Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABUSOPOLI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ABUSOPOLI
L’ITALIA DEGLI ABUSI SUI PIU’ DEBOLI,
OSSIA, DI ABUSI SUI PIU’ DEBOLI SI SPARLA,
NON SI PARLA
Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato.
I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.
Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.
Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.
Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."
di Antonio Giangrande
ABUSOPOLI
L’ITALIA DEGLI ABUSI SUI PIU’ DEBOLI
OSSIA, DI ABUSI SUI PIU’ DEBOLI SI SPARLA,
NON SI PARLA
«I carcerati, i minori, gli incapaci. Chi pensa a loro?»
Dr Antonio Giangrande
SOMMARIO I PARTE
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
DALLA MALEDUCAZIONE AL BULLISMO/CYBERBULLISMO FINO ALLA CRIMINALITA' DELLA BABY GANG.
LE PAZZIE DISPERATE DEI PADRI CHE STERMINANO LA FAMIGLIA E LA COSCIENZA SPORCA DELLE ISTITUZIONI.
LA GUERRA TRA POVERI. L’URLO DEI PADRI E DELLE MADRI IN CERCA DI GIUSTIZIA. IN FAMIGLIA QUANDO C’E’ POVERTA’ O SEPARAZIONE? ARRIVANO I MOSTRI!
LA MAFIA DEGLI ASSISTENTI SOCIALI.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
MORIRE PER UN TSO.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
COSE STRANE AGLI SPORTELLI ASL DI TARANTO? O COSI’ FAN TUTTI?
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
PARLIAMO DI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI IN ITALIA.
PARLIAMO DI EMIGRAZIONE ED IMMIGRAZIONE.
IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.
SOMMARIO II PARTE
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
UNIVERSITA’. IL MISTERO DELL’AULA C OCCUPATA DA DECENNI.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
L'UTOPICA UGUAGLIANZA TRA I DIVERSI E LA FENOMENOLOGIA MEDIATICA TRA ABORTO, OMOSESSUALITA', FEMMINICIDIO ED INFANTICIDIO.
PARITA’ DI SESSI E FEMMINICIDIO. SLOGAN O SPECULAZIONE?
STUPRI, STOLKING E FEMMINICIDI. LA VIOLENZA SULLE DONNE.
IL SILENZIO SULLA VIOLENZA SUGLI UOMINI.
DEL MASCHICIDIO MEGLIO NON PARLARNE.
STUPRI, ABUSI E VIOLENZA SESSUALE: DUE PESI E DUE MISURE.
IL FORTE, IL DEBOLE E L’ESCLUSIONE SOCIALE.
ESCLUSIONE SOCIALE E RAZZISMO.
PARLIAMO DI INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE.
ABUSI SUI MINORI: PARLIAMO DEI TRIBUNALI DEI MINORI.
PAS ED AFFIDO: IL MONOPOLIO DELLE MADRI FEMMINISTE.
PARLIAMO DI CONFLITTI GENITORIALI.
BIGENITORIALITA' ED AFFIDO CONDIVISO.
SULLA PELLE DEI BAMBINI: IL CASO DI LEO RIGAMONTI.
PARLIAMO DI ABUSI VERI E FALSI.
PARLIAMO DEI RAPIMENTI DI STATO. BIMBI RAPITI DALLA GIUSTIZIA.
AFFIDI. AFFARI SULLA PELLE DEI BAMBINI.
LI CHIAMANO AFFIDI. SONO SCIPPI.
PARLIAMO DI BIBBIANO.
LA BIBBIANO DEGLI ANZIANI.
PARLIAMO DI PEDOFILIA.
PEDOFILIA FEMMINILE
ACCUSA DI PEDOFILIA COME TRAPPOLA INFERNALE.
ADOZIONI INTERNAZIONALI. LADRI DI BAMBINI.
SULLA PELLE DEI VOLONTARI.
SECONDA PARTE
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
Bambini, restate in cella, il pulmino costa troppo, scrive Luigi Lori su “Il Garantista”. In questi giorni l’Atac ci ha comunicato a sorpresa che il servizio di navetta per il trasporto dei bambini da 0 a 3 anni “detenuti” con le loro madri nella Sezione Nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia di cui ci occupiamo da vent’anni a questa parte con la nostra associazione, sarebbe stato interrotto a partire dal 1 gennaio 2015. La motivazione – dice la presidente Gioia Passarelli – consisterebbe nel taglio dei fondi destinati al servizio sociale di Roma Capitale da parte del Comune, tanto che l’Atac avrebbe messo in vendita le vetture destinate a questo tipo di convenzioni. La conseguenza – immediata di questa decisione che ci sconcerta e anche ci indigna – sarebbe che a partire da sabato 3 gennaio i bambini che vivono in carcere senza alcuna colpa, oltre a quella di essere nati, non potrebbero più usufruire dell’unico giorno da passare “in libertà” fuori dal carcere insieme ai volontari della nostra associazione, che da più di vent’anni li va a prendere con il pullman dell’Atac, messo a disposizione dal Comune di Roma. Oggi è stata presentata dal sindaco Marino la nuova giunta – continua la Passarelli – e la nuova assessora ai servizi sociali, Francesca Danese, presidente del Centro servizi volontariato del Lazio. Dal suo staff abbiamo avuto assicurazione che la Danese si occuperà al più presto dell’incresciosa vicenda, ma noi continueremo a vigilare fino a che il servizio non sarà ripristinato e per questo chiediamo il supporto della stampa e delle altre associazioni di volontariato che si occupano di carcere. E’ di ieri , d’altra parte, il sostegno che ci è giunto dal presidente Napolitano – ricorda la Passarelli – quando si è riferito nel suo discorso al Csm al “mancato e lungimirante impegno di tutte le Istituzioni per dare attuazione alla legge n. 62 del 2001. Una legge firmata da Anna Finocchiaro che prevedeva che i bambini non dovessero più entrare in carcere insieme alle loro madri, attraverso l’istituzione degli istituti a custodia attenuata e le case famiglia protette , per la quale – ha detto Napolitano – «non vi è forse stato un sufficiente investimento strutturale ed una visione integrata di assistenza e sostegno per i figli dei detenuti».
Quando in prigione ci vanno i bambini. Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri, assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review, scrivono Giuseppe De Bello ed Alice Gussoni su “la Repubblica”.
Per i più deboli la condanna è doppia di Alice Gussoni. Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla madre. Tutti tranne il piccolo S., che all'epoca non aveva neanche un anno e l'ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino alla scarcerazione della mamma. S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili per l'intera popolazione carceraria del lazio che arriva a 5mila 680 presenze, di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di 7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono contemplati interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono 2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni italiani, forniscono il quadro di un'Italia spaccata a metà ma nell'insieme ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l'affidamento ai servizi sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi ha subito un'amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano ad aiutare come possono i loro compagni di cella. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo una rilevazione dell'Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere architettoniche. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da HIV (circa il 3,8% dell'intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se rimane loro poco da vivere, restano dentro. E' una legge spietata, ma il carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo: "L'incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto". Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte europea per i diritti dell'uomo che ha sanzionato l'Italia per le condizioni inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l'ultimo censimento, datato 31 ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero 54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità effettiva, secondo il X rapporto dell'Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente inferiore, pari a circa 37mila unità. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa, cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto all'assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono stati ulteriormente ridotti (Milano è l'unica città italiana ad avere un Centro di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale). Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse, contro i 123 euro spesi all'interno delle carceri. La considerazione che il carcere sia anche un deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come indica una ricerca su base europea svolta dall'Emcdda, l'European monitoring center for drug and drugs addicted. L'affidamento alle comunità terapeutiche rimane l'ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del sistema, come denunciato dall'associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere, spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente rischiano di essere antitetici". Il trattamento penitenziario in Italia è stato però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece l'articolo 1 dell'Ordinamento penitenziario (L.354/75). Gli stessi ospedali psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del '78, avrebbero dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva - assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista, coordinatore dell'Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma, suggerisce di assegnare all'istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati alla mafia. Un'idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334 solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna), anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi. Gioia Passarelli, presidente della onlus 'A Roma Insieme', da anni impegnata a favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L'idea di partenza era quella di rendere l'ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le madri, ma a parte l'abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare l'ora d'aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli effetti che sottostanno all'ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre l'età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3 ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di loro non hanno mai visto com'è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione anche Lia Sacerdote dell'associazione Bambini senza sbarre, firmataria insieme al Garante per l'infanzia e l'adolescenza e il Ministero della Giustizia di un Protocollo d'Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l'iniziativa della creazione di uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed educatori si cerca di rendere comprensibile l'esperienza del carcere ai piccoli visitatori. La mancanza di strutture ricettive è un problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall'Osservatorio Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale (inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100% dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq, sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione (sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013).
Senza cure né assistenza, ecco i casi più gravi di Alice Gussoni.
Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006. Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai, senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa. Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel '76 perché dormiva in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di certificare l'avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30 anni, uscito con l'indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli ospedali psichiatrici ne sono pieni.
Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti. Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l'incompatibilità con il regime carcerario (articolo 47 comm.2 ) è l'esigenza di un trattamento che non sia possibile ricevere nell'ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha dell'incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi, fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l'uso delle gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all'altezza e così viene rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l'assistenza adeguata.
Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre. La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede l'innalzamento dell'età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non c'è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande per affrontare una nuova vita senza il trauma.
Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo. Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che all'epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici, durata per l'intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell'area verde del carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può entrare solo una volta al mese.
Gli ergastoli bianchi degli Opg di Giuseppe Del Bello. Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più drammatico a causa dell'emergenza Opg, gli ospedali psichiatrici da chiudere entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo, nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant'Eframo (chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un'ala quasi interamente crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto terapeutico riabilitativo individuale) nell'ottica della dimissione entro il 31 marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti saluti al risparmio e a un'assistenza dignitosa. Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell'altro Opg, il Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e, quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto. Ma le Rems, come osserva il presidente dell'Associazione "Sergio Piro" (recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è d'accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case famiglie. D'altronde, le condizioni in cui versa la salute mentale a Napoli non promette nulla di buono per il futuro. "In Italia si contano 600mila soggetti tra schizofrenici e bipolari", rivela Blasi, "in Campania siamo a quota 60mila. Qui a Napoli, già per questi pazienti, l'assistenza è carente". In città, si contano dieci servizi di salute mentale, in cui lavorano in media, dieci medici. In tutto, un centinaio di specialisti. Insufficienti. Ma sono gli errori di chi lo ha preceduto che adesso Esposito tenta di correggere. Come quello di eliminare i turni di assistenza notturna e festiva, ritenuti "spesa inutile, da sopprimere" e da sostituire, col 118. L'attuale manager è corso ai ripari, creando i "poli notturni" a cui afferiscono i cento medici da allertare in caso di necessità. Ovviamente, senza nessuna garanzia di continuità assistenziale: il contrario di quanto recita la legge emanata dalla stessa Regione, la 183 scritta da Piro, che sanciva il diritto all'assistenza 24 ore su 24. "Ci vorrebbero dei centri-crisi dotati di infermieri, medici reperibili, e uno o due posti letto", dice Blasi, "dove trattenere un paziente per un giorno massimo due, ma senza il ricovero". Frequenti gli episodi di malasanità. A Capri, l'ultimo allarme risale a maggio quando il dirigente del servizio avverte che sull'isola "almeno 7-8 sono le potenziali vittime di mancata assistenza". Un degrado graduale che vede i comuni di Capri e Anacapri serviti da un solo medico: una volta ogni 15 giorni, a rotazione. E le urgenze? Anche di giorno, si risolvono chiamando il 118 e l'ospedale Capilupi, sprovvisto di psichiatri e di posti-letto dedicati. Oltre a Blasi e Maurano, ci sono anche altri soggetti pronti ad alzare la voce. Per esempio, il Comitato di Lotta che la settimana scorsa ha presidiato il reparto di ricovero afferente all'ospedale San Gennaro (vedi video). "Bisogna rompere il muro di silenzio", dice la madre di un ex paziente, "Qui dentro, a maggio è morto un giovane. Tutti sanno che venivano (il personale è stato quasi totalmente sostituito dopo la tragedia, ndr) utilizzate manette, corde e farmaci che annullano la personalità". Per il comitato di Lotta, parla Enrico de Notaris, psichiatra allievo di Sergio Piro: "Combattiamo il concetto di follia come malattia organica. E anche contro la repressione che ne scaturisce. Il repartino di degenza e l'unità Salute mentale, secondo lo spirito della 180 di Franco Basaglia non erano solo strutture ambulatoriali, ma anche di raccordo col quartiere. Oggi questi luoghi sono solo dispensatori di farmaci dove non si combatte il disagio, ma si annullano le persone somministrandogli dosi inappropriate. Praticamente, una camicia di forza "'chimica'". Il Comitato (psichiatri, psicologi, familiari, specializzandi, disoccupati e volontari), opera su più fronti. Per esempio, con la creazione di una farmacia sociale: si raccolgono i medicinali inutilizzati per metterli a disposizione di chi si presenta munito di prescrizione. Poi ci sono le attività: dal gruppo di espressione (scrittura, liberi movimenti del corpo, disegni, foto e produzione video): "linguaggi creativi per imparare che il disagio può esprimersi anche in altri modi e non necessariamente attraverso il sintomo". L'ultima iniziativa, ricorda de Notaris, è stata l'istituzione dell'Osservatorio della salute mentale: "C'era anche la delibera del Comune, ma l'assessora alla sanità voleva utilizzarla per inserire personale suo, e questo avrebbe svuotato di significato il progetto. Da allora tutto è rimasto solo sulla carta". Con questi presupposti, la Campania si prepara a voltare pagina. Si accinge a riscrivere una storia che rischia di essere stata già letta troppe volte.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
«Venti bambini scomparsi per un’ingiustizia di Stato». Lorena Morselli racconta la sua odissea durata 16 anni. Poi l’assoluzione «Mai più visti i miei figli ma non sono gli unici “rapiti” in quell’errore giudiziario» di Alberto Setti su “La Gazzetta di Modena”. «Ci sono venti bambini della Bassa modenese scomparsi nel nulla, “rapiti” a causa di un grossolano errore di Stato. Venti bambini che le loro famiglie non hanno più visto. Neppure il genitore di Massa che venne assolto fin da subito, senza tutto il calvario che abbiamo passato noi. Ecco, il mio pensiero oggi va a quei bambini, compresi i nostri figli. Bambini che, dopo tanto tempo, hanno quasi trent’anni...». A Salernes, nella Francia del Sud dove vive da quasi vent’anni con il quinto figlio Stefano, Lorena Morselli si sfoga così. Dopo l’assoluzione del 4 dicembre in Cassazione a Roma, ha preparato il suo Natale andando e venendo dalla sua Italia, dalla sua Massa Finalese. Viaggi per incontrare i parenti che le sono rimasti, gli avvocati, o anche solo per partecipare alle trasmissioni televisive che ora, dopo tanto tempo, ne raccontano l’incredibile, drammatica vicenda. Quella di una madre accusata prima di non essersi accorta che i primi quattro figli venivano rapiti dai parenti nella notte, nel palazzone dove vivevano, in pieno centro a Massa, per essere condotti nei cimiteri, a partecipare dei più incredibili abusi pedofilo-satanisti. Poi, a fronte delle rimostranze per quelle accuse strampalate, imputata di avere assistito inerme e collaborativa al marito che abusava sistematicamente di quei figli. Fantasie senza prove, cancellate dopo 16 anni da una giustizia talmente lenta e credulona da essere comunque ingiustizia. «Ora vivo e agirò perchè quello che è accaduto a me non accada mai più ad altri», dice con convinzione Lorena. Consapevole che purtroppo non sarà così, perchè esperienze identiche ne erano accadute prima nel mondo civile e anche dopo, in Italia. Esperienze che finiscono per rivelarsi un favore di Stato enorme ai pedofili, quelli veri. L’unica, inevitabile, azione possibile non sarà il pur necessario ristoro mediatico di questi giorni, ma una controffensiva nel campo stesso - quello giudiziario - che le ha sconvolto la vita, strappandole anche il marito Delfino, deceduto di crepacuore un anno fa proprio a Salernes dove si era recato a trovare moglie e figlio. Delfino, come molti alri in questa storiaccia, è stato vinto dal dolore di una battaglia interminabile, prima di saperla vinta. Così i legali di Lorena stanno preparando una azione di risarcimento. Imbarazzante per la giustizia, un’azione temuta e tenuta lontana con certi giri di parole che si colgono nelle prime sentenze che hanno fatto crollare il muro di quella vicenda incredibile. Non tutto il muro, va detto, perchè nel frattempo, nella maturazione di una consapevolezza, c’è chi una condanna - tanto indiziaria quanto definitiva - non è riuscito a schivarla. «Alla questione del risarcimento stanno lavorando gli avvocati, in questa fase preferisco non se ne parli. Ogni volta che abbiamo lottato per la verità qualcuno si è prodigato per impedirlo, screditandoci», dice Lorena, chiudendo il discorso sul maxi risarcimento. Perchè lei, la maestra dell’asilo parrocchiale, 55 anni oggi, su certe cose vorrebbe anche mettere la pietra della rassegnazione: «Qui in Francia, dove sono stata accolta benissimo e con sincerità, me la cavo facendo le pulizie. Non ho mai pensato di tornare in Italia ad insegnare, o di farlo qui. Il trauma è stato tale che pensare di accudire i bambini di altri genitori, sapendo come è facile trovarsi in un inferno, ti toglie ogni forza». Anche quella di tornare in Italia: «Per ora la mia vita è qui, a Salernes. Lo faccio per Stefano. Per salvarlo dai Servizi Sociali sono fuggita, e lui è cresciuto qui. Gli amici, la sua vita sono qui. E io mi adeguo, perchè la gente mi ha accolto con rispetto e dignità. Un domani, vedremo, ma dovrà essere lui a decidere...». A Massa Lorena tornerà anche il 28 dicembre: «Siamo stati invitati dal parroco, don J. Jacques, alla Messa di ringraziamento che sarà celebrata domenica alle 10.30. Spero ci sarà anche don Ettore, che ci è stato sempre vicino. A Finale associazioni di genitori hanno chiesto di indicare il modo per aiutarmi», aggiunge Lorena ringraziando. A Massa ci sarà anche per salutare sua mamma Lina, che ha 81 anni e in questa vicenda si è vista sconvolgere la vita: il marito morto Enzo di dolore, la nuora morta in carcere, il genero Delfino morto a Salernes dopo uno dei suoi tanti viaggi verso la Francia... Poi la tragedia dei nipoti scomparsi. «Dei sette nipoti che ha - chiosa Lorena - l’unico rimasto è Stefano. Mia madre, che non è mai stata indagata, gli altri sei non li ha mai potuti rivedere. I regali che gli faceva recapitare venivano rispediti indietro... C’è voluta e ci vuole solo la sua immensa fede, per resistere a tutto questo». Il pensiero va così a quel 12 novembre del 1998, più di sedici anni fa. L’ultima volta che Lorena e Delfino hanno visto i loro bimbi da genitori. «Alle 5.30 del mattino ci siamo trovati la polizia in casa. C’era l’ispettore Pagano che ci leggeva stralci dell’ordinanza del tribunale, senza che capissimo nulla. Ci ritrovammo in Commissariato a Mirandola, io ero nell’anticamera con i miei bambini, Delfino era salito con la psicologa Mambrini. Nella stanza con noi c’era anche la Donati, la giovane psicologa da cui è partito tutto questo... Facevano di tutto per provocarci, per accusarmi di essere una madre insensibile in quanto non volevo separarmi dai bambini. Li guardavo, quei bambini. Ero sconvolta, capivo che non li avrei mai più rivisti. Loro piangevano, sconvolti, così vinta da quelle provocazioni salii anch’io le scale. Mi trovai davanti Delfino che piangeva e Burgoni dell’Ausl che mi leggeva il decreto del tribunale, nel quale ci accusavano di non averli accuditi, consentendo che venissero prelevati di notte e portati nei cimiteri. Avevano creduto ai racconti della mia nipotina, allontanata a sua volta dalla famiglia, a sua volta sconvolta e confusa come sarebbero stati poi tutti i bambini di questa vicenda. Chiesi per l’ultima volta di vedere i miei figli, ma mi fu negato. Il resto lo sapete». Ma da madre Lorena si preoccupa ancora. «È stato un dramma anche per loro e per quello che sono stati indotti a dire e pensare. Oggi il più piccolo ha vent’anni, la più grande 27. So che non hanno di certo avuto una vita facile, so che qualcuno sta trovando un lavoro, ma che risultano ancora studenti, ciò che consente agli affidatari di ricevere gli indennizzi. Vorrei far loro sapere che la mamma è qui, innocente e che li pensa sempre. Come il loro fratello Stefano, che aspetta di conoscerli e di riconciliarsi».
