioni, e aggiungeva: «oggi posso affermare con certezza che nessun imprenditore resta solo, in quanto tutte le associazioni si impegnano nell'invitare i propri associati alla denuncia». E la certezza ad Helg è arrivata praticamente ieri pomeriggio. Solo che dalla parte dell'estorsore questa volta c'è lui.
Intasca mazzetta da 100mila euro, preso presidente Camera Commercio. E lui: «L’ho fatto per bisogno». Roberto Helg, in qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, avrebbe chiesto e ottenuto la tangente per favorire l’apertura di un ristorante nello scalo siciliano. Era in prima linea nella lotta a racket e corruzione, scrive Chiara Marasca su “Il Corriere della Sera”. Una busta con 30mila euro in contanti sulla scrivania, un assegno in tasca: il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato lunedì pomeriggio mentre incassava una «mazzetta». In qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, spiega la procura in una nota, Helg avrebbe «chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100.000 euro da un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell’aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli». La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. Helg, noto imprenditore palermitano la cui storica azienda era però fallita nel 2012, era in prima linea nella lotta alla corruzione e al racket. L’accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell’impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro. Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l’assegno; sulla sua scrivania c’era anche una busta con 30mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini. «L’ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa», si sarebbe giustificato il presidente della Camera di Commercio di Palermo nel corso del lungo interrogatorio della scorsa notte. L’indagato avrebbe negato per ore tentando di giustificare la presenza dei contanti e dell’assegno dell’imprenditore. Intorno alle due di notte, sentendo che gli inquirenti erano in possesso della registrazione della sua conversazione con la vittima all’atto della consegna dei soldi, ha deciso di ammettere la richiesta della tangente sostenendo di aver avuto bisogno di denaro. È stata la vittima dell’estorsione, titolare della pasticceria Palazzolo, che ha un punto vendita all’aeroporto di Palermo, a rivolgersi ai carabinieri dopo la richiesta del denaro. Le investigazioni sono state svolte dai militari del Nucleo investigativo del reparto operativo di Palermo sotto il comando del maggiore Alberto Raucci e con il coordinamento del comandante del reparto, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale colonnello Giuseppe De Riggi. L’indagine è condotta dai pm Luca Battinieri e Geri Ferrara, del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, con il coordinamento del procuratore aggiunto Dino Petralia e la supervisione del procuratore capo Francesco Lo Voi che ha partecipato all’interrogatorio notturno di Helg, che ora si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli. Il legale di Helg, l’avvocato Fabio Lanfranca, ha chiesto alla Procura la concessione dei domiciliari per motivi di età, e per motivi di salute essendo affetto da una grave cardiopatia. Roberto Helg compirà 78 anni il prossimo 5 maggio. Dal ‘97 è presidente di Confcommercio Palermo. Nel 1976 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana, e nel 2003 quella di Cavaliere ufficiale della Repubblica e nel 2012 quella di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana. Helg navigava da tempo in cattive acque. La sua storica ditta (settore tavola, cristallerie, argenterie e arredamento), aveva chiuso nel 2012 dopo quasi quarant’anni di attività. Helg, dal 1997 anche alla guida di Confcommercio Palermo, aveva dichiarato: «Non riusciamo più ad andare avanti». E i dipendenti aspettavano lo stipendio da due anni. Roberto Helg, di recente, aveva approvato insieme alla giunta camerale di Confcommercio il piano triennale di prevenzione della corruzione. L’associazione da lui guidata, inoltre, è stata la prima in Italia ad aprire uno sportello per la legalità, per assistere gli imprenditori che denunciano usura e richieste di pizzo. Proprio la lotta al racket è stato il suo impegno negli ultimi anni: Helg è stato tra coloro i quali con un comunicato stampa nei giorni scorsi aveva espresso solidarietà ad Antonello Montante, il leader di Confindustria in Sicilia e paladino della lotta al pizzo, indagato per frequentazioni mafiose dalla Procure di Caltanissetta. Risale ad alcuni mesi fa, infine, una dura polemica tra Helg e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano, Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un’intervista al Giornale di Sicilia che il 90 per cento dei commercianti palermitani paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto “salotto buono” paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell’ordine diano a Todaro notizie così riservate». «Ho deciso di rinunciare al mandato difensivo di Roberto Helg perché lo ritengo incompatibile con il mio ruolo di legale di Confcommercio Palermo e con la scelta di assistere le vittime di estorsione che ho fatto molti anni fa». Parole dell’avvocato Fabio Lanfranca nominato difensore da Roberto Helg.
Palermo, arrestato Helg mentre intasca una tangente. Indagini sull'ipotesi di un sistema corruttivo. Il presidente della Camera di Commercio è stato fermato per estorsione: è stato denunciato dal titolare delle pasticcerie Palazzolo ed è scattata la trappola. "L'ho fatto per bisogno, ho la casa pignorata" ha detto durante la confessione. Pioggia di richieste di danni, Confcommercio lo espelle. L'avvocato rinuncia a difenderlo, scrive invece “La Repubblica”. Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato dai carabinieri di Palermo mentre intascava una tangente. Helg, personaggio assai noto in città, presidente di Confcommercio Palermo, è attualmente anche vice presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Spiegano i carabinieri che "proprio nella veste di rappresentante Gesap, Helg ha chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100 mila euro a un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell'aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli. La richiesta e la consegna del denaro ha fatto registrare la classica sequenza estorsiva consistente nella prospettazione, da parte di Helg, della difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo prezioso intervento e, da parte del commerciante, nell'adesione all'illecito pagamento" per il quale Helg "ha preteso, oltre alla consegna di una somma in contanti di 50 mila euro, l'impegno da parte del commerciante alla corresponsione rateale di 10 mila euro al mese con il contestuale rilascio, in funzione di garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco". Dalla confessioni di Helg l'indagine potrebbe allargarsi fino a rivelare un sistema corruttivo più ampio. Gli investigatori sono al lavoro. All'arrivo dei militari nella stanza di Helg, attorno alle 17 di ieri negli uffici della Camera di commercio, Helg aveva già ricevuto l'assegno, che aveva riposto nella tasca della giacca, e sulla sua scrivania era presente una busta con 30 mila euro in contanti. "Il contestuale colloquio intercettato era in termini del tutto coerenti con la vicenda estorsiva - dicono gli investigatori - Interrogato dai magistrati della Procura, a fronte di specifiche e dettagliate contestazioni, Roberto Helg ha fatto rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini". La notizia-bomba dell'arresto si è diffusa stamattina nel bel mezzo di un incontro sul lavoro femminile che si teneva proprio alla Camera di commercio di Palermo e ha colto di sorpresa i presenti, in gran parte imprenditrici o aspiranti tali. Incredulità e sgomento i sentimenti prevalenti, nessuna voglia di parlare: "Non e' il momento di fare dichiarazioni", si è limitata a dire Patrizia Di Dio, presidente nazionale di Terziario Donna Confcommercio e promotrice dell'appuntamento. Il Comune di Palermo ha annunciato che si costituirà parte civile. L'operazione conclusa ieri ha avuto inizio da una denuncia dell'imprenditore Santi Palazzolo, titolare di una storica pasticceria di Cinisi e del punto di ristorazione interno all'aeroporto di Punta Raisi, che si è rivolto ai carabinieri e ha rivelato i dettagli dell'illecita richiesta di denaro e delle sue modalità estorsive. L'imprenditore si è presentato venerdì pomeriggio dai carabinieri. L'uomo, visibilmente agitato, ha chiesto di parlare con i militari per denunciare che Helg gli avrebbe chiesto una tangente di centomila euro per il rinnovo degli affitti dei locali dell'aeroporto. "Proprio da lui, uomo della legalità non me lo aspettavo - ha detto agli inquirenti - sono esterrefatto, ecco perché sono qui". Le investigazioni sono svolte dai militari del nucleo Investigativo diretto dal maggiore Alberto Raucci, con il coordinamento del comandante del Reparto Operativo, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale, il colonnello Giuseppe De Riggi. L'indagine è condotta dal procuratore aggiunto Petralia e dai sostituti Battinieri e Ferrari. "L'ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa", ha detto Helg durante la confessione. Ieri notte, il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha partecipato personalmente all'interrogatorio di Helg nel carcere di Pagliarelli. In un primo momento Helg avrebbe tentato di negare la tangente. "Poi è stato smentito dalle sue stesse parole registrate - dice il procuratore Lo Voi - e non ha potuto che ammettere tutto". Ha spiegato agli inquirenti di avere agito "per difficoltà economiche". Helg "non si aspettava che l'imprenditore vittima della tangente lo denunciasse ai carabinieri", dice il procuratore Lo Voi. A chi gli fa notare che Helg era considerato a Palermo un paladino della legalità e dell'antimafia, il procuratore allarga le braccia e dice: "Purtroppo a Palermo succede anche questo..." Helg però non si sarebbe limitato a confessare. E avrebbe fatto rivelazioni sull'esistenza di un sistema corruttivo più ampio. L'intercettazione della sua richiesta di denaro, fatta dalle microspie dei carabinieri piazzate addosso al commerciante che ha denunciato tutto, farebbero pensare al coinvolgimento di altri personaggi. La Procura, dunque, sta cercando di capire se dietro la richiesta ci sia una sorta di organizzazione che si spartiva le tangenti incassate dai commercianti e se Helg avesse già fatto richieste estorsive ad altri. La Procura è in contatto con l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone, e non si escluderebbe un commissariamento della Gesap. I pm, inoltre, stanno facendo uno screening del patrimonio di Helg per eventuali misure di prevenzione. Per 40 anni Roberto Helg è stato titolare di negozi di articoli da regalo a Palermo, attività aperta nel 1974 e fallita nel dicembre 2012, l'anno successivo alla rielezione di Helg alla presidenza della Camera di commercio di Palermo, che guida dal 2006, nonostante il fallimento della sua attività commerciale. La sede commerciale più prestigiosa si trovava in via Ruggero Settimo, a Palermo, e chiuse nel 2000; altri negozi, compreso quello del centro Etnapolis di Belpasso, nel Catanese, chiusero negli anni successivi. L'ultimo negozio ad abbassare le saracinesche fu quello di Carini (Palermo), inaugurato nel 2008. Da paladino della legalità all'arresto per estorsione aggravata. Ecco la parabola discendente di Roberto Helg, 79 anni, sorpreso dai Carabinieri con una bustarella di 30.000 euro sul tavolo del suo ufficio avuta da un imprenditore in cambio del rinnovo dell'affitto di un locale all'aeroporto Falcone e Borsellino. La somma complessiva da pagare era di 100.000 euro. Ma chi è Helg? Non ha mai mancato un convegno sull'antimafia, si è sempre schierato con la legalità e contro il pizzo. Lo scorso dicembre, Roberto Helg, era stato al centro di una polemica con Confindustria. A fare scoppiare la miccia era stata una intervista rilasciata da delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, in cui sosteneva che che il 90% dei commercianti di Palermo "pagano il pizzo". Helg aveva duramente contestato quella dichiarazione dicendo che non era vero. quella percentuale e aveva sostenuto: "Non è vero".La causa del fallimento, spiegò Helg, stava nel drastico calo dei consumi e dai mancati incassi per vendite effettuate all'ingrosso anche all'estero, soprattutto in Tunisia. Le attività erano gestite dalla Gearr srl (50 mila euro di capitale, che aveva raggiunto un'esposizione con le banche di oltre 3,5 milioni), di cui era socio anche il fratello di Helg, Fulvio. Helg nel gennaio dello scorso anno ha approvato insieme alla giunta camerale il piano triennale di prevenzione della corruzione. La Camera di commercio, infatti, "ai sensi del proprio Statuto promuove la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Nella struttura camerale, che ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione nel gennaio 2014, esiste anche lo sportello legalità al fine "di avviare una propria concreta iniziativa nel settore della prevenzione all'usura e dei fenomeni estorsivi, in stretta collaborazione con la Prefettura di Palermo con la quale ha sottoscritto un Protocollo di Intesa per attuare una più stretta sinergia di intervento nella tutela degli imprenditori della provincia". "Ciò - è scritto nel sito della Camera di commercio - ha consentito di avviare la realizzazione di un'importante 'rete di partenariato' con soggetti pubblici e privati di provata esperienza ed impegno su queste tematiche , che ci consente di fornire gratuitamente assistenza quotidiana agli imprenditori della provincia di Palermo, che versano in gravi condizioni economiche e quindi a rischio usura, o già vittime di fenomeni usurari o estorsivi". "Appresa dalla stampa la notizia dell'arresto del presidente Roberto Helg, la Confcommercio di Palermo ha convocato d'urgenza la Giunta Esecutiva per assumere gli eventuali necessari provvedimenti", si legge in una nota dell'associazione. Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto di Palermo, ha convocato per oggi alle 16,30 una conferenza stampa presso l'hotel Borsa. Il consiglio di amministrazione della società si riunirà alle 15. Il Comune di Palermo, Confcommercio, la Gesap e la Camera di commercio hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esprime "appezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, per questo ennesimo contributo all'affermazione della legalità nella nostra città" e annuncia di avere dato mandato all'avvocatura comunale per la costituzione di parte civile "ove ciò dovesse essere processualmente possibile". Anche Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Punta Raisi, annuncia che la Gesap si costituirà parte civile e che ha consegnato copia del verbale del consiglio di amministrazione della Gesap all'autorità giudiziaria: "La società non può subire questa esposizione, abbiamo revocato le funzioni e la carica di Roberto Helg e convocato l'assemblea dei soci per il 12 marzo per nominare il successore". Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione ricorda: "Fece un intervento particolarmente appassionato contro la corruzione". E continua: "ferma restando la presunzione di innocenza, è evidente come in questo mondo ci sia tanta ipocrisia e questa fa molti più danni, rispetto alla stessa corruzione. Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole". Il gruppo dirigente di Confcommercio ha deciso di applicare la sanzione estrema, l'espulsione. A comunicarlo oggi pomeriggio, nella sede di via Emerico Amari, i quattro vice presidenti di Confcommercio di Palermo, Antonello Di Liberto, Patrizia Di Dio, Luigi Genuardi, Rosanna Montalto, e il direttore Vincenzo Costa. "Esprimiamo coralmente solidarietà e vicinanza all'imprenditore anch'egli dirigente di Confcommercio Palermo, che ha denunciato i gravi fatti - si legge nella nota diffusa alla stamp a- abbiamo deciso di applicare la massima sanzione prevista dalla Statuto, ovvero l'espulsione nei confronti di Helg. La Confcommercio, nel confermare il suo impegno per la legalità, si costituirà parte civile nel processo e il gruppo dirigente di Confcommercio Palermo esprime apprezzamento per il lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell'ordine". Nella sala dove si è tenuta la conferenza stampa ci sono ancora le foto di Helg con l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso e i codici etici di legalità siglati da Concommercio. "Non è una giornata felice per Confcommercio -ha detto Genuardi- ma riteniamo che abbiamo fatto quello che andava fatto. Riteniamo che questi sono fatti straordinari e la Confcommercio conferma il suo percorso per la legalità e non si fermerà davanti a questo brutto episodio. L'importante -ha concluso- è la risposta che sapremo dare". Il difensore di Roberto Helg, l'avvocato Fabio Lanfranca, ha rinunciato al suo incarico "per ragioni di incompatibilità". Lo stesso legale è anche il difensore di Confcommercio. "Sono fuori Palermo - dice Lanfranca - e sto apprendendo, ora dopo ora, sempre nuovi particolari sullal vicenda. Purtroppo ci sono profili di incompatibilità. Ho appreso anche della sua ammissione. E io sono legale dell'associazione dei commercianti. non posso accettare. Io assisto le vittime degli estorsori, non posso difendere Helg".
Pizzo in città, quando Helg polemizzò con i dati diffusi da Confindustria. Giuseppe Todaro, aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia, che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo, scrive “Il Corriere della Sera”. Risale a poco dopo Natale la polemica che vide contrapposti il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, arrestato ieri per tangenti, e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Non mi è chiaro se chi l'ha intervistato abbia capito bene quanto da lui detto. Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto "salotto buono" paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell'ordine diano a Todaro notizie così riservate». Sulla questione era intervenuto il Comitato di redazione del Giornale di Sicilia, che aveva parlato di «assolute anomalie» contenute nelle dichiarazioni di Helg, prima delle quali «la smentita di un'intervista non rilasciata da lui. È la prima volta che accade in 200 anni di giornalismo. Seconda anomalia, Helg ha chiuso le sue attività per fallimento, continuando a rappresentare gli altri imprenditori che invece le mantengono in vita. Non ci risultano altri casi simili». Helg, sempre in quella circostanza, aveva spiegato: «Da anni sostengo che la lotta al racket vada fatta tutti insieme e non una associazione contro un'altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti. I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all'amico Giuseppe Todaro di smentire quanto riportato a suo nome dall'articolo o di rilasciare altra intervista con l'elenco dei nomi di tutti i commercianti che continuano a pagare il pizzo nella zona bene di Palermo, negandolo poi alle Forze dell'ordine. Se l'amico Todaro ci darà i nomi che dice di conoscere, agiremo di conseguenza come facciamo da anni: contattando l'imprenditore per convincerlo a collaborare con le forze dell'ordine e, in caso di un suo rifiuto, sospendendolo dall'associazione, com'è ormai prassi consolidata».
I due volti di Helg, l'uomo per tutte le stagioni che diceva: "Qui non si paga il pizzo". Il presidente della Camera di commercio arrestato ieri è un esponente di spicco, assieme a Montante, di Unioncamere Sicilia cui Crocetta ha affidato un appalto da due milioni per l'Expo, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica” Il primo problema, adesso, se lo porrà il governatore Rosario Crocetta. Che ha assegnato con affidamento diretto un appalto da due milioni di euro per l'Expo a un'associazione, Unioncamere Sicilia, i cui vertici sono stati stati investiti da inchieste giudiziarie: il presidente Antonello Montante è indagato per mafia e un autorevole membro della giunta, Roberto Helg, è appena finito in carcere per tangenti. E' solo uno dei risvolti dell'operazione che ha portato all'arresto di Helg, commerciante del settore degli articoli da regalo e influentissimo attore della vita amministrativa e politica della città. Helg, 78 anni, Cavaliere del lavoro dal 1976 e più recentemente insignito del titolo di commendatore, è un collezionista di cariche che ha ricoperto incarichi di punta in tutte le stagioni politiche palermitane. E' presidente della Camera di commercio dal 2006 e il suo secondo mandato scade l'anno prossimo. E' stato presidente di Confcommercio Sicilia dal 2006 al 2008, dopo essere stato per nove anni il vice di Sergio Billè. Oggi continua a guidare Confcommercio Palermo. Un uomo per tutte le stagioni, vicino a Forza Italia al tempo della giunta Cammarata e non distante oggi a una parte del Pd "di governo". Uno dei più potenti rappresentanti del mondo produttivo siciliano, con un'anomalia sullo sfondo: l'attività imprenditoriale di Helg è fallita nel 2012. Considerato un paladino della legalità, il presidente della Camera di commercio palermitana non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. La giunta camerale da lui guidata, nel gennaio 2014, ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione. Con l'obiettivo di "promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Il 27 dicembre scorso, nel rispondere piccato al delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, Helg aveva detto: "Smentisco categoricamente che il 90 per cento dei commercianti del centro della città paghi il pizzo". Oggi che lo stesso Helg è stato colto in flagrante mentre intascava una mazzetta, quelle parole suonano decisamente beffarde.
Il grande inganno dell'antimafia siciliana: così l'eroe della legalità mette le mani sull'Expo. Montante, indagato assieme all'ex governatore Lombardo, condannato, sono i creatori di Caltanissetta "zona franca" anti-pizzo. Tra collusioni e fiumi di soldi, tutti i paradossi di un'impostura politica dietro la dittatura degli affari, scrivono Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria su su “La Repubblica”. Lo sapevate che esiste una "zona franca della legalità" dove ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d'Italia? E lo sapevate che l'hanno fortemente voluta un governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell'impostura siciliana. Nella città dove è iniziata l'irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell'isola, consigliere per Banca d'Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un'indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove commistioni - e in alcuni casi connivenze - fra imprese e politica, impresa e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l'aria e fatto calare una cappa irrespirabile sulla città. In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una "legalità" costruita a tavolino e un'"antimafia padronale" che copre operazioni politiche opache e favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la "rivolta degli imprenditori" del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia hanno snaturato l'iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto. La "zona franca" l'ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l'unico "partito" che nel governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante. Quando governatore era Raffaele Lombardo - il 2 maggio del 2012 - fu istituita con un atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come "zona franca della legalità". L'obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che "si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata". Previsione di spesa: 50 milioni di euro. Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su richiesta di chi - Montante - è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per legami con le "famiglie". Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il paradosso. La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l'Irsap, l'istituto che gestisce le aree industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani sull'Expo. Pochi giorni fa, l'assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l'inchiesta per concorso esterno, a decidere quali "eccellenze" siciliane del settore agro-alimentare dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell'isola. Materia d'indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele Cantone, il presidente dell'Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso, ha annunciato che su Expo è stato avviato "il più grande controllo antimafia di tutti i tempi". Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l'ha fatto La Sicilia in un lungo articolo) la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta dall'Università "La Sapienza" all'imprenditore. L'ateneo ha smentito il giorno dopo. Era falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un "sostegno" a mezzi d'informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce "azione di marketing territoriale". Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato un'intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che manifestava perplessità sull'opportunità che Montante - sott'inchiesta - mantenesse le sue cariche. L'intervista è sparita nella notte "dopo devastanti pressioni". Un altro clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni - 1.300 euro al mese - che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati, che hanno spinto l'Ordine dei giornalisti ad aprire un'indagine conoscitiva. Oltre ad Antonello Montante, c'è un altro campione dell'antimafia a Caltanissetta. Si chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un'indagine sui "pizzini" di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi (un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in un'operazione antimafia dove il fratello Vincenzo - secondo il giudizio dei magistrati - l'avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni "per preservarlo da possibili negative conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario". Il doppio volto di Caltanissetta zona franca per la legalità. C'è promiscuità fra investigatori e magistrati e l'indagato di mafia Montante. A Roma e in Sicilia. A Caltanissetta - visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l'ha designato anche all'Agenzia dei beni confiscati - Antonello Montante è riuscito, il 21 ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell'Interno il comitato nazionale per l'ordine pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte dell'antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c'è una vicinanza molesta fra imprenditori e rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano allegramente nell'ambiente "antimafioso", c'è una prossimità imbarazzante con molte toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell'Associazione nazionale magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi "a una ineludibile concreta distanza da centri di potere economici ". Più chiaro di così.
Montante, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina. L'imprenditore pro-legalità Antonello Montante è oggetto delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma tanto basta a massacrarlo sulle pagine di alcuni giornali, scrive Filippo Astone su “Affari Italiani”. Antonello Montante rappresenta l'Enzo Tortora del terzo millennio? Per fortuna no. Almeno per il momento. Dando seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, Tortora venne processato e condannato in alcuni gradi di giudizio, subendo anche un linciaggio mediatico, con penne importanti (Camilla Cederna e Giorgio Bocca) che si dichiararono convinte della sua colpevolezza. Come Tortora, Montante è oggetto di dichiarazioni di un paio di pentiti, ancora tutte da riscontrare. Però non ha pendenze giudiziarie, non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia, e subisce un linciaggio mediatico solo da parte di alcuni, che sono giornalisti di calibro nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Cederna e Bocca. Tuttavia il torto subito da Montante, e il danno per le battaglie che ha condotto in questi anni, sono molto rilevanti. Enzo Tortora però non si è mai occupato di giustizia o di antimafia, ed è incappato nelle spire dei pentiti "a gettone" solo per un puro scherzo del caso. Da un nome segnato su una agenda, si è arrivati a giochi di parole, a scherzi e quindi a una tragica realtà. Tutt'altro che casuale sembra essere invece il discredito che si tenta di gettare sull'attuale presidente di Confindustria Sicilia nonché vice presidente nazionale di Confindustria con delega sulla legalità. Antonello Montante, 52 anni, nativo di Serradifalco, a pochi chilometri da Caltanissetta, con la mafia c'entra eccome. E' infatti un imprenditore che ha fatto dell'antimafia e della lotta per la legalità la sua ragione di vita, guidando insieme ad altri imprenditori meridionali di Confindustria (il suo alter ego Ivan Lo Bello, e poi Giuseppe Catanzaro, Marco Venturi, Giuseppe Todaro e tanti altri) una rivoluzione pro-legalità che ha segnato uno spartiacque storico. Con le sue battaglie, Antonello Montante ha rischiato la vita e ci ha messo la faccia, ottenendo risultati importanti: oltre 100 imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee da Confindustria per non essere espulsi; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i loro estortori (lo stesso Montante si è esposto in prima persona molte volte, per convincere alcuni colleghi a denunciare); la creazione di un "rating" per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato; la riforma delle Asi, enti clientelari che dovevano gestire gli insediamenti industriali in Sicilia e invece alimentavano solo il malaffare (al loro interno, i mafiosi avevano addirittura la faccia tosta di convocare le riunioni); e soprattutto una nuova mentalità in Confindustria, per cui la legalità, almeno in teoria, coincide con la normalità, e chi non accetta questo principio se ne deve andare. Questa nuova cultura è una rivoluzione copernicana. La Confindustria siciliana prima della rivoluzione di Montante e Lo Bello era pressappoco la stessa che non voleva espellere i mafiosi e i collusi, ma proprio Libero Grassi, che se non fosse stato ucciso era destinato a venir cacciato dall’associazione imprenditoriale. Gran parte dei vertici di quella Confindustria Sicilia (nelle sue diramazioni settoriali e territoriali) erano collusi, come dimostrato da varie inchieste giudiziarie, che li hanno condannati e in alcuni casi incarcerati. Questo è Antonello Montante. Che nella sua giornata di 24 ore trova anche il tempo di gestire due imprese, una che fa ammortizzatori ad alto contenuto tecnologico, e un'altra che produce biciclette di lusso. Le presunte "rivelazioni" dei pentiti, ancora tutte da verificare (le due inchieste di Caltanissetta e Catania, non su Montante ma sulle dichiarazioni dei pentiti nel loro complesso, hanno questo scopo) servono a delegittimarlo proprio pochi giorni dopo che il suo ingresso nel consiglio dell'Ansbc, l'Autorità nazionale dei beni sequestrati e confiscati, un colosso che gestisce qualcosa come 65 miliardi di euro di controvalore (tra cui 10.500 immobili e 1500 aziende), quasi quanto il fatturato della Fiat. Montante, unico imprenditore in un cda di prefetti e magistrati, avrebbe potuto assumere dopo poche settimane un ruolo chiave nell'Ansbc. Ma lo hanno rallentato, con la classica strategia mafiosa del "mascariare", già tentata perfino con Giovanni Falcone (vi ricordate le lettere del "Corvo"). «Mascariare» in siciliano significa tingere con il carbone. Basta un tocco e resta un segno. Quello del sospetto, ovviamente. Ma non è solo per delegittimare qualcuno che la mafia lo tinge con il carbone. Quello è solo il primo passo. Il secondo, se la delegittimazione funziona, può essere quello di porre fine alla vita del delegittimato, sperando poi che la cosa venga vista da molti non come l'eliminazione di un eroe, ma come una "vicenda tra loro". Spiace che alcuni giornalisti, sicuramente in buona fede ma traviati dalla convinzione di avere la verità in tasca (soprattutto se si deve dar contro a qualcuno, processarlo e condannarlo in quattro e quattr'otto, senza nessun aggancio alla realtà dei fatti né a quella giudiziaria) si prestino a questo gioco al massacro. Nelle ultime settimane Montante è stato rappresentato da alcuni quotidiani come se fosse indagato per mafia (e non è vero, non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, gli unici fascicoli aperti riguardano le dichiarazioni di alcuni pentiti, sulle quali la magistratura è obbligata a cercare riscontri), come se fosse un personaggio discutibile (e da chi? perchè?), come se si fosse dimesso dall'Ansbc (e invece si è solo "autosospeso", cioé per il momento non partecipa alle riunioni), come se ci fosse una presa di distanza della magistrature e delle forze dell'ordine da lui (invece la collaborazione continua). Eppure, il 24 gennaio 2015 (poco prima delle rivelazioni pentitizie a "orologeria", guarda caso) il presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario aveva detto: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». Parole simili le ebbe a dire Sergio Lari, capo di quella stessa procura di Caltanissetta oggi chiamata a far luce sulle rivelazioni di questi pentiti a proposito di Montante e di altro. L'occasione era un convegno a Chianciano Terme, nel settembre 2013. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti, che mirano a screditare chi in Sicilia combatte malaffare e mafia.Una campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione potrebbe tradursi in attentati e stragi», disse Lari. Il magistrato parlava chiaro: «Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali on line gettano sospetti e fango su chi l'antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci e altri messaggi inquietanti». Non si possono tacere neanche le dichiarazioni del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia per i beni sequestrati, alla commissione antimafia della Regione Sicilia. «Quando ero Prefetto ad Agrigento» ha spiegato Postiglione durante l'udienza, «mi dicevano: Eccellenza, siamo nella casa di Pirandello , e io dicevo che Pirandello era un dilettante a confronto. Le cose che si riescono a costruire in Sicilia possono essere estremamente articolate anche nell’architettura diffamatoria. Se c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi potrebbe farlo attraverso questi meccanismi, insomma una forma di ritorsione per la svolta confindustriale. Bisogna venirne fuori cercando di recuperare la verità. Io ripeto che non ho giudizi da esprimere, Montante lo conosco e mi è sempre sembrato una persona che lotta per la legalità». Montante viene difeso anche dalla Dna, la Direzione nazionale antimafia, che nella relazione 2014, presentata al Parlamento il 24 febbraio 2015 (cioé ben dopo l'emergere dello "scandalo"), scrive: «Nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei “colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione Confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». “In tale contesto – prosegue la Dna – sembrano iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’Irsap (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato”. E che dire dell'intercettazione ambientale di un colloquio fra due mafiosi, in un bar di San Cataldo, cittadina della provincia nissena? «Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più», si dicono i due nel colloquio, registrato nel settembre 2014. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Lo Bello: «Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine». Ma in che cosa consistono le accuse dei pentiti contro Montante? Secondo quanto emerge dalle anticipazioni giornalistiche, tra il 1999 e il 2002, Montante avrebbe pilotato alcuni appalti all'interno del consorzio Asi di Caltanissetta. La cosa stupisce, perché all'epoca l'imprenditore non aveva cariche né in Confindustria, né a livello politico, né all'interno dell'Asi. Ma contrasterebbe vieppiù con la battaglia condotta da Montante e Lo Bello (e da Alfonso Cicero, funzionario regionale che ha sempre lavorato in sintonia con loro) per la bonifica di questi consorzi. Da leggere, quello che denunciarono Montante e Lo Bello nel giugno 2014 in Commissione parlamentare antimafia. Una denuncia che è solo l'ennesima, e fa eco alle decine di azioni simili condotte in passate. Disse Lo Bello: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso». E aggiunse Montante: «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare».
Coinvolto in due inchieste per mafia, Montante lascia l'Agenzia per i beni confiscati. Il delegato per la legalità di Confindustria, presidente dell'associazione in Sicilia, si sospende dall'incarico dopo le notizie pubblicate da Repubblica delle indagini che lo riguardano a Caltanissetta e Catania, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Antonello Montante lascia la carica di consigliere dell'Agenzia per i beni confiscati ai boss. Una decisione sofferta. maturata solo nelle ultime ore, dopo un frenetico giro di consultazioni. Il presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la legalità dell'associazione di viale dell'Astronomia, si sospende dai vertici dell'Agenzia dopo le notizie, pubblicate da Repubblica, di due inchieste per mafia, a Caltanissetta e Catania, che lo vedono coinvolto. A parlare di Montante sono cinque pentiti, che raccontano di una vicinanza dell'imprenditore di Serradifalco (Caltanissetta) con esponenti di spicco delle locali "famiglie". Montante, in una nota, annuncia la sospensione dall'incarico nel direttivo dell'Agenzia presieduta dal prefetto Umberto Postiglione e di cui fa parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Negli ultimi giorni anche da ambienti confindustriali era giunta a Montante la sollecitazione a compiere questo passo: una mossa che dovrebbe servire a placare le polemiche, in attesa di sviluppi giudiziari. Scrive il leader confindustriale: "È per il profondo rispetto verso tutte le istituzioni, a partire da magistratura e forze dell’ordine, che oggi, alla luce delle notizie che ho appreso dalla stampa, seppure sconsigliato da tanti, ho deciso di autosospendermi dal consiglio direttivo dell’Agenzia". Montante mantiene gli incarichi all'interno di Confindustria: il comitato di presidenza di viale dell'Astronomia mercoledì aveva ribadito la fiducia all'imprenditore, uno dei protagonisti nell'Isola della rivolta degli industriali contro il racket: passaggio non scontato, che aveva fatto seguito al sostegno offerto il giorno prima, a Palermo, dai vertici di Confindustria Sicilia, Ance Sicilia, Piccola Industria e Giovani industriali dell'Isola. Ma la questione centrale, ogni giorno di più, era diventata la permanenza di Montante nel ruolo di consigliere dell'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. "Montante si dovrebbe dimettere? Non lo so, dipende da una sua sensibile valutazione ", aveva detto il prefetto Postiglione, pur rimanendo prudente: "Nessuno è colpevole fino a che non è condannato né è costretto a dimettersi per legge". In un silenzio sostanziale di quasi tutti i principali partiti, Sel, grillini e Rifondazione Comunista avevano auspicato un passo indietro di Montante. L'autosospensione, in particolare, era stata chiesta dal vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava. Una decisione che Montante ha preso stamattina. "Mai avrei pensato – scrive Montante – di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni. Anni durante i quali un gruppo di giovani imprenditori siciliani ha preso coraggio e ha espulso dalla propria associazione persone che avevano rivestito ruoli apicali negli organi associativi regionali e che, come hanno sottolineato alti magistrati in occasioni pubbliche, grazie al metodo mafioso e a protezioni politiche, avevano creato un sistema di potere di portata regionale se non nazionale. Anni durante i quali abbiamo accompagnato decine di colleghi alla denuncia, sostenendoli anche nelle aule di tribunale, anni in cui abbiamo sollecitato controlli antimafia preventivi, in alcuni casi mai fatti prima, e ci siamo costituiti parte civile, insieme con tutte le associazioni aderenti a Confindustria, in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata". Il presidente degli industriali siciliani parla anche dei collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa: "Le persone che vedo citate negli articoli giornalistici pubblicati in questi giorni - afferma Montante - sono state da noi tutte denunciate e messe alla porta, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese. Lo abbiamo fatto subendo minacce gravissime e mettendo a rischio la nostra vita. Tutto per affermare una rivoluzione innanzitutto culturale".
L'antimafia dei veleni. Dietro il caso Montante Pentiti e manovre politiche, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Cosa c'è dietro il caso Montante e dietro la notizia delle indagini che lo riguardano? Radiografia di una vicenda che potrebbe affondare le sue radici nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Cosa c'è dentro il caso giudiziario di Antonello Montante e quali contesti politici si agitano attorno alla figura del presidente degli industriali siciliani? Innanzitutto ci sono pentiti vecchi e nuovi. Come le indagini. Il caso Montante esplode oggi ma, a giudicare dalle parole di alcune autorevoli voci, interessate e non, sembra avere radici antiche. Radici che potrebbero affondare nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Un movimento attraversato più che da spaccature da vere e proprie logiche di fazione. Il quotidiano 'La Repubblica' dà notizia dell'esistenza di un'indagine per reati di mafia a carico di Montante. Anzi, le indagini sarebbero due: una a Caltanissetta e l'altra a Catania. Tre pentiti lo chiamerebbero in causa. Di uno di loro viene fatto il nome, Salvatore Dario Di Francesco. Arrestato un anno fa, Di Francesco ha iniziato a fare i nomi e a parlare di appalti pilotati tra il 1999 e il 2004 nell'Area di sviluppo industriale di Caltanissetta, dove lui stesso prestava servizio. Ambienti vicinissimi alla Confindustria lo vorrebbero animato da risentimenti personali - per alcuni addirittura spinto da propositi di vendetta - nei confronti della stessa organizzazione che ne aveva duramente contestato l'operato. Di Francesco è compare di nozze di Vincenzo Arnone, figlio di Paolino che nel 1992 si suicidò in carcere dove era stato richiuso perché coinvolto in un blitz antimafia. Vincenzo Arnone, a sua volta, è compare di nozze di Montante. Nell'abitazione di quest'ultimo, era il 2010, furono trovate alcune fotografie che li ritraevano assieme a metà degli anni Ottanta. Le foto e pure il certificato di matrimonio, nell'aprile dell'anno scorso, furono pubblicate sulla rivista I Siciliani Giovani e oggi vengono rilanciate da La Repubblica. Non si conoscono ancora i contenuti delle dichiarazioni di Di Francesco e degli altri due collaboratori di giustizia di cui pure i nomi restano segreti. Uno potrebbe essere Carmelo Barbieri che già nel 2009 proprio ai pm nisseni - c'era anche il capo della Procura, Sergio Lari, ad interrogarlo - fece il nome di Montante. Non sappiamo che fine abbia fatto questa indagine. Né conosciamo l'evolversi di quella che sarebbe stata aperta a Catania un anno fa. Si sa, ma solo in virtù di alcune indiscrezioni, che si tratterebbe di un'inchiesta nata da un esposto. Il fatto che siano i magistrati etnei ad occuparsene, però, sembrerebbe giustificato dalla presenza di un pm nisseno nel contenuto della stessa denuncia. Chi e cosa abbia denunciato non è dato sapere. La questione potrebbe essere legata, ma anche questa è solo un'ipotesi, alle vicende sollevate dall'ex pm di Caltanissetta ed ex assessore regionale ai Rifiuti, Nicolò Marino, che in un'intervista del novembre scorso al quotidiano 'La Sicilia' ricordò al cronista e ai lettori: “Non dimenticate che io e Lari eravamo a Caltanissetta assieme e che entrambi sappiamo chi è Montante”. Un passaggio che potrebbe avere fatto nascere l'esigenza di un approfondimento investigativo. Montante, in una nota tranciante, si limita oggi a replicare citando le parole, definite “profetiche”, del presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Secondo Montante, saremmo di fronte ad un atto di delegittimazione nei confronti dell'azione concreta di Confindustria sul fronte della lotta alla mafia. Lo stesso Montante, dunque, ci obbliga a rileggere le parole pronunciate da Salvatore Cardinale - è lui il presidente della Corte d'appello citato dal rappresentante degli industriali siciliani - durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario nisseno. Cardinale aveva stigmatizzato "un clima di allarme, fatto di intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a una platea di magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell'antimafia e della lotta all'illegalità". Ed aveva citato, in maniera esplicita, “gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l'accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell'antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti". L'indagine su Montante si muove su due piani, uno giudiziario e uno politico. Il fronte giudiziario sarebbe alle battute iniziali. L'attualità dei tempi viene dettata dal fatto che per Di Francesco non è ancora scaduto, o forse lo è da pochi giorni, il termine dei 180 giorni previsto dalla legge per raccoglierne le confessioni. Attuale è anche l'aspetto politico della vicenda, visto che Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale di Confindustria per la legalità, appena quindici giorni fa, è stato chiamato dal governo nazionale, e dunque dalla politica, nel direttivo dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Dovrà dare il suo contributo per mettere ordine in un settore apparso finora lacunoso. A cominciare dal fatto che migliaia di beni restano improduttivi e molti sono addirittura ancora in mano agli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti. L'Agenzia per i beni confiscati, dati alla mano, è una delle più grosse holding italiane la cui gestione, storicamente, è stata terreno di scontro fra le correnti di pensiero, e non solo, dell'Antimafia. Montante ha da subito parlato della necessità di un'inversione di rotta, forse suscitando timori e gelosie.