Pedofilia, trappola infernale. Il “detective” Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise don Giorgio, scrive Cristina Giudici su "Il Foglio". Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.
UNIVERSITA’. IL MISTERO DELL’AULA C. OCCUPATA DA DECENNI.
Bologna, il mistero dell'Aula C occupata da un quarto di secolo, scrive Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. «L’Aula C puoi essere tu se non sei un poliziotto in divisa o un poliziotto in borghese. L’Aula C è impenitente, imperterrita, Mafalda e pure un po’ Johnny Rotten». Se ci avete capito qualcosa, questo recita il sito degli anarchici che da 25 anni occupano l’Aula C della Facoltà di Scienze Politiche - Università di Bologna, in strada Maggiore 45, proprio a ridosso del comando provinciale dei carabinieri in via dei Bersaglieri. Uno spazio prima in autogestione e poi occupato. Nato alla fine degli anni ’80, quando nell’Università e nella città praticamente non esistevano spazi di aggregazione per i giovani che diedero così vita ad una stagione di proteste ma presto tramontate. L’Aula è operativa dal 1989, un’esistenza ininterrotta e che ha visto affacciarsi generazioni di studenti con storie sempre più radicali. «Resistenti fino alla fine», c’è scritto in un angolo. I giovani la occupano e la rendono inaccessibile ad eventuali intrusi istituzionali. Si perché l’aula «sarebbe dell’Università ma in pratica non lo è», ci spiega un bibliotecario che vuole restare anonimo. «Ho paura. Abbiamo le chiavi, ma in pratica noi non possiamo entrare se non per emergenze e dentro succede di tutto. Non so se rendo l’idea», racconta. Le feste da sballo con fumo e narghilè o le cene collettive con danze fino all’alba sono la regola. «No foto, no turisti», c’è scritto all’ingresso delle stanze, uno spazio limitato ma che pullula di insegne pro «No Tav» e pro anarchia nel senso più antico del termine. A pochi metri ne campeggiano altre come «ci aggrada il degrado» o la più virulenta «si scrive giornalista si legge infame». Dietro la porta dell’Aula C si apre tutto un mondo che inneggia all’anarchico dell’Ottocento il regicida Gaetano Bresci. «Ogni tanto qualcuno ci dorme», ci spiega un altro custode della struttura. Non è atipico che al protrarsi delle feste notturne si trovi un nugolo di occupanti addormentati e che al mattino, tra bivacchi ed escrementi di ogni tipo armeggi con pentole da caserma e altri strumenti per cucinare. Sembra che fino a qualche tempo fa ci fosse addirittura un bombolone del gas, ma almeno quello è stato sfrattato. Fuori dall’aula sopravvive un cartello con la scritta “biblioteca dell’ammutinamento”. Le attività dell’aula non saranno passate inosservate ai carabinieri dirimpettai tanto che spesso i vicini di casa della Facoltà (la struttura è all’interno del centro storico ed è circondato da abitazioni), si recano proprio in quella caserma per presentare denunce di ogni genere. «Ma che non sortiscono alcun effetto», ci dice Claudio, abitante della strada adiacente. Oggi lo spazio è gestito da un gruppo di studenti iperanarchici, afferenti alla realtà di un vecchio collettivo bolognese chiamato “Fuori Luogo”. «Discuterci è impossibile», ci ripete il solito vicino di casa Claudio: «fanno quello che vogliono. Parlare di sgombero con l’Università è un tabù. Si girano dall’altra parte, tanto ci dobbiamo vivere noi mica loro. Dopo le lezioni tornano a casa a dormire», ci dice. E la strategia estremista fancazzista sembra pagare. Anche perché, di tutti gli spazi autogestiti o governati da gruppi studenteschi nell’Ateneo bolognese, l’unico rimasto in piedi è proprio L’Aula C di Scienze politiche. «Tutti gli altri o sono stati cacciati o sono stati chiusi con la forza», ci spiega il solito custode facendoci l’elenco di ogni esperienza che ha provato a dialogare. D’altronde Bologna ha una lunga esperienza in fatto di occupazione abusive. E l’amministrazione sembra tutt’altro che intenzionata a seguire la linea dura. Tanto che l’altro giorno in consiglio comunale è comparso un pupazzo identico a Merola, seduto su uno scranno e vestito in giacca e cravatta con indosso la fascia tricolore. «Non fare il fantoccio nelle mani degli estremisti, fai il sindaco!», chiedeva l’opposizione. Il caso si è scatenato perché il sindaco prima avrebbe promesso di sgomberare degli occupanti abusivi di uno stabile poi, ricevute da SEL le minacce di rottura della maggioranza che governa Bologna, ha cambiato strategia. Ha indetto un bando che è stato vinto da due associazioni di centro sinistra. Ma per terza si è classificata proprio un’associazione composta da una parte degli stessi occupanti.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.
Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”.
LA CELLA ZERO.
Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
L'UTOPICA UGUAGLIANZA TRA I DIVERSI E LA FENOMENOLOGIA MEDIATICA TRA ABORTO, OMOSESSUALITA', FEMMINICIDIO ED INFANTICIDIO.
Unione Europea, arriva la risoluzione per aborto e omosessuali. Un emendamento presentato a Strasburgo prevede "corsi nelle scuole per un'educazione sessuale pro gay, meno obiettori di coscienza , e procreazione assistita per le lesbiche", scrive di Ignazio Stagno su “Libero Quotidiano”. Corsi a scuola per l'educazione sessuale sugli omosessuali, meno obiettori di coscienza per gli aborti, e più figli per gay e single. L'Europa ci vuole così. II 21 e 22 ottobre al Parlamento europeo sarà votata una risoluzione che, in caso di approvazione, inviterà gli Stati membri a garantire a tutti aborto, contraccezione, fecondazione assistita, corsi obbligatori a scuola sull’identità di genere e contro la discriminazione delle persone omosessuali. La risoluzione, va detto non ha un effetto vincolante sugli stati membri ma resta comunque una linea guida per le politiche sociali da adottare.
Figli per gay e single - La risoluzione 2013/2040(INI), "riconosce che la salute e i diritti sessuali e riproduttivi costituiscono un elemento fondamentale della dignità umana di cui occorre tener conto nel contesto più ampio della discriminazione strutturale e delle disuguaglianze di genere" e invita gli Stati membri a tutelare la salute sessuale e riproduttiva". Con questi "consigli di Bruxelles" gli Stati membri dovranno "offrire scelte riproduttive e servizi per la fertilità in un quadro non discriminatorio e garantire l’accesso ai trattamenti per la fertilità e alla procreazione medica assistita anche per le donne senza un partner e le lesbiche".
Spot e aborto per tutti
- La risoluzione approfondisce anche l'accesso all'aborto che dovrà "essere
universale, (…) legale, sicuro e accessibile a tutti". Il testo è di fatto
contro gli obiettori di coscienza. La risoluzione afferma che "l’aborto è spesso
evitato o prorogato da
ostacoli che impediscono di accedere a
servizi adeguati, come l’ampio ricorso all’obiezione
di coscienza". Per questo "gli Stati
membri dovrebbero regolamentare e monitorare il ricorso all’obiezione di
coscienza nelle professioni chiave". Il documento manifesta anche
"preoccupazione per il fatto che il personale medico sia costretto a rifiutarsi
di prestare servizi per la salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti
negli ospedali e nelle cliniche di stampo religioso in tutta l’UE". L'aborto
dovrà pure essere sponsorizzato: "Gli Stati membri dovranno ricorrere a vari
metodi per raggiungere i giovani, quali campagne pubblicitarie, marketing
sociale per l’uso dei preservativi e altri metodi contraccettivi, e iniziative
quali linee verdi telefoniche confidenziali". Ma la vera rivoluzione arriva a
scuola.
Corsi sui gay a scuola
- Infatti secondo la risoluzione "dovranno essere obbligatori corsi di
educazione sessuale
nelle scuole che
includano la lotta contro gli stereotipi,
i pregiudizi, tutte le forme di violenza di genere e violenza contro le donne e
le ragazze, fare luce sulla discriminazione basata sul genere e
sull’orientamento sessuale, e denunciarla, e sulle barriere strutturali
all’uguaglianza sostanziale, in particolare all’uguaglianza
tra donne e uomini e tra ragazze e ragazzi, oltre che porre l’accento sul
rispetto reciproco e la responsabilità condivisa". Inoltre "l’educazione
sessuale deve includere la fornitura di informazioni non discriminatorie e la
comunicazione di un’opinione positiva riguardo alle persone LGBTI, così da
sostenere e tutelare efficacemente i diritti di giovani LGBTI". L'Europa di
fatto ci impone una maschera gayfriendly. Di Stato.
Pillola del prima possibile, scelta da donna “responsabile”. Per gli esperti è fondamentale assumerla il prima possibile adottando il farmaco più efficace. L’80% delle donne che l’ha utilizzata ha cambiato in positivo i propri comportamenti contraccettivi, scrive “Libero Quotidiano”. Ogni anno, quasi una donna su tre ha rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata, ma la contraccezione d’emergenza rimane sottoutilizzata. Quasi tre italiane su dieci tra i 16 e i 45 anni hanno avuto rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata. Malgrado ciò sono ancora tantissime le donne che non hanno valutato l’opportunità di ricorrere alla contraccezione d’emergenza. Anche perché sono spesso inconsapevoli dei rischi ai quali si sono esposte e continuano ad avere idee confuse. Inoltre circa il 45% pensa che la contraccezione di emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% ne ignora il meccanismo d’azione. Ma c’è anche chi crede possa causare infertilità o che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. Eppure per quasi sette donne su dieci, la contraccezione d‘emergenza è una scelta responsabile per evitare una gravidanza ancora non voluta, e la possibilità di disporre di questo farmaco è considerata come “un passo in avanti” per l’universo femminile. Sono questi alcuni dei principali risultati emersi dalla prima ricerca sulla contraccezione d’emergenza (CE), presentata a Venezia nell’ambito del 15th World Congress on Human Reproduction. L’indagine, svolta dall’istituto di ricerche BVA Healthcare per HRA Pharma su oltre 7mila donne in cinque paesi europei, in Italia ha messo sotto la lente 1.234 donne sessualmente attive, equamente distribuite sull’intero territorio nazionale.
I risultati italiani. Tutte le italiane
intervistate hanno dichiarato di non volere al momento figli, per questo il 78%
utilizzava già un metodo contraccettivo. Eppure circa il 30% delle donne si è
trovata comunque a dover gestire il rischio di una gravidanza non voluta. Le
cause? Principalmente perché in quella particolare occasione non stavano
utilizzando alcun metodo contraccettivo, oppure lo avevano sospeso
temporaneamente (il 45%). Ed anche perché il preservativo si era rotto o era
scivolato via (41%), e avevano dimenticato la “pillola contraccettiva”, il
cerotto o non avevano inserito l’anello vaginale (26%). Uno scenario di fronte
al quale le donne hanno reagito diversamente: ben l’80% non è ricorsa alla
contraccezione d’emergenza, sulla quale ha invece puntato appena il 20% (di
queste un terzo l’aveva già utilizzata in precedenza, e soltanto in un quinto
dei casi appena una volta).
Insomma, si assiste a un evidente sottoutilizzo di questo strumento
contraccettivo in un Paese in cui i numeri parlano di un 33% di gravidanze
indesiderate che nel 50% dei casi si traducono in un’interruzione volontaria di
gravidanza (Carbone - Rivista di ginecologia consultoriale 2009).
Donne tra sottostima dei rischi e incertezze. Secondo i dati rilevati dall’indagine, tra le donne regna una mancanza di consapevolezza dei rischi ai quali si espongono. A causa di un errore di valutazione, il 43% ha infatti ritenuto di non essere a rischio, così non ha utilizzato la CE. Ma gioca un ruolo importante anche l’incertezza su come ottenere la prescrizione o procurarsi il farmaco (per il 35%). Non solo, c’è anche chi è convinta che il farmaco non sarebbe stato più efficace dopo due giorni dal rapporto sessuale, e quindi ha abbandonato l’idea. Mentre, nel 27% dei casi ha giocato un ruolo determinante la paura di una futura infertilità o di utilizzare un metodo troppo aggressivo.
Le percezioni sbagliate. Esistono poi nella mente delle donne intervistate alcune idee errate. Quasi il 45% ritiene che la contraccezione d’emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% non ne conosce esattamente il meccanismo d’azione. Il 15% crede che possa anche causare infertilità, e il 16% che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. “Queste idee appartengono al passato – chiarisce la professoressa Rossella Nappi, ginecologa, endocrinologa e sessuologa all’Università di Pavia – ormai sappiamo esattamente come e quando funziona la contraccezione d’emergenza, non è altro che un ulteriore supporto contraccettivo. Un ultimo efficace baluardo prima di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Un aiuto non per donne distratte o irresponsabili, ma un completamento proprio per quante già usano la contraccezione consapevole, ormonale o di barriera, che in quel particolare momento ha fallito”.
La pillola del “prima possibile”. Ma accanto a quante ignorano rischi e meccanismi d’azione ci sono anche donne consapevoli che, nell’86% dei casi hanno fatto ricorso alla CE entro le 24 ore dal rapporto in quanto coscienti che la sua efficienza è maggiore se assunta rapidamente. “È confortante vedere che ci sono donne attente nel valutare l’efficienza di una metodica di prevenzione – aggiunge la professoressa Nappi – anche se rimane ancora molto da fare. Non dimentichiamo che la contraccezione d’emergenza serve per abbassare il potenziale di fertilizzazione del ciclo, spostando o bloccando del tutto l’ovulazione. Ed è chiaro quindi come la tempestività di assunzione giochi un ruolo chiave per assicurare la riuscita dell’intervento. Rispetto al passato abbiamo fatto passi in avanti. Grazie, infatti, a molecole più innovative come l’Ulipristal acetato, da circa un anno presente anche in Italia, è possibile ridurre, nelle prime 24 ore, di ben due terzi il rischio di gravidanza indesiderata rispetto alle vecchie formulazioni con Levonorgestrel. E con un atout in più: la sua capacità protettiva è doppia rispetto al Levonorgestrel nelle 72 ore dal rapporto a rischio. Bisognerebbe perciò iniziare a parlare di “pillola del prima possibile” e non di “pillola del giorno dopo”.
Donne più responsabili nella contraccezione. C’è poi un altro dato che emerge con evidenza: dopo l’utilizzo della contraccezione d’emergenza le donne sono diventate più responsabili. Tant’è che ben il 61% delle italiane ha iniziato a prestare maggiore attenzione all’assunzione o all’uso del proprio contraccettivo. Il 22% si è rivolta al proprio medico per approfondire l’argomento e il 18% ha cambiato metodo di contraccezione. Solo il 26% delle donne ha ritenuto di essere inciampata in un caso isolato e quindi non ha ripensato al proprio comportamento contraccettivo di base. La contraccezione di emergenza sembra dunque un’occasione di educazione alla salute sessuale quando viene prescritta con una adeguata informazione.
La CE, un passo in avanti per le donne. Nonostante il sottoutilizzo della CE, il 72% delle donne ritiene che questo metodo sia un vero passo in avanti per l’universo femminile. Quasi sette donne su dieci (il 69%), credono sia una scelta responsabile per evitare una gravidanza indesiderata e che debba essere considerata come un normale contraccettivo da usare dopo il rapporto sessuale non adeguatamente protetto (il 33%). L’81% è convinto che non ci si debba vergognare di utilizzarla e non debba essere considerato come un argomento tabù. Mentre il 53% delle donne pensa sia la dimostrazione di una mancanza di responsabilità nel modo in cui si gestiscono i propri sistemi contraccettivi.
Nove donne su dieci chiedono più informazioni. Di certo le italiane hanno fame di informazioni: ben il 90% vuole saperne di più. Per questo chiedono al proprio medico e al ginecologo un ruolo più attivo. Il 42% desidera essere informata sull’esistenza della contraccezione di emergenza: come funziona, dove e come assumerla quando necessario. E sempre il 42% vorrebbe ricevere una consulenza che le aiuti a trovare un metodo di contraccezione continua più adeguato. Il 40% desidera che il medico fornisca consigli su cosa fare nel caso in cui si dimenticasse il contraccettivo e sulle situazioni a rischio di gravidanze indesiderate. Il 30% che le assista dopo l’uso del contraccettivo di emergenza per essere rassicurate. Infine il 45% vorrebbe poter ottenere un appuntamento il giorno stesso per un consulto di emergenza. “Dall’indagine emerge che seppure sia ancora molto ridotto l’utilizzo della contraccezione d’emergenza – spiega la dottoressa Nicoletta Orthmann, dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) – le donne che invece l’hanno assunta comprendono pienamente l’importanza di questa opzione contraccettiva per la tutela della propria salute sessuale e riproduttiva. Dobbiamo tenere conto della loro richiesta di maggiori informazioni, che dovrebbe essere considerata come un’opportunità concreta per parlare di sessualità consapevole, di prevenzione contraccettiva stabile e di pianificazione familiare anche a quelle donne che non hanno fatto una scelta a riguardo. Nel nostro Paese purtroppo manca ancora un progetto organico e strutturato di educazione alla sessualità, alla salute riproduttiva e alla contraccezione”.
Accesso difficile per più di quattro donne su dieci. L’indagine ha infine indagato sulle esperienze vissute dalle donne nel richiedere la CE. Solo poco più della metà delle intervistate ha dichiarato di avere ottenuto il farmaco in modo tutto sommato semplice e in tempi brevi (57%) e appena il 41% ha ricevuto consigli. Mentre una su quattro ha ricevuto la prescrizioni senza alcuna informazione. E ancora, sempre una donna su quattro ha dichiarato di essersi sentita a disagio e persino giudicata o di aver subito una paternale (18%). “Di fronte a questi dati emerge la necessità – sottolinea Orthmann – e in questo senso è cruciale il ruolo del ginecologo quale interlocutore di riferimento, di favorire l’accesso alle donne a uno strumento di prevenzione che da un lato non le esponga a un’eventuale interruzione volontaria di gravidanza e dall’altro abbia il valore aggiunto di farle riflettere e prendere coscienza dei rischi nei quali possono incorrere”.
Abortisce da sola nei bagni dell'ospedale Pertini. I medici erano tutti obiettori di coscienza, scrive “Libero Quotidiano”. Valentina ha abortito nel bagno dell'ospedale Sandro Pertini di Roma tra atroci dolori senza che nessuno dei medici presenti nel reparto muovesse un dito per aiutarla. Il perché è presto detto: in servizio c'erano solo medici obiettori che mentre la giovane donna era piegata in due e vomitava per effetto dei farmaci per interrompere la gravidanza l'unica cosa che sono stati in grado di fare è stata quella di mostrare il Vangelo accusandola di infanticidio lei e suoi marito. Eppure l'aborto di Valentina non era frutto di un capriccio. Lei e il suo compagno Fabrizio avevano scoperto che la bimba che attendevano era affetta da una grave malattia genetica, di cui la madre era portatrice, per cui non c'è una prognosi di sopravvivenza, e ha deciso quindi di interrompere la gravidanza al quinto mese. Il racconto - "Mi sono rivolta la mio ginecologo", racconta la donna in una conferenza stampa organizzata dall'Associazione Cosioni, "il quale, tuttavia, si è rifiutato di farmi ricoverare perchè obiettore di coscienza. Due giorni dopo, sono riuscita a ottenere il ricovero all’ospedale Sandro Pertini. Qui, mi hanno indotto il parto (anche se viene definito aborto terapeutico, di fatto al quinto mese di gravidanza si tratta di un parto vero e proprio), ma il travaglio è durato molte ore e così, al momento del parto vero e proprio, il medico che mi aveva ricoverata (non obiettore di coscienza) non era più di turno e medici e infermieri presenti, tutti obiettori a quanto pare, non sono intervenuti, lasciandomi sola con mio marito che mi ha assistita mentre partorivo nel bagno della stanza. Troppo sconvolti da quello che era accaduto - ha concluso la donna - non abbiamo avuto neanche la forza di denunciare la struttura e gli operatori sanitari". "La legge 194", tuona il segretario dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, "prevede che in tutti i reparti di ostetricia e ginecologia ci siano medici obiettori e non, così da garantire la continuità del servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Dovrebbero essere le Regioni a vigilare sull'applicazione della legge ma i numeri dell’ultima relazione al Parlamento e la bocciatura dell’Italia, da parte del Consiglio d’Europa, per l’eccessivo numero di obiettori di coscienza presenti nelle nostre strutture, ci dicono che non è così". La bocciatura da parte del Consiglio d’Europa, ha ricordato Gallo, è dovuta al fatto che l’elevato numero di obiettori di coscienza rischia di mettere a repentaglio l’applicazione della legge con ripercussioni anche molto gravi.
Roma,"Io, abbandonata in bagno ad abortire". L'accusa di Valentina, affetta da una malattia genetica costretta a ricorrere all'interruzione di gravidanza al quinto mese. "In ospedale erano tutti obiettori". E la donna, complice il cambio turno resta sola, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "Io sognavo un figlio, un bambino che avesse qualche possibilità di una vita normale. Invece mi sono ritrovata ad abortire al quinto mese sola come un cane. Abbandonata in un bagno a partorire il feto morto, con il solo aiuto di mio marito Fabrizio. E tutto questo per colpa di una legge sulla fecondazione ingiusta, di medici obiettori, di uno Stato che non garantisce assistenza". Valentina Magnanti ha 28 anni, minuta e combattiva con un filo di voce racconta la sua storia. Fotografia di un'Italia condannata dall'Europa nei giorni scorsi per violazione della legge sull'aborto, dei diritti delle donne, proprio a causa dei troppi medici obiettori.
Cosa c'entra la legge 40?
"Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l'accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto".
Quando ha deciso di abortire?
"Ci avevamo tanto sperato in quei mesi che il piccolo fosse sano, ne avevamo già perso uno per gravidanza extrauterina. È stato un colpo, ma la malattia è terribile per cui con mio marito Fabrizio abbiamo deciso..."..
E qui comincia la serie dei medici obiettori.
"Scopro che la mia ginecologa lo è, si rifiuta di farmi ricoverare. Riesco dopo vari tentativi ad avere da una ginecologa del Sandro Pertini il foglio del ricovero, dopo due giorni, però, perché soltanto lei non è obiettore".
È il 27 ottobre 2010 quando entra in ospedale.
"Incominciano a farmi la terapia per indurre il parto, a base di candelette, mi dicono che non sentirò nulla. E invece..."
Cosa accade?
"É stato un inferno. Dopo 15 ore di dolori lancinanti, tra conati di vomito e momenti in cui svengo, con mio marito sempre accanto che non sa che fare, che chiama aiuto, che va da medici e infermieri dicendogli di assistermi, senza risultato, partorisco dentro il bagno dell'ospedale. Accanto a me c'è solo Fabrizio".
Medici e infermieri?
"Venivano per le flebo, ma nessuno li ha visti arrivare quando chiamavo aiuto. Nessuno ci ha assistito nel momento peggiore. Forse perché da quando sono entrata a quando ho partorito era cambiato il turno, c'erano solo medici obiettori".
È molto amareggiata.
"Già una arriva in ospedale disperata, perché in quel figlio ci hai creduto e sperato per cinque mesi, poi ti mettono ad abortire a fianco delle neo mamme e senti i bambini piangere, uno strazio. In più, mentre ero lì stravolta dal dolore entravano degli attivisti anti aborto con Vangeli in mano e voci minacciose".
Lei però non ha denunciato.
"Quando è finito tutto non avevo più la forza di fare nulla. L'avvocato parla di omissione di soccorso, io so solo che nessuno deve essere trattato così in un Paese civile. Il responsabile è lo Stato che non garantisce un servizio sanitario adeguato. Nel Lazio quasi tutti i ginecologi sono obiettori. Pensate la desolazione che troppi devono vivere, obbligati a implorare per un ricovero, per abortire, come me, un figlio desiderato".
Adesso il tribunale le dà ragione.
"Almeno sulla legge 40 sì. Mi sono rivolta all'associazione Coscioni e abbiamo fatto ricorso perché anche chi ha malattie genetiche possa accedere alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impanto, perché non ci si debba ritrovare ad abortire al quinto mese. E ora il tribunale, per la seconda volta in due mesi, ha sollevato dubbi di costituzionalità su questo punto della legge. Forse ora anch'io potrò diventare madre".
Aborto al Pertini, Zingaretti: "Verifiche in corso". Ma la Asl si difende: "La coppia fu assistita". La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perchè affetta da una grave malattia genetica trasmissibile ma al Sandro Pertini ha raccontato di essere stata lasciata sola a espellere il feto in un bagno dell'ospedale a causa dell'alto numero di medici obiettori. La Asl: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora e a noi risulta che è stata prontamente seguita", continua “La Repubblica”. "Una vicenda drammatica, su cui vanno avanti verifiche e indagini, anche se i fatti risalgono al 2010". Così il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha commentato la denuncia di una coppia che ha raccontato di essere stata lasciata sola durante un'interruzione volontaria di gravidanza all'ospedale Pertini di Roma a causa dell'alto numero di medici obiettori. Nel Lazio, va ricordato, il 93% dei ginecologi è obiettore di coscienza, su una media nazionale dell'85%. La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perché affetta da una grave malattia genetica trasmissibile. Ma ha raccontato che all' ospedale Sandro Pertini dove avrebbe dovuto sottoporsi all'intervento accompagnata dal marito, non ha trovato medici e infermieri pronti ad assisterla nei momento più delicato e per questo l'espulsione indotta del feto sarebbe avvenuta in solitudine in un bagno del nosocomio. Il marito chiamava i sanitari e questi rispondevano "veniano, veniamo", ma nessuno si presentava. L'Asl Roma B, dal quale dipende l'ospedale Sandro Pertini, ha diffuso però una sua versione dei fatti: "La signora - afferma l'Asl - fu seguita dal personale che ha l'obbligo dell'assistenza anche nel caso di obiezione di coscienza. Nel caso specifico due medici non obiettori che fanno parte dell'équipe istituzionalmente preposta all'Ivg". E, aggiunge la nota: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora Valentina e a noi risulta che è stata prontamente assistita ed avviata alla sala parto per il 'secondamento' (l'espulsione della placenta) e per le successive procedure previste nel post parto". Ma, secondo il racconto della coppia che comunque poi decise di non presentare una regolare denuncia, più volte nelle fasi più delicate avrebbero inutilmente chiesto assistenza. Intanto la Regione, ha affermato Zingaretti, "da due mesi" ha avviato dei "tavoli tecnici sui consultori, sul Progetto nascita e la tutela della 194, come grande opportunità di prevenzione e sostegno alla donna, che non sempre, come abbiamo visto, per colpa di tante disattenzioni, è a livelli civili nel Lazio". "Fra pochi giorni presenteremo - ha aggiunto Zingaretti - le linee guida uscite da questi tavoli per il rilancio della 194 della funzione preventiva e di presenza di consultori e vedere come affrontare questo tema, di effettiva garanzia dell'offerta di un servizio che come abbiamo visto non sempre è tale". A chi gli chiedeva se la Regione avrebbe attivato un'indagine sul caso, il governatore ha spiegato: "E' un fatto drammatico avvenuto alcuni anni fa ma siamo a lavoro e siamo pronti a proporre una via d'uscita, una soluzione a questo grave problema. Adesso la cosa più importante è evitare che questa condizione limiti in forma sostanziale l'applicazione della legge".
Le "quote rosa" e le altre...E dopo le donne ecco le prossime quote: età, tendenze sessuali, credo religioso, titolo di studio, etc etc. Tutto tranne la meritocrazia. Tutti pazzi per le quote rosa. Negli Stati Uniti non esistono ma in qualche modo esiste una forma di “discriminazione positiva”. A parità di merito, pubblico e privato devono favorire esponenti delle minoranze o delle fasce tradizionalmente emarginate: donne e neri (ma anche, per dire, indiani cioè nativi americani). Non è un principio liberale la quota, di genere o razziale. Tuttavia in America ha funzionato anche perché funziona (salvo eccezioni e sacche trascurabili) il principio del merito. La “discriminazione positiva” vale pure, volendo, in negativo: qualora fosse provata una discriminazione negativa, pubblico o privato ne pagherebbero le conseguenze (devastanti). L’amministrazione USA non fa sconti, chiude i ponti con chi discrimina. Bene, detto questo in Italia è tutt’altra musica. Tutt’altra cacofonia. Perché la quota di merito è minoritaria e marginale, e il sistema di reclutamento è un altro: la “cooptazione”. Clientelare, familistica, sessista, etc. etc. Quello delle quote rosa nelle liste per la Camera è un fenomeno a parte. Mentre negli Stati Uniti gli elettori possono realmente scegliere tra candidati, in Italia l’altra faccia della cooptazione è l’imposizione del candidato. Non c’è una piena libertà di scelta. Liste bloccate, listini, nomine dall’alto sono la norma. Le quote rosa sarebbero minate dal cancro della cooptazione-imposizione. L’introduzione delle quote rosa nei Cda è servita e ha prodotto risultati concreti, al di là della coerenza liberale del principio stesso. In Parlamento la storia è tutta un’altra: a che servono le quote, se la selezione continua a farsi non in base alle preferenze dei cittadini (corrispettivo del merito nelle assunzioni di lavoro), ma per imposizione (corrispettivo della cooptazione alias raccomandazione)? In conclusione, potrei anche esser d’accordo con le quote rosa nelle liste elettorali (l’alternanza rosa-celeste), proprio perché la composizione del Parlamento sarebbe pur sempre fatta a tavolino (nelle sedi dei partiti). Ma a una condizione, che si stabiliscano altre quote anti-discriminatorie: Quote per età (giovani-vecchi, sotto o sopra i 30). Quote gay (etero-omo-bisex). Quote etniche. Quote religiose. Quote per titoli di studio. Quote per colore dei capelli (o crinierati-calvi). Quote per tipo di contratto (partite IVA, dipendenti con sotto-quota a tempo deteterminato e non). Quote per titoli di studio. Quote Sud-Nord (e Centro). Quote per amanti del calcio (e no). Quote per statura fisica (alti-bassi, grassi-magri). Per vegetariani. Per dotati di Pc (e no). Quote città-campagna. Quote per censo. Per stato civile (sposati, single, poligami). Per nonni/e. Quote Panda (minoranze minime, ad es. amanti del teatro). Continuate voi la lista.
Femminicidi e infanticidi, indignarsi non basta. Il contatore dei delitti e delle violenze nell’ambito familiare corre sempre più velocemente. Ma non bastano cinque minuti di umana compassione e scaricare la colpa sulla società, dimenticando che siamo noi la società. E’ ora di educarci al rispetto, scrive Sergio Stimolo su “Giornale Metropolitano”. Ci insegnavano: “Una donna non si colpisce neanche con un fiore”. Un principio che veniva ripetuto ovunque, dalla famiglia alla scuola. Sui bambini non c’erano aforismi o proverbi. I figli, come recita quel bellissimo assunto napoletano “so’ piezz’e core” e quindi guai a toccarli. Fin qui la “facciata”. Ma la realtà all’interno delle pareti domestiche è sempre stata diversa: donne maltrattate, picchiate, violentate. E così anche per i bambini, spesso non solo violentemente picchiati ma anche violentati dai parenti più prossimi. Tutto, però, tenuto sotto traccia con un perbenismo di facciata e la paura, da parte delle vittime, di parlare, di denunciare. Negli ultimi anni, anche grazie allo sviluppo di Facebook, molti veli sono stati squarciati. Molte donne, soprattutto, leggendo e comunicando con altre donne, hanno scoperto l’autostima e quindi trovato la forza di reagire, di denunciare i soprusi di cui erano – sono – vittime. Ma, nonostante ciò, il contatore dei femminicidi e quello degli stupri continuano a correre. Sembra che non passi giorno senza che la cronaca nera ci fornisca l’ennesimo delitto di una donna. Di solito, i motivi sono passionali, cioè follemente e biecamente stupidi. E’ assurdo uccidere per amore. Però, da qualche anno, registriamo la crescita di un altro fenomeno spaventoso: l’infanticidio. Il primo caso che inorridì il mondo fu quello del piccolo Giuseppe Di Matteo strangolato e sciolto nell’acido dalla mafia che violava platealmente il comandamento morale che “i bambini non si toccano”. Da allora è stato un precipitare. Ricordate Cogne? E poi bimbi rapiti e ammazzati, bimbi misteriosamente scomparsi, fino ai tragici fatti degli ultimi mesi: genitori che uccidono i propri figli con le motivazioni più disparate. Di solito li sgozzano o li soffocano, altre volte si lanciano con loro nel vuoto. Ci impietosisce pensare agli agnellini sgozzati, vogliamo fermarci a pensare per un attimo anche a questi poveri bambini? Vogliamo pensare con stupore e livore a quel salvadoregno che, a Milano, ha ammazzato una donna (che lo aveva respinto) e il suo bambino davanti agli occhi del proprio figlio? E vogliamo pensare all’orrore di quelle tre bambine di 14, 11 e 4 anni, sgozzate ieri mattina dalla loro mamma a Lecco? C’è sempre chi parla di “tragedia della disperazione”. Crediamo che sia un alibi che tutti noi ci diamo per permetterci il lusso di inorridire, scrivere su FB o altro un commento indignato o di umana pietà, una civile reazione di qualche minuto e poi passare ad altro. Magari, partecipare alla rituale manifestazione serale con fiaccole alla mano e intanto chiedere alla moglie “stasera che c’è per cena?”. Purtroppo, non ci si può indignare a cronometro e non si può continuare a chiedere “ma cosa è diventata la società?”. La società siamo noi e la nostra cinica abitudine a qualsiasi tragedia non può che peggiorarla. Peggiorarci. Allora che fare? Educhiamoci al rispetto, prima di tutto in famiglia e a scuola. Usando un linguaggio attuale, facciamo diventare il rispetto “virale”. Inculchiamo nella mente di tutti, ossessivamente, che il rispetto dei familiari, del prossimo è “fichissimo”. Forse è solo una speranza, ma è un passo oltre l’indignazione.