Il caso Montante: l’inchiesta per mafia che spacca l’Antimafia. Crocetta e Lumia lo difendono a spada tratta, il M5S, Libera e Addiopizzo chiedono che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa”. L’indagine di Caltanissetta divide il mondo politico e imprenditoriale tra chi non crede alla delegittimazione dell’industriale e chi si interroga sul rischio di un impegno di cartapesta, scrive Paolo Patania su “L’Ora Quotidiano”. Crocetta lo difende a spada tratta, il M5S chiede che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa” e quello della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg si augura che ”si possa fare chiarezza in brevissimo tempo”. Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, chiede che lasci subito l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. La notizia dell’indagine per mafia su Antonello Montante, 52 anni, il leader degli industriali siciliani che ha inventato il ”codice etico” dell’imprenditoria schierata contro il racket delle estorsioni, spacca l’Antimafia istituzionale, rimbalza tra i salotti della politica e quelli della finanza isolana, e minaccia di appannare un simbolo del contrasto alle cosche mafiose, appoggiato pubblicamente negli ultimi anni anche da magistrati del calibro di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, capo dell’ufficio inquirente che lo ha iscritto nel registro degli indagati e che ora si limita a dichiarare: ”No comment, di più non posso dire”. L’indagine della procura nissena, come ha scritto Repubblica lunedì scorso, sarebbe aperta dall’estate scorsa, e sarebbe entrata nel vivo solo a dicembre. Ieri il Corriere della Sera, ha rivelato l’esistenza di alcune strane intercettazioni recapitate il 2 ottobre scorso nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, con una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcune persone sedute in un bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiavano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, avrebbero consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo avrebbe trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi. Ma oggi Repubblica torna all’attacco, pubblicando i nomi di altri tre dei cinque pentiti che accusano Montante: oltre a Salvatore Dario Di Francesco, sarebbero Pietro Riggio, Aldo Riggi e Carmelo Barbieri, nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Secondo il quotidiano, i tre, a vario titolo, avrebbero parlato di rapporti di Montante col vecchio Paolino Arnone, boss di Serradifalco, di ”mediazioni” per far lavorare una ditta di mafia, del ”rispetto” che alcuni picciotti dovevano portare all’industriale proprio per la sua vicinanza con gli Arnone. Nessuno può dire al momento se le accuse dei collaboratori che denunciano le ”relazioni pericolose” di Montante con esponenti di Cosa nostra siano solide al punto da rivelare l’impostura di un’antimafia di facciata oppure se siano il tentativo di travolgere in una furia iconoclasta Montante in quanto simbolo del ”nuovo corso” di un’imprenditoria siciliana davvero desiderosa di riscattarsi dal giogo mafioso. Lui, il diretto interessato, si è difeso con una nota nella quale sostiene che ”gli attacchi” a Confindustria sono il frutto di una ”campagna di delegittimazione” che punta a distruggere la stagione di rinnovamento avviata in Sicilia a partire dal ”codice etico”. E qualcuno oggi parla di intrigo politico e giudiziario che ruoterebbe attorno alll’Agenzia dei beni confiscati, che gestisce quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. Di certo ci sono due cose: la prima è che i siciliani di Confindustria negli ultimi anni sono stati accusati più volte di aver costituito una sorta di ”partito dell’antimafia”, protagonista di una vera e propria marcia di occupazione di posti-chiave del potere economico dell’isola e anche aldilà dello Stretto. La seconda è che, aldilà degli esiti al momento impossibili da prevedere, l’inchiesta di Caltanissetta ha disorientato il mondo politico e industriale, spaccando il fronte dell’antimafia tra chi ipotizza manovre occulte per screditare la ”rivoluzione copernicana” di Montante e chi invece ritiene le accuse dei pentiti il primo passo del disvelamento di un’antimafia di cartapesta. Risultato? Negli ultimi due giorni agenzie hanno battuto un diluvio di dichiarazioni pro, contro, e anche in buona parte ”attendiste”, nei confronti del paradosso tutto siciliano di un paladino dell’imprenditoria contro le cosche finito sotto accusa per mafia. Il commento più duro è quello dei deputati siciliani del M5S Giancarlo Cancelleri e Valentina Zafarana, che chiedono un passo indietro di Montante perché ”un simbolo non può essere appannato dai sospetti”: ”Si dimetta, in attesa che la giustizia faccia il suo corso”. Il più morbido è quello di Crocetta, che da Confindustria ha ricevuto un sostegno più che robusto per la sua scalata a Palazzo d’Orleans e oggi restituisce il favore: “Montante lo conosco come persona che ha lottato e lotta contro il racket delle estorsioni e contro la mafia. Aspettiamo serenamente cosa dirà la magistratura, al momento si tratta di indiscrezioni giornalistiche, non e’ detto che sia iscritto nel registro degli indagati. Non sappiamo nulla”. Ora Crocetta sottolinea che “proprio con Montante, Confindustria ha avviato il percorso di discontinuita’ nella lotta alla mafia rispetto a quanto avveniva in passato”. E sulla vicenda che sarebbe oggetto dell’indagine, le nozze di Montante e i suoi testimoni, tra i quali il mafioso Vincenzo Arnone, figlio dello storico padrino Paolino Arnone, boss di Serradifalco, il Governatore dichiara: “Montante all’epoca aveva 17 anni, cosa doveva capirne di mafia. Allora qualunque siciliano che abbia avuto un vicino di casa o un compagno di scuola mafioso puo’ essere indagato? Basta questo per essere accusati?” Ma il più ”pesante” è quello di Libera, che guida 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. E chiede le dimissioni di Montante dal direttivo dell’Agenzia dei Beni confiscati. All’attacco anche Addiopizzo di Catania: ”Nell’attesa di ulteriori sviluppi -scrive l’associazione in una nota – e certi che Montante potrà difendersi nelle opportune sedi, siamo altrettanto sicuri che l’Agenzia vorrà prendere i più opportuni provvedimenti al fine di assicurare la massima prudenza e trasparenza nella scelta di chi, seppure indirettamente, deve gestire senza ombre, pin nome e per conto dello Stato e di tutti i cittadini, beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata”. E il magistrato Piergiorgio Morosini, componente del Csm, dichiara che ”un’indagine di per sé non significa nulla, specie in una terra difficile come la Sicilia. Ma il ruolo di componente di un’agenzia pubblica come quella dei beni confiscati alla mafia richiede da parte di Montante un’autosospensione dalle funzioni. Sarebbe un’espressione della stessa cautela che richiediamo ai politici coinvolti in vicende di questo tipo”. Beppe Lumia, senatore Pd, ex presidente della Commissione Antimafia, transitato nel 2012 dal Pd alla lista Il Megafono (quella di Crocetta) invita ad osservare tutta la faccenda da questo punto di vista: “Salvatore Dario Di Francesco (uno dei pentiti che accusa Montante, ndr) è un ex colletto bianco, un imprenditore che è stato bombardato da Montante ai tempi della rivoluzione in Confindustria. Da quello che emerge, non c’è nulla che riguardi il presente ma il passato, i primi anni del Duemila quando appunto la Confindustria di Lo Bello e Montante cominciò il bombardamento su Cosa Nostra”. Cioè, insiste Lumia, “sono molto scettico rispetto a questa inchiesta semplicemente perché Montante l’ho visto in azione”. Ma la dichiarazione più attesa è quella di Squinzi, il leader nazionale di Confindustria, che però si limita a manifestare tutto il suo stupore: “Sono sorpreso dalle anticipazioni a mezzo stampa che riguardano Antonello Montante, che ha deciso da tempo di schierarsi nella lotta contro la mafia, rischiando in prima persona”. Pro Montante, senza equilibrismi, è la Fai, la Federazione delle associazioni antiracket che ieri ha dichiarato: “Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma e’ doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia”. La Federazione ricorda come nell’estate del 2007, proprio a Caltanissetta parti’ “una vera e propria rivoluzione copernicana che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando”. Confindustria Sicilia, dunque, “non può essere etichettata ne’ come antimafia dell’ultimora né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani”. Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio, infine, spera in un rapido chiarimento: “Sono vicino al collega Montante e mi auguro che si possa fare chiarezza in brevissimo tempo. Chi si batte per la legalità, come lui, non può attendere a lungo che vengano chiariti i termini di una vicenda come quella che lo riguarda”. Più o meno la stessa posizione del segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, che aggiunge: “Non possiamo che augurarci che la magistratura faccia presto a chiarire se in questi anni non tutto è stato limpido nell’antimafia”.
Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. Il presidente di Confindustria Sicilia e delegato di Confindustria nazionale sui temi della legalità Antonello Montante sarebbe accusato da alcuni pentiti di essere in contatto o vicino a mafiosi o ad ambienti mafiosi, dai quali avrebbe ricevuto favori ricambiati. Ora, specificato che la magistratura (di Caltanissetta e Catania che starebbero indagando) farà il suo corso (sul quale non mi permetto di fare appunti), specificato che non mi permetto neppure di giudicare il lavoro dei giornalisti che hanno scritto della vicenda, specificato che dei pentiti (in generale) mi fido da sempre quanto un piranha negli slip e quando ne ho trattato me ne sono dovuto pentire giurando a me stesso che si fottessero tutti, ricordato che nessuno come i siciliani e i calabresi è specializzato in “tragediate” (altresì chiamate “carrette”), specificato che non compete a me prendere le difese di Antonello Montante (e infatti non le prendo perché lo fa da solo e/o con i suoi avvocati), sottolineato che fino a che ci sarà democrazia e libertà di opinione, stampa, giudizio, parola e informazione, continuerò a ragionare con il mio cervello senza guardare in faccia a nessuno, vi sottopongo, o cari lettori di questo umile e umido blog, un mero contributo di riflessioni ad una vicenda nelle mani sacrosante della magistratura.
1) Complimenti vivissimi alle menti raffinatissime che, da alcuni mesi, stanno distillando le fughe di notizie sulla (o sulle) indagini e/o procedimenti penali aperti nei confronti di Montante. Gli ambienti investigativi e giudiziari, pronti, senza scrupoli e contravvenendo ai principi costituzionali e a quelli scritti sulla Carta europea dei diritti dell’Uomo, a indagare i giornalisti per concussione (avete letto bene, con pene che arrivano a 7 anni di reclusione) quando danno liberamente conto di procedimenti o indagini a loro sgradite, sono invece rapidissimi nell’allungare la manina (a chi vogliono) con informazioni a orologeria a qualcuno congeniali. Perché vedete, sia che si tratti di una bufala accusatoria montata ad arte (dai pentiti suddetti che ovviamente rappresenterebbero il braccio e non certo la mente), sia che si tratti di un filone propizio per fare luce su presunti legami impropri tra mafia e antimafia, queste fughe di notizie su indagini definite dai giornali blindatissime (come? Blindatissime? Pensa te se non lo erano…) sono state studiate a tavolino. Sono mesi, infatti, che si assiste ad un “distillato” di voci e sussurri su Montante.
2) Un risultato immediato, le menti raffinatissime che hanno cantato, l’hanno raggiunto: infliggere un colpo durissimo all’antimafia. Non mi riferisco a quella dei nomi ma a quella dei fatti e dei gesti. Ebbene, mi domando e vi domando: con quale forza e spirito in Sicilia e al Sud (ma non solo) gli imprenditori vessati dalle mafie continueranno a bussare alle porte delle forze dell’ordine e della stessa Confindustria per denunciare i propri maledetti carnefici mafiosi? Credetemi anche in questo caso: proprio questo è il momento più propizio. Denunciate la mafia, perché è “merda”. Non solo quella fatta da picciotti e capibastone ma, soprattutto, quella fatta di intelligenze al servizio del male. Chi denuncia è sempre libero e ora più che mai, sono convinto, Forze dell’Ordine e Confindustrie locali sono pronte ad accogliere e seminare legalità.
3) Ricordo che Francesco Cossiga chiamava il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Leoluca Orlando Cascio. Lo stesso Cossiga, che ovviamente era perennemente coperto da immunità parlamentare e/o presidenziale, nel corso di una trasmissione televisiva con Giuliano Ferrara, più di 20 anni or sono, spiegò che nella prima relazione di minoranza della Commissione Antimafia degli anni ’70, firmata dalla vittima della mafia, onorevole Pio La Torre, ammazzato nel 1982, il padre dell’allora onorevole Leoluca Orlando (Cascio), celebre notabile Dc, era definito il collegamento tra la politici ed ambienti salottieri palermitani del dopoguerra dove era facile che bianco e nero si mischiassero. Quando, oltre 20 anni fa, conobbi Leoluca, che non ricorreva mai al doppio cognome (Orlando Cascio), di tutto mi preoccupai tranne che di giudicarlo dalle gesta di suo padre. Ammesso e non concesso che fossero nebulose. Un uomo politico – la stessa cosa, sublimata da poche settimane da un elezione, si può dire per la famiglia Mattarella, di cui un membro è diventato Presidente della Repubblica alla luce del sole e dell’ombra, visti gli attacchi rivolti ai presunti trascorsi paterni – lo giudico dal momento e nel momento in cui fa politica, cioè si prende cura di una collettività amministrata. Il suo passato mi interessa ma solo se serve per dimostrare nel presente e per il futuro, coerenza con i principi e i valori nei quali io personalmente sono stato cresciuto e che insegno ai miei due figli. Se quei valori sono contraddetti (onestà, probità, lealtà, legalità, incorruttibilità, rispetto dei diritti e della legge e via di questo passo) me ne fotto di passato, presente e futuro. Bene. Mutatis mutandis, lo stesso discorso vale per chi si oppone alla mafia tra gli imprenditori che (è il caso di Montante) ricoprono anche fondamentali ruoli associazionistici. Da quando io l’ho conosciuto (otto anni or sono iniziò la battaglia confindustriale per l’etica d’impresa e la rivolta alla mafia prima proprio a Caltanissetta e poi su per li rami in tutta Italia) i comportamenti e il rigore di Montante mi sono apparsi conseguenziali a valori di dura opposizione all’economia criminale e alla mafia sociale, che scorre a fiumi nelle varie stanze dei bottoni di una classe dirigente sempre più corrotta. Inutile ricordare le prese di posizione (tutti dobbiamo ricordare che è proprio la parola il primo nemico della mafia, fondata non a caso sull’omertà) ma gli atti sì: le espulsioni dei mafiosi o dei presunti mafiosi dalle associazioni, i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali (do you remember Reggio Calabria?), i protocolli d’intesa visti e rivisti per renderli non chiacchiere (di solito lo sono) ma concreti, l’azione di rinnovamento nelle associazioni (comprese quelle camerali, o sono anche quelle frutto di comparaggio?), l’obbligo di white list negli appalti pubblici, le zone franche per attirare investimenti nelle province palermitane e nissene, la legalità al centro dell’azione degli industriali, il rating di legalità per le imprese nei confronti delle banche e degli enti appaltatori, il sostegno a quella magistratura che finalmente ha deciso di usare il lanciafiamme contro le mafie e i sistemi criminali, le costituzioni di Confindustria (proprio a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile nei processi per mafia e la durissima lotta in Sicilia (poi ci torno) contro quei centri di potere massonico deviato/mafioso che erano le aree di sviluppo industriale. Figuriamoci se, quando l’ho saputo, potevo e posso giudicare le azioni di Montante per il fatto che quando aveva 17 anni un suo testimone di nozze, venti anni dopo il matrimonio o giù di lì, da incensurato passerà ad essere noto alla Giustizia, come suo padre che morirà poi suicida in carcere nel 1992. Chi è senza peccato, scagli il primo testimone.
4) C’è chi, in questi giorni, si sta prodigando per srotolare “dietrologie” a giustificazione delle presunte dichiarazioni (da riscontrare o pera della magistratura alla quale ci rimettiamo) dei pentiti (1, 5, 10, 100, boh!) contro Montante. E’ perché è stato nominato dal Governo nella inutile (finora) Agenzia nazionale dei beni confiscati alle mafie! E’ perché il movimento antimafia si è sempre spaccato su tutto in Sicilia e dunque è il risultato di una guerra intestina (ma intestina a chi?)! E’ perché chi troppo vuole nulla stringe e, tranne la carica di sindaco, a Caltanissetta e a Roma ormai lui è più di un papa! E’ perché queste cose entrano in campo mentre si giocava (ma si gioca tuttora) la partita per occupare la poltrona di capo della Procura di Palermo! E’ perché è amico di potenti troppo potenti in tutti i campi: dalla politica alla magistratura! E’ così o cosà, lascio che ciascuno dica la propria (rispetto tutti a maggior ragione, e lo dico in generale, quando non sono d’accordo). Io aborro la dietrologia e faccio, umilmente, riferimento ad un fatto, che sarà senza dubbio una coincidenza. Se ho ben capito il capataz degli accusatori sarebbe tal Salvatore Dario Di Francesco, che nell’area di sviluppo industriale di Caltanissetta prestava lavoro. Bene. Leggete quel che denunciarono il 5 giugno 2014 anche (e sottolineo anche) in Commissione parlamentare antimafia Montante e Ivanhoe Lo Bello (vicepresidente nazionale di Confindustria) a proposito delle Asi siciliane e non solo: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso» (Lo Bello). «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare» (Montante).
5) Il 24 gennaio 2015 il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario dirà: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». La domanda sorge spontanea: è impazzito il procuratore generale che parla di «imprenditoria libera e illuminata…di intimidazioni, minacce, insinuazioni, delegittimazioni, metodi subdoli e discrediti mediatici» in corso nei confronti anche dei vertici confindustriali nisseni e siciliani oppure i pentiti? Non dico tanto ma se avessi ricevuto io la soffiata sulle presunte indagini su Montante (a quando Lo Bello?) questa domanda me la sarei fatta e quantomeno avrei tenuto acceso il falò del dubbio.
6) Già perché, guardate voi come è corta la memoria, il 21 ottobre 2013, a Caltanissetta, ci fu una riunione straordinaria del Comitato nazionale per l’ordine pubblico per fronteggiare il rischio di nuovi attentati di cui nessuno, i questi giorni, si è ricordato. Senz’altro le menti raffinatissime hanno sperato nell’oblio. Mai come in quei mesi, le speranze di cambiamento, descritte sui media di tutto il mondo dopo la decisione – di Confindustria Sicilia prima e Confindustria nazionale poi – di mettere all’angolo gli imprenditori che non denunciavano pizzo e mafie, apparivano lontane, sotto assedio e a rischio. «A Caltanissetta è scesa in campo la squadra-Stato al massimo livello, dal Procuratore nazionale antimafia ai vertici delle Forze dell’ordine, dai prefetti alle Dda, al Governo», disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse il rischio che Cosa nostra alzi il tiro. «Non possiamo escludere – ha detto – che questo sia l’intendimento della mafia». Poi il ministro ribadì sostegno e vicinanza agli imprenditori, «a cominciare da Montante e Lo Bello che si sono ribellati al racket».
7) Ma attenzione ora ad un’altra data: il 17 settembre 2013, il Comune di Chianciano Terme (Siena) mise sul proprio sito istituzionale foto e cronaca di un convegno sulle stragi di mafia del ’92 che si era tenuto due giorni prima nella sala Fellini delle Terme e passato sotto drammatico silenzio a livello nazionale. Anch’esso passato nel dimenticatoio della stampa e dalla speranza di oblio delle menti raffinatissime. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti – dichiarò in quell’occasione il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che mirano a screditare chi in Sicilia combatte con i fatti malaffare e mafia. Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali online e gettano sospetti e fango su chi l’antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci ed altri messaggi inquietanti».
8) Dunque eravamo a settembre 2013 e Lari, vale a dire il capo della Procura che ora con quella di Catania starebbe indagando su Montante, un anno e mezzo fa parlava di centri di potere che ordiscono campagne di delegittimazione e discriminazione utilizzando ogni mezzo possibile e immaginabile. Certo, non c’erano nomi e cognomi ma Lari, un mese dopo quelle frasi, a ottobre, sarà alla riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, con un ministro dell’Interno che invece fece i nomi di coloro che si erano ribellati al racket, a partire (i nomi li ha fatti Alfano, non io o voi) da Lo Bello e Montante. E poche settimane fa, un procuratore generale, Cardinale, metterà in fila gli avvenimenti senza peli sulla lingua. Due più due fa ancora quattro? Di questo incontro a Chianciano Terme, a parte le cronache locali toscane e siciliane, la grande stampa si disinteressò, perché un annuncio di morte non è una notizia. Quelle che sgorgano dalle menti raffinatissime – che, ripeto, siano fondate o meno – si. Le mafie hanno memoria lunga e non basta una vita per cancellarla. Tifo, come sempre, per la Giustizia e spero, nel nome dell’Italia onesta nella quale senza se e senza ma mi riconosco, di sapere prestissimo la verità. I miei principi non cambieranno. Ne usciranno rafforzati.
Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti? E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici, imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti. La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?
Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa.
DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.
Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.
Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.
ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.
Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.
Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.
DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.
RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.
D. Sapeva già tutto?
R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.
D. Come si sapeva?
R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.
D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?
R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.
D. E da questa unione cosa è nato?
R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.
D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?
R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?
R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.
D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?
R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.
D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?
R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.
D. In che senso?
R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.
D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?
R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.
D. Come mai proprio gli appalti?
R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.
D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?
R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.
D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.
R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.
D. Cioè?
R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.
D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?
R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.
D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.
R. Esattamente.
Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.
Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.
Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».
Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.
La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.
Certi sindaci d’Italia tra mazzette, furtarelli e le accuse di spaccio di marijuana. I guai penali e amministravi di (alcuni) amministratori pubblici. I casi degli ultimi sessanta giorni, scrive Alessandro Fulloni il 2 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”.
1. Condanne, arresti e dimissioni. C’è quello (caso classico) che intasca mazzette, l’altro (caso inedito) che si appropria dei risparmi che gli avevano affidato due anziane sorelle decedute. Poi c’è il primo cittadino che potrebbe essere sottoposto (e sarebbe un record) per due volte nel giro di venti mesi alle applicazioni della legge Severino sulla corruzione. C’è anche l’amministratore «sceriffo» - noto alle cronache per aver fatto arrestare tre ladri - che si fa beccare per spaccio. Storie di (alcuni) sindaci italiani: quelli che alla guida di comuni grandi e piccoli (circa 8 mila) talvolta amministrano con eccessiva disinvoltura la cosa pubblica. Ecco, per stare agli ultimi sessanta giorni, le vicende più singolari. Tra condanne, arresti e le attese di pareri della Consulta sull’applicazione della Severino. Il caso più noto di questi giorni è quello del sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, arrestato lunedì nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli sulle opere di metanizzazione sull’isola e detenuto nel carcere di Poggioreale. Martedì si è dimesso dando mandato al suo legale di consegnare al segretario generale del Comune di Ischia una lettera nella quale comunica la sua decisione, presa «al solo fine di potersi difendere libero da vincoli e ruoli istituzionali». Nella lettera Ferrandino scrive di avere «la serenità di chi è straconvinto della propria innocenza e di chi ritiene di avere sempre operato nell’esclusivo interesse della cittadinanza e di chi crede fermamente nella giustizia italiana».
2. Il sindaco che si appropria dei risparmi delle sorelle morte. Si sarebbe appropriato di una somma di denaro di circa 36 mila euro, i risparmi di una coppia di anziane sorelle che poi sono morte. Per questo motivo è stato arrestato dai carabinieri, con l’accusa di peculato, il sindaco di Santa Maria Salina (nel Messinese), Massimo Lo Schiavo. Le due sorelle, malate e bisognose di assistenza, erano proprietarie di una casa e di vari beni. Nel giugno del 2013 furono trasferite in una casa di riposo di Leni, sull’isola di Salina, per essere curate. La loro abitazione fu sigillata e le anziane chiesero all’amministrazione di custodire i loro risparmi: 36 mila euro, 212 dollari australiani e 180 dollari americani. Il sindaco ha preso il denaro e lo ha sigillato in due buste alla presenza dei vigili urbani. Dopo la morte di una delle donne ed è stato nominato un amministratore di sostegno dell’altra anziana. Poco tempo dopo è deceduta anche la sorella e l’amministratore ha chiesto di avere la somma di denaro e le chiavi dell’abitazione. A questo punto il sindaco avrebbe accampato alcune scuse dicendo che la somma era solo di 25 mila euro e di non sapere dove fossero le buste perché le avrebbe perse durante un trasloco. Ha poi consegnato seimila euro all’amministratore, chiedendogli di aspettare il versamento delle somme restanti. Nel corso delle indagini i carabinieri hanno però trovato a casa del sindaco le buste, che erano state in precedenza sigillate, vuote. Nel corso della perquisizione nell’abitazione del sindaco sono stati trovati anche 12 mila euro, in parte anche in valuta straniera. Sono in corso accertamenti per stabilire la provenienza del denaro.
3. La mazzetta al sindaco dei record. Una mazzetta di 100 mila euro in cambio di un appalto di otto milioni per realizzare alloggi popolari. È la contestazione della Procura di Bari nei confronti di Sergio Povia, sindaco di centrosinistra di Gioia del Colle, arrestato il 6 febbraio dalla Finanza. Arresti poi revocati dal gip. Ma il primo cittadino (più volte alla guida della cittadina pugliese a partire dal 1993: un record) a seguito della bufera giudiziaria, si è dimesso. Con lui erano finiti in carcere anche l’ex vicesindaco e l’imprenditore che aveva allungato la mazzetta. I reati contestati sono corruzione e turbativa d’asta. Secondo il pm Eugenia Pontassuglia, le persone arrestate (sia politici che dipendenti comunali e liberi professionisti) in cambio della tangente avrebbero fatto in modo che l’imprenditore si aggiudicasse la gara per numerosi alloggi. Gli indagati avrebbero tenuto una «molteplicità di condotte collusive sia nella fase concernente la pubblicazione del bando di gara, predisposto dai funzionari comunali seguendo le direttive indicate da Posa e contenute in elaborati tecnici redatti da professionisti di sua fiducia, sia la fase successiva».
4. «Fumo» e bilancino in casa dell’assessore «sceriffo». Droga e un bilancino di precisione all’interno della cassaforte di casa. Con l’accusa detenzione ai fini di spaccio è stato arrestato, giovedì 26 marzo, l’assessore alla sicurezza di Pieve Fissiraga (Lodi) , il leghista Antonio Iannone (soprannominato l’assessore «sceriffo»). I carabinieri che hanno perquisito la sua abitazione, gli hanno intimato di aprire la cassaforte: all’interno c’erano 250 grammi di hashish, uno di marijuana e un bilancino. Il tribunale di Lodi ha convalidato il fermo concedendogli gli arresti domiciliari. Iannone si era fatto la fama di «assessore sceriffo». Nell’autunno scorso, ad esempio, aveva bloccato quasi da solo e fatto arrestare tre romeni sorpresi a rubare rifiuti nella piazzola ecologica del paese.
5. Condanna in Appello per l’ex sindaco di Buccinasco. L’11 febbraio l’ex sindaco di Buccinasco (nel Milanese), Loris Cereda, arrestato nel marzo 2011 per un giro di tangenti legate ad appalti per la nettezza urbana e per il cambio di destinazione d’uso di alcune aree della cittadina, è stato condannato a 3 anni e 6 mesi (e 20.000 euro di provvisionale al Comune) per corruzione dalla seconda Corte d’Appello di Milano. L’accusa imputava a Cereda (che in primo grado aveva avuto 4 anni e 3 mesi) una tangente di 7mila euro per garantire l’approvazione di una convenzione tra il Comune e una società per la concessione d’uso di un’area verde «da destinare a parcheggio». Inoltre l’allora sindaco avrebbe accettato 25mila euro e la messa a disposizione di due Ferrari e una Bentley per garantire l’approvazione di una delibera di «rinnovo del contratto per i servizi di igiene urbana» con «contestuale subappalto».
6. Il Caso Ostia e il «minisindaco» dimissionario. A Ostia, municipio del comune di Roma, il minisindaco (Pd) Andrea Tassone è dimissionario. Un gesto annunciato il 18 marzo dallo stesso Tassone in chiave di allarme antimafia: troppo forti le pressioni della criminalità organizzata, «non ho gli strumenti per andare avanti. Non ho mai chiesto un carrarmato per combattere le mie battaglie ma almeno una piccola mazzafionda l’avrei desiderata». Una vicenda però in chiaroscuro, che mette in imbarazzo il Pd: tra le condizioni per continuare, Tassone (citato nelle carte di Mafia Capitale dal faccendiere Salvatore Buzzi che lo definisce «nostro») ha posto l’allontanamento del comandante dei vigili di Ostia Roberto Stefano. Ma Stefano ha condotto l’inchiesta sui chioschi del lungomare di Ostia, dove «ballano» 300 mila euro per le opere a scomputo, un’indagine per la quale risultano indagati (con elezione di domicilio) lo stesso Tassone e anche l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Caliendo (anche se lui nega). Morale: dimissioni (almeno sinora) definitive. Consiglio municipale a un passo dallo scioglimento. E nuove elezioni praticamente certe.
7. Il sindaco che diventa senatore «grazie» a legge Severino. Fosse un calciatore, Domenico Auricchio, detto «Mimì», fedelissimo di Berlusconi, sarebbe un numero 7, genere Franco Causio. Claudio Sala o Bruno Conti, capace di saltare l’avversario con un dribbling secco. Auricchio invece è un sindaco-senatore, e il dribbling lo ha fatto infilandosi in uno di quei «varchi» non previsti dal la legge Severino. Grazie alla quale è arrivato a palazzo Madama, per usare le parole del presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone «dopo una condanna di primo grado» per la quale da sindaco - due anni fa - è stato «sospeso per effetto della Severino». «Epperò può entrare in Parlamento perché era il primo dei non eletti». Ma ora c’è un nuovo caso. Terminata la sospensione di 18 mesi, Auricchio è tornato sindaco in piena regola. Nuova tegola il 18 marzo: quando è stato condannato per abuso d’ufficio. I giudici del tribunale di Nola lo hanno giudicato colpevole dell’installazione di un chiosco abusivo in pieno Parco Nazionale del Vesuvio: una concessione avvenuta, secondo l’accusa, senza passare dall’ufficio tecnico. Ora il sindaco-senatore rischia una nuova applicazione della Severino. La seconda in 20 mesi. E sarebbe record.
8. De Luca, attesa per il parere della Consulta. Vincenzo De Luca, 65 anni, è stato per quattro volte sindaco di Salerno, due volte deputato e sottosegretario ai Trasporti nel governo Letta. Una trafila dal Pci al Pd. Ora per il centrosinistra è il candidato (vincente alle primarie) alle prossime regionali in Campania. Il 21 gennaio è stato condannato ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio per la nomina di un ex collaboratore come project manager del termovalorizzatore. Il giorno dopo il prefetto di Salerno ha disposto la sua sospensione in base alla legge Severino che prevede tra le altre misure, la sospensione e decadenza degli amministratori locali in condizione di incandidabilità (appunto come De Luca, condannato per un reato contro la pubblica amministrazione). L’ex sindaco di Salerno attende ora una decisione della Corte costituzionale. Che presto, anche se il ruolo non è ancora stato assegnato a un relatore, dovrà vagliare la costituzionalità della legge anticorruzione varata dal governo Monti. Se venisse eletto governatore della Campania in assenza di una decisione della Corte, De Luca verrebbe immediatamente sospeso su richiesta della presidenza del Consiglio. Però, un minuto dopo De Luca farebbe ricorso al Tar. Poi si vedrà.
Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?
LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.
Ieri diversi, oggi cattivi dannosi e pericolosi, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Duecento tesserati in due ore. Falso un iscritto su cinque. Il rapporto sul Pd romano fa impressione. Ma sarebbe bene farne altri simili in tutto il paese. Cattivo. Dannoso. Pericoloso. No, non è un virus. Si parla di Pd, la Ditta, l’ex Pci della diversità berlingueriana. Secondo la lettura choc di Fabrizio Barca. E non è una battuta scappata in tv, ma il punto d’arrivo di un’analisi minuziosa svolta su 110 circoli romani del Pd, durata finora sei mesi, ricca di documentazione e di testimonianze dei militanti (è tutto sul blog di Barca assieme al resoconto del suo precedente “Viaggio in Italia”, personale inchiesta alla scoperta del partito condotta nel 2013 provincia per provincia). Dunque, un lavoro serio. Confesso che non mi era mai capitato di leggere parole così dure, precise e taglienti sulla realtà interna di un partito, scritte per di più da qualcuno che in quel partito milita convintamente. Che siano poi firmate da Barca, uomo colto, scrupoloso, rigoroso servitore dello Stato, è una garanzia in più di fedeltà e qualità. E però, nonostante questo, il rapporto non ha avuto finora l’eco che merita. Forse perché riguarda solo il Pd romano; o perché nei giorni in cui è stato diffuso un primo documento (il lavoro continua), giornali e tv erano presi dalla strage di Tunisi e dal pasticciaccio Lupi-Incalza. Ma nemmeno nei giorni successivi il dibattito è decollato, anzi tutto è ricominciato stancamente come prima, con le minacce di scissione a sinistra, le battutine sferzanti di questo contro quello e la sempiterna ricerca di un anti-leader, stavolta individuato nell’ottimo Giuliano Pisapia che non ha fatto a tempo ad annunciare di non volersi ripresentare a sindaco di Milano per essere candidato a sua volta a capo di una cosa che non c’è. Certo, Roma è stata colpita da Mafia Capitale, l’inchiesta che ha investito anche frange di Pd, spinto Matteo Renzi a commissariare il partito e a sua volta il commissario Matteo Orfini a incaricare Barca dell’indagine. Ma quando si legge di assenza di trasparenza, di deformazioni clientelari, di scorribande dei capibastone, di - testuale - carne da cannone da tesseramento (si citano casi di “duecento tessere in due ore”, e si scopre che un tesserato su cinque è falso), sale il timore che la malattia non si fermi all’ombra del Cupolone. Del resto, quando il Pd ha chiamato a raccolta i suoi elettori, penso alle primarie, ne sono capitate di tutti i colori, e non solo nel 2012 (una per tutte, i cinesi in fila a Napoli). E alzi la mano chi non ha pensato subito a infiltrati, brogli, tessere false. Renzi ha provato a evitare in Campania lo scontro Vincenzo De Luca-Andrea Cozzolino, ma invano: si è dovuto beccare De Luca con tutto il seguito di legge Severino e dintorni. Non era andata meglio in Emilia dove i due candidati Stefano Bonaccini, caro al premier, e Matteo Richetti sono finiti in una delle mille inchieste della magistratura. In Liguria è finita con Sergio Cofferati che denuncia brogli. E l’altro giorno, mentre Massimo D’Alema scaldava animi scissionisti, Renzi cercava di scongiurare la candidatura a sindaco di Enna di Vladimiro Crisafulli, ieri giudicato “impresentabile” alle politiche e oggi sponsorizzato dal Pd locale. Intanto ad Agrigento le primarie del centrosinistra vedevano in testa Riccardo Gallo Afflitto, vicesegretario regionale di Forza Italia, promotore di una lista civica. Molte cose non tornano. E non c’è da meravigliarsi se alle ultime regionali il Pd ha dimezzato i voti nella sua Emilia e a Livorno, storica roccaforte rossa, ha conservato sì un sontuoso 52 per cento, ma è stato punito alle contemporanee comunali nelle quali gli elettori hanno preferito il grillino Nogarin. Intendiamoci, nel suo viaggio Barca ha incontrato anche un robusto Pd né cattivo né dannoso né pericoloso, anzi, ma che spesso fatica a imporsi sull’altro. Là dove ce la fa, ecco i “luoghi ideali”, simili a quelli dove in questi mesi sono stati avviati significativi progetti pilota. Mi permetto di suggerirne un altro: che almeno un circolo in ogni città chieda a Renzi di estendere il metodo Barca in tutta Italia così che l’indagine sullo stato del Pd conquisti il primo posto nel programma del partito. Sì, forse ne vedremo delle belle. Ma lo sforzo di trasparenza e di pulizia aiuterebbe a riprendere quella fiducia in se stessi che in tanti è andata dispersa.
A D’Alema bonifici per 87 mila euro. Vino
e fondazione, i versamenti all’ex premier. I pm
potrebbero sentirlo Nelle intercettazioni i timori dei dirigenti della coop Cpl:
siamo ascoltati, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della
Sera”. Erano forniture annuali quelle che la «Cpl Concordia» ordinò all’azienda
«La Madeleine» di Massimo D’Alema. Spumante e vino rosso per 22.500 euro.
Complessivamente i versamenti ammontano dunque a 87mila euro in tre anni. Soldi
che i vertici della cooperativa sostenevano di aver elargito «perché è molto più
utile investire negli “Italianieuropei”». E di questo si parlerà domani nel
corso degli interrogatori di garanzia di Francesco Simone, che curava le
pubbliche relazioni dell’azienda, e del presidente Roberto Casari, entrambi
arrestati per dall’associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà
degli incanti, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. E
chiarimenti sulla natura di questi rapporti potrebbero essere chiesti allo
stesso D’Alema: i magistrati stanno valutando la sua convocazione dopo aver
ascoltato la versione degli indagati. Non sarà l’unico. L’inchiesta che ha
portato in carcere il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino per le tangenti che
avrebbe preso per affidare la metanizzazione dell’isola alla «Cpl» si allargano
ai rapporti della cooperativa con le altre Fondazioni create dai politici. E
inseguono i soldi all’estero: a San Marino, dove Simone dice di poter muovere
fondi, ma soprattutto in Tunisia. È lo stesso manager, in passato fedelissimo di
Bettino Craxi, a vantarsi con il presidente del consiglio di amministrazione
Maurizio Rinaldi, della propria capacità di muoversi nel Paese africano: «Se tu
vuoi vieni una volta con me in Tunisia che è una cosa più sicura, ti apri il tuo
conto oppure fai un’altra società che costa duecento euro... Tunisia, offshore,
dove tu sei socio unico e garante, nella mia stessa banca, così è più veloce
l’operazione». Lui faceva la spola continuamente e quando si trattava di
nascondere i soldi da far rientrare in Italia li nascondeva nei posti più
strani, compreso il passeggino del figlio. Nelle conversazioni intercettate nel
marzo del 2014 Simone parla con una dipendente di «Italianieuropei» per
l’acquisto di 500 libri di D’Alema da presentare a Ischia. Specifica di essere
«disposto a pagare cifra piena se i soldi vanno alla Fondazione», altrimenti
chiede uno sconto del 10 per cento. La donna lo rassicura che il pagamento sarà
diretto e così si accordano per la fornitura dei volumi «ma anche del vino,
uniamo l’utile al dilettevole».