Infanticidio. Se Dio chiude gli occhi…scrive Nino Spirlì su “Il Giornale”. Martedì 11 marzo 2014 – San Costantino – A casa, a Taurianova. Insonne. Seduto in giardino su una sedia di ferro, coperto solo da un plaid. Col Mac sulle gambe e una gran voglia di sigaretta che non ho. Non so, comunque, se la fumerei o se la masticherei per rabbia. Stanotte, sto litigando di nuovo col Cielo. Era tempo che non accadeva. Anzi, negli ultimi anni siamo andati d’amore e d’accordo, Dio ed io. Una specie di matrimonio. Io, abbondantemente immerso nella preghiera già dal risveglio mattutino e fino all’ultimo saluto della notte. Lui, dentro di me, a placare i tumulti e consolare le afflizioni. Sì, ho concesso a Dio di possedermi e governarmi. E, così, anche quando sembrava che stessi decidendo io, in realtà era Lui a dirigere le operazioni. Stanotte, no. Stanotte non sono Suo e Lui è fuori di me. L’ho allontanato per poterGli urlare la mia umana rabbia. Piccola, in confronto alle Sue, ma grande quanto un grido di dolore. Dunque, infinita. Eh, sì! Guardo il cielo semicoperto dalle nuvole e mi rendo conto che deve essere comodo stare lassù, dove non arrivano le grida dei bimbi ammazzati. Oltre quella coltre, dove tutto deve sicuramente essere sereno. Molto più sereno che su questo immondo pianeta Terra, sul quale, ogni giorno, l’infanzia viene violata, mortificata. Uccisa. Dalle foreste dell’Africa, dove i cuccioli di Uomo vestono l’uniforme e sparano col mitra, alle catapecchie dell’Asia, dove cuciono palloni e abiti firmati, o lavorano nelle cave, o nei bordelli, fino ad arrivare alle tane delle Americhe, dove impastano mattoni di fango, coltivano coca, rubano in strada o sniffano colla e mille veleni. E, poi, in casa nostra. Nella “civilissima Europa”, culla di ogni orrore digerito e reso volutamente trasparente davanti alla Legge. Qui, i bimbi vivono nelle fogne di Bucarest, nei lager chiamati orfanotrofi di mezza Europa dell’est, oppure patiscono le ansie, le paure, le perversioni e le violenze di ingordi capitalisti stressati dalla loro stessa ricchezza. Anche nel nostro Belpaese. Omertoso. Superficiale. O, peggio, complice. E, se la denuncia è costante, la condanna lo è molto meno. Ieri, erano gli educatori senza scrupoli. Oggi, l’ennesima madre assassina. Non è la sola. Anzi…E questo non giustifica, non attenua, non scolora. Non è il mezzo gaudio! Anzi. Rende più densa e forte la disperazione. Le da corpo. L’infanticidio e il maltrattamento dei bambini non sono solo reati, ma sono, insieme, IL peccato. L’unico vero peccato, mi dico. E la lacrima trova la strada. Faccio una pausa. Riprendo fiato e forza. Per denunciare l’ennesimo dramma. Una donna stanca, sfiduciata, sola, non trova la forza per lottare. Si abbandona alla paura. Ingoia il mostro e gli offre la propria carne. E “quella cosa” avviene. Pochi attimi di possessione demoniaca, durante i quali la Mente diventa una piazza vuota da invadere, occupare, dominare. Pochissimi istanti di buio divino. Di assenza di Dio. Poi, il risveglio. La coscienza. E l’irreparabile morte. Dove ha guardato Dio, in quegli attimi? Dove ha posato i suoi infiniti occhi? Non sul mondo. Non sull’Uomo. Non su tre bambine che, nel sonno, hanno pagato per colpe non loro. Per chissà quale pensiero malato, nato nella mente di chi avrebbe dovuto amarle e proteggerle dai pericoli esterni. Per la follia di una moglie abbandonata, di una donna ferita. La lunga scia di sangue innocente si fa strada fra le debolezze di certi adulti. Cresciuti male. Frettolosamente divenuti padri e madri. Disattenti ai doveri genitoriali. Superficiali, o, nel peggiore dei casi, menefreghisti. Da Gravina di Puglia a Cogne fino a Lecco, tanto per evitare l’elenco lungo, i piccoli restano vittime di assenze o furori. Dio chiude gli occhi troppo spesso, rivolto verso l’Italia. Ed è un peccato tutto Suo. Che non Gli perdono. Né stanotte, né mai. Poi, il pensiero vola ancora. A quella villa degli orrori dei pedofili belgi, ai bambini asiatici venduti ai perversi occidentali, ai niños da rua delle favelas, fatti bersaglio anche dalle pistole della polizia, ai piccoli già tossici dei tombini di Bucuresti…Dunque, non guarda proprio. Non su questa Terra. Comincio a pregare, ma mi fermo. No. Stanotte, con Te non ci parlo. Aspetto che Tu apra gli occhi e non li chiuda più. Fra me e me, sfidando il Cielo velato da troppe nubi.
Sono circa 500 i bambini uccisi dai genitori dal 1970 ad oggi, e diecimila quelli che a causa della violenza di chi li ha messi al mondo hanno subito gravi lesioni o danni permanenti: è quanto rende noto Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani (Ami), che cita uno studio dell’Università La Sapienza di Roma, commentando la notizia del massacro di Lecco dove una madre ha ucciso le sue tre figlie. «L’infanticidio – afferma Gassani – è un fenomeno ancora più agghiacciante del femminicidio. «Le statistiche si concentrano troppo sulle morti degli adulti e troppo poco della mattanza dei bambini ad opera dei loro genitori. Non è vero che quando la coppia scoppia, la violenza e la furia omicida si proiettino soltanto nei confronti del coniuge o del convivente. Molto spesso il bersaglio sono i figli, che vengono uccisi per vendetta da chi non regge lo sconforto di essere stato lasciato dal partner». «Si sono fatte le leggi per combattere il femminicidio e ora – sostiene Gassani – con altrettanto vigore bisogna studiare misure per prevenire la mattanza dei bambini durante le separazioni e i divorzi. Innanzitutto non è più possibile pensare che le coppie che arrivano in Tribunale non possano usufruire gratuitamente di percorsi di psicoterapia o mediazione familiare. Ostinarsi nel ritenere che una causa di separazione sia soltanto una questione giuridica è quanto mai irresponsabile, valutando il livello di odio che può scatenarsi in una coppia che si sta disgregando». Infine, la proposta dell’Ami: «prima di arrivare davanti al giudice, i coniugi dovrebbero seguire un percorso gratuito finalizzato alla elaborazione del lutto che la fine di un rapporto può determinare. Urge pertanto una riforma processuale del diritto di famiglia e soprattutto una campagna di sensibilizzazione affinchè si prenda coscienza del fatto che i diritti dei bambini hanno una priorità su tutti gli altri».
Medea, l'assassina dei suoi figli. La tragedia di Medea e la sua sindrome perversa rivive nella follia della donna albanese che pochi giorni fa ha uccise le sue tre figlie. Pero Montanari su “Globalist”. "Le mie figlie sono tutta la mia forza" scriveva sul suo profilo Facebook la madre assassina di Lecco solo pochi giorni fa, una didascalia tenera e agghiacciante sotto una foto che ritraeva le sue tre bellissime ragazze di 3, 10 e 13 anni. E invece Edlira Dobrushi da Durazzo ha preso un coltellaccio e le ha sgozzate, come se fosse la cosa più normale del mondo. Simona, Keisi e Sidny non hanno avuto scampo: due morte accoltellate nel sonno e la terza, la più grande, dopo aver resistito lottando. L'abbandono del marito, che aveva scelto di separarsi per un'altra donna deve aver fatto scattare in lei la terribile sindrome di Medea. Medea è una tragedia di Euripide che faceva parte di una tetralogia della quale rappresentava il capolavoro assoluto del grande drammaturgo greco. La storia è questa. Moglie di Giasone, lo aiuta a conquistare il vello d'oro, per poi trasferirsi a vivere a Corinto, insieme al marito e ai due figli, abbandonando così il padre per per seguirlo. Dopo alcuni anni però Giasone decide di ripudiare Medea per sposare la figlia di Creonte, re di Corinto e mirare al trono della città. Medea dapprima simula condiscendenza, ma poi attua il suo folle piano di vendetta e gli uccide i figli, privandolo così anche della discendenza regale. La tragedia di Medea e la sua sindrome perversa rivive nella follia della donna albanese, che ci ripropone questo dramma in chiave moderna duemilacinquecento anni dopo Euripide. La donna abbandonata che uccide i figli come ultimo gesto di una terribile vendetta nei confronti del loro padre. Una profonda depressione, la totale anestesia di sentimenti materni in un cortocircuito maledetto e il distacco dalla realtà in quell'incomprensibile gesto finale.
Da Wikipedia. Medea (dal greco: Μήδεια, Mèdeia) è una figura della mitologia greca, figlia di Eete, re della Colchide, e di Idia. Era inoltre nipote di Elio (secondo altre fonti di Apollo) e della maga Circe, e come quest'ultima era dotata di poteri magici. Invece secondo la variazione del mito (Diodoro Siculo), il sole, Elio, ebbe due figli, Perse e Eeta. Perse ebbe una figlia, Ecate, potentissima maga, che lo uccise e più tardi si congiunse con lo zio Eeta. Da questa unione sarebbero nati Circe, Medea ed Egialpo. Figlia di Eeta, re della Colchide, è uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa "astuzie, scaltrezze", infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini. Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro, capace di guarire le ferite, custodito da un feroce e terribile drago a conto di Eete, lei se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre, così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Iolco con il Vello d'Oro. Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del Vello: Medea allora sfrutta le proprie abilità magiche e con l'inganno si rende protagonista di nuove efferatezze per aiutare l'amato. Convince infatti le figlie di Pelia a somministrare al padre un "pharmakòn", dopo averlo fatto a pezzi e bollito, che lo avrebbe ringiovanito completamente: dimostra la validità della sua arte riportando un caprone alla condizione di agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con erbe magiche. Le figlie ingenue si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre, tra atroci sofferenze: Acasto, figlio di Pelia, pietosamente seppellisce quei poveri resti e bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposeranno. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, offrendo così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Vista l'indifferenza di Giasone di fronte alla sua disperazione, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morire fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo la tragedia di Euripide, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli (Mermero e Fere) avuti con lui. Fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole trainato da draghi alati, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio, Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all'ultimo istante Egeo riconosce suo figlio, e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eete. Ovidio tratta del mito di Medea in due distinte opere: le Heroides e le Metamorfosi. Nel primo testo è la donna a parlare cercando di commuovere il marito, ma il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia e il suo completamento è possibile al lettore solo attraverso la memoria letteraria. La Medea delle Metamorfosi è ben diversa: essa oscilla tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendo, almeno in parte, la giovane tormentata dai rimorsi di Apollonio Rodio, divisa tra il padre e Giasone. Medea si dilania tra incertezza, paura, commozione e compassione. La metamorfosi avviene in modo repentino ed è possibile rintracciarla attraverso il confronto tra la scena dell'incontro con Giasone nel bosco sacro e il ringiovanimento del padre dell'amato: se nel primo caso appare come un medico antico, nel secondo utilizza esplicitamente la parola "arte" (vv.171-179) mostrandosi come una vera strega. Anche Ovidio riprende la scena del carro, presente già in Euripide e successivamente in Seneca, ma se in questi due casi l'episodio è inserito alla fine del racconto, Ovidio lo colloca a metà della narrazione: in tal modo Medea perde le sue qualità umane e il mondo reale cede il posto a quello fantastico. All'inizio della "Metamorfosi", Medea è la protagonista assoluta, ma pian piano cessa di essere un'eroina in cui il lettore può identificarsi e diviene un personaggio che appare e sparisce come per magia. La tragicità del finale non è sfruttata al massimo: Medea è divenuta una vera strega e quindi non soffre dell'infanticidio commesso né potrebbe soffrire di un'ipotetica punizione. Nella parte introduttiva Draconzio afferma di voler fondere tutti i motivi tipici del mito di Medea; lo fa invocando la Musa Melpomene e la Musa Calliope. Medea e Giasone appaiono tutti mossi dal destino e dalla volontà degli dei, legati come sono agli scontri tra Venere e Diana. Infatti la dea della caccia sentendosi tradita per il matrimonio della sua sacerdotessa scaglia una maledizione contro di lei, da cui si snoderà la morte del marito e dei figli. All'inizio Medea è descritta come una "virgo cruenta", ma viene definita maga solo a verso 343. Caratteristica di questo racconto è che è la donna a rubare il vello d'oro donandolo poi a Giasone, che appare per tutta la narrazione una figura passiva. Anche quando entra in scena Glauce l'eroe è semplice oggetto del desiderio, che la giovane otterrà anche a costo di rompere il legame matrimoniale che lo vincola. Entrambe le donne trasgrediscono così le norme morali: da un lato Medea tradisce la dea Diana, dall'altro Glauce porta al tradimento Giasone. Durante le nozze l'attenzione si concentra sulla coppia mentre Medea prepara la vendetta: sarà lei a donare a Glauce la corona da cui prenderà fuoco l'intero palazzo. Ma il punto culminante della tragedia è il sacrificio che Medea offre a Diana: i suoi figli, così che l'infanticidio non è più condotto per vendetta, ma come richiesta di perdono. Nella scena finale l'autore riprende l'episodio del carro, ma questa volta il volo della donna ha valore semantico e non narrativo: Medea si riunisce a Diana e ritorna la "virgo cruenta" dell'inizio della narrazione, lasciando a terra tutto ciò che era ancora legato a Giasone.
Madri che uccidono i figli, i casi d'infanticidio degli ultimi anni. Oggi a Lecco una mamma albanese di 37 anni ha accoltellato a morte sue tre figlie di 3, 10 e 13 anni. Poi ha cercato di togliesri la vita. Interrogata dai pm ha confessato: "Ero disperata". L'ultimo episodio di una serie di omicidi che vedono coinvolti madri e figli, scrive “Il Giorno”.
Lecco, 9 marzo 2014 - Questa mattina, a Lecco una mamma albanese di 37 anni ha ucciso a coltellate le sue tre figlie di 3, 10 e 13 anni. Poi, ha cercato di togliersi la vita. Interrogata dal pm, prima di essere operata, ha confessato tutto: "Ero disperata". Alla base del gesto, quindi, potrebbe esserci una forte depressione dopo essere stata lasciata dal marito e problemi economici. Ma questo è solo l'ultimo episodio di una serie di omicidi che vedono coinvolti madri e figli. Ecco i casi d'infanticidio degli ultimi anni.
30 GENNAIO 2002 - Il piccolo Samuele Lorenzi viene massacrato nella villetta di Montroz a Cogne, in cui vive con la madre, il padre e il fratellino. I soccorritori, chiamati dalla donna, Annamaria Franzoni, lo trovano con gravissime ferite alla testa: il piccolo morirà poco dopo. La madre viene accusata dell’omicidio ma nega e, dopo un calvario giudiziario, viene riconosciuta colpevole con sentenza definitiva dalla Corte di Cassazione.
12 MAGGIO 2002 - A Madonna dei Monti, frazione di Santa Caterina Valfurva, in Valtellina, una donna di 31 anni, Loretta Z., uccide la figlia di 8 mesi mettendola nella lavatrice alla quale fa compiere un ciclo di lavaggio. A trovare il cadavere, nel cestello della lavatrice, è il padre della bambina.
3 GIUGNO 2003 - Una peruviana di 29 anni, Helga R., strangola e poi affoga in un water dell’ospedale di Desio, in provincia di Milano, la figlia di tre mesi, che era ricoverata per una caduta dalla carrozzina.
7 LUGLIO 2004 - A Vieste, in provincia di Foggia, Giuseppina D.B., 33 anni, casalinga, uccide i suoi due figli, una bambina di 5 anni e un maschietto di quasi 2, soffocandoli con del nastro adesivo. Poi si suicida nello stesso modo.
18 MAGGIO 2005 - A Casatenovo in provincia di Lecco, Maria Patrizio, 29 anni, racconta di essere stata aggredita in casa mentre faceva il bagno al figlio di 5 anni, scivolato nell’acqua e morto. La notizia poi si rivelerà falsa: a uccidere il piccolo è stata la donna, che poi, due settimane dopo, confessa.
17 MARZO 2005 - Una neonata di due mesi viene trovata uccisa con una coltellata nella casa della Romanina, a Roma, dove vive con i genitori: anche qui la madre, 23 anni, dopo averla uccisa tenta il suicidio.
8 SETTEMBRE 2005 - A Merano un bambino di quattro anni viene ucciso a coltellate dalla madre, Christine Rainer, 39 anni, che poi tenta il suicidio gettandosi da una finestra del secondo piano del commissariato di polizia. L’infanticidio avviene in un appartamento di una palazzina di case popolari in via Wolkenstein, nei pressi dell’ippodromo di Maia. Quando gli investigatori arrivano sul posto si trovano davanti una scena agghiacciante: il bambino giace in una pozza di sangue nella cucina dell’appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti della prima colazione con un panino con la marmellata appena iniziato.
20 LUGLIO 2009 - A Parabiago, in provincia di Milano, un’altra mamma uccide il figlio di 4 anni, strangolandolo con un cavo elettrico. La donna, 36 anni, soffriva di depressione ed era in cura in un centro psicosociale della zona. A trovare il piccolo, agonizzante, sono la madre e la sorella della donna, che erano andate a trovarla perchè non rispondeva al telefono. La mamma viene trovata accanto al bimbo, in stato di choc.
26 AGOSTO 2009 - Appena un mese prima, il 26 agosto a Genova, una madre di 35 anni uccide il proprio bambino di appena 19 giorni, strangolandolo nel lettino con il cavetto di alimentazione del cellulare. Poi si suicida. La donna viveva da sola con il figlio e soffriva di depressione post-partum, condizione probabilmente aggravata dalla mancanza di lavoro e dall’assenza del padre del bimbo.
24 SETTEMBRE 2009 - A Castenaso, alle porte di Bologna, una madre di 36 anni, Erika M., uccide, accoltellandoli, i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di cinque. Poi si suicida gettandosi dalla terrazza della sua abitazione, al secondo piano di una palazzina di via Mazzini a Castenaso. I carabinieri trovano i corpi dei due piccoli sul letto matrimoniale. La donna soffriva di depressione per una separazione in vista dal marito.
19 FEBBRAIO 2010 - La tragedia si consuma in una casa di Ceggia, in provincia di Venezia: Tiziana Bragato 47 anni, uccide il figlio, un bimbo di appena sei anni, soffocandolo nel suo letto. Poi si uccide, impiccandosi. A scoprire i corpi è il marito, un 51enne.
22 OTTOBRE 2011 - A Grosseto viene arrestata la mamma di un bambino di 16 mesi morto annegato durante una gita in pedalò nelle acque della Feniglia. L’accusa è che sia stata proprio lei ad annegarlo.
25 OTTOBRE 2013 - Ad Abbadia Lariana, in provincia di Lecco, una donna uccide il figlio di tre anni. La donna , una 25 enne originaria della Costa d’Avorio, uccide il primo dei suoi due figli, Nicolò, infierendo più volte sul corpo del piccolo.
6 MARZO 2013 - Viene sottoposta a fermo Daniela Falcone, la 43enne di Rovito che ha ucciso il figlio Carmine di 11 anni con un paio di forbici. La donna aveva prelevato il figlio nella mattinata di sabato 1 marzo dalla scuola e lo aveva portato in una zona di montagna tra Cosenza e Paola uccidendolo con delle forbici. Successivamente ha tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita. I poliziotti del commissariato di Paola e della squadra mobile hanno rinvenuto nella mattinata di lunedì 3 marzo madre e figlio in auto, e la donna è stata trasportata in ospedale.
21 APRILE 2013 - Alessia Olimpo, dentista di 36 anni, e la figlia sono state trovate senza vita nella camera da letto della piccola: a trovarle il marito. Un omicidio-suicidio: prima la donna ha accoltellato la figlia e poi si è tolta la vita, tagliandosi la gola.
Femminicidio: un’emergenza inesistente per nascondere le emergenze reali, scrive “La Crepa nel Muro”. Il dibattito, nelle ultime settimane, si concentra sull’istituzione del reato di femminicidio, per il quale, tra gli altri, si batte in prima linea la presidente della Camera, Laura Boldrini. Un reato specifico che punisca la violenza contro le donne. Anche parte della stampa e dei media porta avanti la campagna. I dati, però, sono in netta contrapposizione con quelli ufficiali diffusi dall’Istat e dal ministero dell’Interno. Secondo l’Istituto di Statistica la violenza che sfocia nell’omicidio di una donna, negli ultimi vent’anni, è in calo. Nel 1992 le vittime erano state 186, nel 2010 (ultimo anno disponibile) 131, per un calo del 29,57 per cento. La provocazione - E’ un altro, invece, il fenomeno in sensibile aumento: l’infanticidio, nella gran parte dei casi commesso dai genitori sui propri figli. Gli ultimi eclatanti casi: quello del padre che ha sparato e ucciso al figlio a Palermo, e la donna che ha lanciato i due figli dal balcone, a Busto Arsizio (i due piccoli sono gravissimi). I dati sull’infanticidio sono quelli diffusi dal Rapporto Eurispes Italia 2011: gli ultimi numeri disponibili sono relativi al 2010, quando è stato compiuto un infanticidio ogni 20 giorni. L’anno precedente la cadenza era di uno ogni 33 giorni, nel 2008 uno di 91 giorni. In numeri assoluti i casi sono stati 4 nel 2008, 11 nel 2009 e 20 nel 2010, e il trend è in costante aumento: complice la crisi e un quadro sempre più difficile, cresce il numero delle madri che compiono il folle e disperato gesto. Ed è qui che avanziamo la provocazione: perché al posto del reato di femminicidio non si introduce quello di figlicidio? ...liberoquotidiano.it (18.05.2013). Anche qui, uno dei nostri si è occupato di smentire il farsesco e tragicomico allarme “femminicidio” mesi fa – noi arriviamo sempre prima, dettiamo i tempi – e potrete trovare dati e numeri nonché riflessioni nei suoi articoli in basso. Vorrei fare però un ragionamento. Questa intelligente provocazione di Libero è tale e come tale va presa. Infatti né il cosiddetto “femminicidio” né l’assassinio di neonati da parte della madre sono eliminabili attraverso aumento delle pene. Una madre che uccide il proprio bambino non sta certo a ragionare sulla pena che ne seguirà, è semplicemente “malata”. Per lei la pena peggiore, sempre che torni mentalmente consapevole, sarà quello che ha fatto. Nessuna pena potrà aggiungere altro peso. L’analisi di Libero è anche sbagliata dal punto numerico: partendo da numeri minuscoli – 4 omicidi l’anno – basta molto poco per avere una triste impennata, e statisticamente non è sensato trarne conclusioni, tantomeno legate con la “crisi”, a meno di non separare gli “omicidi-suicidi” che possono avere svariate motivazioni, dall’infanticidio “puro” che non può avere altri fattori se non la follia. Esempio: una madre o un padre possono uccidere se stessi e il figlio sentendosi disperati, non uccidere il figlio per questo sopravvivendo loro. Sono due cose con motivazioni diverse. E anche il “femminicidio”, se per questo intendiamo gli omicidi passionali, è qualcosa che può essere limitato da pene detentive maggiori. Chi uccide “per amore”, è anche lui “fuori di sé” e in preda a demoni che di certo, non scompaiono per la minaccia penale. Anche qui, dal punto di vista sociale, “l’omicidio passionale” e quello da estranei hanno implicazioni e cause profondamente differenti. Se il primo è, come detto, qualcosa che capiterà sempre finché esisterà l’uomo, il secondo può essere limitato. Considerando quindi l’infanticidio “puro” e il “femminicidio” come omicidio passionale, siamo in presenza di avvenimenti connaturati all’esistenza dell’uomo. Sono “ineliminabili”, perché sono “naturali”, nel senso che sono parte dell’animo oscuro dell’uomo o causati da patologie psichiatriche spesso impossibili da essere previste. Sono reati non “eliminabili”, come non lo sono l’amore e la sofferenza. Non puoi sapere quando una mamma “impazzisce” e uccide il proprio figlio, puoi invece evitare che un clandestino con piccone giri per Milano la mattina presto. Quindi. Concentriamoci sui reati che possiamo “limitare” attraverso la prevenzione. Ad esempio rimpatriando i clandestini quando vengono arrestati. O evitando che orde di immigrati con lo stupro nel sangue entrino nel nostro paese. Tutto il resto è triste propaganda buona per rintuzzare carriere di politicanti al tramonto. I numeri poi ci dicono che le emergenze sono altre. E che queste emergenze sono facilmente limitabili al minimo. Abbiamo circa 3mila stupri in un anno commessi da immigrati – numeri in costante e vertiginoso aumento – a fronte di poco più di 100 cosiddetti “femminicidi”: un rapporto di 30 a 1, di un reato che sarebbe eliminabile semplicemente bloccando l’immigrazione. Ma siccome “non si deve dire”, meglio perdere tempo con fenomeni incomprimibili sempre presenti nella storia dell’Uomo, coniando termini ridicoli per emergenze inesistenti, all’unico scopo distogliere l’attenzione da emergenze e problemi reali. In tutto questo è impegnato il sistema dei media di distrazione di massa, e siccome è una campagna che vede tutti i media in perfetto schieramento, qualcuno ha dato l’input. E’ infatti una regola mediatica che non potendo soffocare a lungo una notizia, il metodo migliore per nasconderla è “superarla” con un’altra. Fittizia e creata ad arte.
PARITA’ DI SESSI E FEMMINICIDIO. SLOGAN O SPECULAZIONE?
Il femminicidio? Un business fondato su una “emergenza” che tale non è. Parola di donna, scrive “Tempi”. La giornalista Annalisa Chirico, esperta di giustizia, conferma: la legge e il «fiorente mercato» nati intorno a questa parola d’ordine sono frutto di «un’autentica ossessione». Smentita dai dati del ministero dell’Interno. La giornalista Annalisa Chirico, militante radicale e autrice di libri sulla (mala)giustizia, riprende in esame in un articolo apparso nel nuovo numero di Panorama il «cancan politico-mediatico» cominciato qualche mese fa sul femminicidio. «Intorno a questa “emergenza” – ricorda – è divampata una martellante campagna mediatica, alla quale si è uniformata quasi tutta l’informazione», campagna che si è poi concretizzata in una legge dello Stato (seguita al frettoloso intervento del governo Letta avvenuto «in piena estate con decretazione d’urgenza») e soprattutto in «un fiorente mercato fatto di giornali, libri, spettacoli teatrali». Non si contano più gli eventi organizzati sul tema: «Accorati appelli, flash mob di scarpe e foulard rossi per “rompere il silenzio” contro la violenza di genere». Ovvio che apparentemente nessuno avesse nulla da obiettare all’operazione. «Del resto come si può essere a favore della violenza?», domanda retoricamente Chirico. Tuttavia, prosegue la cronista, basta osservare i numeri in maniera obiettiva «per rendersi conto che la presunta emergenza si è trasformata, appunto, in un’autentica ossessione». Ma «l’Italia non è un paese di maschi stupratori e assassini» e sono proprio i dati del ministero dell’Interno a dimostrarlo. Elenca Chirico: «Dai dati ufficiali apprendiamo che dal 2007 a oggi non c’è stata alcuna escalation né impennata, termini ampiamente abusati da politici e giornalisti. Nel 2007 i casi di “female assassination” sono stati 103, il picco si è raggiunto nel 2009 con 130 episodi; se ne sono registrati 115 nel 2010, 124 nel 2011, 111 nel 2012 e 115 nel 2013». È chiaro perciò che «le dimensioni del fenomeno su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti non lasciano prefigurare alcuna apocalisse», osserva la giornalista di Panorama. Anzi, «gli omicidi sono calati e nel 2013 hanno fatto registrare il tasso più basso degli ultimi 150 anni. Lo scorso anno si sono consumati 470 omicidi volontari e la quota totale di donne ammazzate, di cui i femminicidi sono un sottoinsieme, rappresenta poco più del 30 per cento. I maschi continuano a essere ammazzati assai più delle femmine, il rapporto è di sette a tre». Se ne faranno una ragione le «teologhe dell’apocalisse»?
Il Femminicidio è uno slogan? Si chiede Mario De Maglie su “Il Fatto Quotidiano”. Ho già avuto modo di esprimere alcune riflessioni sull’utilizzo del termine femminicidio nei post L’insostenibilie leggerezza del rapporto tra media e femminicidio e in “Femminicidio, la sostenibile pesantezza del termine. L’esistenza di donne vittime di uomini, in quanto donne, è una realtà, un fenomeno che però può assumere proporzioni e significati diversi, a seconda del luogo in cui lo si analizza (Ciudad Juarez, città messicana dove l’uccisione e la scomparsa di donne è all’ordine del giorno, ad esempio, non è l’Italia). Personalmente utilizzo con molta cautela questa espressione, oggi ancor più di ieri. Il termine ‘femminicidio’ richiama quello di ‘genocidio’, termine coniato dal giurista polacco Raphael Lemkin per definire la distruzione di un gruppo nazionale o etnico. Veniva creata una parola per racchiudere gli orrori di due delle più grandi stragi della storia recente ossia l’Olocausto e il genocidio armeno. Genocidio significa quindi negazione del diritto di un popolo o di un determinato gruppo umano a continuare a vivere. Una negazione da cui segue la repressione e l’uccisione. Il femminicidio non ha alla base il presupposto di una deliberata e chiara intenzione di eliminare il sesso femminile, sebbene innegabili siano i danni di una cultura maschilista e patriarcale e, in certi contesti, la violenza esercitata dagli uomini sulle donne abbia assunto forme aberranti. Parlando della nostra realtà attuale, in Italia, non possiamo pensare che la quantità di vittime donne sia irrilevante per poter arrivare alla definizione più conosciuta del termine. Nulla si deve togliere all’atto in sé, uccidere un essere umano, in questo caso una donna, deve ricevere una condanna unanime in una società civile, non è questo in discussione. Una disamina sul termine “femminicidio” può essere anche interessante, ma a cosa serve in termini di prevenzione e contrasto al fenomeno? Sono convinto sia più utile, in questo momento storico, osservare l’uso del termine e trarne delle serie perplessità. Il numero di donne uccise negli ultimi anni non è variato in modo sostanziale rispetto al passato, ma tutto questo sgomento e scandalo è sorto solo recentemente. A fare la differenza è l’attenzione dei media e delle campagne pubblicitarie, il cui interesse, troppo spesso, è volto a giocare con l’emotività delle persone annullandone la lucidità. Cos’è questo femminicidio o cosa sta diventando se non uno slogan o un marchio in piena concordanza con il modello consumistico? E’ un prodotto da vendere e come tale viene trattato, ad esempio con la produzione e la diffusione di magliette con scritte come “Fermiamo il femminicidio” o altri slogan simili. Chi gira con la sua bella maglietta, con il suo bello slogan, con il suo bel gadget poi può tornare a casa certo di aver dato il suo contributo contro la violenza. Chi mai direbbe esplicitamente di essere a favore del maltrattamento e dell’uccisione delle donne? Sentiamo il bisogno di esplicitare scrivendolo quanto siamo diversi dai cattivi. Noi siamo i buoni: si deve sapere e chi ci sta intorno lo deve riconoscere. L’uccisione di una donna esce inevitabilmente fuori dalle mura domestiche e quindi viene scoperta con molta più facilità, mentre la violenza sulle donne è troppo spesso condannata a rimanere intrappolata in quelle stesse mura e quindi a rimanervi nascosta. Un problema serio, drammatico e antico che riguarda i rapporti tra uomini e donne sta diventando, se non lo è già diventato, un prodotto a uso e consumo del modello capitalistico imperante. In questo modo, togliamo la dignità a tutte le donne che hanno subito e stanno subendo violenze e anche a quelle che sono state uccise. Anzi, rinnoviamo sui di loro la violenza, le uccidiamo di nuovo, se tutto si riduce allo slogan. Non ci sono motti, con o senza sorrisi, che possano rendere l’idea della violenza subita da una donna, da un uomo, o da un qualsiasi essere umano. E non ci sono slogan che possano far sentire sulla propria pelle la tragedia vissuta da un’altra persona. Inoltre, tra le conseguenze dell’uso indiscriminato del termine “femminicidio”, vedo uomini che si allontanano ogni volta che sentono parlare del fenomeno identificandolo, in toto, con la violenza sulle donne. Questo fornisce loro la scusa pronta per non mettere in discussione le disparità di potere quotidiane che possono avvenire ed essere legate al genere. Questi uomini rifiutano di essere identificati con i “violenti” o “maltrattanti” che i mass media continuano a definire “da curare” e “da guarire”, illudendo chi ascolta di non essere responsabili dei comportamenti e del loro cambiamento. Occuparsi di femminicidio è ormai una moda, ognuno vuol dire la sua e spesso basta troppo poco perché possa farlo, nel migliore dei casi con buone intenzioni, ma tanta ingenuità, nel peggiore con l’obiettivo di avere una visibilità che altrimenti non si avrebbe. Che la si voglia criticare o meno, non sono questi i motivi per cui questa parola è nata.
Femminicidio? Ma se la vittima è un nonno nessuno ci bada. Mi indigna il clamore suscitato negli ultimi tempi dai cosiddetti femminicidi. Ma chiunque subisca violenza è meritevole di pietà e di protezione, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Premessa per placare le probabili ire dei sacerdoti del politicamente corretto. Stimo le donne quanto gli uomini, se a mio giudizio meritano. Talvolta mi è capitato di amare una signora, ma non ho mai amato un signore (e so che questo mi mette subito in cattiva luce: è un tributo che pago volentieri alla sincerità). Ciò detto, mi indigna il clamore suscitato negli ultimi tempi dai cosiddetti femminicidi. Leggendo i giornali che se ne occupano, come fosse un fenomeno sociale devastante, si ha l'impressione che gli italiani siano dediti per orrenda vocazione allo sterminio organizzato di mogli, fidanzate, amanti fisse e avventizie. Impressione che diventa certezza dopo aver seguito, tra uno sbadiglio e un altro, i talk show dedicati al tema. Tutti ci lasciamo influenzare dai media, e dalle loro campagne, cosicché formiamo le nostre opinioni non tanto osservando la realtà, bensì bevendo la descrizione che ne fanno - pur ignorandola - i giornalisti, compreso me. Si dà il caso che nell'anno in corso, 2013, siano fin qui state uccise 128 donne. Il dato non lo fornisco io, ma lo ricopio da la Repubblica, il quotidiano considerato la continuazione del Vangelo secondo Eugenio, ultimamente impegnato a colloquiare con Papa Bergoglio, avendo cessato di farlo direttamente con Dio, in cui non crede ma al quale dà del tu come se fosse suo cognato. Allora, 128 donne massacrate sono in assoluto troppe, ma relativamente ai 60 milioni di cittadini italiani, statisticamente parlando, sono pochissime. Non costituiscono motivo di allarme. Per andare giù piatti, se questi sono i numeri delle femmine vittime dei maschi, siamo nella media continentale. In effetti l'Europa non ci ha ancora multati perché accoppiamo più donne di quanto previsto da Bruxelles, notoriamente severa con noi. Va da sé che siamo contrari alla violenza, ma lo siamo sia che essa venga esercitata su quello che in altra epoca era definito sesso debole, sia che venga esercitata sugli uomini, sui vecchi e sui bambini. Chiunque la subisca è meritevole di pietà e di protezione. Di norma i prepotenti si accaniscono sugli esseri più deboli. E ad essere deboli non sono soltanto le ragazze e le ex ragazze. Tanto per fare un esempio, segnaliamo che, in pratica ogni dì, leggiamo cronache da brivido che narrano di pensionati rapinati in casa, malmenati, spesso ammazzati con raccapricciante crudeltà. Che dire poi degli anziani ricoverati negli ospizi (molti dei quali al centro di inchieste giudiziarie) i quali sono picchiati se non addirittura seviziati da infermieri privi di scrupoli? Non possiamo sorvolare sui bambini. Quanti sono quelli che nelle famiglie vengono maltrattati all'insaputa delle competenti autorità? Alcuni giorni fa un uomo ha impiccato due figli piccoli, poi si è tolto la vita, senza che nessun giornale iperdemocratico e progressista si sia stracciato le vesti. Episodi del genere sono all'ordine del giorno. Ma chi ci bada? È la moda, bellezza. Adesso è in auge il femminicidio. E giù paginate per dire che gli uomini odiano le donne. Se invece il nonno (o la nonna) crepa per le percosse della badante (magari extracomunitaria) chissenefrega. C'est la vie. Una breve a pagina 18 e via andare.