In realtà quelle bottiglie non sono le uniche acquistate. Secondo una nota dei
carabinieri del Noe, delegati alle indagini, «nel 2013 sono state comprate 1.000
bottiglie di spumante per 14.600 euro e nel 2014 altre 1.000 bottiglie di vino
rosso per 7.900 euro». Uniti a tre bonifici da 20.000 euro l’uno elargiti alla
Fondazione e alle centinaia volume «Non solo euro» fanno 87.300 euro. Quando
decidono quali Fondazioni devono finanziare i vertici di «Cpl» sono molto
espliciti, come spiega il responsabile commerciale in un colloquio del maggio
scorso. Verrini : «Il mio problema però è questo, queste persone poi quando è
ora, le mani nella merda ce le mettono o no?». Simone : «...dobbiamo pagarlo
perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento...». Non
si sa a chi si riferiscano, gli atti sono coperti da omissis «per ragioni
investigative». Certo è che un filone dell’indagine, come scrive il giudice, si
concentra sui versamenti «al mondo politico-istituzionale, ovvero a quelle
fondazioni o associazioni che in qualche modo sono espressione di tale mondo». E
infatti sottolinea come «il tenore e il contenuto della conversazione appaiono
fondamentali anche per la valutazione delle esigenze cautelari, e in particolare
della pericolosità sociale dei protagonisti della vicenda, rappresentando lo
“specchio” della strategia aziendale di tale cooperativa, con particolare
riferimento ai rapporti e alle relazioni “patologiche” esistenti tra gli uomini
espressione di tale cooperativa da una parte ed esponenti politici (e più in
generale della pubblica amministrazione) dall’altra, rapporti sovente
“schermati” attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura».
Accertamenti che riguardano anche i rapporti diretti con chi si sarebbe mostrato
disponibile ad agevolarli, come il sottosegretario Simona Vicari, vera
promotrice dello sblocco di 140 milioni di euro nella legge di stabilità come
loro avevano sollecitato e sul conto della quale sono tuttora in corso nuove
verifiche. Dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori si capisce che
alla Cpl c’era la consapevolezza di essere al centro di una indagine. «Siamo
ascoltati», dice Simone a Verrini. In un’altra conversazione Simone fa
riferimento al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi (già coinvolto
in altre inchieste) e parla della necessità di ricercare microspie negli uffici
della cooperativa: «Ho parlato con un assistente di Adinolfi... Serve fare una
bonifica, Nicò! Quando mi autorizzi chiamo il generale, ce la facciamo fare,
però ovviamente ci farà un prezzo di riguardo. Però facciamola».
A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.
D’Alema e il caso Ischia: «Così la magistratura si delegittima da sola. Il Csm e l’Anm devono intervenire». L’ex premier: «Non ritengo legittimo l’uso di intercettazioni come quello nei miei confronti. Abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ora si criminalizza quello privato», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Il giorno dopo, Massimo D’Alema è ancora «indignato e offeso».
Davvero non ha trovato una ragione a giustificazione dei magistrati che hanno inserito il suo nome nell’ordine d’arresto per le presunte tangenti a Ischia?
«E quale potrei trovare? Si parla di un’ipotesi di reato, tutta da dimostrare, in cui io non c’entro. Non c’era alcuna necessità di utilizzare intercettazioni fra terze persone, senza valore probatorio, dove si parla di me de relato. Allora mi viene il sospetto che ci sia un motivo, per così dire, extra-processuale».
Sarebbe a dire?
«Dubito che la notizia dell’arresto del sindaco di Ischia e qualche suo presunto complice sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali, se nell’ordinanza non fossero stati citati D’Alema, Tremonti, Lotti o qualche altro personaggio di richiamo. Ma se questa fosse la logica che ha ispirato i magistrati, ci sarebbe da preoccuparsi. Non per me, ma per il funzionamento della giustizia. Anche perché negli ultimi tempi si sono susseguite diverse assoluzioni che hanno sconfessato le indagini, soprattutto nei confronti di amministratori locali addirittura arrestati. Se le inchieste avessero l’obiettivo di una più efficace ricerca delle prove, anziché di qualche forma di pubblicità, credo sarebbe più utile alla giustizia e alla moralità pubblica».
Che fa, delegittima anche lei la magistratura solo perché stavolta è stato toccato dal «pubblico ludibrio» delle intercettazioni?
«Io non delegittimo nessuno. Sono stato a lungo indagato e sempre prosciolto, anche quando avevo responsabilità di governo. Un pm ha dovuto risarcirmi per i tempi troppo lunghi di accertamento della verità, a spese dei contribuenti, come credo che per altre ragioni sia capitato pure al pm di Napoli titolare di questa indagine. Credo però che l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, ma anche l’Associazione magistrati, dovrebbero esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola. Non ritengo legittimo un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti».
Ha riforme da suggerire?
«No, dico che serve maggiore autocontrollo tenendo presente che i magistrati devono accertare fatti e reati, senza attribuirsi funzioni politiche o pubblicistiche di altro genere. Proprio per mantenere integro il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e che io conservo: sono un garantista, ma anche un legalitario».
Nelle intercettazioni gli indagati dicono che lei era disponibile a «mettere le mani nella merda» per loro, e che già gli «aveva dato delle cose»; parole che per pm e giudice non sono affatto irrilevanti. Non è questo suo presunto ruolo che dovrebbe indignarla e offenderla?
«Io ho solo aderito agli inviti a partecipare a iniziative pubbliche. Non ho fatto niente per queste persone, che sono state interrogate: immagino che se i magistrati avessero ritenuto di dovermi contestare dei reati lo avrebbero fatto. D’altra parte, se hai motivo di ritenere che ci sia stato un illecito, me lo contesti e io mi difendo. Insomma, compito del magistrato è provare a verificare il contenuto di quelle parole, che possono essere millanterie, frasi in libertà o qualunque altra cosa, prima di darle in pasto al pubblico».
Lei che rapporti aveva con le persone arrestate?
«Il sindaco di Ischia Ferrandino l’ho conosciuto nel 2014, quindi quando il presunto reato era, eventualmente, già stato consumato. Con i responsabili della Cpl, Roberto Casari e Francesco Simone, avevo rapporti più risalenti nel tempo, ma non ho mai fatto alcunché di illecito, né me l’hanno chiesto. Del resto se in due anni di intercettazioni non c’è la mia voce qualcosa vorrà dire...».
Dunque non sa perché dicessero quelle frasi?
«Io no. Mi auguro che i magistrati lo chiedano a loro».
E l’acquisto dei suoi libri e dei suoi vini?
«L’acquisto dei libri, legato a una presentazione in concomitanza con un’iniziativa elettorale a favore di Ferrandino candidato alle elezioni europee del 2014, rientra nei finanziamenti che noi raccogliamo per la fondazione Italianieuropei , un’associazione culturale che pubblica una rivista prestigiosa e svolge molte iniziative importanti. Tutto alla luce de sole, così come le donazioni, regolarmente messe a bilancio. Quando abbiamo cominciato, sedici anni fa, abbiamo ricevuto sostegno da Pirelli, dalla Fiat, da De Benedetti e molte altre imprese. Quanto al vino, mi scusi ma mi viene da sorridere: se i pm vogliono acquisire agli atti una buona guida enologica scopriranno che i nostri spumanti sono segnalati tra i migliori, ed è notorio che in occasione delle festività le aziende ne acquistano in quantità per regalarli. Li abbiamo venduti e fatturati, concedendo la possibilità di pagare quattro mesi dopo: siamo noi che abbiamo fatto il favore alla cooperativa, non viceversa».
L’acquirente dice che fu lei a chiedere di comprare...
«Nel particolare non mi ricordo. Ma in generale consiglio a tutti di comprare il nostro vino. Spero non sia un reato grave... Ho sentito anche dire che siccome io sono una persona nota c’è chi compra per simpatia e dunque questa sarebbe concorrenza sleale, ma vale anche il contrario: c’è chi non compra per antipatia, come è ovvio e lecito che sia. Dov’è il reato?».
Reati a parte, ci sono questioni di opportunità politica che emergono dalle indagini e hanno un loro peso. Come è capitato all’ex ministro Lupi.
«Premessa la mia totale solidarietà nei suoi confronti, credo che ci sia un po’ di differenza tra l’avere la responsabilità di un ministero e contemporaneamente rapporti con chi ottiene appalti e commesse, lavorando proprio con quel ministero, e chi, senza incarichi istituzionali, continua a fare politica da privato cittadino».
E raccoglie fondi per la sua fondazione, come faceva quando era parlamentare...
«Prima è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti, ora si criminalizza il finanziamento privato della politica. E dopo che resterà? Lo chiedo in generale, perché Italianieuropei non ha mai beneficiato di finanziamenti pubblici, ma ha sempre vissuto con il sostegno di semplici cittadini e imprenditori. Sono favorevole a regole di maggiore trasparenza nel finanziamento delle fondazioni, magari accompagnate con qualche serio incentivo fiscale. Ma episodi come quello di cui stiamo parlando spaventano le persone e le allontanano anche da legittime attività di sostegno. Per questo io sono preoccupato: non per l’azienda di famiglia, ché anzi, gli ordini dei vini stanno aumentando in segno di solidarietà, bensì per il futuro di Italianieuropei».
E per il futuro del Pd? I fatti emersi negli ultimi tempi non sono sintomo di una «questione morale» nel partito e nella sua classe dirigente?
«Il Pd è un partito di governo a tutti i livelli. E questo, naturalmente, lo espone a rischi di compromissione e inquinamento, che non debbono essere sottovalutati. È evidente che ci vuole maggiore vigilanza».
La vera storia del vino di D'Alema. Presto interrogato dai giudici, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questa storia è tutto rosso o per lo meno rosé: le Coop, le presunte tangenti e pure il vino. Infatti nell’inchiesta della procura di Napoli che indaga sui fondi neri e le presunte mazzetta pagate dalla Cpl Concordia, spunta il nome dell’azienda vitivinicola della famiglia di Massimo D’Alema, La Madeleine, adagiata sulle colline umbre tra Otricoli e Narni (Terni). Nei giorni scorsi l’ex premier è stato avvistato nello stand dei produttori umbri del Vinitaly, intento a vendere personalmente le sue etichette. Ma dalle nuove carte giudiziarie apprendiamo che per piazzare i suoi “rossi” Baffino preferisce andare sul sicuro e rivolgersi ai vecchi compagni. Uno degli arrestati di ieri, il barese Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, il 6 novembre aveva dichiarato agli inquirenti: «Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rapprsentarvi che fu Massimo D’Alema in persona, in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente Casari a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice Amelia Primavera nell’ordinanza chiosa con una certa perfidia: «Visto il prezzo pagato dalla Cpl Concordia per ciascuna delle 2.000 bottiglie di vino acquistate (non si tratta di un prodotto da somministrare in una mensa aziendale) si tratta evidentemente di un’altra delle "eccezioni" cui faceva riferimento lo stesso Simone per parlare dell’acquisto dei libri». Ma quanto valgono 2 mila bottiglie di nettare rosso dalemiano? L’ordinanza non lo svela. La moglie di Massimo D’Alema, Linda Giuva, procuratore speciale dell’azienda, si limita a farci sapere che i prodotti sono stati inviati in tre momenti diversi (novembre 2013, aprile 2014 e ottobre 2014) e che «gli acquisti sono stati fatti in occasione delle festività». Tre le etichette vendute: il prodotto base, in vendita a 9,50 euro, il Cabernet Franc "Sfide"; lo spumante Nerosé (17,50 euro) e il pinot nero Narnot, (29 euro, 70 il magnum). Tutte ideazioni dell’enologo dei vip Riccardo Cottarella. «I pagamenti sono avvenuti tramite bonifico bancario che hanno seguito le fatture di circa mediamente 130 giorni (…) i prezzi sono stati quelli di listino». La signora sottolinea che la Cpl il regalo non lo ha fatto a loro, ma ai propri clienti, visto che i vini della Madeleine piacciono e «un’etichetta è esaurita da più di tre mesi». Forse per questo la coop si è anche preoccupata di organizzare la presentazione dell’ambrosia di casa D’Alema nell’isola di Ischia. Il solito Simone ne discute al telefono con la segretaria della Fondazione Italianieuropei dello stesso D’Alema: «Io ho poi parlato con (…) la Linda (…) perché siccome noi come Cpl abbiamo preso anche alla signora del vino (…) volevamo fare un’iniziativa di presentazione del vino suo loro a Ischia con tutti i ristoratori e gli albergatori una cosa bella… l’utile al dilettevole: presenteremo il libro (di D’Alema ndr) e…». Il vino. Simone ha le idee chiare: «Volevo organizzare un fine settimana a Ischia per presentare il libro e poi a latere senza ovviamente nessuna evidenza pubblica mentre il libro sarebbe una manifestazione pubblica». Quindi in piena campagna elettorale per le Europee del 2014 "il compagno D’Alema" come lo chiamano un po’ ironicamente gli indagati, promuove la sua ultima impresa editoriale e la moglie, a rimorchio, le bottiglie. La coppia nel luglio scorso ha avuto l’onore di ricevere praticamente sotto casa, a Gallipoli, (storico buen retiro dalemiano) il premio Barocco, «condotto con sobrietà da Alba Parietti» si legge sul sito della Madeleine. Nella motivazione si ricorda «che la nuova avventura imprenditoriale rappresenta una delle tante "Sfide" che Linda Giuva ha portato avanti nella sua vita, ricordando così il nome di uno dei prodotti della Madeleine». La Parietti che premia l’amica Linda è la metafora perfetta di una "sfida" solo immaginaria, la vendita del proprio vino nel circuito delle coop rosse più riconoscenti e disponibili. Nella Madeleine non mancano altri incroci curiosi. Per esempio il socio dei figli di D’Alema è l’imprenditore barese Francesco Nettis, conosciuto attraverso Roberto De Santis, sodale da quasi 40 anni di Baffino e già armatore della sua barca a vela. De Santis è stato recentemente perquisito nell’inchiesta sulle Grandi opere di Firenze e con Nettis ha usufruito di una vacanza in barca a Saint Tropez con belle fanciulle al seguito a spese di Giampaolo Tarantini, il presunto procacciatore di escort per Silvio Berlusconi. L’esclusiva crociera doveva servire a «ricompensarlo (De Santis ndr) delle conoscenze (D’Alema compreso ndr) che mi aveva fatto fare» ha detto Tarantini a verbale. E gli intrecci non sono finiti. Nel 2009 Francesco D’Alema, erede non ancora diciannovenne dell’ex premier, ha acquistato il 40 per cento dell’azienda agricola da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, fiscalista noto alle cronache anche per alcune traversie giudiziarie oltre che proprietario di un esclusivo resort molto amato dal fu Lìder Maximo. Per dieci mesi questo professionista è stato il socio "occulto" del cadetto di casa D’Alema. Poi l’ex segretario dei Ds ha acquistato l’intero pacchetto. Non prima di aver indicato a Melpignano, il nome del "compagno" Adolfo Orsini, ex dipendente di Asl e sindaco di Città di Castello (Perugia), per l’incarico di «rappresentante delegato della società agricola» nell’acquisto dei «diritti di reimpianto» di viti presso diversi agricoltori locali. Orsini nel 2010 diventa così l’amministratore unico dell’Agenzia regionale umbra per lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura ed è probabilmente anche grazie alla sua esperienza che la Madeleine ottiene 57mila euro di finanziamenti regionali. Orsini è stato socio anche nella Soluzioni di business (Sdb) di Vincenzo Morichini, pure lui umbro, ex socio di D’Alema nella barca a vela Ikarus e suo fundraiser per la fondazione Italianieuropei. Quando nel 2011 Morichini viene coinvolto in una vicenda di appalti e mazzette, legati all’Enac, l’ente dell’aviazione civile, il nome di Orsini finisce in un pizzino con un elenco di presunti contributi sospetti a politici, ma la sua posizione viene subito chiarita. Il 27 settembre 2013, con un decreto del ministero delle Politiche agricole, è nominato consigliere dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea), poltrona su cui è stato riconfermato l’estate scorsa. Ecco la morale della favola: per le sue “Sfide” D’Alema preferisce affidarsi a un rodato circuito di amici e compagni. Che, miracolosamente, ottengono incarichi ed appalti. Per poi brindare, magari, con un Nerosé della real casa.
"Non sono come Lupi". D'Alema passa nel torto pure quando ha ragione. Nel difendersi dalle insinuazioni cade nella solita superiorità morale della sinistra. E così la vigliaccata su di lui finisce in secondo piano, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. È stato sputtanato a sangue, anzi a vino, merda e libri, con un cocktail di intercettazioni micidiali fornito dalla ditta Woodcock. Nessuna indagine su di lui, ma citazioni perfette per annegarlo a testa in giù nel cabernet della sua cantina. Una vigliaccata, non si fa. A nessuno. E lo abbiamo scritto. Come reagisce, Massimo D'Alema? È inutile, è più forte di lui: crede di essere il primo e unico essere superiore vittima di questo trattamento di immersione nella fossa dei coccodrilli. Siccome però vede che c'è un altro tizio arrivato lì poco fa tra le fauci degli alligatori, precipitato anche lui con al collo le intercettazioni senza essere indagato, che fa D'Alema? Come un Conte Ugolino lo morde sulla nuca. In prima pagina, Il Mattino di Napoli titola: «Io, offeso e indignato non sono come Lupi». È un messaggio destinato al popolo comunista, ma se possibile diretto anche a Zeus che poteva tirargli fulmini, inviargli come a Prometeo un'aquila a squarciargli il petto e a divorargli il fegato: però solo a lui. Cos'è questa confusione? Cosa ci fa lì, anche Maurizio Lupi? No, questo per D'Alema è insopportabile. Persino quando ha ragione, Massimo D'Alema riesce ad aver torto, a manifestarsi per quella creatura umana sì, ma diversa, tipicamente figlia dell'educazione comunista, per cui lui, gettato a terra da mosse schifose dell'avversario, riesce a rivoltarsi e per prima cosa sputazza sui compagni di sventura. È superiore moralmente anche nelle intercettazioni. Guai ad accomunarlo alla genia degli esseri che non sono stati introdotti da piccoli alla visione estatica di Palmiro Togliatti. Nello specifico. Dove sta la differenza con Lupi? Abbiamo provato a scavare. In effetti. La storia dei vini firmati D'Alema acquistati dalla cooperativa Concordia, nel numero di duemila bottiglie, sono cose normali, normalissime. Ad esempio. A Predappio si produce il vino del Duce, un sangiovese ovviamente nero, e i nostalgici lo acquistano non per le recensioni del Veronelli e del Gambero Rosso, ma poiché credono di rinvenirvi sentori residui di olio di ricino e di palmizi imperiali per la gloria dell'idea fascista. Immaginiamo accada la stessa cosa con le etichette di casa D'Alema: sono un segno di appartenenza, le Coop rosse si specchiano in quei riflessi e così i loro clienti, se mai avessero un dubbio, capiscono chi è il loro santo in Paradiso, e nella vigna. Ovvio. In fondo, anche se con finali diversi, sono entrambi, Benito e Massimo, ex primi ministri. Siamo assolutamente certi che per decidere la commessa (i prezzi per i privati, comprensivi di Iva, partono dalle 9,50 euro del Cabernet Franc Sfide alle 17,50 del Nerosè) abbiano nominato una commissione di enologi che hanno assaggiato alla cieca trenta diverse bottiglie di rosso, scegliendo il migliore. O no? Così per i cinquecento libri prodotti coi grappoli ubertosi cresciuti nella testa del medesimo D'Alema, Non solo euro. Anche lì ordinati si suppone previa consultazione di una severa e imparziale giuria della Fondazione Gramsci. O no? Ciascuno ha le sue idee. Ma perché caro D'Alema ci tieni così tanto a stabilire le distanze da Lupi, implicitamente dandogli del disonesto? Sostieni di essere un «pensionato», mentre Lupi era un ministro, dunque è diverso, molto diverso. Le intercettazioni fanno presente tuttavia che in realtà D'Alema vi è rappresentato come un pensionato piuttosto vispo e in carriera. Siamo costretti alla citazione da D'Alema, se no come si fa il paragone? «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Insomma: comprano per imbonirsi uno molto bravo a interessarsi delle cose, e che presto diventerà super-ministro. E com'è nato l'acquisto della partita di vini dalemiani? Stralcio di verbale d'interrogatorio dell'acquirente: «Posso rappresentarvi che fu D'Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l'acquisto dei suoi vini». Si noti poi il particolare fornito dal compratore per conto della Coop Concordia: i vini sono dell'«azienda della moglie di D'Alema». Secondo noi ha ragione D'Alema. Non è come Lupi. Lupi è meglio.
Giuliano Ferrara a Massimo D'Alema: scrivi un libro. Un consiglio, quasi un'esortazione quella che Giuliano Ferrara fa a Massimo D'Alema su Il Foglio, scrive “Libero Quotidiano”. Un consiglio elargito sotto forma di una lettera che comincia così: "Gentile D'Alema che lei si senta "indignato e offeso". Una cooperativa amica può comprare derrate di suoi libri ed ettolitri del suo vino senza che il venditore debba sentirsi infamato da un reato penale, magari per accostamento a pratiche corruttive del sindaco di Ischia (da provare) o addirittura al clan dei Casalesi specie se l'accostamento sia ricavato da intercettazioni in cui se ne dicono delle brutte". Ferrara spiega come anche lui sia "schifato" dall'uso che ne viene fatto dalle intercettazioni. E evidenzia come Il Foglio si sia sempre "indignato e offeso" "di fronte a questa manomissione del diritto e della verità storia e dell'autonomia della politica". Fatta questa premessa, l'ex direttore dà un consiglio all'ex premier: scrivere un libro. Un libro-verità "che metta definitivamente le cose a posto". Sarebbe un caso editoriale. E poi la battuta finale: "Ne acquisteremmo tre, quattrocento copie, e poi faremmo un brindisi con il suo buon vino di Umbria".
Arrestato il vino di D'Alema. Milioni, mazzette e bottiglie: manette nel Pd e nella super coop, scrive Salvatore Tramontano su Il Giornale”. Dopo Lupi, D'Alema. I malpensanti diranno che chi attraversa la strada di Renzi si ritrova con la faccia nel fango. È la teoria del gatto nero, che si specchia con quella governativa dei gufi. La realtà è meno scaramantica e forse anche un po' più preoccupante. Lupi e D'Alema non sono indagati, ma la condanna delle intercettazioni vale più di una sentenza. Sono le frasi a effetto che fanno la differenza, i simboli. A Maurizio Lupi sono stati fatali la mezza raccomandazione a favore del figlio e l'orologio superlusso, per D'Alema il vino comprato dalla Coop coinvolta nello scandalo e il dialogo «rubato» tra due esponenti della stessa cooperativa. Ecco cosa si sono detti: «Ci sono politici che mettono le mani nella merda e quelli che non lo fanno. D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose». Quello che un tempo era l'uomo forte del Pd urla tutta la sua rabbia contro questo gioco di ventilatori. Si chiede come sia possibile che queste intercettazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta finiscano su stampa e tv. Perché? Con quale obiettivo? Secondo quale legge ed etica? Benvenuto a giustiziopoli. D'Alema ha fatto conoscenza con il metodo Woodcock, il pm acchiappavip, che da Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele, da vallettopoli alla famiglia Mastella si è specializzato nel tanto rumore per nulla. Solo che le risposte alle sue domande sono tutte a sinistra. Le procure da almeno vent'anni i processi li fanno prima. Le intercettazioni da strumento utile per le indagini sono ormai una gogna politica. Ed è certo che le carte non escano da sole dagli uffici giudiziari per accomodarsi nelle pagine dei giornali. C'è qualcuno che le passa e spesso sceglie i tempi dell'uscita. L'indignazione di D'Alema è arrivata con decenni di ritardo. Non era lui quello della scossa sulla testa di Berlusconi? Ma peggio di D'Alema stanno le Coop rosse. Non c'è inchiesta che negli ultimi tempi non le veda protagoniste. È la caduta buzziana di Mafia capitale, è l'affare delle grandi opere, e questa volta a Ischia finisce nella polvere la Cpl Concordia, re del metano e una delle cooperative più antiche d'Italia. Sembra la fine di un sogno, di un'utopia. C'era una volta la coop sei tu, il sogno padano della terza via tra capitalismo e comunismo. La coop riconosciuta e protetta dalla Costituzione. C'è da chiedersi invece come la ragnatela delle Coop rosse sia diventata una fabbrica di appalti sospetti, in una zona grigia di politica e affari. Una cooperazione a delinquere.
D'Alema minaccia il giornalista: "Mi dica il nome, la denuncio". Il giornalista di Virus gli chiede del vino acquistato dalla coop finita nell'inchiesta per mazzette. D'Alema sbotta: "La querelo". Nicola Porro: "Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi", scrive Sergio Rame Mer, 01/04/2015, su “Il Giornale”. "Gli acquisti (del vino, ndr) sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd, sono stati regolarmente fatturati e sono avvenuti in prossimità delle festività, evidentemente per fare regali come fanno molte imprese". Massimo D'Alema perde le staffe e sbotta. Non riesce proprio a sopportare la domanda di un giornalista di Virus che gli chiede delle bottiglie di vino acquistate dalla CPL Concordia, la cooperativa rossa finita nell'inchiesta per mazzette a Ischia. "Io la querelo - tuona l'ex premier davanti a tutti - non sarebbe il primo oggi". Poi minaccia: "Mi dia il suo nome, le arriverà una denuncia". All'Università di Bari, dove partecipa al convegno Sprofondo Sud sull’ultimo numero della rivista Italianieuropei, D'Alema si scontra duramente con Filippo Barone, giornalista della trasmissione Virus che domani sera torna su Rai 2 con Nicola Porro. Barone interroga l'ex premier proprio sull'opportunità di mischiare una convention del Pd alla vendita di vini. "Come risulta chiaramente dalle fatture - replica, secco, l'ex Ds - quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni, in prossimità di festività, evidentemente per fare regali, come fanno molte imprese e sono stati fatturati ad un trattamento di favore, con pagamenti a quattro mesi e non in una convention del Pd". Come ricostruisce lo stesso D'Alema, si è trattato di "acquisti avvenuti nel corso di due anni, regolarmente fatturati e non certo nel corso di una convention del Pd, non c’entra nulla". Poi, rivolgendosi al giornalista di Virus che gli ha posto la domanda, aggiunge: "E siccome sto denunciando diversi giornali, denuncerò anche lei, lei dice cose sciocche". In una intervista al Corriere della Sera, poi, D'Alema invita il Csm e l’Associazione nazionale magistrati a "esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola". "Non ritengo legittimo - conclude - un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti". Ogni volta che l'abuso delle intercettazioni va a colpire un democrat, si apre un caso nazionale. Quando tocca a un esponente del centrodestra, allora tutto passa sotto silenzio. "Si risparmi le querele - scrive Nicola Porro su Facebook - si adoperi piuttosto per cambiare le leggi". Il caso D'Alema sarà tra i temi della puntata di Virus di domani. "Sono convinto, per quello che conta, che queste intercettazioni sono una schifezza - continua Porro - per di più il metodo Woodcock che ben conosco, si basa su intercettazioni a strascico". Il conduttore di Virus è d’accordo con D'Alema sul fatto che se non lo avessero tirato in ballo, tutta l’inchiesta avrebbe avuto minore rilevanza mediatica. "Detto questo - chiosa - mi chiedo per quale dannato motivo quando si è parlato delle intercettazioni e delle leggi che le volevano regolamentare il nostro Leader maximo non si è adoperato per farle passare anzi in un caso le ha esplicitamente affossate. E mi chiedo per quale motivo la sinistra fino a quando non è toccata direttamente fischietta facendo finta che non ci sia un problema con la giustizia spettacolo". Poi Porro incalza: "Ci spieghino, cosa dobbiamo fare allora? le intercettazioni del Cav, dei suoi amici, di oscuri consiglieri regionali, di faccendieri vari; favolette come la culona della Merkel o regali di Rolex possono finire in tv, diventare miti e quelle che riguardano Dalema no? Domani - conclude Porro - Virus ha intenzione di parlare anche di queste cose e delle inchieste di Woodcock il cui stile di intercettazione e di inchieste viene improvvisamente scoperto dalla sinistra. Ben arrivata e si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi".
D’Alema: «Tutelare non indagati». Denuncerò chi dice il falso». In mattinata sfuriata contro un giornalista sulla questione dei vini alle coop. In serata replica dell’Anm: «Pensare ai reati». Gratteri: punire pubblicazione arbitraria, scrive “Il Corriere della Sera”. «Che noi abbiamo venduto dei vini alla cooperativa Cpl è vero, però non ho capito perché questo debba essere contenuto in un atto giudiziario dal momento che non è un reato». Massimo D’Alema non usa mezzi termini riguardo alla vicenda che lo vede coinvolto, intercettato nell’ambito di un’indagine per presunte tangenti a Ischia. «Non sono indagato per nessun reato - ha detto con fermezza da Bari, dove si trovava per un convegno della Fondazione che presiede Italiani Europei. Allora - ha continuato - perché si devono rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone, tra l’altro in questo caso si tratta di mia moglie, che non sono indagate, che non hanno compiuto alcun reato. E che vengono semplicemente gettate in pasto così all’opinione pubblica per poter essere diffamate. Occorre - ha concluso - una tutela delle persone che non sono indagate». Concetti che aveva già ribadito in un’intervista al Corriere,sostenendo che, così facendo, «la magistratura si delegittima da sola». E in serata arriva la reazione dell’Anm: «Fermare l’attenzione sui fatti gravi di corruzione che stanno emergendo, non sulle polemiche»: è l’invito alla stampa dell’Anm. .La riservatezza «va tutelata», ma «non si mettano in discussione le intercettazioni come strumento di indagine». A proposito del diritto di difesa e riservatezza delle comunicazioni, nel frattempo, una nuova fattispecie di reato di «pubblicazione arbitraria di intercettazioni» viene proposta dalla commissione Gratteri. Il nuovo reato si accompagnerebbe, tra l’altro, alla previsione dell’«inedito divieto» all’autorità giudiziaria a inserire il testo integrale delle intercettazioni. Quest’ultima disposizione - è scritto nella proposta - «mira a una tutela rafforzata del diritto di privacy, eliminando il fenomeno negativo della divulgazione, proprio tramite gli atti dell’autorità giudiziaria, del contenuto di informazioni che esulano l’accertamento processuale. Si vuole così porre uno deciso e serio sbarramento alla possibilità che la lesione alla sfera riservata degli intercettati possa trovare la sua origine nell’ attività di impiego procedimentale o processuale dei risultati delle intercettazioni». Intanto, a margine del convegno, è scoppiata una lite tra D’Alema e un giornalista del programma tv Virus. «Lei ha detto -si è infuriato l’ex premier - che ho venduto il vino durante una convention del Pd, come si chiama lei, scusi? Devo trasmettere al mio avvocato questa informazione. La prego di mandare questa registrazione, avrà una denuncia». Un’intemerata che si è svolta sotto gli occhi delle telecamere: «Quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd. Lei dice delle cose sciocche perché quegli acquisti, come risulta chiaramente dalle fatture sono avvenuti nel corso di due anni, sono stati regolarmente fatturati, sono avvenuti in prossimità delle festività evidentemente per fare molti regali come fanno molte imprese e sono stati fatturati con trattamento di favore, diciamo, perché con fatture a 4 mesi», ha spiegato, ribadendo: le bottiglie «non sono state vendute nel corso di una convention del Pd, quindi la pregherei, siccome sto denunciando, oggi, diversi giornali, denuncio anche lei, con l’occasione». «Ben arrivata» alla sinistra sulla questione intercettazioni e «si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi», scriveva qualche ora dopo sulla sua pagina Facebook Nicola Porro, conduttore di Virus, criticando l’uscita dell’esponente Pd. «Mi dispiace di essermi arrabbiato con un collega - si è giustificato poco dopo D’Alema - ma metterei in guardia i giornalisti dal dichiarare o scrivere simili e palesi sciocchezze». E che all’ex premier la faccenda non sia andata giù lo rivela la nota dei suoi legali, che dicono di aver «ricevuto mandato di tutelare la sua onorabilità in sede sia civile che penale da ricostruzioni evidentemente errate e strumentali che compaiono oggi su alcuni organi di stampa». Sono sempre gli avvocati a ricostruire: «L’on. D’Alema - sottolineano - non ha personalmente ricevuto alcunché dalla cooperativa CPL Concordia, né direttamente né indirettamente. La CPL Concordia ha acquistato copie del libro `Non solo euro´ in occasione di una manifestazione politica in vista delle consultazioni elettorali europee del 2014 e, nell’arco di un biennio, circa 2.000 bottiglie di vino dell’azienda agricola della famiglia del Presidente D’Alema, regolarmente fatturate e pagate con bonifici a quattro mesi di distanza dalla fornitura. Infine la CPL Concordia ha effettuato, in tre diverse annualità, finanziamenti del tutto leciti alla Fondazione Italiani Europei, che notoriamente non è una fondazione personale dell’on. D’Alema ma un istituto che egli presiede e dirige, politicamente e culturalmente, a titolo del tutto volontario, senza beneficiare né direttamente né indirettamente dei contributi che la stessa riceve per la sua attività». Il caso D’Alema riporta così alla ribalta il tema delle intercettazioni, che spesso coinvolgono anche non indagati all’interno di inchieste delicate (vedi recentemente il caso Lupi, costretto a dimettersi da ministro).«Un intervento del legislatore sarebbe opportuno, non limitando l’intervento della magistratura e non mettendo il bavaglio alla stampa, ma tutelando l’onorabilità e la riservatezza delle persone non indagate», dice il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, a margine di un convegno su «Economia e legalità» a Roma. «Il presidente D’Alema pone un tema serio, quello della riservatezza e dell’onorabilità delle persone non indagate - ha commentato Legnini - Il Csm però non è munito di poteri d’intervento d’ufficio, può intervenire se investito dal pg o dal ministro». Il tema della fuga di notizie, quindi, «meriterebbe un intervento legislativo appropriato».
Massimo D'Alema: "Una legge per tutelare chi non è indagato", scrive “Libero Quotidiano”. "Non sono indagato per nessun reato, perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Massimo D’Alema non ci sta a vedere il suo nome negli atti dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia e, dal foyer del teatro Petruzzelli di Bari, invoca una legge che avrebbe evitato anche le dimissioni dell'ex ministro Lupi che si è fatto da parte dopo essere stato coinvolto, pur non essendo indagato, nello scandalo "Grandi Opere". Una legge ad hoc - "Serve un intervento legislativo per tutelare l'onorabilità delle persone non indagate, per proteggerle da campagne diffamatorie come questa che mi vede protagonista, me e la mia famiglia", ha tuonato l'ex presidente del Copasir ribadendo la sua difesa: "E' falso che ho ricevuto bonifici per 87mila euro, per questo a partire da oggi abbiamo cominciato a muovere la carta bollata e a intraprendere azioni legali contro quanti hanno avviato questa campagna scandalistica priva di qualsiasi fondamento". Diffamazione - "Ho già avuto modo di esprimere tutta la mia indignazione - ha proseguito D'Alema - per la divulgazione di notizie che riguardano persone a me vicine che non sono indagate, messe in collegamento con un'indagine con cui non hanno nessuna attinenza. Questo episodio conferma quanto affermato oggi dal vicepresidente del Csm, ossia che occorrono delle norme per tutelare i non indagati. Perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Quanto alla Fondazione di cui è presidente, ha precisato: "Definirmi beneficiario dei contributi raccolti dalla Fondazione ItalianiEuropei di cui risulto essere presidente protempore a titolo gratuito è un'affermazione falsa che ha solo carattere diffamatorio".
Massimo D'Alema, parla la moglie Linda Giuva: "Il vigneto? Lo abbiamo acquistato per i nostri figli", scrive “Libero Quotidiano”. Travolto dal suo vino, Massimo D'Alema perde le staffe. Un uomo nel mirino, Baffino. E ora, in suo "soccorso", scende in campo niente meno che la moglie, la riservatissima Linda Giuva, che da sette anni gestisce il vigneto di famiglia, intestato ai figli Giulia e Francesco. Rompe il silenzio, la signora, e lo fa in un'intervista concessa a Repubblica dove parla dei 15 ettari di terreno dei quali 6,5 sono impegnati dal vigneto. "Vorrei fare il mio lavoro - si sfoga -, la produttrice di vino, onesta e laboriosa, senza dover essere inseguita da insulti e basse insinuazioni". Ma non è tutta pubblicità? Sì, lo è, la signora D'Alema conferma: "Abbiamo avuto in queste ore un'impennata di ordini inimmaginabile". La signora racconta che il vigneto, quando fu acquistato, era un allevamento di bovini. Poi spiega perché lo comprarono: per la prole, "con lo sguardo rivolto al futuro dei figli". I vini dei D'Alema, insomma, come una "garanzia" per il futuro dei loro pargoli. Parla il macellaio - Nell'articolo, in cui la signora Linda Giuva si sbottona ben poco, Repubblica si spende poi nell'elogio di D'Alema, citando voci che da Narni, in provincia di Terni, assicurano come "Massimo qui ha portato un po' di benessere". Nell'articolo si dà la parola anche a Fabrizio Nunzi, il macellaio del Paese, che presenta le bottiglie e spiega che un tempo votava per Silvio Berlusconi, ma ora con D'Alema si dà del tu. "Lui mi chiama e io gli preparo il filetto, la coppa di testa o il capocollo, di cui è ghiottissimo". E' forse arrogante, Baffino? Il Macellaio ovviamente rassicura tutti: "Lo pensavo anche io prima di conoscerlo, invece è un uomo senza spocchia. Doveva vederlo ad agosto alla sagra, il Vinotricolando, sembrava uno di noi: era lì con il suo banchetto, fermava le persone". L'inchiesta? "Non ci credo - taglia corto il macellaio -. Il suo vino davvero è buono, lo vogliono in tanti, e dopo questo polverone ancora di più".
Caro Massimo, benvenuto tra i perseguitati, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Negli Stati Uniti il magistrato si tiene le intercettazioni ben strette nel proprio cassetto”. Così il giornalista Federico Rampini nella trasmissione Piazza pulita, ricorda, dal Paese in cui vive e lavora, l’anomalia italiana paragonata a un sistema, come quello americano, dove in uno spazio dieci volte più grande, il numero complessivo delle intercettazioni è pari alla metà di quelle italiano. E del resto, non occorre andare lontano per avere l’esempio di un magistrato che di recente è stato capace di “tenere ben strette nel proprio cassetto” le intercettazioni che lui stesso aveva disposto. Parliamo del Procuratore aggiungo di Venezia Carlo Nordio, che è riuscito a condurre un’inchiesta colossale come quella sul Mose senza che neppure una riga fosse sfuggita dalle maglie del segreto investigativo, intercettazioni comprese. Il che significa che è possibile evitare lo “sputtanamento”, soprattutto di persone non indagate, purché il magistrato, che è il custode naturale della riservatezza delle indagini, lo voglia. E quindi, a contrario, ogni volta che la notizia scappa, significa che il magistrato, prima di tutto ( e con lui le forze dell’ordine che dipendono dal Pm ) lo ha voluto. Intercettazioni depositate in edicola, si dice, con ammiccamento complice, tra giornalisti. E’ capitato, buon ultimo, a un esponente del Pd, Massimo D’Alema, non uno qualunque, ma che ha il torto di non essere sull’inginocchiatoio davanti a San Matteo. Sadicamente, e con un po’ di malizia, avremmo preferito che la vittima dell’ennesimo circo mediatico-giudiziario fosse un amico del premier Renzi, secondo il detto del “chi la fa l’aspetti”. Perché questo problema delle intercettazioni in edicola in genere viene preso a cuore solo da chi lo subisce e dai propri amici. Inoltre gli argomenti usati per lo “sputtanamento”, soprattutto del personaggio politico, sono sempre quelli più adatti a suscitare invidia sociale, dal posto di lavoro per il figlio o l’orologio di valore simbolico come il Rolex ( se così non fosse non esisterebbero i falsi ), come nel caso di Maurizio Lupi, o le bottiglie di vino pregiato come nel caso di Massimo D’Alema. Lo “sputtanamento” è costruito ad hoc per istigare i cittadini all’odio e all’invidia. Il personaggio individuato serve da cappello su inchieste che spesso non conquisterebbero le prime pagine (con conseguente tam tam televisivo e sui social ) senza “il nome” del politico da rosolare. E qui si apre un problema di politica giudiziaria molto serio. Da un po’ di tempo i magistrati delle indagini preliminari hanno introdotto il costume di allegare all’ordinanza di custodia cautelare il testo delle intercettazioni. Il documento complessivo è “a disposizione delle parti”, il che non vuol dire che siano atti pubblici. Ma ormai è come se lo fossero, perché magistrati e forze dell’ordine li distribuiscono a piene mani ai giornalisti dietro l’alibi che i responsabili di queste propalazioni potrebbero anche essere gli avvocati. Ma quale difensore avrebbe interesse a rendere pubbliche intere pagine che danneggiano il loro assistito? La risposta è ovvia. Inoltre, in mezzo alle intercettazioni, ne viene allegata abilmente qualcuna che riguarda un uomo politico famoso, che non è indagato, che spesso non è neppure intercettato (come nel caso di D’Alema ), ma di cui parlano altri. Che cosa si imputa, con titoloni e strilli, al non-indagato che diviene immediatamente un imputato al Tribunale del popolo? Il “comportamento”. Il re dei cattivi comportamenti resta sempre Silvio Berlusconi, e giù moralismi a palate. Ma insomma, anche Lupi e D’Alema: era opportuno che…..e giù moraleggiando. A nessuno ( o quasi ) viene in mente di considerare che il magistrato dovrebbe limitarsi, se proprio deve, ad allegare all’ordinanza solo le intercettazioni relative alla commissione di reati, e non ai comportamenti, soprattutto se di persone estranee. E comunque che dovrebbe tenerle ben strette nel proprio cassetto, come Nordio e tutti i magistrati Usa insegnano. Purtroppo queste questioni non riguardano più solo il mondo della politica, come insegna tutto quanto il processo a Massimo Bossetti, che è già diventato il processo della pubblica moralità, di cui sono diventate vittime, oltre all’imputato, tutte le donne della sua famiglia, nella cui vita affettiva e sessuale si fruga con rara morbosità, in modo che tutti noi “spettatori” possiamo sentirci più virtuosi. Il problema delle intercettazioni (una volta erano i verbali d’interrogatorio ) in edicola non ha soluzione, purtroppo. Perché ogni volta che il Parlamento o un Governo cercano di metterci mano, partono sempre con il cercare di erogare sanzioni all’utilizzatore finale, il giornalista, arrivando persino a tentare di punirlo con il carcere. Si sa già come va poi a finire, con i sindacati, gli articoli ventuno, le senonoraquando, tutti a protestare con il bavaglio sulla bocca e la cosa finisce in niente. Del resto una parte ( ma solo una parte ) di ragione i giornalisti l’hanno, perché il cane cui viene dato l’osso, come fa a non rosicchiarlo? L’unica punizione che veramente meriterebbero certi giornalisti è di essere intercettati, non solo al telefono, anche in camera da letto o sulla Comasina, che è una strada abitualmente popolata da prostitute. Per il resto, l’unico che dovrebbe essere sanzionato ( ma da chi? Dai suoi colleghi?) è il naturale custode della notizia, colui che l’ha prodotta e che dovrebbe tenerla “ben stretta nel proprio cassetto”. Ecco perché il problema non ha soluzione, ecco perché è inutile lamentarsi, caro compagno D’Alema. Benvenuto tra noi.
Arrangiatevi, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Riassunto. Nel 2005 ci fu una convergenza tra Berlusconi e i Ds per una legge sulle intercettazioni, ma nel 2006 i Ds bocciarono la proposta (Castelli) perché c'era la campagna elettorale. Dopo la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta, poi, i Ds ricambiarono idea e nel 2007 ci fu la legge proposta da Clemente Mastella: fu votata da Ds, Margherita, Verdi e Rifondazione comunista, ma poi - tra polemiche arroventate - si arenò al Senato. Nel 2008, durante la campagna elettorale, Walter Veltroni promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea e, in giugno, si accodò alla posizione di Di Pietro e dell'Associazione nazionale magistrati, anche se nel programma Pd restava scritto che pubblicare intercettazioni durante le indagini andava espressamente proibito. Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare finalmente una legge, ma fioccarono manifestazioni (anche un'assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D'Alema che definì la norma "ostruzionistica per le indagini". Nel 2013 i "saggi" nominati da Napolitano dissero che l'uso delle intercettazioni andava ridotto, ma il Pd, in Commissione giustizia, rispose che "il tema non è una priorità". Ora D'Alema non è indagato come non lo era Maurizio Lupi, tuttavia "io non do gli appalti" specifica il Migliore. Il quale è stato sputtanato dalle intercettazioni come Maurizio Lupi, tuttavia "D'Alema non è ministro" specifica l'altro Migliore, il piddino Gennaro. Insomma, D'Alema: vedi titolo.
SPUTTANATI E SPUTTANANDI.
Pd, scandali e risse: la deriva che Matteo Renzi non riesce a fermare. Travolto dalle inchieste. Infiltrato da affaristi e mafiosi. Con gli iscritti in fuga. Il partito democratico è in crisi. E il segretario e premier non sembra poterla controllare, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito buttato», travolto da indagini giudiziarie e da minacce di scissione. È il Pd che si avvia alle elezioni regionali di fine maggio raccontato nell'inchiesta dell'“Espresso” di questa settimana. Un viaggio da Nord a Sud in quello che l'ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano definisce «un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». Con il più importante dei suoi leader storici, Massimo D'Alema, in guerra con la magistratura e con la stampa dopo intercettazioni e notizie senza rilevanza penale che accostano la sua fondazione ai dirigenti della cooperativa Cpl Concordia arrestati da pm napoletani. A Roma e a Ostia il Pd è chiamato a liberarsi dai condizionamenti della mafia. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta quattro mesi fa. In Campania c’è il caso di Vincenzo De Luca e l'arresto a Eboli di funzionari accusati di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi che in realtà è di Forza Italia. Nelle Marche, al contrario, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca guiderà una lista civica di centrodestra con gli uomini di Berlusconi. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Decisionista da capo del governo, da segretario del Pd Renzi si rivela immobilista. Nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro di lui c’è il deserto. «vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente», dice Antonio Bassolino. E sulla scissione, avverte il grande vecchio Alfredo Reichlin, «vedo in Renzi una preoccupazione. Lui sa che non si fa un partito del 40 per cento che vuole rappresentare il Paese nel profondo senza un rapporto con l’elettorato di sinistra e le sue rappresentanze». Ma anche per questo il Pd renziano rischia di apparire un'occasione perduta. Un partito buttato.
Ma che razza di partito è diventato il Pd? Scosso dagli scandali, da nord a sud. Succube dei vecchi apparati. In calo drammatico di iscritti. Diviso fino al rischio di scissione. Si avvicinano le elezioni regionali e il Pd è del tutto fuori controllo. E Renzi sembra incapace di agire, continua Marco Damilano. Vecchia pietra/per costruzioni nuove/vecchio legname/per nuovi fuochi...». Il senatore del Pd Mario Tronti quasi sussurra i versi di Thomas Stearns Eliot per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, l’ultimo comunista, il sopravvissuto del secolo delle ideologie. Nell’auletta dei gruppi parlamentari applaudono le prime file, il capo dello Stato in carica (Sergio Mattarella) e il presidente emerito (Giorgio Napolitano), Pier Luigi Bersani e Achille Occhetto, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella, antichi più che anziani. Vecchie pietre, vecchio legname. Le nuove costruzioni, il Pd di Matteo Renzi, non si vedono in sala. Non c’è un ministro a testimoniare la presenza del nuovo corso, neppure un vice-segretario. «Il governo? E chi è?». Massimo D’Alema, seduto a due posti di distanza dall’ex rivale Occhetto, sfodera l’acidità dei momenti peggiori. Il giorno prima il suo nome è rimbalzato nell’inchiesta giudiziaria che ha portato ll’arresto del sindaco Pd di Ischia Giosi Ferrandino , candidato alle europee. Notizie non rilevanti ai fini penali sull’acquisto di bottiglie di vino di produzione dalemiana e di cinquecento copie del suo libro, più finanziamenti di 60mila euro (registrati) della cooperativa Cpl Concordia alla fondazione Italianieuropei, corredate da intercettazioni («D’Alema è uno che mette le mani nella m...»), ma che bastano a far infuriare l’ex premier. Galeotto fu il libro: “Non solo euro”, il testo in questione, fu presentato a Roma da Renzi il 18 marzo 2014, quel giorno Matteo assicurò che per la futura Commissione europea il governo avrebbe scelto «le persone più forti che abbiamo». D’Alema si era riconosciuto nell’identikit, invece Renzi designò Federica Mogherini. È anche da quella promessa che parte la guerra che oggi dilania il Pd. Il fantasma di una mini-scissione che agita il partito del 41 per cento alle elezioni europee, con la minoranza interna che minaccia di non votare la legge elettorale Italicum quando a fine mese approderà alla Camera. Un atto che segnerebbe una rottura irreparabile. «Operazione 27 aprile», la chiama Pippo Civati. Ma la vera guerra contro il passato che preoccupa Renzi non è quella contro i leader della minoranza (Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati), divisi tra loro. È la difficoltà a far cambiare verso al Pd, dopo quasi un anno e mezzo di segreteria. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», ha scritto l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano, in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». A Roma il centrosinistra governa dal 1993, salvo la parentesi di Gianni Alemanno dal 2008 al 2013, l’inchiesta Mafia Capitale sta sfiorando le amministrazioni del Pd e i suoi uomini-chiave. L’ultimo indagato, il cinquantenne Maurizio Venafro, era il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla presidenza della regione Lazio. Nato e cresciuto nella Fgci di Goffredo Bettini e nelle sezioni di borgata del Pci, nessuno ha mai messo in discussione la sua correttezza ma è il modello Roma fatto persona, per più di venti anni nelle stanze del potere romano: capo staff di Francesco Rutelli in Campidoglio, affiancandolo nella candidatura a premier nel 2001, capo del dipartimento comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo e infine braccio destro di Zingaretti. Negli stessi giorni è stato sciolto il municipio di Ostia, governato dal Pd, per collusioni con la mafia. Roma è l’unica situazione locale in cui Renzi si è mosso con rapidità, nominando commissario il presidente del partito Matteo Orfini. Che non è un estraneo alle beghe correntizie, è stato in cordata per anni con il deputato Umberto Marroni (uno dei commensali, tra l’altro, nella cena in cui il futuro ministro Giuliano Poletti sedeva a tavola con Gianni Alemanno e con il socio del boss Massimo Carminati Salvatore Buzzi). Nel partito li chiamavano i Dalemerrimi o i Dalebani, per sottolineare la fedeltà al loro capo di allora, D’Alema. In minoranza a Roma, dove dominavano Bettini, Zingaretti, i veltroniani. Oggi Orfini sta con Renzi, ha impugnato la bandiera del rinnovamento: azzeramento delle commissioni in Campidoglio, inchiesta sui circoli, invito ai consiglieri comunali ad andare in Procura a denunciare le situazioni sospette. In altre situazioni, invece, il Pd nazionale stenta a intervenire. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta il 23 novembre, quattro mesi fa. E non si può neppure dare la colpa all’inesperienza, dato che il nuovo presidente è entrato per la prima volta nel consiglio regionale calabrese nel 1985, quando Renzi aveva dieci anni. In Campania c’è il volo del calabrone Vincenzo De Luca su cui pesa una condanna in primo grado per abuso di ufficio e che per la legge Severino potrebbe essere costretto a sospendersi dalla sua funzione in caso di elezione. Ma ha vinto le primarie e si presenta come l’uomo di Renzi in regione. Intanto a Eboli un funzionario del Comune e un imprenditore sono stati arrestati con l’accusa di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è lo scambio delle identità. Nella pirandelliana Agrigento il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi in realtà è di Forza Italia, sponsorizzato dal presidente del Pd isolano Marco Zambuto (ex cuffariano, ex alfaniano, oggi faraoniano, nel senso di Davide Faraone, il sottosegretario all’Istruzione capo dei renziani in Sicilia) che è andato in visita ad Arcore da Silvio Berlusconi. Nelle Marche, dopo dieci anni di governo, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca si è buttato dalla parte opposta e guiderà una lista civica di centrodestra aperta a Forza Italia. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Il leader egemone a Roma, che strapazza e umilia gli avversari, nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro il leader c’è il deserto. I renziani, per ora, non esprimono una classe dirigente, un’organizzazione, una cultura politica. Faticano a darsi un nome. Una settimana fa i renziani della Lombardia si sono riuniti per la prima volta tutti insieme con il segretario regionale Alessandro Alfieri e con il numero due del Pd nazionale Lorenzo Guerini. E hanno deciso di chiamarsi “maggioranza del Pd”, così, senza altri aggettivi. Qualunque altra definizione, tipo quella dei catto-renziani vagheggiata dagli amici di Graziano Delrio, avrebbe fatto infuriare il premier. Di riforma del Pd si stanno occupando due ex avversari del leader, Orfini e il bolognese Andrea De Maria, incaricato di preparare un evento a Cortona. Sul tesseramento è stato chiamato a lavorare il deputato di Arezzo Marco Donati, renziano della prima ora. Compito delicato. Nel 2014 a Bologna, la città rossa per eccellenza, nell’anno del boom elettorale renziano, si sono persi per strada un quarto degli iscritti. I circoli chiudono: erano tre a Sasso Marconi, ne è rimasto uno e il nuovo segretario cittadino è stato votato da cinquanta irriducibili (su 400 iscritti). Altrove è il contrario, c’è il tesseramento gonfiato di anime morte. L’ex deputato di Sel Gennaro Migliore, ora renziano, spedito da Orfini a monitorare il municipio romano di Tor Bella Monaca, non si separa mai da una cartellina rossa che contiene i primi risultati dell’indagine: almeno un quarto delle tessere è di provenienza incerta, sospetta. «Ho votato per Renzi alle primarie e lui è un politico di razza», osserva un padre nobile del Pd come Antonio Bassolino, «ma vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. È una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?». Le elezioni regionali sono ormai vicine. Un nuovo test per il Pd renziano dopo le trionfali europee del 2014 e le regioni conquistate negli ultimi mesi (l’Emilia confermata nonostante inchieste e astensioni e Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria strappate al centro-destra). Se sulla legge elettorale dovesse arrivare lo strappo della minoranza le conseguenze sul voto sarebbero imprevedibili. Ma ancora più imprevedibile è che il premier decisionista sul rinnovamento del partito si riveli immobile. Abbandonando il Pd al vecchio legname. Senza costruzioni nuove.
La Ditta del Pd si rottama da sola. Ischia, Roma, le cooperative. Nuovi scandali che coinvolgono soprattutto uomini ex Pci. Ma con un partito così Renzi non può rinnovare il Paese, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. C'è dell'umorismo involontario nel titolo dell’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Non solo euro”, cinquecento copie del quale sono state acquistate dalla cooperativa rossa Cpl Concordia, quella che trafficava con il sindaco d’Ischia. E già, non solo euro. Ma anche vino. Duemila bottiglie di rosso. Dalemiano, rigorosamente. Acquistate sempre dalla stessa coop. Saperi & sapori: la via rivoluzionaria per la conservazione del potere. Nulla di illegale, è stato ripetuto. Ed è bene ribadirlo. Come nel caso del Rolex regalato al figlio dell’ex ministro Maurizio Lupi. Così si usa a Roma e dintorni. D’altra parte è tutto ancora da verificare il fondamento dell’inchiesta condotta da un pm napoletano famoso non certo per i risultati processuali. Intanto però le carte giudiziarie, prima di un reato, ci parlano di una diffusa spregiudicatezza nei comportamenti. Non è roba da codice penale, ma da codici di stile. Ecco dunque sempre dalla Cpl Concordia un versamento di 60mila euro alla fondazione che fa capo a D’Alema, Italianieuropei. Con tre distinti bonifici negli anni. Dunque verosimilmente fatturati. Ma rimasti finora riservati. Difficile credere a una donazione disinteressata. L’associazione dalemiana, interpellata da “l’Espresso” tre mesi fa in occasione di una preveggente copertina, “Le casseforti dei politici”, disse di preferire la segretezza dei conti alla trasparenza sui nomi dei donatori. Perché quel tipo di finanziamento non ha regole. Ognuno fa come gli pare. Leader nazionali e capetti di periferia si sono intestati la loro fondazione. Di destra come di sinistra. Promuovono convegni, riviste e vino quando serve. Senza vergogna. Una onorevole tradizione politica, tramandata dal Pci di Berlinguer, si spappola definitivamente in affarucci di bottega o in tangenti d’oro. Con le cooperative rosse sempre più spesso al centro di inconfessabili patti scellerati. Peggio del peggior capitalismo. Corruttori delle regole di mercato in nome di una solidarietà sociale perduta e umiliata. Appare dunque come una beffa della storia l’accusa rivolta a Matteo Renzi dalle agitate minoranze interne del Pd: non sei di sinistra. Riducendo l’essere di sinistra a un’etichetta, a una rendita di posizione, senza valori e contenuti. La “ditta” di bersaniana memoria si è disintegrata per colpa dei suoi troppi difetti, prima ancora che per la rottamazione renziana. Da Ischia a Venezia, lungo tutto lo stivale, è un festival di pasticci. Tale da mettere a rischio la stessa sopravvivenza del Partito democratico, con tutta l’arroganza della “vecchia guardia”. È il tema della nostra inchiesta di copertina di questa settimana. Al premier-segretario questo partito sta stretto più di quanto dica Massimo D’Alema che ancora pochi giorni fa evocava manovre di scissione. Fuori da Palazzo Chigi e dalla stanze del Nazareno è evidente l’assenza di controllo. Il rinnovamento non si intravede oltre il perimetro degli studi tv. Non è necessario spingersi nel profondo Sud, basta restare a Roma. Il rapporto stilato da Fabrizio Barca, dirigente rigoroso, studioso di valore, racconta di un’organizzazione inquinata, dannosa (vedi “l’Espresso” n. 13): un iscritto su cinque è fasullo; la compromissione con i clan di Mafia Capitale inquietante. Il contenitore è corrotto. C’è ancora del contenuto da salvare? Con buona pace di quegli onesti e generosi militanti resistenti a ogni choc. Per lo stesso Matteo Renzi è difficile liberarsi di notabili e capifazione quando questi controllano ingenti pacchetti di voti. Giosi Ferrandino, il sindaco di Ischia arrestato, alle europee del maggio scorso ha rastrellato in tutto il Sud oltre 80mila preferenze. Sì, quelle stesse preferenze che, secondo convenienza, vengono sbandierate come strumento di democrazia e partecipazione per la selezione dei gruppi dirigenti. E i risultati si vedono. Negativi. La narrazione renziana è lontana dalla realtà. Non basta rottamare. Quel che resta del Pd va rifondato. È in gioco la stessa credibilità del segretario e del suo progetto politico. Se non rinnova in casa, come può rinnovare l’Italia?
Finché incassate soldi di nascosto, scrive Alessandro Gilioli su L'Espresso". «Restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica nel nostro paese». E poi: «Avere dati dettagliati sui finanziamenti che i partiti hanno ottenuto dai privati sarebbe stato interessante. Sfortunatamente, questi dati sono risultati non recuperabili». E ancora: «Il nostro lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi (…). L’esigenza della trasparenza e della massima fruibilità dei dati rappresenta ancora un obiettivo da raggiungere». Queste parole testuali appaiono nel report ufficiale sui costi della politica rilasciato dall'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, finalmente reso pubblico: e ora si capisce anche meglio perché Cottarelli non è più lì. Non sarà un eroe dei due mondi, ma ha detto l'indicibile: e cioè che i partiti prendono soldi in mille modi che noi non sappiamo, che quando uno (nominato dal governo!) cerca di scoprirlo gli mettono i bastoni tra le ruote e che infine la trasparenza sui finanziamenti veri alla politica, in questo Paese, è lontanissima. È curioso come la cannonata ad alzo zero di Cottarelli sia apparsa on line proprio mentre D'Alema abbaiava e querelava in giro perché sui giornali era uscita l'intercettazione che riguardava lui e la sua fondazione. Nell'intercettazione, lo ricordo, il regista degli affari sporchi della cooperativa Cpl Francesco Simone dice: «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Lo stesso Simone parla poi con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema». Nella perquisizione alla Cpl sono stati infine trovati «tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20 mila euro nonché un ulteriore dispositivo di bonifico per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”». Come noto, D'Alema si è incazzato come un puma perché sono usciti quei verbali: «È incredibile diffondere intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’indagine, la giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone, ma deve avere come fine la ricerca dei responsabili dei reati». Poi ha pure perso un po' la calma. Le fondazioni dei politici in Italia sono prevalentemente macchine per finanziare i politici stessi e soprattutto non rivelano a nessuno i nomi dei loro finanziatori: «Ottengono i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto e sono fuori da ogni possibilità di controllo», come ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. In particolare, quando nel dicembre scorso "l'Espresso" ha chiesto a ItalianiEuropei chi la finanziava, ha ottenuto un secco diniego con la seguente spiegazione: «Preferiamo la privacy alla trasparenza. I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite». Quindi quei verbali che tanto hanno fatto infuriare D'Alema sono stati sostanzialmente un (pur minuscolo) squarcio di verità sui finanziatori segreti della sua Fondazione. E allora, il problema in questo Paese è un verbale processuale depositato che restituisce ai cittadini una piccolissima porzione di un loro diritto sacrosanto - sapere chi finanzia privatamente la politica - o è il fatto che la politica si faccia finanziare in modo torbido e segreto? Ecco: con permesso, finché i partiti e i politici incassano i soldi di nascosto dai cittadini, tramite le loro fondazioni, credo che qualsiasi loro lamentela sulla pubblicazione dei verbali "sputtananti" abbia davvero scarsa credibilità, scarsa autorevolezza, ma soprattutto scarsissima ragion d'essere.
"D'Alema attacca i cronisti ma ce l'ha con Woodcock". Il suo braccio destro a Palazzo Chigi: "Coi giornali ha un rapporto morboso. Per lui bisogna 'lasciarli in edicola'. Anche sua madre non li sopporta. Ma da premier rimise tutte le querele", scrive Andrea Cuomo su "Il Giornale". «Massimo è un antico professore di liceo. Uno di quelli che quando ti interroga va a fondo, non si accontenta di risposte abborracciate. Per questo non sopporta la superficialità del giornalismo attuale». Fabrizio Rondolino ride quando gli chiediamo del D'Alema che minaccia di querele i giornalisti, lui che ne è stato responsabile della comunicazione, lui che ne è stato amico (spesso) e nemico (talvolta), lui che l'altro ieri si è preso anche la briga di ordinargli, per solidarietà, due casse di vino Madeleine («una di NarnOt e una di Sfide»).
Rondolino, va bene che noi giornalisti siamo spesso degli adorabili cialtroni. Ma lui non se la prende troppo?
«Ma lui sbaglia, perché se il sistema informativo è questo, la battuta di agenzia che dà il titolo, bisogna essere furbi e cavalcarlo. O ignorarlo, come fa Renzi, che non considera i giornali, per lui sono già morti, lo bastonano e fa finta di nulla, lui punta su tv e social network».
Proprio un bel quadretto...
«Lo aveva detto lo stesso D'Alema a Prima Comunicazion e negli anni Novanta: i giornali bisogna lasciarli in edicola».
Ecco, la profezia si avvera.
«Sì, ma per altri motivi».
Torniamo a D'Alema. Si ricorda qualche episodio?
«Sì, ma non d'ira, semmai di sarcasmo. Ricordo una giornalista che gli si avvicinò col microfono sguainato: Segretario, posso farle una domanda? E lui, gelido: L'ha già fatta. E si allontanò lasciando la collega con un palmo di naso».
Si racconta anche di una fatwah nei confronti di Augusto Minzolini quando era notista politico della Stampa.
«Io già non lavoravo più con D'Alema. Peraltro a me il Minzo sta simpatico. Ma quella volta avrà scritto qualcosa di antipatico o di terribilmente vero».
Un rapporto insanabile tra Baffino e l'informazione.
«Sì, ma nato da un amore tradito. D'Alema, da vecchio comunista, ha sempre avuto un rapporto morboso con la carta stampata. Antonio Gramsci fondò prima i giornali e poi il Pci. E non era Marx che diceva che il giornale è la preghiera mattutina dell'uomo moderno? No, mi sa che era Hegel».
Sì, Hegel.
«Che poi anche la mamma di D'Alema ce l'aveva con i giornalisti. La incontrai solo una volta e mi trattò come una persona poco affidabile».
Magari aveva ragione la signora. Ma scatti di ira mai?
«Non ricordo urla o porte sbattute. Non voglio fare psicoanalisi da bar, ma questo è uno dei suoi problemi. Lui è un vecchio illuminista, pensa davvero che la ragione sovrasti tutto. Da qui l'estremo autocontrollo, che si manifesta in quella postura sempre contratta. La mente controlla le passioni. Punto».
Una persona fredda.
«Ma no, poi non è affatto freddo. È timido, legato alla famiglia, ama la moglie. Ma questa sfera affettiva è sepolta dentro la corazza dell'illuminista».
Sa perdonare?
«Mettiamola così. Una delle cose che mi ha insegnato è che la battaglia politica non è mai personale. Lui le ha prese e le ha date non dico con fair play ma con l'atteggiamento del giocatore di scacchi che se perde non cerca scuse e pensa alla rivincita. Infatti quando diventò presidente del Consiglio, nel 1998, rimise tutte le querele, primo e unico a farlo. Da leader di una parte politica era diventato il presidente di tutti gli italiani e pensò a un gesto distensivo».
Ne rimise una anche a me.
«Che poi, lui, ora, mica ce l'ha con i giornalisti ma con la magistratura. Se la prende con la stampa perché non può prendersela con Woodcock che lo ha gettato in una vicenda in cui non è nemmeno indagato».
Con lei si è mai arrabbiato?
«Quando fallì la scalata alla poltrona di commissario europeo, per Europa scrissi un pezzo affettuoso in cui sostenevo che era la fine della sua carriera politica. Qualcuno glielo fece notare e lui: Non mi occupo di giornali clandestini».
Alla faccia dell'affetto. E in che rapporti siete ora?
«Ma dài, buoni; gli voglio bene, gli compro anche il vino».
Chieda lo sconto. Col caldo i rossi non si vendono più.
«Allora lo pretendo».
Michele Santoro attacca i dalemiani: "Siete dei miserabili". Il conduttore attacca anche "Baffino" e i suoi vini acquistati dalle Coop, scrive Mario Valenza su "Il Giornale". Dopo le intercettazioni e le polemniche sul caso Ischia piovute addosso a Massimo D'Alema, Michele Santoro attacca "Baffino" nel suo monologo iniziale a Servizio Pubblico. In apertura di puntata, Santoro si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. "C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza 'Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'".
Michele Santoro attacca Massimo D'Alema: "Grazie a te il prossimo leader maximo sarà Matteo Salvini", scrive “Libero Quotidiano”. Non vedeva l'ora Michele Santoro di togliersi altri sassi delle scarpe contro Massimo D'Alema. E tutto il caos sulle intercettazioni che riguardano il Baffino a proposito dell'inchiesta sulle tangenti al comune di Ischia è stata l'occasione ghiotta per il tribuno di La7. In apertura a Servizio Pubblico si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza della Campania: "Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'". Secondo Santoro il grande vincitore rimane ancora una volta Matteo Renzi e quasi si intravede una nuova sfavillante ossessione dopo Berlusconi. "D'Alema non sarà condannato perché non ha fatto niente di illecito - dice Santoro - lo saranno però quelli che hanno creduto in lui, condannati a tifare Renzi per evitare il trionfo della Destra". E poi c'è un altro merito di Baffino, cioè quello di aver fatto scappare gli elettori delle periferie, i lavoratori: "Che continueranno a non credere più nel socialismo e voteranno Matteo Salvini. Uno - aggiunge Santoro - che sa solo ripetere 'a casa, a casa' oppure 'Santoro a casa'. Uno così originale - ha concluso un infiacchito Santoro - corre il rischio di diventare il leader maximo, altro che D'Alema".
Istituzioni, coop e imprese: chi finanzia Italianieuropei. Italianieuropei può contare su un fatturato di 1,2 milioni di euro. Nonostante i fondi stiano calando, la fondazione si sostenta attraverso finanziamenti diretti e inserzioni pubblicitarie di garndi imprese: ecco chi sostiene economicamente la fondazione di Baffino, scrive Sergio Rame su Il Giornale. "... È molto più utile investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo, capito... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose...". È il brano di un dialogo intercettato tra Francesco Simone e Nicola Verrini, due degli arrestati nell'ambito dell'inchiesta sulle opere di metanizzazione che hanno interessato i comuni dell'isola di Ischia. È la prima conversazione, riportata nell'ordinanza di custodia, nella quale si fa riferimento a Massimo D'Alema. Ed è il gip Amelia Primavera a sottolineare come per "comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla Cpl Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl Concordia, che è tra le più antiche cosiddette cooperative rosse". Rapporti che passano anche attraverso la fondazione dell'ex premier: Italianieuropei. Che peso ha economicamente e politicamente la fondazione di D'Alema? Difficile a dirlo con esattezza. Come riporta la Stampa, Italianieuropei può contare su un fatto di 1,2 milioni di euro. La maggior parte di questo bottino viene portato a casa dalla pubblicità che, nonostante la crisi dell'editoria e gli appena mille abbonati alla rivista di riferimento della fondazione, tiene botta. Come aveva spiegato il segretario Andrea Peruzy, agli inserzionisti vengono proposti pacchetti da 30mila euro. Tra questi troviamo Mps, Enel, Eni, Unicredit, Rai e Aeroporti di Roma. Tanto per citarne alcuni. La lista è lunga. La struttura, però, costa. Nell'ultimo triennio, per esempio, la Solaris, la srl che pubblica i libri e le riviste della fondazione, ha chiuso in negativo: meno 115mila euro nel 2011, meno 214mila euro nel 2012 e meno 154mila euro nel 2013. Ogni volta il buco è stato ripianato dalla fondazione. Negli ultimi giorni sono crescite le pressioni su D'Alema per capire da dove arrivano i soldi che "gonfiano" le casse di Italianieuropei. "D'Alema faccia i nomi di tutti i suoi donatori - tuona il piddì Fabrizio Barca - così si potrebbe tramutare una cosa sgradevolissima in una grande sfida". Di questi nomi si sa poco è niente. Come ricostruisce la Stampa, i primi finanziatori furono poco più di una ventina. Misero insieme un miliardo di lire: 103mila euro dalla Lega delle Coop guidata da Ivano Barberini, 100mila euro dalla Cooperativa estense, 50mila euro dall'Associazione nazionale delle cooperative e dalla Lega coop di Modena, 25mila euro dalla Lega coop di Imola. E ancora: la Romed di Carlo De Benedetti, la Fiat e la Pirelli. Cifre che variavano dai 25 agli 80mila euro. Non mancavano certo imprenditori come Guidalberto Guidi, gli Angelucci, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Alfio Marchini, Claudio Cavazza e Giuseppe Clementi. Italianieuropei non è una fondazione ad appannaggio di D'Alema. Nel comitato di indirizzo siedono infatti politici come Gianni Cuperlo, Anna Finocchiaro, Ignazio Marino e Franco Marini. Negli ultimi anni i finanziamenti si sono ridotti. Ma, stando a quanto riportato dalla Stampa, ancora nel 2012 veniva finanziata da Finmeccanica e Poste con cifre oltre i 25mila euro. Tra gli inserzionisti della rivista, invece, troviamo ancora Piaggio, Fs, British american tocacco e, appunto, Finmeccanica. "Stiamo valutando le modalità con cui rendere noti i nomi dei nostri sostenitori - ha spiegato nei giorni scorsi la portavoce Daniela Reggiani - naturalmente nel rispetto della normativa e della loro privacy".
La Coop finanziava anche Renzi, Bersani e Meloni, scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Massimo D’Alema. Emergono sempre nuovi particolari dalle carte dell'inchiesta di Napoli sui finanziamenti della cooperativa Cpl Concordia. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano avrebbe finanziato una cena elettorale di Matteo Renzi, ha versato 17.000 euro al Pd di Roma e ha dato contributi elettorali un po’ a tutti: a Ugo Sposetti ed Eugenio Patané del Pd, al comitato "Per Ignazio Marino sindaco di Roma", alla lista civica Zingaretti e al Pd marchigiano. Ma le elargizioni erano bipartisan perché dalle carte dell’inchiesta spunta il nome dell’esponente di Fratelli d' Italia Antonio Paravia e al comitato "Io sto con Giorgia Meloni". Il Fatto riporta l’interrogatorio del direttore generale affari esteri Cpl Fabrizio Tondelli che diece: "Io non darei soldi a nessun politico e infatti anche quando si è parlato di partecipare alla cena di Renzi io ero in disaccordo, non trovavo alcuna utilità. Tuttavia il cda per motivi commerciali e di opportunità ha poi stabilito diversamente e quindi ha erogato il contributo". L’elargizione era sempre dichiarata. E quello che colpisce è proprio la trasversalità di queste donazioni: nel novembre 2014, la cooperativa registra 5.000 euro in uscita per i democratici. Matteo Renzi ha organizzato due cene di raccolta fondi, il 6 a Milano e la replica il 7 a Roma. Ma la cooperativa ha finanziato le campagne elettorali anche in precedenza, quando c’erano ancora di Ds. Nel 2011 il candidato sindaco di Bologna Virgilio Merola ha ricevuto un assegno di 20.000 euro. “ Lo stesso periodo spediva 10.000 ciascuno ai dem di Pesaro, di Ferrara, il doppio a Urbino, un obolo (2.000) a Foggia e Frosinone.”, scrive ancora il Fatto. E poi soldi al comitato di Bersani. Tra il 2013 e il 2014 sono emerse altre donazioni: 10.000 per il senatore Ugo Sposetti (Pd); 5.000 per il deputato Alfredo D' Attorre; 10.000 per la lista civica Zingaretti e altri 10.000 per il comitato Zingaretti; 6.000 per una cena elettorale di coppia Zingaretti-Marino; 2.000 per il comitato "io sto con Giorgia Meloni" e 3.000 per Antonio Paravia di Fratelli d' Italia; 2.500 per Ignazio Marino sindaco di Roma e 5.000 per Antonio Decaro sindaco di Bari; 2.000 per il mandato a Strasburgo di Cecile Kyenge e 4.000 per l' ex ministro Flavio Zanonato; 1.000 per Antonella Forattini in Lombardia e 10.000 per Eugenio Patané, consigliere regionale poi indagato a Roma nell' ambito di Mafia Capitale; 17.000 per il Partito democratico della provincia di Roma. Non solo politici, Ma anche solidarietà: centinaia di euro, sono state versate per le associazioni locali, per un progetto a Chernobyl, per i genitori con figli disabili, per un omaggio alla fondazione di Umberto Veronesi. Un investimento maggiore per la beatificazione di Giovanni Paolo II vale uno sforzo in più, 25.000 euro.
Tangenti, ecco come la Coop rossa riusciva a cancellare le multe e ottenere onorificenze, scrive “Libero Quotidiano”. L'interrogatorio per Francesco Simone, definito dai magistrati "l'uomo-chiave" dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia, è fissato per oggi. Nel frattempo emergono nuovi elementi sulla cooperativa Cpl di Modena che dimostrano come il responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo abbia tessuto una rete con molteplici fili annodati con la Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema, ma anche con la fondazione Big Bang che ha sostenuto Matteo Renzi. Una rete che riusciva ad ottenere qualsiasi cosa chiedesse, persino delle onorificenze per il presidente della CPL, Roberto Casari.
Le onorificenze - Casari, infatti, nel 2011 era stato nominato cavaliere del lavoro, ma non bastava. Simone, rivela il Messaggero, si da da fare per averne una anche da Palazzo Chigi. Lo dimostra una telefonata tra lui e un funzionario della prefettura di Modena, Daniele Lambertucci, a cui ha delegato la partita. "Io ho scritto e ho parlato con il capo della segreteria di Poletti che però è stato incasinato tra Germania Parigi con Renzi quindi non mi ha ancora risposto", dice Simone a Lambertucci. "Nel frattempo ho incrociato la responsabile dell' ufficio onoreficenze di Palazzo Chigi e mi diceva di proporlo come Grande Ufficiale o Commendatore". Il funzionario conferma e Simone incalza: "Eh come si può fare in questo caso deve arrivare dalla Prefettura su segnalazione di qualche cittadino...". Lambertucci gli spiega che "sempre su segnalazione deve arrivare". Alle preoccupazioni di Simone, il funzionario replica: «"Sta andando tutto velocemente a noi fa fede il nostro riferimento la teniamo monitorata noi sotto controllo già è partita a velocità supersonica".
Le multe - La solerzia di Lambertucci per accontentare Francesco Simone è documentata anche da altre intercettazioni. Come quelle per far annullare delle multe di Roberto Casari in cambio di biglietti per la partita del Modena, o per accelerare l'attribuzione di un certificato antimafia che potrebbe servire alla Coop per ottenere un appalto in Sicilia. "Te l'ho girata due minuti fa", dice il funzionario a Simone in base agli atti pubblicati dal Messagero, "l'ho messa a posto, la situazione con il verbale lì è definitiva per sempre... Dì al presidente di pensare al Modena che ci servono tre punti alla Spezia". Poco dopo, a Lambertucci arrivano i biglietti per la partita del Modena e le magliette dei calciatori. E lo stesso fa per l'inserimento della Cpl Concordia nella white list antimafia: "L' inserimento nella white list era stata un po' rallentata visto alcune vicissitudini passate, senza parlarne abbondantemente a telefono...".
Berlusconi intercettato: vogliono
arrestarmi su ordine Napolitano. Nelle carte
dell’inchiesta spunta anche il nome dell’ex Cavaliere, scrive “Il Corriere della
Sera”. Anche il nome dell’ex premier Silvio Berlusconi spunta tra le migliaia di
intercettazioni dell’inchiesta sulle tangenti a Ischia. Sono le 11.31 dell’11
maggio dello scorso anno. È Silvio Berlusconi, tramite la sua segreteria -
annotano i carabinieri del Noe - a chiamare Amedeo Laboccetta, ex parlamentare
del Pdl. È lui ad essere intercettato, perché gli inquirenti intendono chiarire
soprattutto la natura dei suoi contatti con Francesco Simone, il responsabile
delle relazioni istituzionali della cooperativa CPL, arrestato nei giorni
scorsi. Con Laboccetta il Cavaliere «parla, tra l’altro, della situazione di
crisi sociale. Berlusconi dice inoltre - scrivono ancora i carabinieri - che i
giudici, anche su ordine del Capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo
falso per avere la scusa ed arrestarlo». Nell’atto giudiziario in questione, che
è una richiesta di proroga delle intercettazioni nei confronti di Labocetta
datato 5 giugno 2014, non c’è la trascrizione testuale della telefonata ma solo
il sunto della conversazione. Stessa cosa in molti altri atti in cui lo stesso
il passaggio viene riportato, sempre in forma sintetica. Gli investigatori si
occupano di Laboccetta in quanto ritenuto una delle persone della «rete
relazione» di tom-tom Simone, il consulente della Cpl che «arrivava dovunque».