Facci: il "femminicidio è moda. C'è già chi ci vuole far soldi. In Paesi in cui la parità dei sessi è acquisita muoiono più donne che qui, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Quando le pazze del «femminicidio» scopriranno la verità, un giorno, questa moda - perché è una moda - sarà passata da un pezzo e il risveglio sarà amarissimo. Perché scopriranno, paradossalmente, che più questo Paese diverrà «civile» e più aumenteranno gli omicidi di donne: non il contrario. Capiranno, quel giorno, perché certi paesi evoluti come l’Austria e la Finlandia - ne citiamo due in cui la parità uomo-donna è palesemente superiore - hanno tassi di «femminicidio» tre volte superiori ai nostri. Comprenderanno, cioè, la verità innominabile: che più un paese è evoluto - e più la parità è pienamente raggiunta - e più gli omicidi tra uomini e donne tenderanno a equivalersi: non il contrario. Anche perché c’è un dato che forse non è chiaro a tutti: in Italia si uccidono meno donne rispetto a tutto l’Occidente, per cui inventarsi improvvisamente che il femminicidio sia una «vera emergenza sociale» suona quantomeno come falso. I dati sono i dati: Istat, Onu e ministero dell’Interno dicono che il femminicidio è in calo, dunque parlare di «escalation», come fa anche la presidente della Camera Laura Boldrini, è sbagliato e punto. Quello che i dati non dicono, ma che sappiamo, è che l’Italia non brilla per emancipazione femminile: col risultato che le donne le ammazzano di meno anche per questo, perché contano meno, sicché, se le ammazzano, quando le ammazzano, spesso lo fanno specificamente perché sono donne, rapprese cioè in una visione femminile arcaica. Possiamo farci qualcosa? Possiamo o dobbiamo fare delle campagne di sensibilizzazione eccetera? Ma certo che possiamo e dobbiamo, anzi, siano benemerite. Va bene la legge sullo stalking del 2009, vanno bene le giornate contro la violenza sulle donne (se proprio piacciono) e va bene tutto, anche abolire Miss Italia, anche tuonare contro certi spot molto «latini» in cui emancipazione significa che le casalinghe lavano i pavimenti coi tacchi a spillo. Vanno bene persino le sette-pagine-sette che Repubblica ha dedicato all’argomento, ieri. Purché sia chiaro che, per una volta, il problema è davvero un altro, è davvero più complesso, e che la soluzione del problema femminicidio - termine che resta fuorviante - sarà sempre vagone e non locomotiva, sarà sempre a strascico di un’evoluzione complessiva della società, sarà sempre la declinazione di una disparità tra generi che in Italia persiste più che altrove: è impensabile, dunque, trasformarla in una battaglia separata, che viaggi per conto suo, soprattutto ridondante autentiche e pericolose sciocchezze. Ci vuole lavoro ma anche tempo. Ieri, in un’intervista alla Stampa, Laura Boldrini ha detto che alcuni spot sono irreali: «In quale famiglie l’uomo torna a casa, si butta sul divano e aspetta di essere servito a tavola?». In moltissime, dottoressa Boldrini. «Perché usare il corpo di una donna», si è chiesta ancora, «per promuovere computer o mobili?». Perché funzionano, dottoressa Boldrini: il marketing pubblicitario soppesa le proprie campagne con attenzione maniacale, e smetteranno di farle quando non funzioneranno più, e non funzioneranno più quando il Paese sarà definitivamente cambiato: ci stiamo lavorando, ci sta lavorando anche lei, ma non accade dall’oggi al domani. Quello che non deve accadere mai, piuttosto, è che il «femminicidio» possa diventare un’aggravante dell’omicidio: c’è chi lo chiede. Altri hanno invocato che divenisse addirittura un reato a parte, introducendo una discriminazione di genere che peraltro è contro la Costituzione. Ieri Repubblica diceva che «i femminicidi costano 17 miliardi all’anno alla comunità»: ma che vuol dire? E gli altri omicidi? Lunedì c’è questa giornata contro la violenza, sarà per questo, ma i giornali di questi giorni sono scatenati. Un’associazione veronese si è costituita parte civile nel processo per l’omicidio di una donna, Lucia Bellucci: «Ogni femminicidio», hanno dichiarato, «non è fatto privato, ma fatto politico che offende non solo il diritto ad esistere della singola donna, ma di tutte le donne». Traduzione: ci sono delle donne che vogliono dei soldi perché hanno ucciso un’altra donna, anche se manco la conoscevano. L’omicidio di un uomo è meno grave, perché non è politico. Gli uomini ammazzati sono più del doppio delle donne (il rapporto è 7 a 3) ma almeno sono emancipati. Battutine inutili? Mica tanto, perché la legge sul femminicidio, appena approvata, non fa ridere per niente, e - approvata in fretta e furia, forse per ansia mediatica - contiene delle norme e delle aggravanti che paiono perlomeno discutibili. Discutibilissima, per esempio, è l’irrevocabilità delle denunce: una volta fatte non si può più tornare indietro, quindi addio mediazioni, ripensamenti e possibili ravvedimenti; e conoscendo i livelli di conflittualità a cui può arrivare una coppia - laddove ad accuse vere se ne mischiano spesso di false, tanto per fare mucchio - il rischio di ingiustizie oggettivamente c’è. Così come un altro rischio, da Stato di Polizia, è quello per cui le forze dell’ordine possano disporre l’allontanamento dalla famiglia di un uomo (la legge parla solo di uomini) anche senza il vaglio di un giudice. Poi il decreto prevede due aggravanti in caso di violenza sessuale, una delle quali è «l’essere legato da relazione affettiva» con la donna aggredita: per esempio esserne il marito, anche separato o divorziato. In parole povere, la pur biasimevole violenza perpetrata da un marito, o ex marito, è doppiamente grave rispetto a uno stupro fatto per strada da uno sconosciuto: quest’ultimo rischia 6 anni, il marito 12. E nelle mani dei giudici abbiamo messo anche questo: stabilire le differenze tra affetto, desiderio, un misto tra i due, possessività, oppure follia, raptus, capacità d’intendere o di volere eccetera. Oltre ogni ragionevole dubbio.
Quel che non è femminicidio. Al di là del Buco. Verso la fine della guerra fredda (e pure calda) tra i sessi, scrive “Abbattoimuri”. Una femminista che è e resta femminista, che ha disertato le fila di quel che in Italia non condivide, e che è andata incontro alle fila nemiche perché curiosa di vedere se oltre il buco ci fosse qualcosa di misterioso, di strano, di interessante, di boh, qualcosa insomma…Diario di quel che c’è al di qua e al di là del buco con puntate didattico/pedagogiche su femministese e affini. Una cosa comunque la so: una volta fatto il buco… c’è vento! Entro la fine dell’anno con Bollettino di Guerra faremo una sintesi, con relativo elenco commentato, dei delitti che nel 2012 sono stati attribuiti alla categoria “Femminicidio”. E’ stato un anno pessimo, in realtà, certo anche per i delitti che è sempre bene non vi siano mai e che non hanno alcuna giustificazione, ma anche perché mai come quest’anno il tema è diventato oggetto di facili speculazioni politiche e carrieristiche che di conseguenza hanno svuotato di contenuto un termine che segnalava un fenomeno per farlo diventare un costrutto giuridico teso a realizzare una discriminazione. La stessa discriminazione che vedete perfettamente realizzata in basso. Analizzerò – di nuovo – le proposte di legge presentate sul “Femminicidio”. Terribili, rappresentative di una vera e propria deriva autoritaria, come quello di Bongiorno/Carfagna che stabilisce che ammazzare una donna sia più grave che ammazzare una qualunque altra persona, allungando i termini della carcerazione addirittura fino all’ergastolo, proposta bocciata e rispedita al mittente dalle stesse associazioni che si occupano di violenza sulle donne e che sanno perfettamente che la questione la risolvi con la prevenzione e non con la repressione. E prevenire significa analizzare il problema in ogni sua parte e significa anche smettere di creare allarmismo sociale per ricavarne una shock economy al fine di ottenere finanziamenti mirati a progetti che non sono quasi mai partecipati dal basso, i cui bilanci non sono trasparenti e che rappresentano una modalità assistenziale di riparare ad un problema che trova le sue concause nella gestione politica, culturale, sociale e soprattutto economica di uno Stato, del welfare, con divisione e attribuzione di ruoli tra uomini e donne che viene decisa dall’alto e non dal basso. Prevenire significa smettere anche di istigare al linciaggio, di fare diventare il tema di interesse delle persone più fanatiche che si trovino in giro che dalle ronde, reali e virtuali, al “salviamo le nostre donne”, al difendiamo la dignità delle donne e copriamo loro le cosce, allo strappiamo le palle a tutti gli uomini in via preventiva, riempiono oramai articoli, scritti, blog, social network, pagine facebook e ti imporrrebbero medicalizzazione e istituzionalizzazione del problema anche se tu non lo vuoi, al di là delle stesse scelte delle donne che si dice di voler difendere. Prevenire significa considerare il fenomeno in ogni sua componente e prevenire in senso antiautoritario significa fare la scelta certamente più complicata, che non ti permette di mettere in circolo cifre a casaccio così come fanno in tanti/e, ché non ci si può accapigliare sul fatto che esista o non esista il termine femminicidio, sconvolgendoci se c’è chi lo nega, come fosse un nuovo dogma, e mistificandone il contenuto per dargli maggiore consistenza e gravità. Non si può censurare e non si può neppure evitare di ragionarne in senso laico alla presenza di persone che mietono stigmi negativi, criminalizzazioni e galere virtuali per chiunque ponga un dubbio, ché di mestiere fanno i recintieri, recintiferi, piantano paletti, finanche nel cuore o nel culo a volte per stabilire i termini del discorso e definirne i confini dimodoché chiunque osi anche solo ragionarne un po’ più laicamente viene immediatamente etichettata come complice di criminali. Come si può chiamare chi ammazza il pensiero laico? Laicicida? Di fatto la discussione in Italia sta così: c’è un gruppo che ha un atteggiamento medioevale, con i propri tribunali dell’inquisizione, e che stabilisce la giustezza dei termini e degli argomenti da usare quando si parla di violenza sulle donne. Un gruppo apparentato con la peggiore estrema destra anche quando è di sinistra, giustizialista e forcaiola, ché non pensa, non ragiona, non analizza, non ammette dubbi e che non puoi neppure sussurrargli che le donne sono violente tanto quanto e che non c’è una divisione tra i generi stereotipata ché gli uomini non sono tutte merde e le donne non sono tutte sante, ché i delitti invece che dividerli per genere bisognerebbe dividerli per generi e ragioni culturali trasversali a tutti/e, perché i generi sono più di due e fare una distinzione tra maschi e femmine oramai è veramente anacronistico. Poi c’è chi se ne occupa ma assume un atteggiamento laico e vuole risolvere il problema prima che creare confini logici, discorsivi e teorici, perché tra la teoria e la pratica c’è sempre un mare di problemi da vedere quando si parla delle relazioni e le citazioni non aiutano una donna che è in difficoltà. L’aiuta la comprensione del suo sentire, per quel che è, e l’aiuta capire di che male è fatto il male che ha caratterizzato la scelta del suo assassino. Non l’aiuta la santificazione ma l’aiuta la fine della speculazione da cui traggono vantaggio per soldi, carriere e micropopolarità persone che della violenza sulle donne non sanno nulla o quel che sanno è una opinione diventata tesi priva di analisi calata nel concreto e priva di ascolto per le diversità. Conosco persone oneste, seriamente motivate e che fanno un gran lavoro quando si parla di violenza sulle donne ma queste persone spesso non fanno caciara su facebook e non si sconvolgerebbero per niente quando sottolineo il fatto che in questi giorni sono avvenuti due delitti. Un fratello ha ammazzato una sorella e Repubblica lo inserisce tra i femminicidi e una sorella ha ammazzato suo fratello e Repubblica lo inserisce in pagina locale tra i delitti per futili motivi. Entrambi i delitti, probabilmente, sono motivati da questioni di vile denaro o screzi familiari. Femminicidio non può voler dire uccisione della femmina perché se così fosse sarebbe ridicolo. Dunque vorrei capire perché Repubblica fa questa scelta e perché nessuna se ne lamenta. Qualcuna può spiegarmene la ragione? Perché so bene che il termine Femminicidio ha una sua origine e motivazione ma se qualcunasi permette di fare speculazioni irresponsabili e a qualcun altra viene il dubbio che sia calato sulle realtà a mo’ di colonizzazione epistemologica ad espressione dei fenomeni è anche per errori madornali come questi e chi non li sottolinea, mi spiace dirlo, ma non è credibile e sembra proprio che gonfi cifre non si capisce per quale ragione. Allora mentre il mondo intero si affatica a dire ciò che è Femminicidio facciamo che da ora in poi a me piacerà dire quel che Femminicidio non è. Perché, senza alcun dubbio, giacché c’è chi su questa cosa sta pensando anche di farsi campagna elettorale, sulla pelle delle donne uccise, e su questa cosa si rifà la faccia e ripulisce reputazioni, come certe ministre che tolgono lavoro anche alle donne e poi firmano vuote convenzioni che parlano di donne, giacché esiste chi al termine Femminicidio vorrebbe attribuire un’aggravante, che è più carcere, più pena, più stigmatizzazione in negativo, molto di più che per chi uccide qualunque altro essere umano, allora io sento la responsabilità di dover togliere casi di cronaca dalle grinfie di chi li brandisce come esempi per ricavarne la necessità di task force, vittimizzazione spropositata a carico delle donne e criminalizzazione a carico degli uomini. Perché essere femministe non vuol dire essere dalla parte delle donne anche quando fanno o dicono stronzate. Essere femministe e libertarie e antiautoritarie vuol dire anche non permettere che sulla pelle delle donne si realizzino e si diffondano simili mistificazioni che sono l’anticamera di altre discriminazioni, di autoritarismi ed ingiustizie.
Minori: oltre il femminicidio c’è anche il “Bambinicidio”. Più di 200 tra bambini e neonati uccisi in Italia, scrive “Impronta L’Aquila”. Non c’è solo il femminicidio, ma anche il “Bambinicidio”. Un termine che vogliamo utilizzare per indicare la strage dei bambini perpetrata spesso nel silenzio. Con 243 tra bambini e neonati uccisi – da adulti, spesso padri e madri – in Italia negli ultimi 10 anni. A ricordarlo è l’Associazione Meter Onlus di don Fortunato Di Noto con un comunicato diffuso oggi, rilanciando questo triste fenomeno alla luce dell’ultimo bambino di 11 anni ucciso dalla madre in provincia di Cosenza a Rovito e che già Meter negli scorsi anni ha fortemente denunciato. Dalle cronache non solo nazionali, ma soprattutto locali emerge un dato agghiacciante: emergerebbe che in Italia una madre o un padre ogni settimana uccidono o tentano di uccidere 3/4 figli con una media di circa (170 bambini vittime in un anno). Ovviamente sono numeri desunti dai fatti che vengono riportati dalla stampa, comunque inquietanti e da non sottovalutare. E’ in quantificabile dato che non esiste una banca dati sul fenomeno del bambinicidio, relegato soltanto a questioni di controversie familiari. In Italia accanto ai 113 bambini uccisi dai genitori (2004-2008, Eures) impressionano i numeri dell’infanticidio; nell’ultimo decennio 130 sono state le minorenni (bambine) uccise in Italia dai genitori. Se poi facciamo rientrare le violenze e gli abusi sui minori nel mondo i numeri aprono scenari drammatici: parliamo di circa 175 milioni di minori vittime di abusi sessuali. Sono stati segnalati in tutto il mondo da Meter negli ultimi 10 anni più di un milione e 500mila di siti a contenuto pedofilo e pedopornografico; parliamo di più di un milione di bambini coinvolti in abusi sessuali con adulti, di età tra i zero anni (infantofilia) e 12 anni. In media negli ospedali italiani 5/7 bambini vengono portati al pronto soccorso per vari tipi di abusi e violenze, una percentuale che non può lasciarci indifferente.
Quelli che, le donne sono violente come gli uomini. Quelli che minimizzano il femminicidio, scrive Mazzetta su “Giornalettismo”. Alcuni veri uomini e alcune donne curiose negano la strage delle donne, che invece non sarebbero meno assassine degli uomini. I femminicidi sono in calo e allora perché parlarne proprio ora? E com’è che non si parla della violenza femminile sugli uomini? E lo sapete che le donne violente sono tantissime e gli uomini loro vittime un numero sterminato? Se non lo sapevate, adesso c’è qualcuno che prova a raccontarvelo. L’anno scorso la palma di nemico delle donne l’aveva conquistata a mani basse Camillo Langone con un paio delle sue «preghiere» (così chiama i suoi pensierini) più agghiaccianti, incluso uno nel quale s’augurava una pena mite per l’assassino di una prostituta perché aveva «perso la testa», quest’anno invece la migliore candidata sembra la giovane Glenda Mancini. Subito inserita tra le beniamine di alcune associazioni maschili che si battono a favore degli uomini «vittime» di leggi che favoriscono le donne in caso di divorzio e d’affido e che spendono molte energie nel dipingere l’immagine di un’umanità al maschie vittima di feroci arpie. Arpie che esisteranno pure, ma che se non spiccano nelle statistiche è perché in effetti la violenza domestica di norma funziona con l’uomo che fa violenza sulla donna, qualche caso di segno contrario non può negare o sminuire il fenomeno, ma per certi maschietti evidentemente è propaganda lecita. Ecco allora che «L’uomo vittima di una donna carnefice», opera prima di Glenda Mancini edita da Book Sprint (un editore a pagamento), sta già riscuotendo un certo successo di nicchia ed è spesso esibito sui social network dai portatori dell’orgoglio maschio. Dice infatti l’autrice, ventiquattrenne neolaureata in Scienze dell’investigazione a L’Aquila: Lo scopo del libro é, infatti, quello di dimostrare che la violenza di genere, erroneamente da quanto spesso creduto e riportato anche dai mezzi di comunicazione, non vede sempre l’uomo nelle vesti di carnefice e la donna in quelle di vittima, ma accade frequentemente anche il contrario. «Paradossalmente», spiega l’autrice, «i dati dimostrano che i casi di violenza domestica ai danni del genere maschile sono superiori a quelli femminile, con la differenza però nel grado di ferimento che l’uomo riesce a infliggere alla donna». All’origine del mancato clamore che si crea intorno a questi casi di violenza che vedono gli uomini essere vittime delle loro aguzzine, anche un maggiore imbarazzo da parte delle persone di sesso maschile che non esternano i propri drammi, spesso familiari, per paura del giudizio del mondo esterno. «Molti di loro hanno subito una doppia umiliazione», aggiunge l’aspirante criminologa, «oltre a quella da parte delle donne, anche quella di aver trovato porte chiuse o risate in faccia da parte delle forze dell’ordine o delle persone con le quali hanno provato a confidarsi. A causa della nostra cultura maschilista, infatti, non è semplice per un uomo ammettere una simile debolezza e ad aggravare il tutto c’è anche che il 46 per cento delle querele vengono archiviate». Che gli uomini denuncino poco le violenze subite dalle donne, può essere, ma il fatto è che è storicamente appurato che proprio le donne denunciano una percentuale minima delle violenze e persino degli stupri. Ma girando attorno a Mancini si finisce per intuire che la sua è una scelta di campo aprioristica e che tutto il suo agire si risolve nel cercare conferme a una tesi che ha già trovato un pubblico di riferimento, stanco del poter lamentare solo la terribile violenza psicologica come arma femminile in presenza di dati incontrovertibili per quella fisica. Dati che però Mancini ha trovato il modo di aggirare. Curiosa è infatti la metodologia impiegata nella ricerca condotta in prima persona da Mancini: «Così, non avendo competenze sociologiche, ho trovato un test già fatto e l’ho adattato al maschile, aggiungendo alcune domande che mi interessavano, e l’ho pubblicato su internet». Il questionario, a sorpresa della stessa promotrice, ottiene un ottimo riscontro arrivando a contare 696 anonimi partecipanti in un solo mese. Interesse che, con il sostegno di Fabio Nestola, presidente della Fondazione italiana per la bigenitorialitá, e di Paola Tomarelli presidente del centro antiviolenza uomo Dalla parte di Giasone, spingono la neolaureata a trasformare la sua tesi di laurea in un libro, pubblicato il 23 ottobre di quest’anno». In pratica quindi Mancini ha raccolto una serie di risposte a un test «adattato» e messo online, qualche centinaio di risposte «anonime» e senza alcun controllo sul campione sondato, che in teoria potrebbe essere anche stato costruito da pochissimi furboni, ma che già per come era stato concepito poteva attirare solo l’attenzione di uomini che hanno subito violenza o che hanno detto di averla subita, non stupisce l’alta densità di risposte positive, a prescindere dai dubbi sulla qualità dell’adattamento. E non stupisce che Mancini abbia a questo punto dismesso la strage di donne senza paragone maschile, come conseguenza del fatto che a parità di violenze le donne sono più fragili sotto i colpi degli uomini e meno forti nel colpirli. Normale quindi che muoiano più donne. Se poi si passa alla pagina Facebook di Glenda Mancini, ecco che la sensazione che proceda un po’ troppo selettiva nel suo cammino si rafforza decisamente. C’è persino riportata una notizia dal titolo «CASALINGHE FANNO SESSO CON RAGAZZINI 14ENNI: ARRESTATE. “LI ADESCAVANO SU FACEBOOK”» per chi non avesse chiaro dove l’autrice vuole andare a parare. Il rigore scientifico della novella criminologa spicca anche nella scelta di un post sul blog del Centro Documentazione Violenza Donne, che a dispetto del nome si propone di tenere conto della violenza che ha come protagonista le donne, «Uxoricidi – Centro Documentazione Violenza Donne – la Violenza sulle Donne è solo una parte del problema.» L’altra parte del problema sarebbe la violenza da parte delle donne, che è un po’ come dire che l’altra parte della persecuzione di ebrei, neri e zingari è che anche tra loro ci sono assassini. «L’obiettivo del blog è quello di costituire un centro di documentazione in grado di offrire stimoli e spunti di riflessione a donne e uomini liberi da concetti precostituiti. Nel condannare fermamente la violenza maschile, la collettività non può esimersi dal considerare il lato oscuro della Luna, quegli aspetti della violenza femminile costantemente ed inspiegabilmente sottaciuti». Il post indicato da Mancini con la commovente motivazione «Approfittiamo di questo giorno per ricordare anche queste vittime di violenza domestica, almeno ogni tanto», in realtà è una scombinata collezione di articoli di cronaca cominciata nel 2006 e che spazia per qualche decina di casi tra il 1973 e il 2013 e da Novosibirsk a Buenos Aires. Casi che hanno come unico comun denominatore la donna assassina, anche se poi nell’elenco compaiono anche casi abusivi nei quali gli assassini sono un uomo e una donna («Donna e amante uccidono il convivente di lei» o «Como: Ucciso imprenditore, arrestati madre e figlio»). Una robaccia malfatta e che non spiega o dimostra nulla, raccolta su un sito che si autodefinisce pomposamente “centro di documentazione” e che non fa mistero di aggrapparsi a qualsiasi cosa, pur di sostenere l’immagine di una donna assassina come strumento per sminuire la strage di donne, che poi se ci si affaccia all’estero come fa la lista, si trovano statistiche ancora più agghiaccianti. Probabile che Mancini trovi un posto al sole a breve, Costanza Miriano non basta a soddisfare la domanda che indubbiamente esise per storie del genere e Langone non è certo un’alternativa, così come poco servono le eruzioni estemporanee di qualche campione di misoginia isolato. Il suo libro ha già fato notizia ed è stato adottato come testo fondamentale da diversi veri uomini che se lo passano come una preziosa rivelazione, persino post come il commosso ricordo della violenza femminile e la buffa lista in allegato sono esibiti in giro sui social network come «prova» del fatto che il rumore sul femminicidio è un inganno e che così le donne assassine se la passano liscia a spese dei poveri uomini. Una narrazione conveniente, che anche se non potrà sovvertire la realtà diventerà un pezzettino di quella realtà alternativa nella quale uomini da poco si dipingono come vittime per non dover fare i conti con le proprie responsabilità.