In particolare, al di là del lavoro svolto per conto della cooperativa rossa,
Simone aveva stretto rapporti con Alessandro Clementi, della Wave Investment
partners di Roma, una società che si occupa di gestione e recupero del credito
al quale segnalava aziende che vantavano dei crediti, anche con la pubblica
amministrazione, disposte a cederli alla Wave. E Laboccetta era stato da poco
nominato presidente della società campana Gori che vantava qualcosa come 170
milioni di crediti nei confronti sia dei privati che della Pa. «Laboccetta -
scrivono i carabinieri, dando conto dell’esito di una intercettazione - dice che
sarebbe opportuno fare una manifestazione d’interesse perché una gara avrebbe
tempi più lunghi, ma Simone si raccomanda di non spargere la voce sulla
questione che stanno trattando, trovando d’accordo il suo interlocutore». In un
successivo colloquio intercettato tra Simone e Clementi «si parla del nuovo
Decreto che è stato emanato e che stabilisce che solo le banche possono
acquistare e scegliere i crediti relativi alla pubblica amministrazione». In
questo contesto Clementi «fa presente che `quella roba lì´ vista con Laboccetta
non può farla con il decreto legge in questione. In conclusione Simone dice però
a Clementi di andare avanti con Laboccetta e company rassicurandolo che
probabilmente il decreto decadra’». È in questo scenario che i carabinieri del
Noe annotano i «contatti frequenti» di Laboccetta «sia con l’ex presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi che con l’ex deputato Marco Milanese», in passato
consigliere dell’ex ministro Giulio Tremonti e coinvolto in diverse inchieste.
Viene citata in particolare la telefonata dell’11 maggio, nella quale Berlusconi
e e Laboccetta «commentano la situazione di crisi che c’è in
giro...disoccupazione giovanile e problema immigrati e l’Europa che non prende
posizioni». Segue la considerazione di Berlusconi sui giudici che «aspettano
solo un suo passo falso» per arrestarlo. La conversazione chiude con la proposta
di Labocetta di far incontrare al Cavaliere, di lì a poco, «l’amico Marco»,
riferendosi a Milanese. Berlusconi acconsente, ma poi di fatto l’incontro salta.
Alcuni giorni prima, emerge sempre dagli atti dell’inchiesta, Laboccetta era
stato a cena con Milanese e la compagna di questi, la quale aveva incontrato
Berlusconi a Palazzo Grazioli quello stesso pomeriggio. «È stata una cena molto,
molto interessante», riferisce alle 23.58 Laboccetta a Berlusconi, aggiungendo
che martedì avrà «..un promemoria analitico, preciso e puntuale che è veramente
interessantissimo».
CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE PER I MAGISTRATI.
Marcello Sorgi: "Lo Stato mi passo le intercettazioni del ministro", scrive Enrico Paoli su “Libero Quotidiano”. Benevento, metà gennaio del 2008. Al centro del tavolo della grande sala c'è lui, Clemente Mastella da Ceppaloni. Anzi il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sempre da Ceppaloni. L’aria è tesa, come arroventato è il clima politico nazionale. Un governo sta per cadere e un ministro è appena finito nel tritacarne per colpa delle solite intercettazioni. Clemente ha appena confermato le dimissioni da Guardasigilli. Nella conferenza stampa convocata a Benevento ribadisce la decisione comunicata il giorno prima alla Camera, con un accorato intervento in Aula. «Ho parlato con il presidente Prodi e confermo le mie dimissioni per la mia dignità, onorabilità, perché non voglio sentirmi uno della casta, ma essere cittadino comune». Già, un cittadino comune. Riponiamo il nastro della storia e torniamo al presente, perché a quel «cittadino comune», allora ministro, fu riservato un trattamento fuori dal comune. Di quelli che mettono in discussione un intero sistema, non solo quello giudiziario, da cui tutto è partito e dove tutto dovrebbe finire. «Sono davvero inquietanti le rivelazioni del dottor Marcello Sorgi, editorialista de La Stampa, ascoltate nel corso della puntata di Porta a Porta», spiega l'ex ministro della Giustizia, «nella quale si è parlato di intercettazioni». «Sorgi ha fatto riferimento alle mie vicende giudiziarie, ricordando che, da inviato a Napoli per seguire proprio queste vicende», spiega ancora Mastella, «si ritrovò al caffè Gambrinus in compagnia di 4 colleghi giornalisti». Cose che capitano a chi fa questo mestiere, un po' meno tutto il resto. Sorgi ha raccontato che, dopo una telefonata giunta a uno dei suoi 4 colleghi, si presentò al loro tavolo un funzionario della Prefettura che gli consegnò una chiavetta contenente i file di tutte le intercettazioni che riguardavano il ministro della Giustizia e i membri della sua famiglia. «Marcello Sorgi nel ricordare l’episodio», afferma Mastella, «si è detto sconcertato per il fatto che, mentre cadeva il Governo Prodi, un funzionario dello Stato si era apprestato in modo solerte, senza che ne avesse alcun dovere istituzionale, a fornire in anteprima i contenuti di intercettazioni, alcune delle quali, in quanto riferite a Mastella ministro, la Corte Costituzionale ha ritenuto non utilizzabili ai fini processuali». Roba fuori dal comune dunque. Mastella si è detto «sconcertato», per non dire altro, dal racconto fatto da Sorgi, preso forse da «crisi del settimo anno (da quando i fatti da lui raccontati si svolsero, nel gennaio del 2008, ndr)». «A maggior ragione resto allibito ed esterrefatto io», dice ancora l’ex leader dell’Udeur, «resto sempre più convinto che in quella circostanza si mossero poteri che lentamente spero di decifrare, poteri che concorsero in maniera violenta ad umiliare la mia persona, la mia famiglia, e che determinarono la caduta del governo Prodi». Poteri forti o poteri deboli poco importa. Conta il fatto che questa, tutta la storia, testimonia l’esistenza di un vero mercato delle intercettazioni per far cadere a comando questo o quello. Ovviamente a distanza di otto anni dai fatti raccontati da Sorgi e appresi da Mastella poco importa stabilire il cui prodest politico (destra, sinistra, centro?). Conta capire come sia possibile che un pezzo dello Stato, trattandosi un funzionario della Prefettura, abbia potuto agire in quel modo. In barba a tutte le regole del gioco. Ovviamente l’intera storia di Mastella rimanda al caso D’Alema e alle polemiche che ne sono scaturite. L’ex presidente del Consiglio è stato investito in pieno dalla divulgazione delle intercettazioni connesse alla vicenda giudiziaria che ha il suo punto di riferimento nel sindaco di Ischia. Tentare similitudini è pressoché impossibile, però i dubbi restano. Se non gli stessi, certamente simili. Chi pilota il gioco?
D’Alema il garantista, scrive Francesco Ghidetti su “Quotidiano Nazionale”. Massimo D’Alema guarda le agenzie nel suo studio alla Farnesina: «Che monnezza. Che imbarbarimento», mormora. Sono i giorni della pubblicazione delle intercettazioni con Giovanni Consorte (sì, quelle del celebre «facci sognare») durante la cosiddetta ‘scalata Bnl’. L’allora ministro degli Esteri è disgustato. Pubblicare così significa – ripete l’allora fedelissimo (ora renzianissimo) Nicola Latorre – «metterci alla berlina» con frasi fuori contesto. Una vicenda riaffiorata anche nei dispacci dell’ambasciata statunitense diffusi da Wikileaks. Il cablogramma è del 3 luglio 2008, le parole di D’Alema risalgono al 2007 (balbettante secondo governo Prodi in carica): «La magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano». Vengono dette all’ambasciatore Usa di stanza nella Capitale, Richard Spogli. Scoppia il caos. E il Nostro precisa: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me».E potremmo continuare. D’Alema, di sé, ama dare un’immagine di garantista («e legalitario», tiene a precisare) che, chissà, sarebbe bene applicasse a tutti i casi. Tralasciando la sfuriata di ieri – la domanda era volutamente provocatoria e lui, diciamo, c’è cascato – secondo alcuni scrittori di cose giudiziarie l’ex premier definiva Mani Pulite «Soviet di Milano». Oppure, in occasione dell’indagine (1993) di Carlo Nordio, esprimeva pensoso timore: «Questo avviso colpisce la credibilità di chi lo ha inviato. È un episodio che mi preoccupa, perché in questo modo finisce per creare un generale discredito delle istituzioni e c’è anche un rischio di delegittimazione della magistratura. Quell’avviso è un teorema». Per la cronaca D’Alema uscì dalla maxi inchiesta sulle coop rosse senza un graffio e, anzi, riuscì anche a essere risarcito dal ministero della Giustizia per il ritardo nell’archiviazione per circa 9mila euro. E così sempre. O prosciolto o archiviato o prescritto. Oppure, vista la mala parata, deciso a rimediare alla gaffe. Come nel caso dell’appartamento dalle parti di viale Trastevere a Roma. Quasi 150 metri quadri affittati a equo canone. Nessun reato, ma quel milione (di lire) e poco più pagato dall’allora nastro nascente della politica italiana parve un privilegio. Dopo aver denunciato una violentissima campagna mediatica – furono «sbattuti in prima pagina», parole sue, «nomi, cognomi, indirizzi, numero civico e nome sulla targhetta» – decise di lasciare. Comprò un appartamento nella zona Nord della Capitale (pieno di libri e molto bello, dicono, a due passi da uno storico liceo ‘rosso’). Lo annunciò in tv. Ecco, per sommi capi, il garantista D’Alema. Sicuro come pochi che il sistema tangentizio riguardasse solo Dc e Psi, ma guarda un po’. E che il «compagno G» (Primo Greganti, quello che, in manette nel 1993, negò di aver preso tangenti per il partito tenendo testa agli agguerriti inquirenti milanesi), di recente tornato agli onori (diciamo) della cronaca, sia degno di essere considerato innocente sino a sentenza: «Ho imparato che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Ah. Ma vale per tutti? Legittimo sospetto...
Intercettazioni, legalità, giustizia e ipocrisia: la lezione del “caso” D’Alema, scrive Bepi Lima su Sicilia News. Saranno i mucchi di rifiuti accatastati ai bordi delle strade; sarà il letame figurato che esce dalle conversazioni “private” di politici e amministratori; saranno gli alti lai del viticoltore D’Alema contro la pubblicazione delle intercettazioni che riguardano i non indagati; sarà l’ipocrisia di chi punta il dito su quelli che vengono gettati in pasto all’opinione pubblica, sperando di non essere il prossimo nella lista, ma qualcosa di chiaro e di vero, ogni tanto, bisogna dirla. Il nostro sistema politico, burocratico, amministrativo e giudiziario, per dirla eufemisticamente, fa acqua da tutte le parti. In principio furono i dollari di Washington e i rubli di Mosca, che foraggiavano le rispettive parti politiche per tenere l’Italia al di qua o al di là della cortina di ferro: la pioggia di soldi veniva utilizzata per costruire solidi apparati di partito (DC e PCI), i leader (De Gasperi, Togliatti, Nenni, Ingrao, Amendola, La Malfa etc.) erano persone integerrime che conoscevano l’esistenza dei fondi neri ma “non si sporcavano le mani”. Lo stesso Andreotti, il cui soprannome “Belzebù” era indicativo delle nefandezze vere o presunte che gli venivano attribuite, si svegliava ogni mattina alle 5, andava a messa, lavorava 18 ore al giorno e conduceva una vita monacale. Quelli che rubavano in proprio (i mariuoli li avrebbe definiti Craxi nel 92) erano pochi e non rivestivano posizioni di vertice. Certo la Chiesa raccoglieva soldi e voti per la DC, le Coop rosse facevano lo stesso per il PCI, ma un’idea di “bene comune” esisteva ancora. Poi il Partito Socialista scivolò da Nenni e Pertini ai nani e alle ballerine che circondavano il sunnominato Craxi: la prima crepa visibile della morale pubblica, perché come vizi privati anche la Prima Repubblica non si faceva mancare niente: nelle segrete stanze si narrava di illustri politici che praticavano la pedofilia, non con 17enni sviluppate alla Ruby, ma con bambini – bambini. Eppure tutto questo restava ermeticamente riservato e nemmeno gli avversari politici si azzardavano a sollevare il velo. Meglio? Peggio? Non sappiamo dirlo. Si preservavano le Istituzioni dalle miserie umane. E siamo a Tangentopoli, la finta operazione di pulizia, che eliminò i Professionisti della politica (con la P maiuscola,) quelli che prima di arrivare al vertice avevano fatto decenni di gavetta, sostituendoli con le terze e quarte file di arrivisti: caduto il muro di Berlino e svanita ogni ideologia, era aperta la caccia a prebende, privilegi e mazzette, per migliorare il tenore di vita personale e delle future generazioni. Partiti politici come taxi, dove si paga la corsa e si scende, alla ricerca di un altro mezzo di locomozione che porti più velocemente alla meta. Così stando le cose, la nostra convinzione è che, se si intercettassero l’80 % degli amministratori pubblici e del loro entourage, il quadro che ne verrebbe fuori sarebbe ben più grave di quello che ha costretto il ministro Lupi a dimettersi. Con la “tremenda” accusa di avere favorito il proprio figlio, laureato con 110 e lode in Ingegneria, nella ricerca di un posto a duemila euro al mese, oltre ad aver ricevuto (udite, udite) anche un abito sartoriale e un orologio di marca. E con la ragionevole certezza che almeno la metà di quelli che lo hanno fatto fuori, hanno scheletri di ben altre dimensioni nei loro armadi. Chiudiamo con il tema delle intercettazioni: noi italiani siamo un popolo veramente strano. Godiamo un mondo nel leggere sui giornali le porcherie che riguardano gli altri, ma gridiamo al colpo di Stato se qualcuno propone di intercettare le mail private per combattere il terrorismo. Mentre le intercettazioni sono diventate un formidabile strumento di potere: per eliminare qualche concorrente politico basta mettere sotto osservazione la sua cerchia di collaboratori, per far uscire paginoni di fango. A giustificazione di questo sistema barbaro, si tira in ballo l’obbligatorietà dell’azione penale: una sorta di favola per bambini poco svegli perché, se io magistrato sono alle prese con migliaia di sviluppi investigativi è chiaro che dovrò scegliere quali portare avanti e così scatta la discrezionalità. Per esempio se Fassino chiede a Consorte: “Abbiamo una banca?” viene considerato una sorta di tifoso dell’Unipol, come quando un fan juventino domanda: “Vinceremo lo scudetto?”. E gli danno pure un risarcimento di 80 mila euro perché la sua frase è stata pubblicata dai giornali, ledendo la sua immagine. Cosa sarebbe successo se, invece, si fosse deciso di intercettare tutto il management Unipol (amanti e segretarie comprese) per capire se e in che modo i soldi della compagnia assicurativa aspirante banca, passavano in parte al PDS, dando un’altra chiave di lettura all’entusiasmo di Fassino? Non lo sapremo mai, così come non conosceremo mai le abitudini sessuali e gli stili di vita di tutti i protagonisti, che sarebbero stati il naturale corollario della pubblicazione delle intercettazioni. Quindi il sistema va rifondato: come, ne parleremo quando si sarà attenuato il senso di nausea.
Sputtanati e sputtanandi. Sarebbe comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo" D'Alema. Ma lo scandalo vero, in questa faccenda, è l'uso delle intercettazioni, scrive Giorgio Mulè su Panorama. L’ultima fatica della Procura di Napoli ci consegna l’ennesimo caso di sputtanamento politico e mediatico a uso e consumo dei libidinosi delle intercettazioni. Il metodo è sempre lo stesso, il protagonista pure. Quanto al metodo è quello, solito, d’inserire in un provvedimento giudiziario brandelli di conversazioni assolutamente irrilevanti sul piano penale, ma esplosive su quello politico e giornalistico. Il protagonista, poi, è ancora una volta il sostituto procuratore Henry John Woodcock, cioè il pm che passerà alla storia come protagonista mai punito dei più allucinanti flop giudiziari della Repubblica. In questa giostra impazzita e barbara che sono le intercettazioni, stavolta è salito Massimo D’Alema, ovviamente da non indagato come si usa in questa giungla che vorrebbero contrabbandarci per giustizia. Sarebbe stato molto comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo". Perché questo giornale e questo direttore hanno più volte incrociato le lame con l’ex presidente del Consiglio, duramente attaccato per i rapporti che storicamente hanno legato e legano il partito democratico al mondo delle cooperative rosse. Rapporti stretti e consolidati, che i dirigenti del Pd di oggi e di ieri hanno goffamente negato nonostante l’evidenza dei fatti. La coerenza rispetto a una linea che ha sempre indicato come stella polare il rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini unita allo schifo che proviamo ogni volta che le inchieste si trasformano in una micidiale macchina del fango (vogliamo parlare del processo Ruby e di Silvio Berlusconi, assolto dopo cinque anni di gogna?) ci impongono di stare dalla parte di D’Alema. Ci fa quindi specie che il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, non abbia sentito l’obbligo di pronunciare nell’immediatezza dei fatti, con un tweet o davanti alla direzione del suo partito, parole chiare e nette contro questa barbarie. Sarebbero state parole coraggiose pronunciate da un vero leader. Ma, come sappiamo, coerenza e coraggio sono doti che Renzi contempla unicamente quando ha un tornaconto personale (vedi il caso Lupi). Peggio per lui. Perché è scritto nelle stelle, diciamo così, che sarà solo una questione di tempo: prima o poi anche lui finirà sui giornali, magari da non indagato, come nuovo socio del grande club degli sputtanati a causa di conversazioni telefoniche intercettate. La puzza si sente già in lontananza perché, come ci informa il Fatto quotidiano, esisterebbe almeno un’intercettazione irrilevante ascoltata dai pm di Napoli nell’ambito dell’inchiesta in cui è stato tirato in ballo D’Alema; una conversazione tra Renzi e un generale della Guardia di finanza, un ufficiale abbondantemente sputtanato quattro anni fa dal solito Woodcock e poi regolarmente archiviato. Al pavido Renzi, che non trova le parole per schierarsi contro la barbarie consumata ai danni di D’Alema, suggeriamo allora di darsi una mossa. Conviene anche lui - eccome - sbrigarsi a varare un provvedimento che limiti questa ignominia. Non pensi agli italiani rovinati e sputtanati senza motivo, pensi a se stesso che oggi è nelle vesti dello "sputtanando" prossimo venturo. Statene certi, stavolta la legge la farà.
Toh, ora i compagni scoprono il fetore delle intercettazioni. Le parole rubate al telefono hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Fin dagli anni Cinquanta la sinistra si dà tante arie e suole dividere l'umanità in buoni e cattivi, mettendosi dalla parte dei primi che essa definisce non a caso progressisti. Già. Talmente progressisti da arrivare ultimi in ogni circostanza. Lo abbiamo constatato anche stavolta a proposito delle intercettazioni, da decenni al centro di polemiche, oggetto di numerose proposte di legge dibattute all'infinito eppure rimaste lettera morta poiché prive del nullaosta indovinate di chi? Degli ex o postcomunisti, decida il lettore come chiamarli; tanto, comunisti erano e la loro mentalità settaria è ancora intatta dai tempi che furono. Il problema è semplice. Ai politici col birignao e sedicenti colti in quanto militanti o simpatizzanti di sinistra, le parole rubate al telefono (contenenti millanterie e forzature di ogni genere sul cui significato occorrerebbe detrarre la tara) hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena. Un gioco facile facile. Le Procure inserivano negli atti processuali le registrazioni di colloqui malandrini, compresi quelli penalmente irrilevanti ma giornalisticamente interessanti, piccanti, e a divulgarle provvedeva solerte la stampa, suscitando la curiosità morbosa dell'opinione pubblica. Gli sventurati, vittime delle incursioni nella loro vita privata, venivano infilzati con soddisfazione da chi se ne avvantaggiava. Questo tipo di falli erano e sono impuniti: manca una legge apposita che li sanzioni. Clemente Mastella, quando era guardasigilli, predispose una normativa per arginare il traffico delle intercettazioni (poco giudiziarie e molto gossippare), però la maggioranza progressista che all'epoca reggeva il governo lo mandò al diavolo, creando i presupposti per eliminarlo dalla scena. È chiaro a chiunque che le intercettazioni violano il segreto delle conversazioni private, ma poiché di solito riguardano la gente comune (della quale non importa nulla a nessuno nel Palazzo) oppure «nemici» di partito da sputtanare, ogni iniziativa tesa a disciplinare la materia è stata sistematicamente bocciata. Per lustri il personale politico di destra e centrodestra ne ha fatto le spese, mentre quello di sinistra ne ha tratto dei benefici sotto il profilo elettorale, essendo scontato che dai faldoni dei tribunali non uscisse nemmeno un sospiro delle loro telefonate innocenti o no. Una pacchia per i progressisti durata fin troppo. Infatti la musica sta cambiando. Qualche spiffero velenoso comincia ad ammorbare le sacre stanze degli «intelligenti per antonomasia», i quali, sfiorati dal fetore delle intercettazioni, sono sul punto di cambiare idea; anzi, l'hanno cambiata, tanto è vero che si stanno attrezzando per impedire la fuga di notizie frutto di «furti» negli uffici dei magistrati. Come? Sbattendo in galera i giornalisti «ricettatori» del materiale scottante. Se la stampa aiuta la sinistra, i progressisti predicano in favore del diritto alla libertà della medesima; se, invece, essa si concede un attacco antigauche, allora meditano d'ingabbiare i ficcanaso delle redazioni. Sinché erano i berlusconiani a essere massacrati dai quotidiani con paginate e paginate di chiacchierate intime, non c'era anima bella che suggerisse di porre fine alle gratuite diffamazioni. Al contrario, adesso i progressisti, colpiti dalle indiscrezioni, invocano la Costituzione affinché agli scribi sia tolta la licenza di ferire con la penna riportando il contenuto di nastri registrati su ordine delle Procure. Questa è la storia delle intercettazioni che attendono ancora - per poco, suppongo - una regolamentazione: non per vietarne l'impiego a scopo investigativo (ci mancherebbe), bensì perché si pubblichino soltanto quelle relative all'accertamento di reati. Ci si domanda come sia possibile procedere in questo senso. Visto che siamo tanto cretini da non recuperare in proprio una soluzione che salvi la capra (la dignità delle persone) e i cavoli (giudiziari), sarebbe opportuno dare un'occhiata alle legislazioni di altri Paesi e copiare la migliore. Non è un'operazione complicata, basta alzare i glutei dalla sedia ministeriale e recarsi, per esempio, negli Stati Uniti a verificare come agiscano le autorità americane. Chi avrà l'energia per affrontare la trasferta scoprirà che negli Usa non sfugge una parola dei discorsi intercettati. Motivo? I magistrati statunitensi non mollano ai giornalisti neppure uno spiffero. Sarà perché ignorano l'esistenza di Pulcinella, per loro il segreto è una cosa seria.
Intercettazioni. Piano Gratteri: galera giornalisti che pubblicano le irrilevanti, scrive Redazione Blitz. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nell’ambito della riforma della Giustizia da affrontare con un complicato iter legislativo (due deleghe al Governo), ha bloccato la proposta della commissione istituita a Palazzo Chigi e guidata dal procuratore antimafia Nicola Gratteri in tema di intercettazioni. Nel testo, ne descrive i contenuti Francesco Grignetti de La Stampa, era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Gratteri ha ipotizzato un nuovo reato: la pubblicazione arbitraria di intercettazioni. Si sanzionerebbe chi pubblica le intercettazioni “acquisite agli atti di un procedimento penale” ma “irrilevanti ai fini della prova”. Per i trasgressori, praticamente si applicherebbe solo ai giornalisti, prevista una sanzione da 2mila a 10mila euro o la detenzione da 2 a 6 anni. Ha spiegato Orlando: “La Commissione Gratteri ha fornito un importante contributo. Chiaramente non tutti i punti diventeranno testo di legge”.
Vi sono molte cose condivisibili nella lenzuolata pubblicata dal “Fatto Quotidiano” dedicata alle riforme presentate dalla commissione guidata dal procuratore Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia per veto di un malfidato Napolitano, scrive Dagospia. Per esempio, è razionale interrompere la prescrizione con la formulazione dell’imputazione e farla cessare dopo la sentenza di primo grado. Ed è giusto sancire che le prove restino valide anche se cambia il giudice del dibattimento, come è comprensibile lo sforzo di aumentare il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento. Un po’ meno prudente, e garantista, l’ansia di ridurre i ricorsi “inammissibili” e l’idea di punire il voto di scambio mafioso anche senza le intimidazioni. Ma sono vicende sulle quali è lecito e utile discutere. Fa invece letteralmente accapponare la pelle la parte che riguarda le intercettazioni. Gratteri vuole istituire un nuovo reato ad hoc (ne abbiamo troppo pochi…) che si chiama “Pubblicazione arbitraria delle intercettazioni”, dove nell’aggettivo “arbitrario” c’è già tutta la pericolosità di un reato, appunto, “arbitrario”. Il reato consiste in un divieto ai magistrati di utilizzare il testo integrale delle intercettazioni negli atti, “a meno che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova”. E poi nel divieto ai cronisti di “divulgare i dati”. Per ora, come si vede, la formulazione del reato è piuttosto vaga ma non meno pericolosa. In compenso ecco le pene: reclusione da due a sei anni e la multa da 2.000 a 10.000 euro. Fermiamoci un attimo e respiriamo: sei anni di carcere per la pubblicazione “arbitraria” di un’intercettazione? Ma non vi sembra un’enormità? Dagospia di intercettazioni ne pubblica pochine, ma il “Fatto” letteralmente ci campa. Solo perché la proposta arriva da un magistrato amico facciamo finta di nulla? Se anziché Gratteri a proporre il carcere fosse stato Carlo Nordio, vicino a Forza Italia, e se al governo ci fosse Silvio Berlusconi non starebbero tutti gridando al bavaglio liberticida?
Intercettazioni: e se anche rischiassi la galera? G. Antonio Stella: "pubblicherei", scrive Ugo Dinello su “Articolo 21”. "Una cosa indecente che va chiamata con il suo nome: censura". L'uomo dall'ironia garbata per antonomasia, Gian Antonio Stella, il giornalista del "Corriere della Sera" che riesce a mettere alla berlina i potenti senza mai farli urlare al complotto, dopo aver letto cosa prevede il disegno di legge Alfano, lascia il fioretto e afferra la clava. Quel disegno che mente anche nel nome (parla di "tutela della privacy" quando invece mira a impedire alla stampa di seguire qualsiasi "attività d'indagine" cioè qualsiasi tipo di notizia, soprattutto quelle sgradite ai potenti) gli fa perdere, solo per un istante, il consueto aplomb. Non l'ironia. E soprattutto non la voglia di opporvisi.
"Una cosa indecente. Se fanno una legge in cui si stabilisce che il magistrato, o il brigadiere, o il cancelliere o l'avvocato che passa le notizie ai giornalisti - se non lo può fare, perchè mica è detto che l'avvocato non lo possa fare - e ammesso che vengano incastrati con prove ritenute "inoppugnabili", perfino per l'avvocato Ghedini, perfino per l'avvocato Longo, o per l'avvocato Previti, o per l'avvocato Sammanco (tutti legali di Berlusconi ndr), se fosse incastrato persino per queste persone e decidessero di dargli 10 anni di galera, facciano. Perché se c'è una legge che stabilisce che non si possono diffondere le notizie per tutelare il segreto istruttorio è giusto che ci sia una punizione. Ma che vengano puniti dei giornalisti perché pubblicano delle notizie che riescono a procurarsi, beh, questo è indecente. E se questo disegno passasse è l'anticamera della censura. Bisogna chiamare le cose con il loro nome e allora lo chiamino "disegno di legge sulla censura". E a quel punto anche chi come me è sempre stato molto, ma molto, ma molto riottoso a fare paragoni fra Silvio Berlusconi e il duce - e secondo me sono paragoni per ora improponibili - beh, se passasse questa legge l'unico precedente che avrebbe nella storia sarebbe proprio la censura fascista".
Brutale. E a te? Cioè, se dopo questa legge capitasse di avere per le mani...
"Pubblicherei.."
... una notizia che..
"...pubblicherei..."
... ti fa andare in galera se...
"... pubblicherei..."
E se il tuo editore ti dicesse: "Caro Gian Antonio, scusa ma io di pagare un milione di euro di multa per raccontare la verità agli italiani non ho proprio l'intenzione". Perché sarà questa una delle armi della censura. Multare gli editori "disobbedienti". Che fai?
"Beh, in quel caso si aprirà un contenzioso tra me e il mio editore. Sarebbe la prima volta".
Perchè quello degli editori è un bel capitolo...
"Su questo bisogna essere molto chiari. La storia di questi anni ci ha dimostrato che i giornali e le tivù del gruppo Berlusconi sono stati molto, mooolto generosi di intercettazioni fornite ai loro lettori. Diciamo la verità: quando ha potuto usare le intercettazioni tutto il gruppo che ruota intorno al presidente del Consiglio Berlusconi altroché se le ha usate. Caspita se le ha usate. Vogliamo ricordarci le campagne di stampa su Fassino intercettato sulla banca?".
E pure intercettazioni abusive....
"Appunto, vogliamo ricordarci tutti gli altri casi? Ma ce ne sono stati decine. Tanto è vero che quando sono venute fuori le prime voci sul giro di vite in questo settore, persino Vittorio Feltri fece dei pezzi durissimi contro quest'ipotesi. Difatti io sono sicuro che Vittorio Feltri, se uomo d'onore come credo sia, tornerà su questo tema opponendosi a questo disegno di legge. Perché è un tema che lui ha già affrontato duramente e lo ha detto in modo molto chiaro. Ricordo una polemica tra lui e la dirigente di Mediaset passata alla Rai e intercettata, Deborah Bergamini, fu una polemica durissima. Io condivido totalmente quello che ha scritto Vittorio Feltri quella volta. Quindi condivido totalmente ciò che pensava il direttore scelto da Silvio Berlusconi per il giornale di suo fratello".
Ricominci a divertirti...
"Sì, perché è molto divertente vivere in un Paese in cui il garantismo vale solo per Berlusconi e non per i ragazzi di Emergency e le "intercettazioni infami" sono solo quelle che riguardano lui e non quelle che riguardano gli avversari. E' davvero molto divertente questo paese. C'è un'idea dell'uguaglianza dei cittadini che è assai bizzarra".
Caso Escort, l’ira di Sgarbi sulle intercettazioni: “Magistrati criminali, vadano in galera”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Furia incontenibile di Vittorio Sgarbi ai microfoni de La Zanzara (Radio24) sulle intercettazioni delle conversazioni tra Berlusconi e Tarantini: “Sono intercettazioni abusive. Questa magistratura criminale usa i soldi nostri per occuparsi dei cazzi degli altri. Si usa troppa tolleranza nei confronti di gente infame che usa la giustizia per scopi politici e di affermazione. Vadano a fare in culo questi magistrati che si occupano di pettegolezzi e di stronzate coi soldi nostri”. Con il suo noto linguaggio sopra le righe, il critico d’arte aggiunge: “Berlusconi è un comico da cinepanettone, quello che dice nelle telefonate è una cosa da conte Mascetti, da gagà di Dapporto. E’ puro varietà. E noi paghiamo le tasse per questa gentaglia, che continua a inondare i giornali di schifezze. Soldi dello Stato per queste puttanate. Ma intercettino il buco del culo questi incapaci di Bari che non sanno che cazzo fare se non pettegolezzi. Hanno rotto i coglioni”. E continua: “Mattarella li mandi in galera, dica a questa gente che non deve diffondere merda inutile. Dica: ‘Archiviate tutto’ per carità di patria, non se ne può più. D’altra parte, tutto il mondo è pieno di ricchi che pagano le donne. Si pensi a Kennedy o a Clinton, che si è fatto fare pompini da tutti gli Usa, o a Fidel Castro, che ha avuto 35mila donne. E poi quanti soldi Berlusconi dà a sua moglie? Lei viene mantenuta perché non lavora”. Su Tarantini Sgarbi afferma: “L’ho conosciuto assieme alla moglie e a Checco Zalone in un posto bellissimo in Puglia, vicino a Monopoli. Tarantini è come Lavitola e Corona, cioè gente che non ha fatto niente in vita sua. Processi su questa roba, quando l’Italia è in miseria, l’economia non funziona, si buttano soldi in stronzate, cadono i monumenti. Vadano in galera questi magistrati” di Gisella Ruccia.
Intercettazioni telefoniche: cosa dice la legge, scrive Zeus News. Cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche, che cosa permettono di scoprire, come vengono eseguite e perché finiscono sui giornali. Ormai è diventata un'abitudine consolidata: succeda quel che succeda là fuori, ogni due mesi in Parlamento si deve discutere di intercettazioni telefoniche. Ma cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche? Che cosa permettono di scoprire? Come vengono eseguite? E come mai finiscono sui giornali?
La legge. A differenza di quello che avviene in molti altri paesi, in Italia le forze dell'ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Postale, etc.) godono di pochissimo potere discrezionale e, salvo rari casi, non possono avviare o gestire un indagine di propria iniziativa. Le indagini di polizia vengono avviate e coordinate dalla Procura della Repubblica, nella figura del Procuratore Generale o di un Sostituto Procuratore. In entrambi i casi si tratta di un Magistrato Inquirente, non di un poliziotto. Il Procuratore, a sua volta, non ha assolutamente nessun potere discrezionale riguardo alle indagini: nel momento in cui viene a conoscenza di un reato è tenuto, per legge, ad avviare un'indagine. Diversamente finisce in galera per omissione di atti d'ufficio. Questa è la famosa "obbligatorietà dell'azione penale". Durante l'indagine il Procuratore agisce sotto il controllo del Giudice per le Indagini Preliminari e al termine dell'indagine presenta le sue tesi al Giudice per l'Udienza Preliminare, che decide se rinviare l'imputato a giudizio o se archiviare il caso. Se la tesi del Procuratore viene considerata abbastanza solida, il caso viene passato al Pubblico Ministero che rappresenterà l'accusa (lo Stato) in tribunale. Salvo rari casi, tutti i processi penali (quelli in cui si rischia la galera) si celebrano davanti ad un collegio giudicante formato da un giudice titolare e da due giudici "a latere". Per i casi di omicidio e cose simili si celebrano addirittura davanti alla famosa "corte d'assise" formata da due giudici "togati" (due magistrati di professione) e da sei "giudici popolari" (semplici cittadini scelti a caso nelle liste elettorali). In Italia, una sentenza diventa "esecutiva", e quindi si può finalmente mettere in galera il malfattore, solo al termine del terzo e ultimo grado di giudizio (la Corte di Cassazione). Se questo vi sembra un sistema bizantino e iper-garantista, siete in buona compagnia. Praticamente tutti gli studiosi di diritto ritengono che il sistema giudiziario italiano sia tra i primi al mondo per livello di garantismo e per complessità, soprattutto per quanto riguarda la parte penale. All'interno di questo schema, le intercettazioni entrano in gioco solo quando esiste un fondato sospetto che una persona possa utilizzare il telefono, la posta elettronica o altri mezzi di comunicazione per portare a termine il suo piano criminoso. In altri termini, in Italia non si possono fare intercettazioni "a caso". Non si possono nemmeno fare "monitoraggi" generici nella speranza di "beccare" qualcuno mentre organizza una rapina. Si può procedere a una intercettazione solo quando esistono delle fondate ragioni per pensare che l'Indagato usi il telefono per il proprio "business" criminale e solo quando il reato ipotizzato è di una certa gravità. Per avviare una intercettazione è necessario l'ordine del Giudice per le Indagini Preliminari, che solitamente agisce su richiesta del Procuratore della Repubblica o di un suo Sostituto. L'intercettazione iniziale può avvenire solo sullo specifico numero telefonico per cui è stata richiesta e non può durare più di 15 giorni. Se durante questo periodo vengono raccolte delle "notizie di reato" o degli "indizi di reato" di un certo valore, allora l'intercettazione può essere protratta per altri 15 giorni (e poi altri 15, ad infinitum) ed allargata ad altre utenze telefoniche, diversamente viene terminata. Il materiale raccolto durante le intercettazioni è coperto da segreto istruttorio fino al momento in cui viene depositato presso la Cancelleria del Tribunale insieme al resto delle prove a carico e insieme alla richiesta di rinvio a giudizio. A quel punto diventa pubblico. Sia gli avvocati della Difesa che qualunque privato cittadino (o giornalista) possono richiederne una copia. Il fatto che tutto il materiale raccolto dall'Accusa sia di pubblico dominio è la conseguenza di un principio di Diritto universalmente riconosciuto e che serve a proteggere l'Imputato. Se così non fosse, si potrebbero celebrare processi farsa "a porte chiuse" alla maniera di Stalin. In questo modo, invece, l'Imputato può sapere di cosa viene accusato e può difendersi pubblicamente. Questa situazione è molto diversa da quanto avviene in molti altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti (e in quasi tutti i paesi di lingua inglese) la Polizia può avviare un'indagine di sua iniziativa e può mettere in atto una intercettazione telefonica senza nessun mandato di un Giudice. Può tranquillamente fare intercettazioni "a caso" e può svolgere "monitoraggi" di vario tipo. Addirittura, in alcuni casi, possono eseguire delle intercettazioni telefoniche anche moltissimi altri "enti" che non hanno nulla a che fare con la Polizia. Ecco come Antonio Ingroia spiega nel suo libro la situazione che esiste in USA e UK: "Ebbene, negli Stati Uniti, le intercettazioni sono consentite non solo per i reati più gravi, di competenza dell'FBI, ma anche per i reati previsti dai singoli stati, per cui le intercettazioni possono essere disposte dal procuratore federale, dal procuratore di ciascuno stato, dalle polizie locali e persino dalle polizie municipali (che corrispondono ai nostri vigili urbani!). Per non parlare dei corpi antiterrorismo e persino dalle autorità di controllo della Borsa!"."In Gran Bretagna, poi, il potere di ordinare delle intercettazioni, senza che sia necessaria l'autorizzazione di un Giudice, è riconosciuto ai Servizi Segreti, a tutte le articolazioni della Polizia e a una selva di enti pubblici che vanno dagli istituti finanziari, ai direttori degli istituti di pena, fino addirittura ad uffici postali e pompieri!" Quello che si vede in telefilm come NCIS o CSI è effettivamente la pratica quotidiana in molti paesi di lingua inglese ma, in qualunque paese europeo, porterebbe i poliziotti dritto in galera per abuso di potere. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere l'Europa un "faro nella notte" per quello che riguarda la protezione del cittadino dalle intercettazioni e l'Italia viene da sempre considerato il paese più garantista d'Europa da questo punto di vista. Questo avviene già da molto, molto prima che si iniziasse a parlare di riforma della legge sulle intercettazioni. Un'ultima parola sulle intercettazioni dei parlamentari. In Italia è vietato porre sotto intercettazione il telefono di un parlamentare (e quindi anche quello di un Ministro o di un altro esponente del Governo e delle Istituzioni, come il Presidente della Repubblica). Nemmeno un Giudice può ordinare una intercettazione di questo tipo. Ma, allora, com'è possibile che appaiano sui giornali le intercettazioni del Presidente del Consiglio, dei suoi Ministri e di altri Parlamentari? Questo avviene perché questi parlamentari si intrattengono in conversazioni compromettenti con loschi figuri che non godono della loro stessa prerogativa. Quando questi malviventi vengono rinviati a giudizio, i materiali raccolti a loro carico devono essere resi pubblici per permettere loro di difendersi pubblicamente. Il Giudice non potrebbe fare diversamente nemmeno se lo volesse. Si noti che solo in Italia è vietato intercettare i parlamentari. In tutto il resto d'Europa, ed in gran parte del mondo (USA, Canada, Australia, Giappone, persino in Russia, etc.), un parlamentare è un semplice cittadino agli occhi della Magistratura e quindi non gode di nessuna protezione in più rispetto al normale "Signor Rossi". La famosa "immunità parlamentare", inoltre, salva il parlamentare solo dalle conseguenze delle azioni che compie nello svolgimento delle sue funzioni, non dalle conseguenze delle sue azioni criminali. Si noti anche che il contenuto delle intercettazioni telefoniche (che siano rilevanti o meno ai fini dell'indagine, che riguardino privati cittadini o parlamentari) viene considerato di pubblico dominio in praticamente tutti i paesi del mondo alla sola condizione che le intercettazioni siano state depositate come atti in un processo.
REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.
Non solo “sti signori” sono impuniti per motivi di colleganza e di casta, ma, addirittura è impedito parlarne. Su “Panorama” e su “Il Giornale” la testimonianza di una giornalista. “Non sono ancora le 9 quando in casa di Anna Maria Greco, la cronista de "Il Giornale" «colpevole» di aver scritto un articolo intitolato La doppia morale della Boccassini, suonano alla porta. Tranne la figlia che si sta preparando per uscire, gli altri dormono tutti. Ad alzarsi è il marito. L’uomo non fa in tempo ad aprire, che in un attimo quelli hanno già imboccato la strada per la camera da letto. Manco si trattasse di dover scovare un pericoloso latitante pluricondannato, i carabinieri si presentano in cinque. Devono subito localizzare la giornalista e notificarle l’ordine di perquisizione disposto dal procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani nell’ambito dell’indagine a carico del membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura Matteo Brigandì, accusato di abuso d’ufficio per aver passato, proprio a lei, un fascicolo riservato. Anna Maria non è indagata di nulla. Ha solo scritto un articolo riguardante un procedimento disciplinare a carico di Ilda Boccassini risalente al 1982 quando, la principale accusatrice di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, fu costretta a difendersi davanti al Csm dopo essere stata beccata in atteggiamenti amorosi con un giornalista di "Lotta continua". Anna Maria non è indagata, eppure le rivoltano la casa: setacciano stanza per stanza, smontano cassetto per cassetto, controllano foglio per foglio. Alla fine della perquisizione le porteranno via il suo pc personale, le agende, i documenti, ogni singolo foglio con la sigla “Csm”, come se non fosse normale trovarne nella casa di una cronista che da vent’anni si occupa di giudiziaria. «La cosa più grave – racconta Anna Maria a "Panorama.it" mentre è ancora in attesa di firmare il verbale della perquisizione assistita dal suo avvocato – è che si sono portati via pure il pc di mio figlio, al quale io non ho mai nemmeno avuto accesso. Speriamo che almeno quello ce lo restituiscano in fretta». Eh già, perché magari è proprio nel computer del figlio 24enne che Anna Maria avrebbe potuto nascondere il fascicolo incriminato, a meno che non l’abbia occultato nella redazione romana del Giornale perquisita anch’essa in mattinata. «Io quel fascicolo l’ho visto, ma non ce l’ho. E comunque non sapevo che si trattasse di carte segrete dal momento che riguardano un procedimento risalente all’’82 conclusosi, come ho anche scritto nel mio articolo, con un’assoluzione per la Boccassini. Dov’è il segreto?» . La Greco, che in tutta la sua carriera non ha mai subito una perquisizione domiciliare, non nasconde rabbia e sorpresa. Da una parte è ancora scossa per quanto accaduto poche ore prima in casa sua, dall’altra si sente delusa e amareggiata perché a “denunciarla” su un giornale è stata proprio una che fa il suo stesso mestiere. Anna Maria non fa nomi, ma è semplice capire a chi alluda. Il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo, infatti, su "Repubblica" Liana Milella svela la presunta fonte dello scoop del Giornale sulla Boccassini, ossia lo stesso Brigandì oggi accusato d’abuso d’ufficio. «Qui siamo davanti a un fatto clamoroso: una giornalista che, invece di tutelare un principio cardine del nostro lavoro come la copertura delle fonti, arriva a fare una cosa del genere. Dovrebbe vergognarsi». Nessun attestato di solidarietà, dunque, da chi per mesi si è battuto contro il bavaglio alla libera informazione? «Macché solidarietà! Da altri sì, non certo dai colleghi di Repubblica». A parte scovare il fascicolo che le avrebbe passato Brigandì, secondo la Greco, dietro la doppia perquisizione ordinata oggi in casa sua e al Giornale, c’è una chiara intenzione intimidatoria nei confronti di chi esercita questa professione. «Da oggi il mio lavoro diventerà ancora più difficile di quello che è normalmente, – spiega la cronista - occuparsi di giustizia, e in particolare della condotta dei magistrati, è sempre più rischioso. Anche quando hai in mano fatti e documenti certi che comprovano delle responsabilità a loro carico, devi muoverti in punta di piedi». Secondo la Greco, invece di essere una casa di vetro, trasparente agli occhi dei cittadini, la giustizia è sempre più una casa di piombo, «se nemmeno dopo 30 anni dalla chiusura di un procedimento a suo carico, la gente ha diritto di sapere cosa ha fatto un magistrato, che democrazia è? Perché non si dovrebbe parlare oggi di un fatto che può essere d’interesse per l’opinione pubblica dal momento che quel magistrato si sta occupando di un’indagine che riguarda la privacy di una persona? Perché – si chiede ancora Anna Maria mentre aspetta solo che la lascino andare a casa e riprendere il suo lavoro – i cittadini non dovrebbero sapere certe cose?».” «I carabinieri - ha spiegato la giornalista - mi hanno detto che dovevano procedere a una perquisizione personale e, di fronte a una donna carabiniere, ho dovuto spogliarmi integralmente. Non si tratta quindi semplicemente di una consegna degli abiti, come sostenuto dalla procura, ma di una procedura molto imbarazzante. Confermo altresì, come scritto nel mio articolo, di non essere stata toccata. Mi chiedo - ha concluso - se sia normale che una giornalista venga costretta a rimanere nuda di fronte a un'esponente delle forze dell'ordine senza nemmeno essere indagata. Lascio il giudizio ai lettori».
Fughe di notizie. Fughe inarrestabili. Fughe senza colpevole. È così che va la giustizia italiana da quando la giustizia fa notizia. Dal primo ciak di Mani pulite. Certo, allora gli arresti si susseguivano sul nastro della procura, al quarto piano, e qualche volta il Gabibbo arrivava sotto casa prima dei carabinieri e prima delle manette. Oggi gli spifferi portano sui giornali frammenti di verbali in tempo reale, notizie che servono a far discutere, ma non aggiungono un grammo all’inchiesta, intercettazioni che poi, a bocce ferme, riservano sorprendenti riletture. La contabilità degli incendi mediatici, quella non la tiene più nessuno. Figurarsi. Già nell’ormai lontanissimo 1995, un’epoca fa, gli avvocati del Cavaliere, contestavano 130 fughe non ortodosse. Numeri che oggi, se aggiornati, verrebbero polverizzati. Numeri che, naturalmente, nessuno dentro i palazzi di giustizia ha mai preso sul serio. Perché le Procure spesso considerano la fuga un episodio deplorevole, ma non un reato, così come invece è, specie se commesso da un loro collega. E perché le poche indagini aperte sono davvero, per dirla con il linguaggio della magistratura, atti dovuti. Atti dovuti e nulla più. Atti senza futuro. Gli avvocati del Cavaliere, ma non solo loro, hanno depositato nel tempo diverse denunce, a Milano, e anche a Brescia, competente per i reati compiuti dalla magistratura di rito ambrosiano. In un caso e nell’altro i risultati sono stati nulli.
Ed è inutile contestare, tanto il potere in Italia è nelle mani della magistratura, non nelle mani del popolo. Ed infatti, a seguito della perquisizione del 1 febbraio 2011 presso l’abitazione di Anna Maria Greco e presso la redazione de "Il Giornale" disposta dalla procura di Roma attinente alla pubblicazione di documenti interni al Csm riguardanti il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, la Federazione nazionale della stampa aveva commentato in una nota: “Oggettivamente, non se ne può più. Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse. La perquisizione di oggi a carico della collega de 'Il Giornale' Anna Maria Greco appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva". "Le notizie 'riservate', non escono mai con le proprie gambe. - aggiungeva la nota FNSI - Ma se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell''utilizzatore finale'. Cosi non si può andare avanti. Ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti". Critica sulla vicenda, per altri profili, anche l'Unione Camere Penali. "Si possono esprimere ampie riserve, non solo estetiche, in merito allo 'scoop', strumentale e bacchettone, del 'Giornale' sulla dottoressa Ilda Boccassini, che segna l'ennesimo episodio di imbarbarimento dello scontro in atto, cosi come si possono anche avanzare fondati interrogativi - afferma una nota della Giunta UCPI - sulla necessita di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa, ma non ci si può esimere dal registrare anche l'inusitato spiegamento di mezzi processuali con cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando viene coinvolto un collega". "Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi, di cui per legge e vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch'esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione", commentano i penalisti. "Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo avuto la riprova", conclude la nota UCPI, "di quanto sia discrezionale non solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche le sue stesse modalità, con buona pace del principio di eguaglianza che tutti invocano".
LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.
Un sistema sCOOPpiato: i vantaggi fiscali non hanno più senso, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Alcune note a margine della vicenda che ha visto il sindaco Pd di Ischia finire in galera. Lo accusano di aver preso mazzette dalla cooperativa che eseguì i lavori per la metanizzazione dell'isola. Fin qui niente di straordinario: è ciò che capita spesso - anche tra i progressisti - quando ci sono di mezzo opere pubbliche e dunque i soldi dei contribuenti. Siccome chi paga sono appunto gli italiani, le imprese pagano con generosità, assecondando ogni desiderio di politici e funzionari. Siamo alla solita corruzione. Ciò che è meno solito è il susseguirsi di inchieste che vedono al centro le cooperative. Cambiano i nomi, cambiano i vertici, ma il sistema è lo stesso. Le coop, ossia delle società che dovrebbero ispirarsi a criteri etici e di solidarietà fra i lavoratori, in realtà si comportano come qualsiasi impresa, anzi peggio di qualsiasi impresa, usando metodi spicci e spregiudicati degni di una gang e soprattutto "oliando" a suon di tangenti la pubblica amministrazione. Già alcune cooperative sono un'anomalia, perché pur essendo colossi in grado di fare concorrenza a primarie ditte private godono di una fiscalità di vantaggio, che consente loro di risparmiare su tasse e contributi. Ma visto che oltre a comportarsi come qualsiasi azienda del settore, si muovono anche come i più disinvolti corruttori, la cosa si fa insopportabile. Eppure, da Mafia capitale al Mose si capisce che queste coop sono abituate a ottenere gli appalti pubblici ad ogni costo, anche violando la legge. Ha senso dunque favorirle abbassando solo a loro le imposte? Non si distorce il mercato più di quanto già non lo distorcano le bustarelle? Altro che sostenere la necessità di rivedere il sistema degli appalti, come l'altro ieri ha dichiarato il presidente di Lega Coop Mauro Lusetti, qui bisogna rivedere il sistema delle coop, soprattutto di quelle collaterali alla politica, che, guarda caso, sono di sinistra.
Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd – giura il presidente Matteo Orfini – non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.
«Il sistema criminale» della Coop rossa. Dopo il caso Incalza & Co, la corruzione scuote di nuovo il Paese. Questa volta a finire nel mirino degli inquirenti è la storica cooperativa modenese Cpl Concordia. Sotto accusa l'ex presidente, vari mananger e il sindaco Pd di Ischia, Giuseppe Ferrandino. E tra i contatti politici nelle carte spuntano i nomi di D'Alema e Bobo Craxi, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso” Ombre rosse sugli appalti in Campania. C'è la storica cooperativa emiliana, la Cpl Concordia, c'è il primo cittadino dell'isola verde, ci sono faccendieri e imprenditori e compaiono i nomi di politici di rango, come Massimo D'Alema, che non è indagato. Il gip lo definisce un «sistema criminale». Un altro. L'ennesimo. Dopo Incalza & Co: ecco il nuovo capitolo del romanzo criminale italiano. I vertici della cooperativa Cpl concordia - arrestati l'ex presidente Roberto Casari, l'ex socialista Francesco Simone (relazioni esterne), Nicola Verrini (area commerciale) - avevano messo in piedi un 'protocollo criminale'. Corrompevano funzionari e politici per accaparrarsi gli appalti nel settore della realizzazione di impianti energetici, in Campania, e emettevano false fatture per “pagare tangenti e altre utilità”. Non badavano a costi e la corruzione non si fermava a politici e funzionari: se serviva, a libro paga, finivano pure gli uomini del clan. Un meccanismo rodato. In provincia di Caserta, infatti, i vertici di Cpl si erano accordati anche con esponenti della criminalità organizzata e con i politici conniventi con gli ambienti camorristici. Tutto è ben definito nell'intercettazione tra Simone e Verrini quando distinguono i politici in due categorie, quelli che 'mettono le mani nella merda' e gli altri. Loro hanno fatto sempre affidamento sui primi. C'è un particolare inedito che l'Espresso ha scovato. L'inchiesta nasce dalle intercettazioni disposte nei confronti di Giuseppe Incarnato: «Dal monitoraggio degli ascolti emergevano – scrive il Gip – preziosi spunti investigativi». Incarnato, che non risulta indagato, è protagonista già di una indagine relativa all'indebitamento della clinica del Vaticano, l'Idi di Roma. Al telefono parla con Francesco Simone, personaggio chiave del sistema, discutendo di alcune gare bandite dalla regione Campania. Quella di oggi, considerando anche gli omissis, è solo la prima tappa dell'inchiesta sul sistema della Cpl Concordia. Otto sono finiti in carcere, Simone Arcamone, responsabile tecnico del comune di Ischia, è finito ai domiciliari, per due è scattato l'obbligo di dimora. Tutto parte dall'esigenza di metanizzare l'isola. La storica cooperativa modenese, in cambio dei «favori» di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori - avrebbe stipulato due «fittizie convenzioni» (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della «messa a disposizione» di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Il sindaco, al secondo mandato, era diventato 'un factotum al soldo della Cpl”. E pensare che si definiva campione di legalità, che 'andava inculcata ai giovani', e aveva fondato anche un osservatorio coinvolgendo magistrati ed esponenti istituzionali. Oggi è in carcere con l'accusa di corruzione. Sarebbe lui l'articolazione politica di quello che viene definito dagli inquirenti «un vero e proprio sistema». Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, come consulente della Cpl e almeno un viaggio tutto pagato in Tunisia. Secondo l'accusa l'amministrazione avrebbe favorito l'azienda emiliana, che a sua volta avrebbe pagato tangenti grazie ai fondi neri costituiti in Tunisia con la società Tunita Sarl, riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, definito dagli inquirenti «personaggio chiave» della vicenda. Simone è un vecchio socialista di scuola craxiana. «Nasce socialista come segretario di Bobo Craxi che fu una delle prime persone che mi fece conoscere, e all'inizio Simone spese questa sua conoscenza per introdurre la Cpl in Tunisia, nazione nella quale i Craxi avevano forti entrature. Non so se Bobo Craxi sia mai stato legato da rapporti formali (consulenze, contratti ... ) con la Cpl» racconta ai pm un testimone. Un paragrafo dell'ordinanza è dedicato ai rapporti della Cpl Concordia con esponenti politici, in particolare con Massimo D'Alema che è estraneo all'indagine. Relazioni tra la storica cooperativa rossa e "il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl”. Simone parla al telefono con Nicola Verrini nel marzo 2014: “ Preferisco investire negli ItalianiEuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo”. E più avanti: “D'Alema mette le mani nella merda come ha fià fatto con noi ci ha dato delle cose”. Poi a proposito dei rapporti con D'Alema si evidenzia nell'ordinanza “l'acquisto da parte della Cpl di alcune centinaia di copie dell'ultimo libro del predetto politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un'azienda agricola riconducibile allo stesso D'Alema”. Il numero delle copie è pari a 500, le bottiglie, invece, duemila. Così come l'11 maggio la presentazione del libro di D'Alema ad Ischia viene curata dalla Cpl Concordia e si tiene nell'albergo 'Le Querce' della famiglia Ferrandino. Ci sono poi, nell'ultima parte del paragrafo, i finanziamenti erogati dalla Cpl alla fondazione Italianieuropei. Vengono ritrovati nella perquisizione nella sede di Cpl Concordia, tre bonifici da 20 mila euro (periodo 2012-2014). Non solo i libri di D'Alema, la Cpl ha acquistato anche copie del libro dell'ex ministro Giulio Tremonti. Vengono acquisite due fatture rispettivamente di 7440 euro e di 4464 euro. Massimo D'Alema ha chiarito subito: «Rapporti trasparenti, non ho avuto alcun regalo e alcun beneficio personale. L'acquisto delle bottiglie di vino è stato fatturato e pagato con bonifici». Ferrandino è stato il primo dei non eletti alle utlime Europee. E se Andrea Cozzolino, eurodeputato, avesse vinto le primarie contro Vincenzo De Luca e poi le regionali avrebbe dovuto lasciare il posto proprio al sindaco di Ischia. Ferrandino in quella campagna elettorale si è dato molto da fare. Nelle intercettazioni, mentre parla di voti da raccogliere in Campania, fa riferimento anche a un fedelissimo di Matteo Renzi, Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio), con il quale avrebbe dovuto parlare, senza specificarne il motivo.
Coop Adriatica: 60 mila copie del libro di Landini per far breccia nel cuore dei soci. Il segretario della Fiom ha scritto "I miei primi Primo Maggio" per spiegare il senso della festa ai bambini. E il colosso della grande distribuzione lo regalerà a tutti i clienti, scrive Natascia Ronchetti su “L’Espresso”. Maurizio Landini Sulla festa dei lavoratori sono davvero sulla stessa lunghezza d’onda. Anzi, il feeling è così forte da valere 60 mila copie. Il libro di Maurizio Landini e del giuslavorista Umberto Romagnoli, “I miei primi Primo Maggio”, sarà il cadeau di Coop Adriatica per i suoi soci e clienti. Decisione presa in prima persona dal presidente del colosso della grande distribuzione di area Legacoop, Adriano Turrini, che dell’ultima opera del segretario della Fiom vuole riempire gli scaffali dei suoi 195 punti vendita, tra Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo, tra ipermercati, supermercati, minimarket. L’idea l’aveva in serbo da tempo. E l’ha realizzata senza badare a spese, visto che il libro – rivolto ai bambini e pubblicato dalla piccola casa editrice “L’io e il mondo di TJ”, in vendita dall’1 aprile in tutte le librerie della rete Coop a 5 euro – sarà regalato nella settimana che precede il Primo maggio a tutti coloro che entreranno in un negozio della rete commerciale, nelle quattro regioni, per fare la spesa. Fino ad esaurimento di tutte quelle 60mila copie già comprate e pronte per essere distribuite a tappeto. “Conosco da tempo Turrini – dice Landini -. Ci stimiamo, ma non c’è un vero e proprio legame di amicizia. Però io non mi occupo di distribuzione anche se penso che l’idea di donarlo alle famiglie con bimbi sia un’idea molto intelligente. E poi ogni merito va a chi ha pensato il libro: Iaia Pasquini e lo psichiatra Emilio Rebecchi. Sia chiaro che né io né la Fiom prendiamo un euro”. Quanto a Turrini, prima ancora di decidere di farne incetta per omaggiare i consumatori, ha firmato anche la prefazione. Riservandosi, in seconda battuta, di giocare in casa anche per la presentazione ufficiale del libro, a Bologna, il 23 aprile all’Ambasciatori: la libreria che nel centro della città, grazie alla partnership tra Coop Adriatica e Oscar Farinetti, ha proposto (con successo) il mix tra lettura e buona tavola. Sarà sempre Turrini, infatti, a introdurre la presentazione del libro. Una questione di affinità elettive. Anche se la politica, giura, in questo caso non c’entra nulla. Tutto si ferma al tema del lavoro: “Per molti aspetti non condivido le opinioni e le proposte di Landini – spiega Turrini -. Ma sui valori del Primo maggio e sul lavoro come diritto delle persone, fondamentale per la dignità e la vita di ciascuno, abbiamo sicuramente un punto di vista comune”. Se la casa editrice – specializzata in libri per l’infanzia – è davvero micro altrettanto non si può dire dello sponsor, visto il peso di Coop Adriatica. Un big da oltre due miliardi di fatturato capace di spalancare a Landini le porte della cooperazione nella sua roccaforte. E di aiutarlo a far breccia nel cuore di quasi tre milioni di soci.
TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.
Tangentopoli di Ischia: il vero potere adesso passa per le Fondazioni. Da mafia Capitale allo scandalo Penati, tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscono per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader di tutti gli schieramenti: da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Mafia Capitale, lo scandalo Penati e adesso anche la tangentopoli ischitana. Non è un caso se tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscano per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader e persino per i gregari di tutti gli schieramenti, da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno. E, di fatto, oggi questi organismi hanno rimpiazzato le vecchie correnti. «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha detto il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, il primo a porre la questione in un'intervista a “l'Espresso” nello scorso dicembre. L'indagine sulle mazzette a Ischia accende i riflettori sulla prima di queste creature, ItalianiEuropei, nata nel 1998 per volontà dell'allora premier Massimo D'Alema. Al di fuori della rilevanza penale, l'invito dell'uomo della coop Concordia a «investire in ItalianiEuropei» si traduce in tre bonifici da 20 mila euro ciascuno. Soldi motivati nelle intercettazioni dal loquace Francesco Simone, perché «D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi... ci ha dato delle cose». Sessantamila euro sono poca cosa, forse, rispetto alle somme che girano nei circuiti del malaffare. E un versamento attraverso bonifici sembra rispettare tutte le forme della legalità. Ma quanti altri contributi ha ricevuto ItalianiEuropei? Impossibile saperlo. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ha spiegato la portavoce di D'Alema Daniela Reggiani a Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi, autori tre mesi fa di un'inchiesta de “l'Espresso” sulla questione: «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». Correttezza verso chi paga, non certo verso i cittadini. Questo è il cuore del problema. Fondazioni e associazioni simili sono lo snodo della vita politica ma sfuggono a qualunque controllo. Salvo rare eccezioni, non c'è trasparenza: non devono spiegare chi le finanzia, né come usano le risorse. Le regole contabili sono minime, senza nessuno di quegli obblighi a cui devono sottostare i finanziamenti ai partiti e ai parlamentari. Eppure si tratta di organismi con sedi prestigiose e uffici nel centro storico di Roma, che editano riviste patinate e organizzano convegni di alto livello. Ad esempio «ItalianiEuropei», come scrisse Marco Damilano su “l'Espresso”, ha sede in piazza Farnese, di fronte all'ambasciata francese: nel 2012 aveva un patrimonio di un milione e 600 mila euro, una rivista mensile da appena mille abbonati e da 582 mila euro di pubblicità, a consultare il bilancio della società editrice Solaris (tra gli inserzionisti: Eni, Enel, British American Tobacco, Finmeccanica, Trenitalia, Monte dei Paschi). Già l'indagine romana sulla ragnatela di Massimo Carminati aveva evidenziato il fiume di cash che affluiva nei conti di diverse fondazioni. C'era Gianni Alemanno con la sua “Italia Futura”, sulla quale è stata dirottata gran parte dei 285 mila euro pagati da Salvatore Buzzi, reuccio delle cooperative romane e braccio destro dell'ultimo re criminale della capitale. E c'era persino l'associazione intitolata alla memoria di Alcide De Gasperi a cui vanno 30 mila euro: è presieduta da Angelino Alfano, a cui invano “l'Espresso” ha chiesto lumi su tutti gli sponsor. Ma non sono solo i big a usare questi circoli come bancomat. Luca Odevaine, il funzionario che arbitrava lo smistamento dei profughi diventato l'ultimo grande business, nelle intercettazioni sembra alterare le attività di “Integra Azione” a suo piacimento, sfruttandone i bilanci per mascherare i quattrini ottenuti dalla rete di Carminati. Una ricerca dell'università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti ne ha censite ben 105: il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Negli anni duemila ogni politico di spicco ne ha creata una. E sono protagoniste sempre più frequenti delle cronache giudiziarie. Dalle vicende di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, sono spuntati i fondi a “Centro per il futuro sostenibile”, sigla con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta, che secondo l'Ansa sarebbe indagato per i rincari della Metro C, notizia da lui smentita. Invece la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Altero Matteoli, ex ministro sotto inchiesta per la tangentopoli del Mose, è stata chiamata in causa nello scandalo Enac. La trasparenza, quando c'è, è sempre parziale. “Open” di Matteo Renzi indica parte degli sponsor, ma non fa luce su chi partecipa a caro prezzo alle cene elettorali, né all'impiego delle disponibilità. «A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza», ha dichiarato Cantone, chiedendo una legge che stabilisca criteri rigorosi anche per questo settore. Perché ormai il merchandising usato per finanziare la politica sembra senza confini. La cooperativa Concordia compra duemila bottiglie di vino dalle cantine di D'Alema e si assicura cinquecento copie del suo saggio “Non solo Euro” per 4800 euro. Ma, in omaggio alla trasversalità imperante, ne paga quasi 12 mila per due diverse opere letterarie di Giulio Tremonti. Un investimento in cultura che forse può spiegare la frenesia editoriale di tanti politici.
Il trucchetto delle fondazioni per nascondere le mazzette. I think tank legati ai politici non sono tenuti a dichiarare chi li finanzia o a depositare un bilancio. Ormai è boom di "pensatoi": sono oltre 100 e spesso finiscono nelle inchieste, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. L'ultima stima ne conta più di cento, 105 per la precisione. Per tutti i gusti, da destra a sinistra, da leader a presunti tali, nessuno si fa mancare una fondazione. Se lievitano a vista d'occhio è perché offrono diversi vantaggi, soprattutto in tempi di magra per il finanziamento pubblico ai partiti. Le fondazioni ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - ma il grosso delle risorse arriva da tasche private, ed è qui il principale vantaggio dei think tank : non sono tenute a dichiarare chi le finanzia, neppure a depositare un bilancio, tutto al riparo da sguardi indiscreti. «Non siamo neppure obbligati a tenere una contabilità ufficiale delle erogazioni che riceviamo» racconta il presidente di un'importante fondazione politica, legata ad un ex ministro. Così negli ultimi anni il flusso di denaro si è spostato dalle segreterie di partito alle segrete stanze delle fondazioni, che puntualmente spuntano in miriadi di inchieste per corruzione, da Mafia capitale con la «Nuova Italia» di Alemanno, fino a quella sulla coop Cpl. Il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone ha segnalato ancora il problema: «È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni». In questo campo Massimo D'Alema è un precursore, perché la sua fondazione Italianieuropei , prestigiosa sede in piazza Farnese a Roma, festeggiava già nel 2008 i dieci anni di vita. Il volume celebrativo edito per l'occasione riporta anche un po' di cifre e di nomi. Circa 350mila euro di donazioni, arrivati da big come la Glaxo, multinazionali del tabacco come Philip Morris, aziende di elettrodomestici come Merloni, e poi Pirelli, Ericcson, e una serie di coop: Coop Estense, Legacoop Imola, Lega Nazionale Coop e Mutue, Lega Ligure delle Coop... Chi la finanzi adesso non si sa (anche se basta comprare la rivista bimestrale e vedere chi sono gli inserzionisti di pubblicità, a botte di decine di migliaia di euro, tutte grosse aziende con tanta voglia di buone relazioni con la politica), perché alla richiesta la fondazione dalemiana risponde che i nomi non si fanno, per la privacy («Dai finanziamenti si potrebbe desumere l'orientamento politico di chi ha elargito il contributo» ha spiegato lo stesso D'Alema). Privacy che altrove, come in Germania, dove le fondazioni sono ampiamente finanziate dallo Stato, non esiste, perché si devono seguire precise e severe regole di trasparenza. Anche a Bruxelles è così, e D'Alema lo sa bene, visto che presiede un'altra fondazione, la Foundation for European Progressive Studies (espressione del Partito socialista europeo di cui fa parte il Pd), che nell'ultimo hanno si è presa 3 milioni di euro di fondi dalla Ue. Dietro le carriere politiche c'è spesso l'attivismo di una fondazione. Tosi è arrivato alla rottura con la Lega proprio per la sua fondazione «Ricostruiamo il Paese», 57 sedi in tutta Italia, finanziatori ignoti. Enrico Letta, appena diventato premier, ha chiuso la sua VeDrò, appena visitata dalla Guardia di finanza, ma l'associazione politica è servita a preparare la strada di premier di larghe intese (tutti invitati a Vedrò). Quella di Renzi, prima la Big Bang e poi la Fondazione Open, guidate dal braccio destro Carrai, sono stati i motori della repentina ascesa del sindaco di Firenze, concentrando finanziamenti, sponsor, amicizie. Renzi, in piena guerra di primarie Pd (coi bersaniani che lo accusavano di ricevere soldi persino da Usa e Israele...), ha pubblicato una lista di finanziatori. Ma sugli sponsor di Renzi e sui partecipanti alle cene di fund raising resta un'ampia zona di mistero. Come in tutte le altre. Sarà per questo che piacciono tanto?
Fondazioni, così i politici ora fanno cassa. I finanziamenti ai leader piccoli e grandi ora passano attraverso questi enti, che possono operare senza alcun controllo. Ecco come la fine dei fondi pubblici cambia il rapporto tra il Parlamento e le lobby, scrivono Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il palazzo delle fontane all'Eur di Roma illuminato per la cena del Pd Doveva essere un anticipo di futuro. Il partito all’americana. Il fund raising, la raccolta fondi, limpida e trasparente come un ruscello di montagna. Venerdì 7 novembre la prima cena di auto-finanziamento del Pd a Roma (dopo quella di Milano) era stata un successone. Ottocento tavoli, mille euro a testa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi festeggiato come uno sposo. «Esperimento riuscito, da ripetere». Il mondo nuovo della politica finanziata dai privati. Che si è rivelato invece, tre settimane dopo, il solito mondo di mezzo. Il confine sottile e buio che separa la vetrina del potere dalle bande criminali scoperte dall’operazione Mafia Criminale. Alla cena con il premier c’era anche Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno”, arrestato con l’accusa di essere il cassiere della banda romana guidata da “Er Cecato”, come ha raccontato il suo vice Claudio Bolla: «Il tavolo alla cena di Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i nostri soci, c’è anche Massimo Carminati». Si realizza la profezia del boss ex Nar intercettato: «Tutto è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi». O con il suo giovane successore a Palazzo Chigi, ignaro. «I nomi si vedono. Sono tutti pubblici e registrati. Chiedete al tesoriere del partito Francesco Bonifazi», ha garantito il premier in tv il 3 dicembre. A due settimane di distanza, però, la lista degli invitati e dei contributi non è saltata fuori. Nell’attesa, l’inchiesta “Mafia Capitale” e le regalie dei presunti criminali alla politica arrivano proprio mentre i leader provano faticosamente a costruire un nuovo modello di approvvigionamento, dopo che l’abolizione del finanziamento pubblico (che entrerà a regime nel 2017) sta già dissanguando le casse dei partiti. Dunque, l’antica domanda resta più attuale che mai. Chi finanzia la politica? E perché? «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha denunciato una settimana fa a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone. «Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo». Le fondazioni politiche sono un punto di intersezione tra interessi pubblici e privati, legali e inconfessabili, di lobby e di cordate che si incrociano e si incontrano, senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci e dei finanziatori. Una terra di mezzo, appunto. E sono il fantasma che si aggira tra le pagine dell’inchiesta su “Mafia Capitale”. Spulciando tra le migliaia di documenti e intercettazioni si scopre, infatti, che gli enti finiti nell’ordinanza (alcuni solo di striscio) sono ben cinque. Come il magistrato Cantone, anche l’ex Nar Carminati e il compare Buzzi avevano capito che i think-tank possono essere scatole vuote. Da riempire di soldi e tangenti. Matteo Renzi alla cena di finanziamento del Pd Anche se dei pensosi convegni sull’economia e delle conferenze sul Mediterraneo ai boss fregava nulla, non è un caso che nell’ordinanza d’arresto la parola “fondazione” venga pronunciata dagli indagati 45 volte. Sono i soggetti giuridici spuntati come funghi negli ultimi dieci anni, enti dove la trasparenza è un accessorio e il lobbismo spinto è l’unico, vero core business. Pronti a degenerare in una macchina per corrompere dirigenti pubblici, ungere i facilitatori, riciclare e fare ottimi affari. Dal think-tank all’americana al think-“tanke” all’amatriciana. “Il Tanke” era il soprannome che “Er Cecato” dava a Franco Panzironi, in testa all’elenco degli arrestati, ex amministratore delegato dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti, e segretario della fondazione di Gianni Alemanno “Nuova Italia”. La onlus che il “Tanke” usava come una sorta di bancomat. Secondo i pm, infatti, i padrini di “Mafia Capitale” avrebbero finanziato il club di Gianni per almeno tre anni, da gennaio 2012 allo scorso settembre, versando centinaia di migliaia di euro: al pensatoio dell’ex sindaco di Roma, tra bonifici e bustarelle, secondo i pm sarebbero arrivati dalle cooperative dei boss contributi per 265 mila euro. In cambio, l’organizzazione avrebbe ottenuto appalti pubblici e utilità di ogni tipo. «Quello è ’na cambiale, l’ho messo a 15 mila al mese», ride Buzzi al telefono, facendo riferimento all’affitto della sede della centralissima via San Lorenzo in Lucina, nello stesso palazzo in cui c’è la sede nazionale di Forza Italia. Panzironi dai presunti mafiosi otteneva di tutto e di più: da orologi di lusso alla «rasatura del prato di zone di sua proprietà». Ma il “Tanke” era direttore operativo anche di un’altra prestigiosa associazione, la “Fondazione per la pace e la cooperazione internazionale Alcide De Gasperi”, presieduta per decenni da Giulio Andreotti, con ottime entrature in Vaticano e nella finanza bianca (tra i consiglieri spicca Giovanni Bazoli accanto a Vito Bonsignore, condannato per corruzione). Buzzi gira 30 mila euro anche a loro, e incontra Panzironi negli eleganti uffici di Via Gregoriana. Al tempo l’ente era presieduto dall’ex berlusconiano Franco Frattini, ma dal luglio 2013 è stato sostituito dal numero uno del Viminale, Alfano. Anche sul sito della “De Gasperi”, come su quello di “Nuova Italia” manco a dirlo, non c’è alcuna sezione “trasparenza”. Abbiamo provato a contattare per giorni il segretario generale Lorenzo Malagola per chiedere lumi sui finanziatori privati, ma non ci ha mai richiamato. Anche Alfano non ha voluto rispondere alle nostre domande. «Sottolineiamo però», tiene a far sapere il suo staff, «che la fondazione non è di un politico, esiste da trent’anni, e che presidente onorario è la figlia di De Gasperi». Andiamo avanti. Se nel paragrafo dell’ordinanza dedicata alle «frequentazioni di Carminati» spunta Erasmo Cinque, costruttore coinvolto nelle inchieste sul Mose e sull’Expo nonché autorevole membro del cda della “Fondazione della liberà per il Bene comune” dell’amico ex ministro di An (oggi in Forza Italia) Altero Matteoli, un uomo del “Cecato” aveva messo piede anche in altre due associazioni, stavolta di tendenza democrat. Stefano Bravo, per gli inquirenti lo “spallone” del clan, il commercialista che portava i denari oltreconfine, è stato tra i promotori della “Human Foundation”, una creatura dell’ex ministro Pd Giovanna Melandri. Ma era - ha scoperto “l’Espresso” - anche presidente del collegio dei revisori della Fondazione “Integra Azione”, fondata da Legambiente. L’ente, che ha un logo profetico in cui una mano rossa ne stringe una nera, era presieduto da Luca Odevaine (l’ex vice-capo di gabinetto di Walter Veltroni al soldo di Buzzi finito in galera) e da Francesco Ferrante, ex senatore del Pd. «È un paradosso, noi di Human foundation siamo nati proprio perché crediamo nella trasparenza assoluta di stampo anglosassone», spiega furiosa la Melandri, che solo pochi giorni fa ha scoperto che uno dei fondatori del suo circolo (nell’elenco spiccano anche il viceministro all’Economia Carlo Calenda e il filosofo Sebastiano Maffettone) è considerato dai pm uno dei complici dell’ex terrorista nero. «Noi siamo parte lesa. Se il dottor Bravo sarà condannato ammetteremo di aver sbagliato a scegliere un collaboratore, ma con “Mafia Capitale” non abbiamo nulla a che spartire». È un fatto che la Human sia tra le pochissime onlus a indicare sul sito le aziende che sponsorizzano i suoi progetti: si va da Unicredit e Telecom, passando per Banca Mediolanum a Sorgenia, che hanno versato liberalità da un minimo di 10 mila (contributore “bronze”) a un massimo di 50 mila euro l’anno (contributore “platinum”). «Solo Vodafone ha messo di più per un master alla Cattolica», chiosa la Melandri, che sostiene l’apoliticità della sua creatura. Presentata al mondo però con una lettera di Giorgio Napolitano, l’intervento dell’allora premier Mario Monti, i saluti dell’allora ad Enel Fulvio Conti e le conclusioni di Giuliano Amato. Il commercialista oggi indagato lavorava anche in un’altra fondazione di sinistra, “Integra Azione”, un ente creato nel 2010 per favorire «l’integrazione tra i popoli». «Abbiamo fatto progetti di cui sono orgoglioso, con fondi europei, all’ospedale Pertini di Roma, la Coca-Cola ha contribuito per un progetto a Rosarno», interviene Ferrante, che l’anno scorso ha lanciato il nuovo partito ambientalista “Green Italia”. «Il centro per gli immigrati di Mineo, in Sicilia? È vero, nelle intercettazioni ne parlavano Odevaine e Buzzi, ma “Integra” non c’entra nulla, era un affare personale di Luca». Comunque, la onlus ha organizzato dei corsi per mediatori culturali, proprio per il centro vicino Catania che Buzzi sognava di trasformare in un nuovo business della banda. Con l’abolizione del finanziamento pubblico e con la ricerca di sponsor privati che potranno contribuire al massimo per 100 mila euro, le fondazioni avranno un peso sempre più rilevante nella politica. Come avviene in Francia, Usa, Gran Bretagna. Ma se lì i controlli sono stringenti (in Germania, ad esempio, le fondazioni sono una per partito, finanziate quasi interamente dallo Stato, controllate dalla Corte dei conti e obbligate alla pubblicità e alla trasparenza dei bilanci) il modello italiano è più simile al far west. Prendiamo la più famosa delle fondazioni politiche, a lungo considerata la più influente di tutte, la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, con elegante sede in piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata francese. Se chiedi la lista dei finanziatori rispondono a muso duro che loro, finché la legge non cambierà, non divulgheranno un bel nulla. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ragiona Daniela Reggiani, portavoce del fondatore del pensatoio. «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». In linea con quanto affermato dallo stesso D’Alema nel 2011: «Dai finanziamenti si potrebbe desumere l’orientamento di chi ha elargito il contributo». L’ex premier lo dichiarò tre anni fa, quando la sua fondazione finì nella bufera per il coinvolgimento di Vincenzo Morichini nello scandalo degli appalti truccati dell’Enac (l’imprenditore amico di D’Alema era il procacciatore di finanziamenti della fondazione, ha patteggiato un anno e sei mesi per corruzione e frode fiscale). Tra le onlus vicine al centro-sinistra non sempre la trasparenza è stata considerata una virtù. Nel 2012 l’allora tesoriere della Margherita Luigi Lusi fu arrestato per appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del suo partito. Poco dopo un’inchiesta de “l’Espresso” scoprì che Lusi, nel 2009, aveva girato oltre un milione di euro al “Centro per il futuro sostenibile”, fondazione con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta. Lusi aveva bonificato il denaro quando Rutelli aveva già fondato un altro partito, l’Api. Lo stesso “Cfs”, poi, versò decine di migliaia di euro alla nuova formazione politica: nessuno di questi contributi fu mai dichiarato, né dall’Api né da Rutelli. Due vicende con gli stessi protagonisti, ma che corrono separate. Per il furto dei rimborsi elettorali Lusi è stato l’unico condannato. Anche la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Matteoli è stata tirata in ballo nella vicenda delle tangenti Enac. L’ex ministro delle Infrastrutture ha sempre smentito qualsiasi coinvolgimento, ma oggi non può certo negare di conoscere bene Erasmo Cinque, l’imprenditore a cui Carminati ha fatto visita nel maggio del 2013. I nomi di Matteoli e di Cinque - che è nel cda della fondazione con l’ex deputato Marcello De Angelis, ex di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 270bis, riferimento all’articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo - sono finiti anche nelle inchieste sul Mose e dell’Expo. Il boom delle fondazioni è stato raggiunto nel 2012-2013, quando la crisi dei partiti ha toccato l’apice. Secondo una recente ricerca dell’università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti sono oggi 105, in crescita esponenziale: erano appena 33 nel 1993, anno di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Nell’ultimo decennio, in pratica, ognuno si è fatto la sua, con nomi immaginifici (Claudio Scajola con la “Cristoforo Colombo”) o banalotti (“Fare Futuro”, “Futuro Sostenibile”, “Costruiamo il Futuro”). L’ultima arrivata è “Ricostruire il Paese” del sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista in rotta di collisione con Matteo Salvini: tesserarsi costa dieci euro, nell’agenda degli eventi dell’ultimo mese c’è la partecipazione di Tosi a “Un giorno da pecora” e a “Virus”, i comitati locali si chiamano “fari” (accendiamo un faro...) ma sui donatori non c’è illuminazione. Così come nulla si sa di preciso su “Costruiamo il futuro”, la fondazione del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, oggi gettonatissima, perché il destino degli enti e le loro fortune economiche segue la parabola dei loro promotori. Vice-presidente è l’ingegnere valtellinese Lino Iemi, legato alla Compagnia delle Opere, immobiliarista con il pallino dei centri commerciali e degli shopping center, edificatore di una controversa città-mercato in Sardegna. Chi meglio di lui, per costruire il futuro? L’unica associazione che ha messo on line i bilanci dettagliati e l’elenco dei suoi finanziatori è anche la più in voga del momento. La fondazione “Open”, un tempo chiamata “Big Bang”, organizza gli incontri annuali della stazione Leopolda e fa riferimento diretto al premier Renzi. Tra i donatori ci sono i deputati e i senatori renziani al gran completo, compreso il tesoriere del Pd Bonifazi che ha elargito 12 mila euro. Ma anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco (25 mila euro), l’ex presidente della cassa di risparmio di Firenze Jacopo Mazzei (10 mila), il finanziere Davide Serra (125 mila euro) di casa a Palazzo Chigi (era a pranzo da Renzi una settimana fa). Tutto regolare. Eppure sulla trasparenza resta ancora molto da fare. In occasione dell’ultima Leopolda Open, con una nota ufficiale, ha fatto sapere che in due anni di vita ha raccolto due milioni in donazioni, e che ogni kermesse costa circa 300 mila euro: il resto è stato speso «in due elezioni primarie, il sito della Fondazione e tantissimi eventi e incontri socio-culturali in tutta Italia», di cui però non si hanno evidenze. Incuriosisce, inoltre, che Renzi da un lato come segretario del Pd partecipi alle cene di auto-finanziamento per il partito e dall’altro promuova una fondazione privata affidata ai suoi fedelissimi. Ancor più curioso che il board sia composto da sole quattro persone: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente Alberto Bianchi. Rispettivamente il ministro delle Riforme, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più fedele consigliere del premier e l’avvocato di Matteo, presidente di Open nominato a primavera anche membro del cda dell’Enel. Le fondazioni, dicono gli esperti, saranno la prossima frontiera della politica “all’americana”. In realtà le onlus hanno preso la solita declinazione: all’italiana. Nella ricerca della Sapienza emerge che a fare da padrone nelle sponsorizzazioni sono i più importanti enti pubblici e le principali banche: Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade, Telecom, Edison, Unicredit, Intesa-SanPaolo, Ferrovie. Le nove sorelle che fanno girare l’economia italiana. Talmente inserite nel meccanismo che Enrico Letta, da premier, si sentì in dovere di sciogliere la sua associazione VeDrò per non finire stritolato in un circuito di pressioni e di lobbying. Molti ex VeDrò sono però confluiti tra i renziani della Leopolda: i deputati Ernesto Carbone e Lorenza Bonaccorsi, Simonetta Giordani, passata da Autostrade al governo Letta come sottosegretaria alla Cultura e infine nominata da Renzi nel cda di Ferrovie. Nei prossimi anni, quando il finanziamento pubblico sarà interamente cancellato, i soldi arriveranno da lì. Imprenditori ed enti pubblici che foraggiano fondazioni, guidate da politici che decidono gli aiuti alle aziende e nominano i vertici delle stesse partecipate. Un bel circuito di interessi, lasciamo perdere il conflitto, roba fuori moda. I think tank sono destinati a evolversi: da struttura personale a disposizione del capocorrente di turno a società di consulenza da cui attingere per personale, risorse, classe dirigente. Un passo ulteriore verso la destrutturazione della politica. Perché dopo la grande torta del finanziamento pubblico, in assenza di trasparenza e certezza su chi versa soldi alle fondazioni, non finiremo in una nuova casa di cristallo, come si auguravano in tanti, ma in un territorio ancora più oscuro. E pericoloso.