L'Aquila, nasce il centro che difende gli uomini dalle donne violente, scrive “Libero Quotidiano”. Non sono solo le donne a subire violenze e maltrattamenti da parte degli uomini, ma accade spesso anche il contrario. Lo rivela uno studio dell'Università di Siena, che è stato rivolto a un campione di 1.058 uomini in un età compresa tra i 18 e i 70 anni. I dati parlano chiaro: la maggior parte degli intervistati ha denunciato violenze psicologiche o fisiche da parte del gentil sesso. Il centro - Per questo l’Associazione per i Diritti del Cittadino dell’Aquila ha annunciato l’apertura di un centro antiviolenza che aiuterà le vittime di entrambi i sessi, non solo le donne. "È emerso - spiega la coordinatrice del progetto, la dottoressa Sara Maddalena Cocuzzi - che tutti gli uomini ai quali è stato sottoposto il sondaggio abbiano dichiarato di aver vissuto almeno una volta nella vita un episodio di violenza da parte di una partner. Si tratta della prima indagine conoscitiva sul fenomeno realizzata in Italia, mentre in altri paesi il tema è oggetto di studi periodici". Vergogna - "Il motivo del mancato studio - continua la dottoressa - è da ricercare nella difficoltà dell’uomo italiano ad ammettere di aver subito violenza e di conseguenza a denunciarla. Difficoltà derivante dal non voler apparire agli occhi della società come vittima e anche dal fatto che spesso tali accadimenti si verificano all'interno delle mura domestiche e quindi ad opera di persone legate da vincoli affettivo/familiari. Di conseguenza, per anni, sia le istituzioni che le realtà scientifiche hanno ignorato il fenomeno."
Picchia e imprigiona il marito, poi riceve a casa gli amanti, scrive ancora “Libero Quotidiano”. Violenza familiare, questa volta al contrario però. Succede a Bussolengo, nel veronese. La moglie picchiava il marito, lo chiudeva in cantina lasciandolo anche senza mangiare e riceveva gli amanti. Una moglie che ha fatto passare cinque anni di inferno al marito. Dopo l'ennesima angheria, l'uomo si è deciso a denunciare la moglie, che adesso è indagata e in attesa di una perizia psichiatrica. Lei è una donna di 44 anni che secondo l'accusa dominava completamente il marito, al quale era precluso anche l'accesso al conto corrente. Il rapporto di coppia avrebbe cominciato a deteriorarsi cinque anni fa con le prime liti, passate rapidamente dalle parole ai fatti: secondo l'accusa, infatti, la donna avrebbe cominciato a picchiare il marito con calci e pugni e se osava ribellarsi lo richiudeva in cantina negandogli anche pranzo e cena. Fino all'ultima aggressione con un manico di coltello, da cui il marito è uscito con ematomi ed escoriazioni. Gli inquirenti avrebbero poi scoperto che la moglie era arrivata a imporre al marito la presenza di altri uomini, suoi amanti. Ora è indagata per maltrattamenti, ma il Gip Laura Donati ha disposto la perizia psichiatrica per accertare se la donna è capace di intendere e volere.
STUPRI, STOLKING E FEMMINICIDI. LA VIOLENZA SULLE DONNE.
Violenza contro le donne. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La violenza contro le donne è la violenza perpetrata contro le donne basata sul genere, ed è ritenuta una violazione dei diritti umani. Termine usato molto spesso per definire la violenza contro le donne è violenza di genere. La violenza di genere riguarda donne e bambine, ma coinvolge anche minorenni come ad esempio nel caso della violenza assistita. Questa terminologia è largamente usata sia a livello istituzionale che da persone e associazioni di donne che operano nel settore. In questi ultimi anni la violenza sulle donne è aumentata ed il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. In primo luogo si osserva che «Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza su donne e minori significa mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno in quanto […] manifestazione di un rapporto tra uomini e donne storicamente diseguali che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne.» e quindi come «[…] uno dei meccanismi sociali decisivi che costringono le donne a una posizione subordinata agli uomini.» La "Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne" del 1993[8] all'art.1, descrive la violenza contro le donne come: «Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata.» La violenza alle donne solo da pochi anni è diventato tema e dibattito pubblico, mancano politiche in contrasto alla violenza alle donne, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione. Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali, e a tutti i ceti economici. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita. E il rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici: vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro o di studio. Da diverse ricerche emerge che la violenza di genere si esprime su donne e minori in vari modi ed in tutti i paesi del mondo. Esiste la violenza domestica esercitata soprattutto nell'ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atteggiamenti persecutori, percosse, abusi sessuali, delitti d'onore, uxoricidi passionali o premeditati. I bambini, gli adolescenti, ma in primo luogo le bambine e le ragazze adolescenti sono sottoposte all'incesto. Le donne sono esposte nei luoghi pubblici e sul posto di lavoro a molestie ed abusi sessuali, a stupri e a ricatti sessuali. In particolare verso le lesbiche vengono praticati i cosiddetti "stupri correttivi". In molti paesi le ragazze giovani sono vittime di matrimoni coatti, matrimoni riparatori e/o costrette alla schiavitù sessuale, mentre altre vengono indotte alla prostituzione forzata e/o sono vittime di tratta. Altre forme di violenza sono le mutilazioni genitali femminili o altri tipi di mutilazioni come in un recente passato le fasciature dei piedi, lo stiramento del seno, le cosiddette "dowry death" (morte a causa della dote), l'uso dell'acido per sfigurare, lo stupro di guerra ed etnico. Va citato il femminicidio che in alcuni paesi, come in India e in Cina, si concretizza nell'aborto selettivo (le donne vengono indotte a partorire solo figli maschi, perché più riconosciuti e accettati socialmente) mentre in altri addirittura nell'uccisione sistematica di donne adulte. Esistono infine violenze relative alla riproduzione (aborto forzato, sterilizzazione forzata, contraccezione negata, gravidanza forzata. Nell'ambito del World report on violence and health l'OMS (Organizzazione mondiale della sanità), esaminando esclusivamente la violenza da parte del partner, ha pubblicato il seguente elenco di possibili conseguenze sulla salute delle donne: Fisiche; Sessuali e riproduttive; Psicologiche e comportamentali; Conseguenze mortali; Lesioni addominali; Lividi e frustate; Sindromi da dolore cronico; Disabilità; Fibromialgie; Fratture; Disturbi gastrointestinali; Sindrome dell'intestino irritabile; Lacerazioni e abrasioni; Danni oculari; Funzione fisica ridotta; Disturbi ginecologici; Sterilità; Malattia infiammatoria pelvica; Complicazioni della gravidanza/aborto spontaneo; Disfunzioni sessuali; Malattie a trasmissione sessuale, compreso HIV/AIDS; Aborto in condizioni di rischio; Gravidanze indesiderate; Abuso di alcool e droghe; Depressione e ansia; Disturbi dell'alimentazione e del sonno; Sensi di vergogna e di colpa; Fobie e attacchi di panico; Inattività fisica; Scarsa autostima; Disturbo da stress post-traumatico; Disturbi psicosomatici; Fumo; Comportamento suicida e autolesionista; Comportamenti sessuali a rischio; Mortalità legata all'AIDS; Mortalità materna; Omicidio; Suicidio. A partire dagli anni settanta del XX secolo il movimento delle donne e il femminismo in Occidente hanno iniziato a mobilitarsi contro la violenza di genere, sia per quanto riguarda lo stupro sia per quanto riguarda il maltrattamento e la violenza domestica. Il movimento ha messo in discussione la famiglia patriarcale e il ruolo dell'uomo nella sua funzione di "marito/padre-padrone", non volendo più accettare alcuna forma di violenza esercitata sulla donna fuori o dentro la famiglia. La violenza alle donne - in qualunque forma si presenti, e in particolare quando si tratta di violenza intrafamiliare - è uno dei fenomeni sociali più nascosti; è considerato come punta dell'iceberg dell'esercizio di potere e controllo dell'uomo sulla donna e si estrinseca in diverse forme come violenza fisica, psicologica e sessuale, fuori e dentro la famiglia. Già negli anni settanta le donne hanno istituito i primi Centri antiviolenza e le Case delle donne per ospitare donne che hanno subito violenza e che potevano trovare ospitalità nelle case rifugio gestite dalle associazioni di donne. I primi Centri antiviolenza sono nati solo alla fine degli anni novanta ad opera di associazioni di donne provenienti dal movimento delle donne, tra cui la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna e la Casa delle donne maltrattate di Milano. Ad oggi sono varie le organizzazioni che lavorano sui vari tipi di violenza di genere. I Centri antiviolenza in Italia si sono riuniti nella Rete nazionale dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne. Nel 2008 è nata una federazione nazionale che riunisce 65 Centri antiviolenza in tutta Italia dal nome "D.i.Re: Donne in Rete contro la violenza alle donne". D.i.Re fa parte dell'organizzazione europea WAVE, network Europeo dei Centri antiviolenza che raccoglie oltre 5.000 associazioni di donne. Recentemente si è assistito ad un dibattito più intenso sui media italiani in seguito all'introduzione del termine femminicidio e del provvedimento in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere. Tale legge è oggetto di critiche anche da parte di molte delle associazioni che si occupano di violenza di genere. Dal 2006 anche in Italia si stanno sviluppando campagne di sensibilizzazione dirette agli uomini e, più recentemente, promosse da uomini. Nel 2006, l'ISTAT ha eseguito un'indagine per via telefonica su tutto il territorio nazionale, raccogliendo i seguenti risultati: Le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiarano di essere state vittime di violenza, fisica o sessuale, almeno una volta nella vita sono 6 milioni e 743 000, cioè il 31,9% della popolazione femminile; considerando il solo stupro, la percentuale è del 4,8% (oltre un milione di donne). Il 14,3% delle donne afferma di essere stata oggetto di violenze da parte del partner: per la precisione, il 12% di violenza fisica e il 6,1% di violenza sessuale. Del rimanente 24,7% (violenze provenienti da conoscenti o estranei), si contano 9,8% di violenze fisiche e 20,4% di violenza sessuale. Per quanto riguarda gli stupri, il 2,4% delle donne afferma di essere stata violentata dal partner e il 2,9% da altre persone. Il 93% delle donne che afferma di aver subito violenze dal coniuge ha dichiarato di non aver denunciato i fatti all'Autorità; la percentuale sale al 96% se l'autore della violenza non è il partner. Nell'ambito di una precedente indagine ISTAT condotta nel 2004, il 91,6% delle donne che affermava di aver subito violenze dal coniuge aveva dichiarato di non aver denunciato i fatti all'Autorità. L'indagine ISTAT del 2004, a differenza di quella condotta nel 2006, distingueva tra violenze sessuali (non meglio definite) e molestie sessuali; entro queste ultime – oltre a molestie verbali, telefonate oscene, esibizionismo e pedinamenti – erano tuttavia classificati anche atti di natura prettamente fisica (donne avvicinate, toccate o baciate contro la loro volontà). Inoltre, nell'indagine ISTAT del 2006 non sono stati raccolti dati sulle molestie verbali, il pedinamento, gli atti di esibizionismo e le telefonate oscene. Per quanto riguarda specificatamente il femminicidio, l'Eures ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si registra in Italia un aumento delle uccisioni di donne del 14% nell'ultimo anno, dalle 157 nel 2012 alle 179 del 2013.
Cos’è la violenza contro le donne, scrive “Donne in rete contro la violenza". La violenza maschile sulle donne assume molteplici forme e modalità, sebbene la violenza fisica sia la più facile da riconoscere. Non esiste un profilo della donna-tipo che subisce violenza.
VIOLENZA FISICA. Comprende l’uso di qualsiasi atto guidato dall’intenzione di fare del male o terrorizzare la vittima. Atti riconducibili alla violenza fisica sono: lancio di oggetti; spintonamento; schiaffi; morsi, calci o pugni; colpire o cercare di colpire con un oggetto; percosse; soffocamento; minaccia con arma da fuoco o da taglio; uso di arma da fuoco o da taglio. Tali forme ricorrono nei reati di percosse, lesioni personali, violenza privata, violazione di domicilio, sequestro di persona.
VIOLENZA SESSUALE. Comprende l’imposizione di pratiche sessuali indesiderate o di rapporti che facciano male fisicamente e che siano lesivi della dignità, ottenute con minacce di varia natura. L’imposizione di un rapporto sessuale o di un’intimità non desiderata è un atto di umiliazione, di sopraffazione e di soggiogazione, che provoca nella vittima profonde ferite psichiche oltre che fisiche.
VIOLENZA PSICOLOGICA. Racchiude ogni forma di abuso che lede l’identità della donna:
attacchi verbali come la derisione, la molestia verbale, l’insulto, la denigrazione, finalizzati a convincere la donna di “non valere nulla”, per meglio tenerla sotto controllo;
isolare la donna, allontanarla dalle relazioni sociali di supporto o impedirle l’accesso alle risorse economiche e non, in modo da limitare la sua indipendenza;
gelosia ed ossessività: controllo eccessivo, accuse ripetute di infedeltà e controllo delle sue frequentazioni;
minacce verbali di abuso, aggressione o tortura nei confronti della donna e/o la sua famiglia, i figli, gli amici;
minacce ripetute di abbandono, divorzio, inizio di un’altra relazione se la donna non soddisfa determinate richieste;
danneggiamento o distruzione degli oggetti di proprietà della donna;
violenza sugli animali cari alla donna e/o ai suoi figli/e.
È importante ricordare che nei momenti di rabbia tutti possiamo usare parole provocatorie, oltraggiose o sprezzanti, possiamo agire comportamenti fuori luogo ma di solito seguiti da rimorsi e pentimenti. Nella violenza psicologica invece non si tratta di un impeto d’ira momentaneo ma di un tormento costante e intenzionale con l’obiettivo i sottomettere l’altro/a e mantenere il proprio potere e controllo.
VIOLENZA ECONOMICA. Spesso tale violenza è difficile da registrare come una forma di violenza. Può sembrare normale e scontato che la gestione delle finanze familiari spetti all’uomo. Si definisce violenza economica:
limitare o negare l’accesso alle finanze familiari;
occultare la situazione patrimoniale e le disponibilità finanziarie della famiglia;
vietare, ostacolare o boicottare il lavoro fuori casa della donna;
non adempiere ai doveri di mantenimento stabiliti dalla legge;
sfruttare la donna come forza lavoro nell’azienda familiare o in genere senza;
dare in cambio nessun tipo di retribuzione;
appropriarsi dei risparmi o dei guadagni del lavoro della donna e usarli a proprio vantaggio;
attuare ogni forma di tutela giuridica ad esclusivo vantaggio personale e a danno della donna (per esempio l’intestazione di immobili).
Tale forma di controllo diretto, che limita e/o impedisce l’indipendenza economica della donna, spesso non permette la sottrazione da una relazione distruttiva di maltrattamento.
STALKING. Indica il comportamento controllante messo in atto dal persecutore nei confronti della vittima da cui è stato rifiutato (prevalentemente è l’ex partner). Spesso le condotte dello stalker sono subdole, volte a molestare la vittima e a porla in uno stato di soggezione, con l’intento di compromettere la sua serenità, farla sentire braccata, comunque non libera.
MECCANISMI DELLA VIOLENZA. La violenza più diffusa, al contrario di quanto si pensa, è quella che avviene all’interno delle mura domestiche, ovvero in ambito familiare. La violenza domestica consiste in una serie continua di azioni diverse ma caratterizzate da uno scopo comune: il dominio e controllo da parte di un partner sull’altro, attraverso violenze psicologiche, fisiche, economiche, sessuali. Il meccanismo che meglio definisce le fasi di una condizione di violenza domestica subita da una donna viene chiamato “spirale della violenza” o “ciclo della violenza” ad indicare le modalità attraverso cui l’uomo violento raggiunge il suo scopo di sottomissione della partner facendola sentire incapace, debole, impotente, totalmente dipendente da lui. Le fasi della spirale della violenza possono presentarsi in un crescendo e poi “mescolarsi”. Isolamento, intimidazioni, minacce, ricatto dei figli, aggressioni fisiche e sessuali si avvicendano spesso con una fase di relativa calma, di false riappacificazioni, con l’obiettivo di confondere la donna e indebolirla ulteriormente.