La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni,«anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi.
TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE.
"Mose, un miliardo bruciato in tangenti e consulenze". L'inchiesta di Venezia. Il costruttore Baita: un euro su cinque sprecato per le spese extra. Le risorse dissipate anche in assunzioni di favore e studi tecnici inutili per realizzare l'opera, scrivono Giuseppe Caporale e Corrado Zunino su “La Repubblica”. C'è un miliardo di troppo nel prezzo del Mose, cantiere costato ad oggi 5,6 miliardi pubblici. Quel miliardo di troppo lo ha evidenziato il più importante tra i costruttori, Piergiorgio Baita che ha guidato la Mantovani spa fino al suo arresto, 28 febbraio 2013. Quel miliardo non è servito a far crescere la mastodontica opera idraulica, ad assumere i progettisti più qualificati, a pagare macchinari, bonifiche, straordinari. È servito solo ad alimentare il Consorzio Nuova Venezia, appaltatore unico della diga da trenta chilometri. Fin qui la magistratura ha certificato 22,5 milioni di tangenti consegnate dal consorzio a sindaci e presidenti di Regione, magistrati delle acque e della Corte dei conti, consiglieri regionali, finanzieri, spioni. A questo bottino minimo (il 4 per mille del valore dell'opera, ben al di sotto della media delle mazzette italiane) vanno però aggiunti i costi delle "utilità" certificate: le ville ristrutturate a carico della pubblica comunità, i soggiorni in grand hotel di Venezia e Cortina, i voli privati, le vacanze in Toscana pagate alla famiglia di Paolo Emilio Signorini, funzionario della Presidenza del Consiglio. E, ancora, i contratti a progetto offerti nelle "aziende Mose" a figli e fratelli di magistrati, le molte assunzioni precisamente inutili: la figlia di Paolo Splendore, direttore dei servizi segreti del Triveneto, la figlia di Giovanni Artico, importante funzionario della Regione Veneto, quindi Giancarlo Ruscitti, ex funzionario della sanità utile per ottenere l'appalto dell'ospedale di Padova. Il conto del malaffare s'impenna, infine, contabilizzando le consulenze inutili, gli studi idrogeologici commissionati e neppure letti. "Tutti insieme noi costruttori abbiamo girato al consorzio cento milioni l'anno", dice l'ingegner Baita, maggior azionista Cnv da undici stagioni. Fanno un miliardo, qualcosa in più, lasciando fuori i venti precedenti anni di vita del raggruppamento Nuova Venezia. È una tangente globale pari al 20 per cento dell'opera: i conti iniziano a tornare. Nelle 437 pagine delle richieste di arresto della procura veneziana si trovano molte conferme a quella cifra sprecata, un miliardo di euro, in illecite "pubbliche relazioni". Le regole della tangente collettiva - i costruttori dovevano fare una colletta ogni volta che veniva richiesto - le impose il capo supremo Giovanni Mazzacurati quando prese in mano le redini del consorzio monopolista in Laguna. Nel 2002. "La mia azienda aveva appena rilevato le quote del Consorzio appartenute a Impregilo, un investimento da 70 milioni che ci trasformava negli azionisti più importanti", ha messo a verbale l'amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita. "L'ingegner Mazzacurati mi convocò e, in sede, mi precisò una serie di regole non scritte che vigevano tra i soci. La più importante era questa: dovevamo impegnarci tutti a retrocedere al consorzio, in nero, le somme concordate". Il secondo obbligo era che "nessuna delle singole imprese, salvo ordine supremo, poteva permettersi di pagare direttamente politici e funzionari: le tangenti dovevano sempre passare attraverso il consorzio". Mazzacurati, che pretendeva di essere l'unico a gestire i rapporti politici più alti - incontrò diverse volte a Roma Silvio Berlusconi e Gianni Letta "per spiegare come stavano i lavori del Mose e farli procedere più velocemente" - riceveva le buste di denari personalmente dai costruttori. Altre volte mandava uno dei suoi collaboratori: Luciano Neri o Federico Sutto. Raccoglievano e consegnavano al presidente. "Era Mazzacurati a decidere il fabbisogno di fondi extracontabili, a scegliere chi doveva anticipare le somme nei momenti di crisi. Era lui, durante le campagne elettorali, a dettare gli importi del finanziamento ai partiti. Noi della Mantovani e quelli di Fincosit sostenevamo rappresentanti del Pdl, Condotte e Coveco il Pd. Solo la mia azienda ha retrocesso al consorzio sei milioni di euro". Retrocesso, si dice così. Significa " restituire in nero" parte del denaro pubblico ricevuto per trasformarlo in tangente. Già, nel tempo il collezionista di "rientri" aveva perfezionato il" sistema di retrocessione", come illustra il prospetto recuperato dalla finanza nel novembre 2011. Le quattro aziende più importanti - la Mantovani, la Coedmar, la Fincosit e la cooperativa Coveco - si facevano carico di "ritornare" al loro consorzio il 50-6-0 per cento degli importi indicati nelle "prestazioni di servizio", studi idrogeologici e consulenze tecniche. La stessa aliquota (50-60 per cento dell'appalto) le aziende dovevano riconsegnarla sulla voce "anticipazione di riserve" (fondi messi da parte in attesa di richieste urgenti). Infine, le quattro grandi aziende grandi e le due minori dovevano garantire il 5-6 per cento dei ricavi derivanti dai "lavori in sasso": la gettata di massi fatta per alzare dighe alle quattro bocche del Mose. "Il sospetto che qualcuno di noi costruttori cercasse di barare al gioco della colletta c'era ", confessa Baita. Spiegano i magistrati: "Accettato l'importo richiesto, le imprese stipulavano con il consorzio contratti fittizi per prestazioni sovradimensionate nell'importo. I contratti venivano tutti predisposti dal ragionier Neri". Un esempio? "La coop Coveco riceveva una fattura dalla sua azienda San Martino di 2-00 mila euro e faceva la fattura di200 mila euro al Consorzio Venezia Nuova. Dopo un mese Pio Savioli con la sua macchinetta andava a prendere 1-00 mila euro in contanti dalla San Martino e li portava in Piazzale Roma all'amico Neri ". Che li girava a Mazzacurati, che li distribuiva a Orsoni e Galan. Alla fine di ogni esercizio le singole imprese dovevano taroccare i loro bilanci annuali per spiegare gli esborsi extra Mose. E predisporre relazioni con l'elenco delle riunioni e degli incontri formali. "Attività mai svolte", dicono i magistrati, "che saranno coperte da Valentina Croff, rappresentante legale del Consorzio ". Per telefono, intercettati, si sentono dirigenti di società quantificare il falso: "Per merce sollevabile con i moto pontoni posso mettere trenta tonnellate?... No, è rischioso, metti solo dieci".
Lupi, le consulenze d'oro del suo ministero. Sul sito delle Infrastrutture, 48 pagine e 478 file raccontano dei contratti (e dei rinnovi di anno in anno) degli “esperti” scelti fuori dai ranghi della Pubblica Amministrazione di cui si è avvalso il dicastero. Dai 136 mila euro per Incalza ai 60 mila netti per Girlanda. Con buona pace della spending review, scrive Sonia Oranges su “L’Espresso”. Quarantotto pagine per poco meno di 480 file che, sul sito del ministero della Infrastrutture , raccontano della valanga di consulenze e collaborazioni, spesso ottimamente pagate, di cui si è avvalso in questi anni il dicastero guidato da Maurizio Lupi. Di certo lo era quella di Ercole Incalza, il superdirigente arrestato lunedì scorso per un presunto giro di tangenti sulle grandi opere. Incalza lo scorso anno, ha ricevuto 136mila euro dal ministero per guidare la struttura tecnica di missione: un cococo d’oro, che fa sbiadire la pensione da 60 mila euro annui, pure percepita dal dirigente ora in manette. D’altra parte, la struttura di missione brilla per quantità e consistenza delle consulenze assegnate: circa una Ercole Incalza ventina quelle da 75mila euro annui, destinate a professionisti (soprattutto avvocati e ingegneri) che spesso portano avanti carriere parallele: quelle svolte privatamente, e quelle costruite negli anni all’interno della pubblica amministrazione, con redditi da quadro, senza aver mai vinto alcun concorso. Carriere parallele in cui i confini tra pubblico e privato sono pericolosamente sfumati, almeno a leggere i dettagli dei curriculum. Sergio Mastrangelo è al ministero dal 2011 come esperto, pur essendo presidente di consorzi privati impegnati nella ricostruzione in Abruzzo. Alfredo Cammarano, fino al 2009 è stato dipendente dell’Economia e funzionario apicale del Cipe, poi consulente per il gruppo che doveva costruire una pezzo di autostrada tra l’aeroporto di Grazzanise e la Domitiana, infine consulente delle Infrastrutture. La lista di nomi è lunga. C’è il brindisino Donato Caiulo che da dirigente del porto pugliese finì pure lui in un’inchiesta sul rigassificatore. C’è un manager dell’information technology come Domenico De Rinaldis che contemporaneamente lavora anche con il ministero dello Sviluppo economico, e c’è l’avvocato Massimo Ricchi, pedeegree forense maturato nello studio di Giuseppe Consolo, che si è già sperimentato al Cipe e al ministero della Giustizia. Ma anche negli altri settori del ministero, gli appannaggi dei collaboratori non lasciano a desiderare. Di certo non si lamenta Nicola Bonaduce, consigliere per gli affari regionali di Lupi, già suo capo segreteria alla Camera e con un passato milanese a dirigere le relazioni istituzionali della Compagnia delle Opere: porta a casa un compenso da 90mila euro l’anno, che arrotonda con i 28mila euro provenienti dall’incarico di consigliere di indirizzo dell’Istituto nazionale di Ricovero e Cura degli Anziani. Che nulla hanno a che fare con ponti, strade e porti, ma poco importa nella logica dei giri di poltrone del palazzo. Rocco Girlanda La stessa logica che spiega la permanenza al ministero delle Infrastrutture di Rocco Girlanda, pure lui indagato nell’ultimo scandalo delle opere pubbliche. Nel dicastero era sottosegretario forzista durante il governo Letta, e quando gli azzurri abbandonarono il governo, preferì lasciare gli azzurri ed entrare in Ncd, conservando la poltrona. E se il cambio della guardia a Palazzo Chigi gli è costato il sottogoverno, alle Infrastrutture è rimasto lo stesso. Come consulente “esperto per l'approfondimento delle problematiche inerenti l'autotrasporto ed il trasporto merci e concernenti il miglioramento dell'efficienza del trasporto pubblico locale, nonché per i rapporti con il Cipe”, per un corrispettivo di 60mila euro annui. Netti.
Tangenti grandi opere, Giulio Burchi: "La spartizione delle direzioni lavoro, una delle vergogne di questo paese", scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Passerà alla storia per quel grido “Ercole, Ercolino (Incalza, ndr), che decide tutto lui, al 100%i” condiviso con l’amico imprenditore al telefono.. Oppure per l’altra: “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento”. O magari per quella straordinaria ammissione: “I soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato…”. Ogni inchiesta regala uno o più personaggi, una o più frasi destinati ad entrare nella cronaca. E quindi nella storia. Pennellate gergali che hanno il potere di spiegare più di mille pagine di atti giudiziari. Nei faldoni di “Sistema”, l’inchiesta della procura e del Ros di Firenze sulla “Cricca delle Grandi Opere” (o della Struttura tecnica di missione) si ritaglia un ruolo molto particolare Giulio Burchi, imprenditore modenese di 65 anni (li ha compiuti proprio in questi giorni) che forse è azzardato chiamare “compagno” ma certo vanta una buona amicizia con un compagno storico come Ugo Sposetti. Il “compagno” Burchi, dunque. Dal punto di vista giudiziario ha un ruolo abbastanza defilato tra gli oltre cinquanta indagati. E’ indagato per false fatturazioni (200 mila euro) e traffico di influenze (346 bis cp), uno dei nuovi reati contro la corruzione introdotti dalla famosissima legge Severino. Burchi avrebbe cioè utilizzato le proprie conoscenze per ottenere la direzione dei lavori di un tratto (20 km) della Salerno-Reggio Calabria. Eppure, nonostante la marginalità, è quasi un Virgilio che accompagna gli investigatori nella selva oscura della Struttura di missione. Colui che, essendoci dentro da anni, ne rivela nelle intercettazioni presunti meccanismi e segreti. Con una caratteristica: il compagno Burchi odia e ama il sistema. Scrivono i pm fiorentini Turco, Mione e Monferini: “Benchè in numerose conversazioni intercettate Burchi non perda occasione per stigmatizzare il rapporto illecito tra Ercole Incalza e Stefano Perotti, è un soggetto perfettamente inserito nel sistema illecito”. Quando si ha notizia dei primi arresti per Expo tra cui quello di Antonio Acerbo, il sub commissario di Expo, Burchi ammette: “Anch’io ho fatto compromessi ma i soldi che ho guadagnato a stare in questo paese di merda deregolarizzato non li avrei mai potuti guadagnare in Inghilterra o in America”. Una gola profonda. A sua insaputa. Il “compagno” Burchi, ad esempio, è il primo ad indicare agli investigatori il buco nero dell’inchiesta, dove nasce il malaffare nella cricca della Struttura di missione. Il 5 giugno 2014, commentando le notizie sull'indagine della Procura di Venezia sul Mose, afferma: “Ci sono due elementi che sono assolutamente non procrastinabili, togliere dalla Legge Obiettivo il fatto che il general contractor possa nominarsi il direttore dei lavori”. E’ quello che i pm chiameranno “il grimaldello del collaudato sodalizio criminale: “Una direzione dei lavori siffatta, dove il controllore è per contratto anche il controllato, è lo strumento che fa transitare su società e soggetti privati enormi somme di denaro (per compensi non inferiori all’1% dell’importo dei lavori appaltati, ma in molti casi fino addirittura al 3%), prive di sostanziale giustificazione ed inquadrabili nel prezzo di una dazione corruttiva”. Detto in modo ancora più chiaro, “utilità illecite in favore del sodalizio medesimo costituite dal conferimento dell’incarico professionale di direzione lavori e spesso da una miriade di assunzioni o consulenze collaterali alla gestione dell’appalto, del tutto fittizi, in favore di amici degli amici del pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti”. Così, in un’intercettazione del 21 ottobre 2014, Burchi dice: “La spartizione fantastica di queste direzioni lavori commissionate dai general contractor è una delle vergogne grandi di questo Paese perché affidando alle stesse imprese la direzione dei lavori hai depotenziato la funzione di controllo dello Stato. Una cosa che se tu la spieghi ad un inglese non ci riesci ... Un mio amico inglese mi ha detto che non era possibile, che mi sbagliavo”. Ecco perché i pm definiscono “ricordo quasi patetico le mazzette” rispetto alla “moderna prassi corruttiva” dove i “professionisti nominati direttori dei lavori (nell’inchiesta Sistema è il caso dell’ingegnere Perotti, ndr) e gli stessi funzionari (l’ingegnere e dirigente generale del ministero Ercole Incalza e suoi sodali, ndr) fanno parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni e proventi illeciti”. Giulio Burchi è un supermanager dai molti incarichi: presidente del consiglio di amministrazione di Italferr spa dal 2004 al 2007, siede in diversi cda (la Autocamionabile della Cisa spa; autostrade lombarde; società di progetto autostrada diretta Brescia Milano; serenissima A4) anche di partecipate miste ed è referente della Siteco s.r.l. (servizi di engineering e di consulenza tecnica), e della “Siteco Informatica s.r.l.”. È stato anche socio dell’invidiatissimo “Perottino”(Stefano Perotti, arrestato con Incalza, Cavallo e Pacella) che definisce “il loro uomo su tutto”, quello che ha preso “diciassette direzioni lavori sempre con lo stesso sistema” ma che è vissuto nell’ambiente come “una spina nell’occhio” perché “Incalza glielo ha fatto digerire in molte situazioni in cui ne avrebbero fatto anche a meno”. Nelle numerose intercettazioni i pm rintracciano il filo rosso di una prassi volta “inequivocabilmente a procurarsi false fatture per abbattere gli utili”. Questo per testimoniare l’originalità e l’affidabilità della gola profonda. Che infatti rivela vari aspetti del sistema. Quello dei figli, ad esempio: il figlio di Acerbo che si scambia incarichi e consulenze con il padre ex numero 2 di Expo; il figlio di Lupi, di alcuni amici del giovane ingegnere e di altri figli di dirigenti del ministero che beneficiano di posti di lavoro. Burchi è una fonte preziosa anche nel raccontare un altro effetto collaterale dell’inchiesta Sistema: la ricerca di posti di lavoro. “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento” dice al telefono con l’amico Ugo Sposetti (il senatore Pd che a sua volta in questi giorni ha paragonato “alla Caritas” il suo interessamento “per persone che hanno bisogno”). Burchi si attiva spesso per trovare posti e incarichi in favore di persone indicate da Sposetti o dal viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini il quale “scrivono i pm, s’interfaccia con il Burchi tramite l'ex parlamentare Mauro Del Bue”. Il 3 aprile 2014 il supermanager chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento con Nencini. Subito dopo Del Bue chiede a Burchi: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini, ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Altre intercettazioni spiegano che in effetti Burchi ha chiesto a più soggetti, tra cui il viceministro, un intervento per una nomina in Terna. Il 17 maggio 2014 sempre Burchi dice al telefono: “Sistemare uno in un collegio, mi può essere utile, Riccardo Nencini è vice ministro”. Magari sono solo millanterie ma è significativo di come ragionano gli uomini della cricca. Che in certi momenti sembrano non poterne più dello strapotere di Perotti. Il 5 aprile Burchi è al telefono con un altro manager, Giovanni Gaspari. Parlano dell’appalto e delle direzione lavori dell’autostrada in Libia. Perotti vuole e otterrà anche quella. Gaspari auspica qualche intervento di “pulizia”, probabilmente dal governo: “Speriamo che vada avanti, un po’ di pulizia la dovrebbe fare, però non sta pulendo quello che gli altri stanno facendo lì alle Infrastrutture... Lupi & C stanno facendo”.
La Procura di Milano: «Giulio Tremonti corrotto». Ecco le accuse. Richiesta dei pm al Senato: l'ex ministro va processato per corruzione. Nel mirino una tangente da 2,5 milioni su un affare miliardario di Finmeccanica, mascherata da parcella del suo studio professionale. Le ammissioni del suo ex braccio destro, Marco Milanese, e degli altri faccendieri arrestati, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un grande ministro. Il suo studio professionale privato. E una parcella da due milioni e mezzo di euro. C'è questo triangolo d'oro alla base dell'inchiesta che ha spinto la Procura di Milano a chiedere al Senato l'autorizzazione a procedere contro Giulio Tremonti. L'ex ministro dell'Economia ora rischia di finire sotto processo per corruzione. In Italia l'unico precedente di questa speciale procedura risale agli anni neri dello scandalo Lockheed. Come qualsiasi altro indagato, Tremonti va considerato innocente e lo rimarrà fino a un'eventuale condanna definitiva. Ma rispetto ai normali cittadini ha un'arma in più: grazie a una legge costituzionale del 1989, i suoi colleghi parlamentari hanno il potere di bloccare con un veto politico il processo contro il senatore Tremonti. L'indagine riguarda un affare del gruppo Finmeccanica che si è rivelato disastroso per le casse dello Stato. Ma ha garantito una ricca parcella allo studio fiscale fondato dal professor Tremonti. Nel 2008 l'azienda statale, allora guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista il gruppo statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo astronomico: 5 miliardi e 200 milioni di dollari, che all'epoca corrispondono a 3,4 miliardi di euro. Oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato: lo Stato italiano ci ha rimesso più di due miliardi di dollari. Tra i consulenti fiscali di quell'operazione spicca lo studio Virtax, di cui è socio fondatore Tremonti, che quando diventa ministro lo affida al suo fidato collega Enrico Vitali. Finmeccanica è una grande società controllata dal governo, che ha il potere di nominare gli amministratori. Inoltre il ministero dell'Economia deve sborsare 250 milioni di euro per l'aumento di capitale necessario a garantire gli imponenti prestiti bancari spesi per comprare Drs. Nel 2008, dunque, sembra a tutti impensabile varare un'operazione così costosa senza l'appoggio di Tremonti. Che infatti vede il numero uno di Finmeccanica ancor prima delle elezioni, quando è già sicura la vittoria di Berlusconi: nel suo interrogatorio, però, Tremonti «non ha memoria» di quel primo incontro con Guarguaglini. La richiesta di autorizzazione a procedere cita numerosi testimoni, già sentiti da diverse procure (Roma, Napoli e Milano) nelle indagini su Finmeccanica: tutti confermano che Tremonti all'inizio è contrario a quell'operazione miliardaria dell'azienda statale. Il problema è che l'ostilità del ministro smette di manifestarsi proprio quando lo studio Virtax ottiene quella consulenza da due milioni e 615 mila euro. La data del contratto di assistenza fiscale con Finmeccanica è veramente imbarazzante: 8 maggio 2008, lo stesso giorno in cui Tremonti diventa ministro del quarto governo Berlusconi. L'indagine, come impone l'apposita legge sui reati commessi dai ministri nell'esercizio dei loro poteri, è stata condotta da tre magistrati estratti a sorte. Riuniti nel cosiddetto «tribunale dei ministri», hanno avuto solo solo 90 giorni di tempo per chiudere l'intera inchiesta. Tremonti intanto ha potuto esaminare tutti gli atti d'accusa, presentare prove a discolpa e farsi interrogare. Ma non ha convinto nessuno dei tre giudici istruttori. Il primo pilastro dell'accusa è il rovesciamento della posizione di Tremonti, che sembra avvenire in perfetta coincidenza con la consulenza fiscale milionaria incassata dal suo studio. Lo testimonia perfino il suo ex braccio destro, Marco Milanese, l'ex parlamentare di Forza Italia già protagonista del caso dei soldi in nero per affittare una casa di lusso per il ministro a Roma: l'indagine romana che ha spinto Tremonti a patteggiare la sua prima condanna per finanziamenti illeciti. Riascoltato dal tribunale dei ministri, Milanese spiega di aver assistito personalmente all'incontro tra il ministro e Guarguaglini. E conferma che all'inizio «Tremonti si lamentava che queste società, tra cui Finmeccanica, andassero a investire all'estero e non in Italia». L'ex braccio destro, già inquisito per le tangenti del Mose di Venezia, non vorrebbe dire di più. Ma quando il tribunale dei ministri gli contesta le dichiarazioni che lui stesso aveva già reso in precedenza ai pm, l'ex onorevole Milanese conferma di aver saputo, dall'interno di Finmeccanica, «che l'affare era stato concluso e che al riguardo della contrarietà con Tremonti avevano trovato una strada... attraverso il coinvolgimento dello studio Vitali». Nello stesso interrogatorio Milanese rivela che il ministro Tremonti, per le comunicazioni più riservate, «non usava il suo telefono, ma prendeva il mio o quello della capo-segreteria». Anche Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, dichiara di aver «accompagnato Guarguaglini allo studio a Roma di Tremonti, che gli domandò come mai non investiva in Italia ma negli Stati Uniti». In quel momento Tremonti non era ancora ministro e secondo Borgogni il suo parere «era molto condizionato dalla Lega», preoccupata per la sorte della fabbrica Agusta che ha sede a Varese, la città di Bossi e Maroni. Sul collegamento tra la parcella e il successivo via libera, invece, Borgogni all'inizio sostiene di non ricordare bene: «Può darsi che abbia detto che sicuramente con un coinvolgimento dello studio, anche il ministero.... la posizione di Tremonti sarebbe stata più in difficoltà». Ma quando gli viene contestato un altro verbale, lo stesso Borgogni finisce per confermare che il movente dell'incarico «era certamente quello di inserire lo studio di Vitali, che poi voleva dire anche Tremonti, nell'orbita delle società che lavoravano per Finmeccanica, e soprattutto in un'acquisizione di questo genere». L'accusa più esplicita arriva da Lorenzo Cola, il faccendiere romano di estrema destra che ai tempi di Guarguaglini era incredibilmente diventato il rappresentante di Finmeccanica nella trattativa miliardaria con gli americani. Cola riassume così la posizione iniziale del ministro: «Gurauaglini mi informò che Tremonti gli disse: “Voi andate a investire questi grandi capitali all'estero, quando noi in questo momento avremmo altre emergenze, tipo Alitalia”». Lo stesso Cola aggiunge che in seguito Guarguaglini (che invece nega tutto) gli rivelò che «per avere il consenso di Tremonti e poter fare l'operazione, era stato necessario dare questa consulenza allo studio professionale». Di consulenze per quell'affare, in effetti, Cola se ne intende: lui stesso ha intascato più di 16 milioni di dollari, che Finmeccanica (azienda statale quotata in borsa) gli ha versato su un conto intestato a una società offshore. L'ex titolare dell'Economia è stato attaccato più volte, durante tutto il ventennio berlusconiano, per i presunti conflitti d'interessi tra l'attività pubblica e quella privata, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro delle tasse con quello di consulente fiscale delle aziende. Ogni volta che è tornato al potere con Berlusconi, in effetti, Tremonti ha lasciato ai suoi partner tutte le attività dello studio, restandone socio esterno, per ridiventarne titolare solo quando non era più ministro. E così nel 2006, nei due anni di governo Prodi, nella sede centrale di via Crocefisso a Milano è tornata la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008, quando è ridiventato ministro, il suo nome è scomparso dall'elenco dei professionisti associati. Anche la consulenza a favore di Finmeccanica, quindi, è stata gestita dal suo socio principale, Enrico Vitali, che aveva fondato lo studio negli anni '80 insieme a Tremonti. Ma i magistrati milanesi ora si sono convinti che quella parcella, benché intestata ad altri, sia stata il prezzo sborsato da Finmeccanica per “comprare” il consenso del ministro. Una tangente ben mascherata con una fattura in apparenza regolare. Il tribunale dei ministri è arrivato a concludere che quella consulenza era fittizia, cioè serviva solo a dare una giustificazione cartacea al passaggio di soldi, anche grazie ad altre deposizioni. Alessandro Pansa, allora direttore generale di Finmeccanica, anche lui ora coinvolto suo malgrado nell'indagine per corruzione, ha dichiarato che fu Guarguaglini a imporgli la scelta dei consulenti fiscali. Ai quali Pansa impose uno sconto: quattro milioni in tutto, anziché i cinque richiesti. A chiudere il cerchio delle testimonianze sono gli altri consulenti di Finmeccanica: i tributaristi italiani della società Ernst & Young. Che confermano di aver dovuto accettare, con imbarazzo, la richiesta di Vitali di incassare la fetta più grande della parcella, cioè due milioni e mezzo. Anche se il lavoro effettivo di consulenza a Finmeccanica l'aveva fatto proprio e soltanto Ernst & Young. Un manager di questa società dichiara testualmente che Vitali e i suoi colleghi «erano puri spettatori», nel senso che «l'intero lavoro» era a carico di Ernst & Young, e quasi si scusa della sua testimonianza, precisando: «Non volevo essere offensivo nei confronti di nessuno, era proprio una constatazione di quello che è veramente accaduto». A questo punto i giudici del tribunale del ministri passano in rassegna tutti i documenti che dovrebbero dimostrare l'effettivo contenuto della consulenza fornita dallo studio fiscale di cui Tremonti è fondatore e comproprietario. Il controllo è possibile perché la Procura di Roma, con il pm Paolo Ielo, ha sequestrato già nel 2010 l'intero dossier Drs nella sede di Finmeccanica. Mentre l'indagato Vitali ha potuto presentare al tribunale tutti gli atti del suo studio. Quindi i giudici milanesi passano in rassegna tutte le carte, una dopo l'altra, ma non trovano neppure un atto dello studio Virtax che possa rappresentare una qualsiasi forma di esecuzione della consulenza contrattata con Finmeccanica. E tantomeno giustificare una parcella da due milioni e mezzo. Ci sono soltanto email, resoconti di riunioni orali e informazioni generiche sulle leggi fiscali americane, scaricabili anche da Internet. Tutti gli atti più importanti sono stati compilati da Ernst & Young: lo studio Virtax, osservano sconsolati i giudici, si è limitato «ad apporre il proprio logo successivamente alla redazione del documento».
Giulio Tremonti: "Mai chiesto nulla a Finmeccanica". La replica dell'ex ministro alla notizia delle indagini avviate dalla procura di MIlano nei sui confronti per presunti reati ministeriali, scrive R.I. su “L’Espresso”. «Non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica. Anche per questo, come sempre, ho assoluta fiducia nella giustizia». Così l'ex ministro Giulio Tremonti ha replicato alla notizia delle indagini avviate dalla procura di Milano. «Ben prima di entrare nel governo, insediatosi venerdì 8 maggio 2008 - spiega Tremonti in una nota - mi sono cancellato dall'ordine degli avvocati e sono uscito dallo studio in base ad atto notarile e perizia contabile. Ci sono rientrato solo nel 2012, un anno dopo la fine del governo, come prescrive la legge. Nel durante ho interrotto tutti i rapporti con lo studio». «L'operazione DRS-Finmeccanica - prosegue - ha interessato e coinvolto la politica industriale e militare di due Stati. Come risulta dai documenti SEC e Consob, l'operazione è iniziata nell'ottobre 2007 ed è stata conclusa lunedì 12 maggio 2008. Anche seguendo il calendario, si può dunque verificare che, per la sua dinamica irreversibile e per la sua natura internazionale, l'operazione non era da parte mia né influenzabile, né modificabile, né strumentalizzabile. In questi termini, non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica».
Quanti affari col metodo Tremonti. Tre milioni al “suo” studio per sbloccare un’operazione di Finmeccanica: l’ex ministro indagato per corruzione. Ma per i pm anche altri casi sono sospetti. A partire dal Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giulio Tremonti Un grande ministro. Il suo studio privato. E una ricca parcella. C’è un triangolo d’oro alla base dell’inchiesta che ha convinto la Procura di Milano a iscrivere nel registro degli indagati il nome di Giulio Tremonti, per la prima volta accusato di corruzione. L’indagine riguarda un affare di Stato: una colossale acquisizione decisa nel 2008 dall’allora vertice del gruppo Finmeccanica, che si è poi rivelata disastrosa per le casse pubbliche. Ma che in compenso ha garantito una parcella invidiabile allo studio tributario fondato dal professor Tremonti. Ricostruendo quell’operazione, i magistrati hanno acceso un faro su un presunto schema corruttivo: il sospetto è che possa aver funzionato anche in altri casi clamorosi. Dall’intrigo fiscale Bell-Telecom ai finanziamenti-scandalo per il Mose di Venezia. Un quadro che ha portato i pm ad approfondire anche altre indagini collegate, per verificare un’ipotesi d’accusa più ampia: una sorta di “sistema Tremonti”. Per ora la Procura di Milano ha fatto partire solo la prima procedura di messa in stato d’accusa davanti al tribunale dei ministri, che riguarda una presunta triangolazione tra l’allora ministro dell’Economia, lo studio professionale da lui fondato e il gruppo Finmeccanica. Nel maggio 2008 quel colosso statale, allora guidato da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista la holding statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo senza precedenti: 5 miliardi e 200 milioni di dollari. Tra i consulenti di quell’acquisizione compare lo studio Vitali, Romagnoli, Picardi & associati, che ha come socio fondatore proprio Tremonti. Finmeccanica versa a quello studio una parcella netta di due milioni e 400 mila euro, quasi tre con l’Iva. L’azienda statale è controllata dal governo, che nomina i dirigenti, per cui è impensabile varare un’operazione così costosa senza il via libera del ministero dell’Economia. Durante le trattative, secondo la ricostruzione dei magistrati, Tremonti si dichiara contrario. Ma all’improvviso diventa favorevole, proprio alla vigilia dell’accordo. E ora si scopre che, pochissimi giorni prima di questo “ribaltone”, il socio più importante dello studio da lui fondato aveva siglato quella ricca consulenza con Finmeccanica. Per un affare indubbiamente sbagliato: oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato. A conti fatti, lo Stato italiano ci ha perso più di due miliardi di dollari. L’accusa di corruzione è stata formalizzata dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi dopo un vertice con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha esaminato gli atti e autorizzato l’iscrizione. Gli indizi finora raccolti hanno convinto i magistrati, in sostanza, che quella parcella milionaria fosse la vera spiegazione del cambio di linea del ministro Tremonti. L’ex titolare dell’Economia era stato attaccato più volte, nel ventennio berlusconiano, per gli ipotetici conflitti d’interessi legati al suo studio, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro con la sua professione privata. Ogni volta che è tornato al governo, infatti, Tremonti ha sempre rivendicato di aver lasciato ai suoi partner tutte le consulenze dello studio, restandone socio dall’esterno, per ridiventarne titolare solo dopo aver perso la carica. E così nel 2006, durante il governo Prodi, nella sede di via Crocefisso a Milano era ricomparsa la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008 il suo nome è sparito dalla lista dei professionisti. La consulenza per Finmeccanica sarebbe stata gestita, in particolare, dal suo socio più fidato, Enrico Vitali, che fondò lo studio insieme a lui negli anni Ottanta. Ma ora i magistrati avanzano l’ipotesi che quella parcella intestata al collega nascondesse il prezzo pagato da Finmeccanica per “comprare” il sì del ministro. Tra gli atti d’accusa ora inviati al tribunale dei ministri, compaiono anche gli interrogatori di Marco Milanese, che è stato il braccio destro di Tremonti per un decennio. Arrestato per corruzione per l’inchiesta sul Mose di Venezia, Milanese ha confermato che Tremonti era contrario all’affare Drs, ma cambiò idea in circostanze poco chiare. Il sospetto di una consulenza fittizia, secondo l’accusa, troverebbe riscontro anche nei tempi strettissimi: Finmeccanica avrebbe affidato l’incarico allo studio dei soci di Tremonti appena cinque giorni prima di siglare l’acquisizione. Le anomalie dell’affare e i dubbi sulla consulenza-lampo verrebbero indirettamente riscontrati anche da altri testimoni d’accusa, come Alessandro Pansa, il manager che sostituì Guarguaglini, e gli altri consulenti di Finmeccanica, soprattutto i tributaristi italiani della Ernst & Young. Ora Tremonti potrà difendersi davanti al cosiddetto tribunale dei ministri, composto da tre giudici estratti a sorte. La procedura è regolata da una legge costituzionale del 1989, che è molto singolare: di fronte a un possibile reato commesso da un ministro, le procure hanno il divieto di trovare prove. «Omessa ogni indagine», come impone quella legge, possono soltanto avvisare l’indagato. È la stessa procedura finora applicata soltanto all’ex ministro Altero Matteoli, accusato di corruzione nell’inchiesta sulle bonifiche-scandalo della Laguna di Venezia. L’inchiesta su Tremonti è nata dalle istruttorie delle Procure di Napoli e Roma sul gruppo Finmeccanica, che avevano svelato il ruolo di Lorenzo Cola, un faccendiere che nell’era di Guarguaglini era diventato un’eminenza grigia. Intercettandolo, si è scoperto che proprio lui gestì la trattativa miliardaria su Drs, fissandone il prezzo senza alcuna verifica indipendente (in gergo, “due diligence”). Per la sua mediazione non ufficiale, pure Cola sarebbe riuscito a farsi pagare da Finmeccanica una consulenza da favola: 16 milioni e mezzo di dollari, che l’azienda statale gli avrebbe versato addirittura su un conto offshore, nascosto al fisco. Nell’aprile scorso, quando “Il Fatto Quotidiano” pubblicò le prime indiscrezioni sull’affare Drs, Tremonti si dichiarò all’oscuro di tutto: «Non so nulla». Ma a questo punto i magistrati stanno valutando se sia necessario trasmettere al tribunale ministeriale anche il fascicolo sulla tangente da mezzo milione che gli industriali del Mose di Venezia hanno ormai confessato di aver versato a Marco Milanese. Quella mazzetta, nella primavera 2010, ebbe il sicuro effetto di sbloccare centinaia di milioni di fondi pubblici in precedenza fermati dal ministro. E l’ordine di pagare Milanese, secondo il manager pentito Piergiorgio Baita, sarebbe venuto dal grande capo del Consorzio, Giovanni Mazzacurati, «dopo un incontro con Tremonti a Roma». Finora l’ex ministro aveva avuto pochissimi guai giudiziari: l’anno scorso ha dovuto patteggiare un’accusa di finanziamento illecito, a Roma, per l’affitto in nero della lussuosa residenza che gli aveva procurato proprio Milanese. Gli stessi pm lombardi del caso Finmeccanica però stanno tenendo aperta anche l’inchiesta sulla Bell, la cassaforte lussemburghese della scalata a Telecom, che era difesa dallo studio Tremonti. I suoi soci italiani furono costretti a pagare le prime tasse in Italia solo nel 2007, dopo il ritorno al governo di Prodi e Visco, versando al fisco ben 156 milioni di euro. Un altro incrocio pericoloso tra Tremonti, il ministero e lo studio tributario su cui ora i magistrati vogliono accendere nuove luci.
Tangenti e appalti, verbale di Simone. «Pagavamo finte consulenze ai politici e agli amministratori». Parla l’uomo della coop arrestato con il sindaco di Ischia, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Francesco Simone collabora con i magistrati di Napoli. Il manager della cooperativa «Cpl Concordia» incaricato di tenere i rapporti con politici e amministratori pubblici parla per oltre otto ore e ammette l’esistenza di un «sistema corruttivo» svelando il meccanismo che avrebbe consentito alla società di aggiudicarsi le gare per la metanizzazione dei Comuni. L’interrogatorio è avvenuto due giorni fa nel carcere di Poggioreale dove Simone è rinchiuso da lunedì insieme ai responsabili della società e al sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, tutti accusati di corruzione, turbativa d’asta, riciclaggio e false fatturazioni. Sospettati di aver «controllato» i bandi di assegnazioni grazie alle elargizioni illegali di soldi e utilità e di aver così ottenuto una posizione di dominio rispetto alla concorrenza. La «rete» di Simone - per anni segretario e uomo di fiducia di Bettino Craxi - è stata ricostruita grazie a intercettazioni e verifiche svolte dai carabinieri del Noe coordinati dai sostituto procuratore Henry John Woodcock, Celeste Carrano e Giuseppina Loreto. Ieri sono scattate le prime perquisizioni. E sotto inchiesta è finito l’ex senatore di Alleanza Nazionale ed ex sindaco di Procida Luigi Muro. È Simone che al telefono sollecita il responsabile commerciale della «Cpl» Nicola Verrini a finanziare la fondazione di Massimo D’Alema, ma anche a trattare l’acquisto dei vini prodotti dall’azienda che fa capo al leader del Partito democratico e di 500 copie del suo libro «Non solo euro» in occasione di un appuntamento elettorale di Ferrandino. Allegata agli atti dell’inchiesta c’è la telefonata del 3 luglio 2013 che il manager fa all’esponente del Pd per invitarlo sull’isola. Si tratta di un’intercettazione ambientale fatta nell’ufficio di Simone: per questo è impossibile sentire le risposte di D’Alema. Il manager dice: «Ho parlato del nostro incontro con Casari al sindaco di Ischia, che è un compagno di vecchia data ed è in collegamento con i 400 operatori alberghieri di Ischia. Siccome tu ci avevi accennato della tua produzione eccellente, lui sarebbe disponibile quando vorrai, se vorrai e riterrai, di fare una specie di riunione degli albergatori più importanti e presentare il frutto del sudore della fronte...». Giovedì, con il giudice, Simone si era avvalso della facoltà di non rispondere ma subito dopo aveva fatto sapere ai pm di essere disponibile a rispondere alle loro domande. Incontro fissato per il giorno successivo. Il verbale è coperto da alcuni omissis e ciò fa presumere che abbia raccontato circostanze sulle quali devono essere effettuate verifiche. Il resto è stato inserito nell’ordine di perquisizione al Comune di Procida che aveva affidato alla cooperativa l’appalto per la metanizzazione. Dichiara Simone: «Lo strumento di “penetrazione” da parte di Cpl delle pubbliche amministrazioni, stazioni appaltanti dei lavori e dei servizi cui la Cpl è interessata, è rappresentato dalle consulenze, dal subappalto ovvero dalle forniture in favore di soggetti legati ai pubblici ufficiali che gestiscono i medesimi appalti. Voglio dire che Cpl affida o una consulenza (più o meno fittizia) ovvero individua un subappaltatore o un fornitore segnalato dal soggetto pubblico che poi gli fa aggiudicare l’appalto o che gestisce le pratiche amministrative, tanto è avvenuto, secondo un protocollo ben consolidato». Per spiegare concretamente quali siano le modalità utilizzate dalla cooperativa modenese, Simone parla dell’incarico ottenuto a Procida. E spiega: «Lo stesso metodo e lo stesso protocollo è stato usato in relazione all’appalto che la Cpl si è recentemente aggiudicata per la metanizzazione di Procida. Il “facilitatore” è stato l’ex senatore Muro, già sindaco di Procida è legatissimo all’attuale sindaco». Il coinvolgimento di politici o funzionari prevede, secondo la versione fornita da Simone, una contropartita: «La “Cpl” ha utilizzato Muro per ingraziarsi l’amministrazione comunale e cioè per ottenere le autorizzazioni e gli atti che il Comune ha dovuto adottare. In tal caso l’utilità è stata destinata a Muro pagando a lui o a un suo prestanome una quota tra il 10 e il 20% del capitale della società che è stata costituita ad hoc dalla “Cpl” per tale opera, le cui quote sono possedute dalla stessa “Cpl”». Simone parla di Procida e racconta come lo stesso metodo sia stato utilizzato a Ischia. Ferrandino aveva negato di aver percepito «tangenti» per agevolare l’appalto, Simone sostiene che tutti i lavori sono stati ottenuti seguendo le stessa procedura. È scritto a verbale: «Quando la “Cpl” partecipa a un appalto accade talvolta che si costituisca una società di scopo (a Ischia per esempio era la “Ischia gas”). Ebbene al momento della costituzione il capitale e dunque le quote di tale società di scopo hanno un determinato valore - di regola basso - che ovviamente lievita in modo straordinario dopo l’aggiudicazione dell’appalto e soprattutto dopo l’erogazione del finanziamento pubblico. Voglio dire che se per esempio il 10% di tale società di scopo vale 100 euro prima del finanziamento, dopo il finanziamento il valore della stessa quota sarà di 100 mila euro». Poi chiama direttamente in causa l’ex senatore Muro: «Tale stratagemma è stato utilizzato per retribuire il senatore Muro al quale la “Cpl” ha (direttamente o per interposta persona) conferito una quota della società di scopo che si occuperà della metanizzazione di Procida il cui valore oggi è lievitato con conseguente realizzazione di una notevole plusvalenza». Le dichiarazioni rese dal manager chiamano in causa i vertici della «Cpl». Descrivendo il metodo utilizzato nei rapporti con la politica, Simone racconta infatti alcuni incontri ai quali dice di aver partecipato e che avevano come protagonista Roberto Casari, il presidente della società. Intercettazioni e verifiche lo chiamavano in causa, ma nel corso dell’interrogatorio l’imprenditore aveva negato di aver versato tangenti sostenendo come le procedure seguite fossero regolari. Una versione che Simone smentisce. Dichiara il manager: «Ho assistito personalmente a conversazioni e colloqui tra Casari e Muro che parlavano della vicenda, nel senso che il riconoscimento di tale somma è stato evidentemente messo in relazione alla sua attività in seno all’amministrazione volta a facilitare e velocizzare tutte le pratiche amministrative che sono moltissime. Ho anche sentito Casari lamentarsi del fatto che Muro voleva monetizzare subito il suo guadagno, nel senso che dopo la “lievitazione” del valore della sua quota voleva venderla appena arrivato il finanziamento. Ho sentito più volte Muro dire che grazie a lui l’amministrazione avrebbe evaso ogni pratica e adottato ogni provvedimento in modo più rapido e con esito favorevole». Ieri mattina sono scattate le perquisizioni. Nel provvedimento i magistrati evidenziano come «Simone ha contribuito ulteriormente a descrivere e delineare il quadro e i connotati di quello che si può definire un vero e proprio “sistema corruttivo” assolutamente generalizzato che ruota intorno e che ispira l’attività della cooperativa “Cpl Concordia”, soffermandosi inoltre e specificamente su talune ulteriori vicende illecite, rispetto a quelle già contestate nell’ordinanza di custodia cautelare». È il primo passo. Nei prossimi giorni i pm torneranno in carcere per affrontare gli altri capitoli dell’ordinanza di custodia cautelare e per conoscere i retroscena degli altri appalti che la «Cpl» ha ottenuto nel corso degli ultimi anni, tenendo conto che l’inizio della consulenza di Simone risale al 2004. Per avere un’idea di quale sia il volume d’affari della società basta leggere l’elenco dei documenti sequestrati nel corso di una perquisizione disposta agli inizi dell’indagine nella sede romana della «Cpl» e in particolare nella borsa del direttore commerciale Verrini: «Documentazione relativa a bandi di gara della Regione Campania, cartellina blu con la dicitura “Pratica di Mare 2014”, cartellina nera con all’interno documentazione inerente il bando di gara con la Regione Campania; agenda di pelle nera contenente vari appunti; opuscolo riportante i lavori presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù; elenco delle attività della “Cpl Concordia nella regione Lazio”». E il giudice, ordinando gli arresti, a proposito di Simone parla di «complessa rete di relazioni interpersonali con esponenti di rilievo del mondo imprenditoriale e politico che utilizza d’intesa con i vertici della predetta società, anche attraverso voto politico di scambio, turbando la libertà degli incanti e l’assegnazione di appalti attraverso un articolato sistema corruttivo alimentato da un circuito finanziario “opaco” localizzato in Tunisia che consente di disporre di somme di denaro “in nero”».
TANGENTOPOLI E LE SOCIETA' CREATE AD HOC.
Cpl Concordia, “sistema collaudato: corruzione con consulenze fittizie e subappalti”, Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Il responsabile delle relazioni istituzionali della coop ha confermato ai magistrati il sistema corruttivo. Non più mazzette, ma contratti e quote in società create ad hoc per ricompensare dei favori sugli appalti. Francesco Simone lo ha detto chiaro ai magistrati di Napoli che lo interrogavano venerdì in carcere alla presenza del suo avvocato Maria Teresa Napolitano: “L’epoca delle mazzette è finita. Oggi per addolcire i pubblici amministratori le società, come ha fatto la Cpl Concordia a Ischia, usano le consulenze”. Alla Cpl i pm Henry John Woodcock, Celestina Carrano e Giuseppina Loreto contestano una convenzione da 165 mila euro all’anno con l’hotel del padre del sindaco Ferrandino e le consulenze legali al fratello avvocato, Massimo Ferrandino. Ha parlato a lungo, Simone, con i magistrati nell’interrogatorio di garanzia. Provato dall’esperienza del carcere di Poggioreale e deluso per essere stato scaricato dalla Cpl Concordia nel 2014, dopo le perquisizioni e l’uscita delle prime notizie, Simone aveva voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. L’interrogatorio è segreto ma i contenuti filtrano per sommi capi. “Va bene, Simone, lei dice che oggi si usano le consulenze, le società di servizi e i subappalti ai familiari e amici degli amministratori locali – hanno cercato di stringere i pm – ma ci può fare un esempio?”. E Simone: “Portatemi l’elenco degli appalti vinti da Cpl Concordia e l’elenco delle consulenze, dei subappalti e delle società create nei Comuni interessati e potrò essere d’aiuto”. Ai pm Simone ha descritto il protocollo usato nella pratica da Cpl Concordia, per addolcire le amministrazioni. Ai magistrati non interessava la teoria ma il caso concreto. Simone ha fatto un nome: Procida. Secondo l’ex responsabile relazioni istituzionali di Cpl Concordia, l’ex sindaco ed ex deputato di An Luigi Muro sarebbe stato utilizzato anche per i suoi legami con l’attuale sindaco, allo scopo di ottenere le autorizzazioni necessarie dal Comune per fare la metanizzazione dell’isola. A Muro sarebbe stata riservata una piccola quota tra il 10 e il 20 per cento di una società costituita ad hoc dalla Cpl Concordia. Una tecnica già sperimentata: la coop crea una società di scopo con gli amici o familiari dei pubblici decisori e le quote aumentano vertiginosamente quando l’appalto viene assegnato o si sbloccano i finanziamenti pubblici. Simone avrebbe sentito parlare Luigi Muro con il presidente della Cpl Roberto Casari e ha riferito quello che avrebbe sentito dire. Risultato: Ischia non è più un’isola ma almeno un arcipelago. L’ex sindaco di Procida Luigi Muro ieri si è visto consegnare dai carabinieri della compagnia locale guidata dal capitano Andrea Centrella un bell’avviso di garanzia. Muro, è un ex socialista che vive a Procida dove è entrato in Consiglio comunale nel 1984 senza mai uscirne. Dopo l’adesione ad An diventa un fedelissimo di Pinuccio Tatarella e si fa eleggere con 10 mila preferenze alla Regione nel 2005. Nel 2011 subentra come deputato e aderisce a Fli di Fini e Bocchino. Ora è solo presidente del Consiglio comunale di Procida. Muro è indagato percorruzione e sempre per le parole di Simone sono indagati anche l’ex presidente della coop Roberto Cesari e Nicola Verrini, ex responsabile di area per Lazio, Campania e Sardegna. In realtà dall’arcipelago napoletano l’indagine potrebbe allargarsi ben presto alla penisola. Ovviamente i magistrati sono consapevoli del rischio di estendere troppo il raggio della loro azione: se i contratti ai parenti del sindaco Tizio e se tutte le società partecipate da un amico o familiare dell’assessore Caio, realizzate da Cpl Concordia nella miriade di paesi in cui la coop rossa ha operato devono essere considerati corruzione, il rischio è che poi al processo nulla sia considerata corruzione dai giudici, nemmeno gli episodi contestati a Ischia della convenzione e della consulenza ai parenti del sindaco Ferrandino. Nell’interrogatorio di garanzia, il responsabile delle relazioni istituzionali della Cpl, arrestato lunedì, ha parlato anche della fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema e di quella creata nel 2009 dal sottosegretario alla presidenza Marco Minniti e poi abbandonata nel 2013 alla nomina a Palazzo Chigi: la fondazione Icsa. Mentre su quest’ultima ha sostanzialmente ammesso che ci potesse essere un interesse da parte di Cpl a ottenere qualche favore in cambio della quota associativa pagata ogni anno di 20 mila euro, Simone su D’Alema è sembrato ai pm molto più cauto nell’interrogatorio che nelle telefonate intercettate: ha glissato sulla conversazione intercettata nella quale dice che Italianieuropei va finanziata anche perché D’Alema è uno “che mette le mani nella merda” e potrebbe diventare un commissario europeo. “La fondazione di D’Alema è una delle poche che svolge una vera attività di ricerca e non la finanziavamo per avere qualcosa in cambio”, si è giustificato Simone.
TANGENTOPOLI ED I SUBAPPALTI MIRATI.
Inchiesta tangenti a Ischia, «La camorra nella coop rossa. Subappalti a ditte dei Casalesi». Negli atti dei magistrati le «ingerenze» del generale Adinolfi e le telefonate, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera”. Nella rete della «Cpl Concordia» la camorra dei Casalesi aveva un posto di rilievo. I verbali dei magistrati napoletani che indagano su tangenti che sarebbero state versate al sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino e ad altri politici e amministratori, mostrano la consapevolezza dei dirigenti della cooperativa emiliana di aver concesso i subappalti a ditte controllate dalla criminalità. E addirittura, secondo un’ipotesi avanzata dal «pentito» Antonio Iovine, di essere entrati in società con loro. I responsabili dell’azienda sono accusati di aver chiuso gli affari muovendosi su un doppio binario: da una parte i boss, dall’altra i politici. Con i primi scendevano a patti, agli altri avrebbero elargito «mazzette» e favori. Le carte processuali disegnano la natura di questi legami, ma mostrano anche i retroscena dei rapporti istituzionali degli ultimi due anni assegnando un ruolo primario al generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi e citando le sue telefonate con Luca Lotti, che dopo qualche settimana sarebbe poi diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Non manca un attacco di Silvio Berlusconi all’allora presidente Giorgio Napolitano. Scrivono i pm: «L’11 maggio 2014 Silvio Berlusconi chiama l’ex senatore Amedeo Laboccetta con il quale parla, tra l’altro, della situazione di crisi sociale. Berlusconi dice inoltre che i giudici, anche su ordine del capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo falso per avere la scusa per arrestarlo». Al responsabile commerciale per l’area Tirreno della Cpl, Nicola Verrini, i pm nell’interrogatorio del 12 giugno 2014 fanno la domanda diretta: «Le risulta che Cpl Concordia sia scesa a patti con esponenti della malavita casalese ovvero con referenti politici legati a tale clan camorristico?». Lui nega: «Non mi risulta». Eppure uno dei maggiori subappaltatori di Concordia in Campania era Antonio Piccolo, e su di lui farà con i giudici una ammissione l’ingegnere della Cpl Giulio Lancia, ascoltato subito dopo Verrini: «A proposito del Piccolo Antonio, Pino Cinquanta (ex dipendente di Concordia, ndr ) mi disse che il riferimento di Antonio Piccolo era il boss Michele Zagaria». La conferma, ricca di particolari, arriva dalla deposizione di Antonio Iovine, ex boss diventato collaboratore di giustizia: «I rapporti con la Cpl Concordia furono gestiti da Zagaria Michele per il tramite di Piccolo Antonio (...) In relazione ai lavori della metanizzazione (nel Casertano, ndr ) effettuati dalla Cpl Concordia posso affermare con certezza che il Piccolo Antonio fece da intermediario tra la Concordia di Modena e noi Casalesi, e in particolare tra la Concordia e Zagaria Michele. Preciso che tutto ciò avvenne all’insegna e sulla base di un accordo e con una metodologia in cui non ci fu necessità né di violenza né di minacce, neppure indirette: si trattò cioè di una intesa raggiunta attorno a una sorta di “tavolo” al quale si sedettero Concordia, Piccolo Antonio, e la criminalità organizzata casalese». Iovine giunge quindi a una deduzione: «Ritengo, conoscendo Zagaria e sapendo come lo stesso è solito muoversi rispetto a operazioni economiche così grosse, come è stato l’accordo con la Concordia per la metanizzazione dell’Agro Aversano, che Zagaria, tramite dei prestanome, sia entrato nella Cpl acquisendone delle quote societarie». In un provvedimento di proroga delle intercettazioni ambientali negli uffici della Cpl i pubblici ministeri napoletani ripercorrono le fasi dell’inchiesta e nel capitolo dedicato al generale Adinolfi scrivono: «Il monitoraggio della sua utenza consentiva di acquisire numerose ulteriori univoche risultanze - riassunte nella nota depositata il 17 gennaio 2014 dalla polizia giudiziaria - dalle quali sembrano evincersi elementi piuttosto univoci dai quali si desume una sistematica e piuttosto inquietante ingerenza dello stesso Adinolfi in scelte e vicende istituzionali ai più alti livelli. Al riguardo il tenore e il contenuto delle conversazioni e degli sms intervenuti tra Adinolfi e Lotti (strettissimo collaboratore dell’onorevole Renzi); il fatto che Adinolfi si sia recato alla vigilia della proposta di nomina del comandante generale della Finanza nella sede di un partito politico entrando dalla porta laterale e secondaria; la reazione che Adinolfi ha avuto alla proposta di proroga del generale Capolupo manifestando il proposito di non rassegnarsi così facilmente... contribuiscono a delineare uno scenario e un contesto di più soggetti che - in modo più o meno sistematico - tramano per incidere sull’attività dell’autorità giudiziaria (è il caso della bonifica) e sulle nomine». Il resto è coperto da omissis . Le conversazioni di cui si parla sono state trasmesse per competenza a Roma e sarebbe già stata chiesta.
Tangenti, infiltrazioni e subappalti, le mani della mafia sulla metro C. Gli interessi della criminalità attorno alla più grande opera pubblica italiana, costo tre miliardi e mezzo di euro. Un groviglio che parte dall'indagine in cui è coinvolto anche l'ex presidente di Eur spa Mancini, il fedelissimo di Alemanno, plenipotenziario per i Trasporti, scrive Daniele autieri su “La Repubblica”. Mafia, ‘ndrangheta, criminalità vicina alla destra estrema e un giro di tangenti che lambisce il Comune di Roma. Sono questi gli appetiti obliqui scatenati dalla linea C della metropolitana e raccontati nella puntata di Report dal titolo “Romanzo Capitale” che andrà in onda stasera. Al centro la più grande opera pubblica italiana oggi in costruzione: un costo di 3,5 miliardi di euro per 21 chilometri che uniscono la periferia al Colosseo. E degli affari sulla metro C – rivela Report – avrebbero parlato in una cena l’ex-ad di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini, il suo superconsulente Lorenzo Cola, il sindaco Gianni Alemanno e l’ex-delegato alle politiche agricole del Campidoglio Pietro Di Paolantonio. I diretti interessati smentiscono, ma sia gli inquirenti che altre fonti sentite nell’indagine confermano che oltre alla metro si sarebbe discusso della dismissione del patrimonio immobiliare del Campidoglio. E oggi le briciole di pane lasciate dai protagonisti di questa vicenda portano alla crosta di affari sedimentata intorno ai cantieri dell’opera realizzata dal consorzio costituito da Astaldi, Vianini Lavori, Ansaldo Sts, Cmb e CCC. L’attenzione degli inquirenti si concentra su alcune aziende, alla ricerca dei legami con il mondo criminale. Tra queste il Consorzio Stabile Roma Duemila che, in Ati con la Marcantonio Spa, ha ottenuto appalti per16 milioni di euro. Presidente del Consorzio è Maurizio Marronaro, membro della stessa famiglia di imprenditori di Lorenzo Marronaro, che fino al 9 febbraio del 2011 è stato socio di Marco Iannilli, il commercialista di Cola indagato sia per le tangenti Enav che per quelle dell’appalto romano sui filobus affidato a Finmeccanica. E i legami con il mondo vicino all’amministrazione comunale vengono confermati a Report da un imprenditore. «Dal 2008 è Riccardo Mancini (l’uomo di fiducia di Alemanno arrestato 20 giorni fa per le tangenti sui filobus pagate da Finmeccanica) che si mette al tavolo con le imprese e spartisce subappalti per realizzare la metro C». Tra queste – secondo la fonte – ce ne sarebbero alcune espressione degli interessi di Massimo Carminati, già membro della banda della Magliana considerato oggi uno dei boss più potenti della Capitale. E proprio l’Ati Marcantonio-Consorzio Stabile Roma Duemila ha affidato diversi subappalti ad aziende intrecciate alla criminalità organizzata. Tra loro la Fravesa, di proprietà dell’imprenditore Giovanni Tripodi di Melito Porto Salvo, in Calabria. Secondo gli inquirenti, la forza della Fravesa e di Giovanni Tripodi è legata «all’appoggio derivante dall’appartenenza ad una cosca ben radicata sull’intero territorio nazionale, qual è la cosca Iamonte». L’informativa interdittiva della Prefettura di Roma nei confronti della Fravesa arriva il 28 gennaio del 2010 a lavoro già affidato. La famiglia Tripodi di Melito Porto Salvo entra nei cantieri della metro anche attraverso un’altra azienda, la Tripodi Trasporti. E anche questa partecipazione viene bloccata dopo l’intervento della Prefettura. La Palma srl, specializzata nell’affitto di macchinari e movimentazione di terra, ottiene invece quattro appalti, tre dei quali arrivano dall’Ati Marcantonio-Consorzio Stabile Roma Duemila. I subaffidamenti vanno dal 29 luglio del 2008 al 10 giugno del 2009 e vengono interrotti il 2 febbraio del 2010 dall’interdittiva antimafia. Nel documento interno della Prefettura si legge: «la famiglia Farruggio (Angelo Farruggio è proprietario e procuratore de La Palma srl) è notoriamente vicina alla mafia di Palma di Montechiaro, contando su vincoli di parentela con esponenti di spicco della criminalità organizzata locale». Negli ultimi anni la Prefettura di Roma ha risposto a 5.265 richieste di informative antimafia sulla metro C; 12 sono stati gli interventi per bloccare gli appalti e 11 le informative atipiche su aziende vicine ad ambienti criminali. Un’attività intensa che non è bastata a fermare le infiltrazioni e a saziare gli appetiti.
TANGENTOPOLI E L’ELUSIONE DELLA GARA CON LA DIVISIONE DEGLI INCARICHI.
Giuseppe Ferrandino era già nel mirino di Raffaele Cantone: affidava lavori senza appalti. L'autority Anticorruzione si era già occupata del comune di Ischia, scoprendo che in modo "ricorrente e praticamente sistematico" eludeva l'obbligo di ricorrere alle gare, spezzettando gli incarichi (e i soldi) in tanti piccoli lotti. "Una procedura in contrasto con la legge", scrisse il presidente sei mesi fa, scrive Susanna Turco su “L’Espresso” il 3 aprile 2015. Lavori affidati evitando le gare d’appalto. Un sistema che lottizzava gli incarichi per le opere pubbliche, distribuendoli a pioggia, senza un disegno unitario e in contrasto con la legge. Scarso rigore nelle procedure, nessuna voglia di animare una sana concorrenza. Già mesi fa, prima che esplodesse l’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone aveva avuto modo di occuparsi del comune guidato da Giuseppe Giosi Ferrandino, ora in carcere. E non certo per fargli i complimenti. La lente dell’ex magistrato e del consiglio dell’Anac si è posata sui criteri di affidamento degli incarichi per rifare scuole strade, palestre e altre opere pubbliche di Ischia. Incrociando nomi, cifre e opere, ha scoperto che il comune attuava una sorta di divide et impera: soldi distribuiti a destra e sinistra, affidando direttamente gli incarichi senza passare da gare e concorsi. Atti e materiale di una certa rilevanza: tanto che Cantone ha doverosamente mandato il fascicolo alla procura di Napoli. Tutto è cominciato un paio d’anni fa, con la segnalazione alla Prefettura di Napoli da parte del consigliere comunale di Ischia Carmine Bernardo. Da Napoli, hanno poi richiesto all’Avcp (ora inglobata nell’Anac) di fare una valutazione complessiva sulla legittimità delle procedure, tra il 2009 e il 2012. Dall’analisi del dossier, come risulta dall’atto depositato il 29 ottobre 2014, è venuto fuori che in modo “ricorrente e praticamente sistematico”, il comune ha spacchettato i vari interventi che riguardavano un edificio, impianto sportivo o area urbana, in modo tale che lo stesso “oggetto” risulta affidato più volte, a più imprese, per effettuare lavori leggermente diversi gli uni dagli altri. Per esempio, dicono le carte, il campo sportivo Mazzella è oggetto di cinque diversi affidamenti tra il 2009 e il 2010. Gli incarichi formali differiscono di poco gli uni dagli altri: riguardano tutti, in un modo o nell’altro “l’adeguamento e la messa a norma” (o “in sicurezza”) del campo; solo che in un caso si tratta della “progettazione”, nell’altro della “direzione dei lavori”, in un terzo della “fase di esecuzione”, oppure di “opere di completamento” o ancora di “opere complementari”. Una ricchezza lessicale grazie alla quale gli incarichi risultano tutti diversi, non perfettamente sovrapponibili; eppure riguardano sempre lo stesso campo sportivo. Non si poteva fare un intervento unico? Certo, si poteva. Solo che sarebbe stata necessaria una gara d’appalto, perché la pubblica amministrazione può affidare direttamente un lavoro soltanto se l’importo dell’opera non supera i 40 mila euro complessivi (prima erano 20 mila). E al comune di Ischia non piace superare quel limite. Preferisce di gran lunga dare 19 mila euro a quattro imprese diverse, piuttosto che 80 mila euro a una sola, ma dopo una gara pubblica. Così, si deduce dalle cifre pubblicate, è accaduto per il campo sportivo Mazzella, per il quale l’amministrazione ha speso in cinque tranche un totale di 81 mila euro. Ma non è l’unico esempio che Cantone riporta: per le varie opere di “manutenzione straordinaria e riqualificazione” di via Iasolino, si superano i 40 mila euro (ma gli affidi sono spezzettati in tre); per le “opere di ingegneria” sulla scuola media Scotti si superano i 56 mila euro (ma spezzettati in cinque affidi). Insomma, conclude l’Anticorruzione: “Tali modalità di affidamento, che appaiono tra l’altro in contrasto con l’esigenza tecnica di un’attività unitaria per la progettazione e conduzione dell’opera, hanno determinato, limitando i corrispettivi per le prestazioni affidate a importi sempre inferiori a 20.000 euro, procedure di affidamento meno rigorose di quanto di fatto richiesto ove si fosse considerato l’intervento unitario”. Meno rigore nelle procedure, e lavori che alla fine rischiano di essere meno coerenti. La stessa passione per la parcellizzazione, nota l’Autorità, il Comune la nutre non solo pre le prestazioni professionali e i relativi lavori, ma pure gli appalti. Tra il 2008 e il 2013, per esempio, sempre per la scuola Scotti ha avviato ben nove procedure d’appalto, per un importo a base d’asta che complessivamente supera di molto il milione di euro. Eppure si tratta, complessivamente, di attuare l’adeguamento normativo (misure antincendio, abbattimento delle barriere architettoniche, manutenzione straordinaria, eccetera) del medesimo complesso architettonico. Nelle sue controdeduzioni di fronte all’Autorità, il comune ha argomentato che si è trattato di “singoli interventi autonomamente finanziati”, per anni diversi, “in alcuni casi anche da Enti diversi”, e quindi “con modalità e tempi di attuazione differenti”, e che rispondono a “finalità autonome e specifiche derivanti dalle singole leggi”. Insomma: ciascun intervento fa storia a sé, non si sarebbero potuti accorpare, e in alcuni casi “non si potevano assolutamente prevedere”. Motivazioni che però non hanno convinto del tutto Cantone: “Non sono state fornite specifiche e puntuali motivazioni che avrebbero impedito una più razionale visione di insieme delle esigenze di intervento”, scrive in conclusione il presidente dell’Anticorruzione. “Di contro emerge il carattere ricorrente e praticamente sistematico della fattispecie rilevata, che ha determinato l’assenza di procedure concorsuali”, un “modus operandi che appare di fatto elusivo di procedure di affidamento più rigorose che sarebbero state, invece necessarie, ove si fosse considerato l’importo complessivo degli incarichi da affidare al medesimo professionista”. Insomma, materiale buono per i magistrati, se riterranno doversene occupare.
SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.
Facci massacra Travaglio: querela tutti (pure un morto) e perde, scrive “Libero Quotidiano”. Mettetevi seduti. Il collega Marco Travaglio e il suo avvocato Caterina Malavenda hanno querelato la bellezza di 49 articoli del Giornale tutti insieme, più altri dei siti Dagospia e Macchianera: e cioè 27 articoli miei, 3 di Gian Marco Chiocci, 3 di Maria Giovanna Maglie, 2 di Alessandro Sallusti, 2 di Mario Giordano, 2 di Paolo Bracalini, 2 di Paolo Granzotto, più 1 a cranio scritti da Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi, Alessandro Caprettini, Francesco Cramer, Renato Farina, Cristiano Gatti, Gianni Pennacchi (che al momento della querela era morto da due anni) più la missiva di un lettore, Renato Niccodemo. Ho scritto «querelato» per comodità, ma era una causa civile (che punta direttamente ai soldi) la quale il 14 febbraio 2011 è stata intentata principalmente al Giornale e che mirava a 400mila euro di risarcimento più la pubblicazione della sentenza su tre quotidiani, a caratteri doppi del normale. I soldi dovevano ristorare la sofferenza di Marco Travaglio in quanto da marzo 2008 a dicembre 2009 - si legge - «con cadenza giornaliera è stato oggetto di attacchi diffamatori, insulti personali e notizie false e denigratorie». La causa-querela per diffamazione vantava 57 allegati e citava il sottoscritto quale «giornalista che si è distinto per numero e gratuità degli attacchi nei confronti di Travaglio... Una vera e propria campagna di stampa, della quale Facci rappresenta la punta di diamante, ma che trova in editorialisti e giornalisti il necessario compendio». In altre parole io avrei rivolto «epiteti offensivi» nonché «false informazioni circa vacanze trascorse con persona indicata come favoreggiatore di mafiosi», oltre ad averlo indicato «quale portavoce di uomini politici e magistrati». Com’è finita? Ci limitiamo ai dati secchi e ci asteniamo dal commentare: anche se la tentazione sarebbe forte. La sentenza ha negato un risarcimento e ha stabilito che anche «la richiesta di pubblicazione della sentenza deve essere rigettata», mentre le spese processuali s’intendono «integralmente compensate tra le parti». La sentenza è passata in giudicato perché sono scaduti i termini per l’impugnazione, ma questo dopo che le parti (gli avvocati) hanno raggiunto un accordo affinché ai querelanti siano rifuse le spese legali. Il giudice Serena Baccolini, il 5 marzo 2014, ha infatti deciso che «la domanda risarcitoria deve essere rigettata» in quanto Travaglio & Malavenda hanno chiesto soldi «senza argomentare in ordine alla sussistenza del pregiudizio patito», giacché «spetta a colui che chiede il risarcimento offrire la prova dell’evento dannoso e dei pregiudizi conseguenti». Cioè: fare una causa semplicemente ammassando articoli scritti contro Travaglio («introdurre un contenzioso caratterizzato da una pluralità di condotte») comportava perlomeno che il giornalista allegasse «l’incidenza lesiva dei singoli scritti...». Insomma, Travaglio doveva anche spiegarli, questi danni patiti, ergo descriverli al giudice: altrimenti qualcuno potrebbe pensare che volesse soltanto lucrare querelando dei suoi colleghi, gente che, oltretutto, non ha mai querelato lui, nonostante il linguaggio che adotta regolarmente. I legali dei querelati, su questo, si sono anche permessi di fare dei chiari esempi «di come Travaglio si rivolge a terzi», in particolare contro Facci, Feltri e Belpietro. Non dispiacerà se omettiamo. Va detto che, tra i 49 articoli descritti nella citazione, il giudice ha intravisto solo tre casi (3) in cui a suo dire è stato «violato il principio della continenza formale»: due sono miei (12 maggio 2008 e 1° maggio 2009) e uno è di Renato Farina (15 dicembre 2009). Eviteremo di ripetere le tre espressioni che il giudice ha ritenuto diffamatorie. Per signorilità, tuttavia, eviteremo di ripetere anche tutte quante le espressioni che, in 46 articoli su 49, non sono state ritenute diffamatorie. Poco importa che sostantivi all’apparenza innocui («fighetta», «scarabeo», «becchino») siano state giudicate «legittimo esercizio del diritto di critica». Altri contenuti però riportano a fatti accaduti o a questioni ricorrenti, e il contenuto della sentenza va comunque registrato: se non altro, anche qui, per legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, e fermo restando che le sentenze non possono essere, al di là delle abitudini di Travaglio, gli unici parametri a cui guardare. In vari articoli dello scrivente, per esempio, si citava la vacanza trascorsa da Marco Travaglio con il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, inquisito per favoreggiamento di un mafioso: secondo la sentenza, «il fatto è vero per pacifica ammissione anche dell’attore, e non è controverso che Ciuro sia stato arrestato nel novembre 2003 per favoreggiamento nei termini indicati. L’articolo nasce come risposta alle dichiarazioni di Travaglio sulle dedotte frequentazioni dell’on. Schifani... La circostanza riferita da Facci, sempre relativamente alla vacanza trascorsa da Travaglio in una struttura sottoposta ad amministrazione con sottrazione alla proprietà, è vera». E su questo non ci piove. Secondo il giudice, poi, si può scrivere che Travaglio è un «pregiudicato» (16 ottobre 2008: «Facci, accostando genericamente il termine “pregiudicato” a condanne penali e a condanne in sede civile, e con il ricorso del virgolettato, ne fa intendere ai lettori l’uso non tecnico, mentre del tutto irrilevanti risultano le dedotte inesattezze sulla prescrizione del reato in cui avrebbe potuto incorrere Travaglio»). Ma su questo, paradossalmente, non siamo neppure completamente d’accordo col giudice, anche se ci dà ragione: vero è che la sentenza non fa giurisprudenza - perché non ha il sigillo della Cassazione - ma ci lascia perplessi che un giudice possa valutare come meramente «non tecnica» l’adozione del termine «pregiudicato» per un condannato in sede civile, quale era Travaglio. Le condanne di Travaglio in sede penale sono un altro discorso. Ci sono poi, ancora, varie espressioni ritenute lecite dal giudice e che attengono soltanto a «un giudizio di Facci sull’attività di Travaglio nel mondo del giornalismo». Ripetere queste espressioni, ora, sarebbe stucchevole. In futuro, ci si limiterà a riusarle.