Violenza sulle donne: tema e saggio breve svolto con dati sulla violenza di genere, scrive Tommaso Caldarelli il 24 Novembre 2016 su “Studenti.it”. Tema sulla Violenza sulle donne: riflessioni e dati per scrivere un tema o un saggio breve sulla violenza di genere, purtroppo sempre attuale. La violenza contro le donne da qualche tempo - fortunatamente - è sempre più al centro del dibattito pubblico. E il perché è presto detto: persino in un'epoca che si professa civilizzata come la nostra il fenomeno sta raggiungendo dimensioni che definire barbariche è poco. Come vedremo, i dati dimostrano che la modernità è arrivata quasi in tutto: nella tecnologia, nei trasporti, nelle comunicazioni, nell'alimentazione. Ma rapporti più civili sembrano essere ancora una conquista lontana. Statistiche sicure non ce ne sono. Si potrebbero contare le sentenze di condanna per fatti di violenza contro le donne ma non sarebbe un numero attendibile perché sono pochissime le donne che denunciano di aver subito violenza, e ancora meno poi i casi che arrivano a sentenza. L'ultimo studio ufficiale risale al 2014: è una ricerca dell'Istituto di Statistica italiano, l'Istat, che ha chiesto ad un campione di 24.761 donne di raccontare se negli anni precedenti avevano subito violenze o molestie. Risultato: le stime sono terribili. Dai risultati è emerso che "6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri" e ancora "Le donne subiscono anche molte minacce (12,3%). Spesso sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%)." Forse si può pensare che la violenza contro le donne sia soltanto lo stupro consumato, ma non è così. Quello è un reato, anche molto grave, ma non è l'unica forma di violenza contro le donne: l'associazione "Noi No, uomini contro le violenze", riassume il fenomeno in tre parole: "Minacciare, Umiliare, Picchiare": "La violenza di genere non è solo l'aggressione fisica di un uomo contro una donna, ma include anche vessazioni psicologiche, ricatti economici, minacce, violenze sessuali, persecuzioni. Compiute da un uomo contro una donna in quanto donna. A volte sfocia nella sua forma più estrema, il femminicidio": e nel solo 2016 sono morte 116 donne. Ecco che dunque bisogna ritenere violenza sessuale, o violenza di genere, qualsiasi forma di aggressione, vessazione, maltrattamento, minaccia, creazione di un clima pesante, di ricatto, di persecuzione, proveniente da un uomo e diretto ad una donna: tutti i comportamenti che non tengono conto della volontà della donna, che ha diritto a dire di sì e di no a qualsiasi idea o proposta come qualunque essere umano dotato di diritti e dignità, sono di per sé violenti. Stando ai dati, dunque, "in Italia ogni 7 minuti un uomo stupra o tenta di stuprare una donna. Ogni 3 giorni nel nostro Paese un uomo uccide una donna". Extracomunitari rabbiosi e un po' barbari? Ragazzi sbandati delle periferie? Malati di mente, tossicodipendenti, personaggi al limite della società? No: questi sono stereotipi sbagliati e pericolosi, e sono sbagliati e pericolosi perché impediscono di raccontare, affrontare e combattere la tragedia della violenza contro le donne. I dati dimostrano che i casi di violenza fra coppie che provengono da culture e paesi diversi dal nostro sono largamente minoritari e che "la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in Occidente e nel mondo è la violenza subita da familiari o conoscenti"; "una ricerca Eures-Ansa del 2010 ha rivelato che le violenze familiari sono la prima causa di morte nel nostro paese e le donne sono le vittime nel 70,7% dei casi": per sottolineare ulteriormente, il punto è che le donne morte nel 2016 sono state uccise principalmente da mariti, fidanzati, partner ed ex partner, nella maggior parte dei casi italianissimi. Per non parlare dei tanti, piccoli episodi di violenza quotidiana: donne che non possono uscire a fare quel che gli pare perché il marito o compagno glielo impedisce, ragazze che vengono rimproverate perché si vestono come gli pare, adescamenti in discoteca. Secondo Giulia Bongiorno, avvocatessa e politica che ha fondato una delle più combattive associazioni italiane per la repressione della violenza, molte donne arrivano a convincersi che i maltrattamenti siano semplicemente parte della propria vita di coppia. Frustrazione, non realizzazione personale dell'uomo, difficoltà sul lavoro o nella vita, insoddisfazione, sono solamente le motivazioni superficiali di questi eventi. Più in profondità si può trovare il mancato riconoscimento dell'identità delle donne e del fatto che esse hanno, al pari degli uomini, il diritto di realizzarsi e di decidere ciò che è meglio per loro stesse. Purtroppo ancora oggi è possibile trovare uomini che ogni tanto se ne escono con frasi come "l'uomo è fatto così" o "la donna deve lavare i piatti", o anche se non lo dicono, ci scherzano su, salvo poi comportarsi esattamente così. Gli anni '40 sono finiti da un bel po', ragazzi e ragazze, e il fatto che nostro padre/nonno/zio/cugino/cognato/amico più grande si siano (sempre) comportati con questo fare da bulli non ci autorizza a prendere questa strada o ad accettare che il nostro compagno la prenda: è una strada che non porta lontano. Due parole: prevenzione, coraggio. Prevenzione: quando vediamo che con il ragazzo conosciuto a scuola, nel rapporto di coppia, nel rapporto familiare, con gli amici, in qualunque contesto qualcosa sta iniziando a non girare per il verso giusto, bisogna immediatamente agire. Far presente che quella frase, quella avance, quel modo di fare non rispetta né la persona né la donna che siamo è il primo passo per evitare brutte conseguenze: bisogna mettere dei paletti ogni volta che è possibile, perché la violenza contro le donne è un fenomeno che inizia piccolo e quotidiano, e va fermato proprio a questo livello. Coraggio: se si è subita una violenza, bisogna ricordarsi il monito che ha lanciato Luciana Litizzetto da palco di Sanremo. "Un uomo che ci picchia non ci ama, o quantomeno ci ama male. Un uomo che ci picchia è uno stronzo, sempre, e dobbiamo capirlo al primo schiaffo": bisogna quindi lasciarlo immediatamente perché, come minimo, sta fuori di testa e deve riflettere sulla sua vita, su dove sta andando e su quali sono le sue priorità, e chiedere scusa. Se la questione è seria bisogna subito rivolgersi ad un centro antiviolenza (ce ne sono in ogni città) perché da sole non è possibile uscirne. Servono sostegno, facce amiche, aiuto anche legale: ma non è tutto qui. La violenza contro le donne è colpa degli uomini: bisogna che il ragazzo o l'uomo in questione si rendano conto di cosa hanno fatto. Per questo sono disponibili anche strutture apposite, come il Centro per gli Uomini maltrattanti di Firenze. Purtroppo, per ora non è previsto che la persona in questione venga costretta ad utilizzare queste strutture.
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2016, il cambiamento parte dai singoli, scrive Mario De Maglie, Psicologo psicoterapeuta, il 25 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Non è il sentire dell’altro che può ferire, quanto le azioni che, da quel sentire, possono scaturire. Non abbiamo in dotazione manopole in grado di calibrare quel che proviamo, così le sensazioni arrivano come e quando vogliono: bisogna pur fronteggiarle e talvolta scegliamo di farlo nelle forme meno opportune. Sottolineo la possibilità di scegliere perché, se è pur vero che non si scelgono le emozioni da provare, lo si può fare in merito alla loro espressione. Non è la rabbia dell’altro o la mia che può essere lesiva, ma la sua espressione quando si vuole deliberatamente provocare un danno, ferire, punire. Agire con violenza, all’interno di una relazione affettiva, significa aver scelto di utilizzare la propria forza per intimidire e indebolire l’altro e significa aver fallito nel riconoscere dignità al proprio sentire. Se si ha necessità di imporlo, non ci si reputa in grado di farci strada da soli verso l’altro, prima vittima di un’azione violenta. Si nega la possibilità di comprendere e di comprendersi: l’altro è il nemico, cela bisogni diversi che non ci si prende il tempo di conoscere, come se ci si reputasse sbagliati solo per il fatto di avere idee, pensieri e sentimenti che possono non coincidere con quelli di chi mi sta intorno. Gli altri e quel che di loro pensiamo spesso divergono, ma ci si ostina a voler far coincidere le due cose. La violenza di genere è diffusa e trasversale, la cronaca lo ricorda ogni volta che una donna viene ammazzata, non potendo dare la stessa attenzione a tutto quello che avviene nascosto quotidianamente all’interno delle mura domestiche. Quando parlo con gli altri uomini, riscontro una grande difficoltà nel far loro capire come il maltrattamento si nutra di tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che noi spesso applichiamo alle donne, molte delle quali, allo stesso tempo, purtroppo sembrano pretendere quasi un determinato tipo di uomo che abbia anche quelle caratteristiche perché, dal peso della cultura patriarcale nella quale si vive, non sfugge nessuno. La violenza sulle donne è un reato, probabilmente il reato più a lungo nascosto e giustificato nella nostra storia, un numero altissimo di uomini lo commette e solo una piccola parte di questi viene perseguita e ancora meno sono coloro che si rendono conto delle conseguenze che producono sulle loro partner o ex partner. Pensare di possedere l’altro è oggettivizzarlo, la prima forma di violenza dalla quale segue tutto il resto. Se voglio bene a una persona, tengo allo stare insieme a lei, tengo al fatto che mi pensi, tengo al fatto che non dedichi, ad altri, attenzioni che vorrei fossero solo per me, ma dovrei tenere altrettanto al semplice fatto che lei sia libera di poterlo scegliere. Quando si impone il controllo, la donna può accettare e rimanere in posizione passiva, per paura o per un insano condizionamento culturale che suggerisce che così deve essere, scambiando l’insofferenza per il giusto prezzo da pagare per non rimanere sola, oppure può ribellarsi e cominciare a pensare alla fuga da un tipo di relazione, in cui i suoi spazi e i suoi tempi non vengono rispettati. Se si cerca di controllare la partner, per timore che possa andare via, si aumentano le possibilità che decida davvero di farlo, a causa di quel controllo, profezie che si autoavverano. Le aspettative sono desideri sporchi di paura. Purtroppo non è lo scrivere di queste cose che cambierà gli uomini e le donne, non è una lettura che farà la differenza, non è una giornata come il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, per quanto importante. Le donne violate e ammazzate devono costituire uno stimolo di riflessione e di cambiamento prima che vengano violate e ammazzate. Non c’è indignazione che possa competere con il reale rimboccarsi le maniche. Di indignazione siamo pieni ed è forse il motivo per cui l’azione viene rimandata sempre al domani oppure ci si convince debba riguardare gli altri e non noi. Abbiamo bisogno di una volontà, di una visione e di un’azione politica che permetta a tutti coloro che si occupano della violenza di genere di farlo senza ostacoli, a tempo pieno e con le risorse adeguate. E’ la nostra società ad avere le mani sporche di sangue, ancor prima dei singoli individui, ma è dai singoli che deve partire il cambiamento, quando la collettività non ha ancora sviluppato l’autoconsapevolezza necessaria.
Comincia dagli stereotipi la lotta alla violenza sulle donne, scrive Paola Italiano il 25/11/2016 su “La Stampa”. Un tappo così innovativo che anche una donna riesce ad aprire la bottiglia. Un’auto talmente solida che si capirà la più valida ragione per acquistarla quando la moglie la riporterà a casa dopo un incidente. Sono immagini e slogan delle pubblicità del passato che oggi farebbero gridare immediatamente allo scandalo per il loro sessismo marchiano. Ma questo è frutto di una sensibilità costruita attraverso lunghe battaglie, e non è ancora un punto di arrivo: «La pubblicità italiana è considerata tra le più sessiste al mondo. Crea, sostiene e promuove stereotipi e modelli discriminanti», sostiene il pubblicitario Massimo Gastini, ed è da questa riflessione che si sviluppa oggi il dibattito al centro del convegno «Che genere di comunicazione» al Polo del ’900, alle 15. È solo uno dei tanti appuntamenti in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Perpetuare gli stereotipi, oltre a essere una grave forma di violenza, benché meno evidente, contribuisce ad alimentare la violenza. Infanzia e adolescenza sono i momenti in cui intervenire per agire sulla formazione di modelli discriminanti, e non a caso moltissime delle iniziative di oggi e dei prossimi giorni sono rivolte ai ragazzi, come quelle organizzate dal Comune in tutti i quartieri. In via Borgo Dora, al Balon, c’è una sorta di flash mob che coinvolge anche i bambini, a cura dell’associazione culturale Tékhné, a cui è stato chiesto di portare un abito che rappresenti un momento particolare del loro vissuto. Alcuni saranno sospesi in un’installazione che rimarrà visibile fino a domenica. L’arte è veicolo di espressione, riflessione e dialogo anche nelle opere e nelle foto della mostra «Apri gli occhi. Alza Voce» al «Centro Anch’io» di via Ada Negri 8, dove per tutta la giornata i ragazzi si confronteranno sul tema dell’aggressività e della violenza. Dall’arte visiva alla poesia. È un evento completamente al femminile «Donne in versi oltre il silenzio»: in corso Casale 212 alle 18,30 otto artiste proveniente da diverse parti del mondo si alterneranno con la loro arte oratoria e poetica, per celebrare la donna sotto tutti gli aspetti, dal quotidiano, al sentimentale, al tragico, all’ironico, e lo faranno coinvolgendo il pubblico. Ed è infine uno spettacolo di denuncia «Donne di Sabbia: il femminicidio di Ciudad Juarez, scritto raccogliendo testimonianze dirette delle vittime attraverso i loro diari o dai racconti dei loro familiari (alle 19 in corso Peschiera 193). E che gli stereotipi siano duri a morire, anche quelli che passano attraverso il linguaggio, lo dimostra anche il correttore ortografico del computer, che continua a sottolineare in rosso come scorretta la parola «femminicidio».
Per fermare la violenza sulle donne bisogna educare gli uomini, scrive Christian Raimo, giornalista e scrittore, l'1 agosto 2016 “Internazionale. Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione. Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare. Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla). Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può: La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti. Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento. Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate. Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio: Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un intervento d’emergenza e primario per le vittime ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità. Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto). Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma: L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato. L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: “Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’”. È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti? D'altra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente. Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato. Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica. L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica. È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili. Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così: Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner. Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me. Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle. Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: “Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche”), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo. “La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale”, scrive Valcarenghi. E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti. Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.
IL SILENZIO SULLA VIOLENZA SUGLI UOMINI.
Le donne, gli uomini e il verbo violentare, scrive Valeria Della Valle. Riceviamo da un'attenta lettrice una domanda e una riflessione sulla definizione del verbo violentare data nel Vocabolario Treccani. Visto il merito e l'interesse dell'argomento, la risposta è affidata a Valeria Della Valle, coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008). Riportiamo, per esteso, il testo inviatoci dalla lettrice, Lea Vittoria Uva, seguito dall'intervento di Valeria Della Valle. Per caso ieri stavo leggendo la definizione che l'Enciclopedia Treccani offre del termine "violentare". Mentre all'inizio della definizione parla di "una persona", mi ha colpito in particolare come nell'ultima frase specifichi che il termine può implicare il significato di violenza "sessuale", che è assolutamente corretto ovviamente, ma lo fa specificando "v. una donna, un minore, una minorenne". Mi chiedo se non sia possibile rivedere il modo in cui la spiegazione di "violenza sessuale" è stata formulata. Al momento, illustra come questo termine abbia questo significato semplicemente associando la parola "violentare" a delle vittime. Allo stesso tempo, in questo modo, esclude e discrimina le vittime di sesso maschile, e in modo più subliminale, forse, anche le persone anziane. Come se "v. un uomo" non potesse avere il significato di violenza sessuale. A livello sociale, c'è un grande stigma associato alla violenza sessuale verso uomini e verso persone anziane. Questo porta nella maggior parte dei casi a vergognarsi, a non denunciare, a non ricevere le cure e il supporto adeguato. Anche se sicuramente questa non era la Vostra intenzione, escludere (anche involontariamente) queste categorie dalla definizione di "violenza sessuale" non può fare altro che rinforzare gli stereotipi e lo stigma. Se, come spero, siamo d'accordo che la violenza sessuale non è un problema che riguarda solo donne e minori nella qualità di vittime, mi chiedo se non sia possibile riformulare quell'ultima frase, semplicemente spiegando che "violentare" può anche (e al giorno d'oggi più spesso, credo) avere un significato sessuale, ma senza partire dalle vittime, o per lo meno senza escluderne alcune. Lea Vittoria Uva
Lea Vittoria Uva pone un quesito delicato e interessante a proposito del trattamento lessicografico del verbo violentare. Vediamo come stanno le cose. Nel Vocabolario Treccani il verbo è definito in questo modo: «Sottoporre a violenza, indurre una persona, con una coercizione di natura fisica o morale, o con la suggestione, ad atti e comportamenti contrari o comunque non consoni alla sua volontà, alle sue convinzioni». La definizione è seguita da esempi di fraseologia, cioè di frasi e locuzioni che documentano l’uso del verbo: «voglio agire come mi detta la mia coscienza, non voglio essere violentato. In partic., v. una donna, un minore, una minorenne». Da un punto di vista lessicografico, il trattamento del verbo rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle definizioni vaghe e reticenti presenti in molti vocabolari del passato, che si limitavano a spiegare il verbo in modo elusivo con un generico «costringere uno con la violenza». Nel Vocabolario Treccani, invece, si fa riferimento a una «coercizione di natura fisica o morale» nei confronti di «una persona». In questo modo si allude senza mezzi termini a una violenza esercitata contro individui di qualsiasi sesso. Il termine “persona” ha rappresentato, nelle definizioni dei vocabolari, una scelta innovativa e coraggiosa, che ha svincolato le definizioni e le esemplificazioni dal peso del conformismo linguistico che riferiva solo alla donna, in un’ottica maschile, tutto ciò che la vedeva soggetto passivo di usi e tradizioni ormai superate (del resto, proprio la voce donna è stata definita a lungo come «la femmina dell’uomo»). Ma Lea Vittoria Uva osserva che anche questo tipo di fraseologia è discriminante. Perché alludere a una donna e non a un uomo, come possibile oggetto di violenza, e perché non citare, tra gli esempi di persone sottoposte a violenza, le persone anziane? Di fronte a problemi di questo genere, i lessicografi cercano di mantenere un giusto equilibrio tra la necessità di documentare gli usi linguistici e le sollecitazioni che vengono dalla cronaca, anche le più negative. I casi di violenza sessuale riguardano, con maggiore frequenza, le donne, ma colpiscono anche gli uomini, le persone anziane, malate, emarginate, imprigionate, psichicamente instabili, indipendentemente dal genere di appartenenza. Se accettassimo la proposta di Lea Vittoria Uva, estenderemmo il significato del verbo a nuovi soggetti, ma continueremmo a escludere categorie di persone virtualmente sottoposte a violenza, ogni giorno, nelle varie parti del mondo. Chi scrive le voci dei dizionari cerca di documentare gli usi linguistici in base alla frequenza delle attestazioni (nella stampa, nei siti, nel web), e ne registra le espressioni e le locuzioni più comuni. Può essere utile, a riprova, consultare, sempre nel Vocabolario Treccani, la voce stupro: «Atto di congiungimento carnale imposto con la violenza (corrisponde al termine giur. violenza carnale): commettere uno s.; essere accusato di s.; denunciare il colpevole dello s.; essere vittima di uno s.; processo per s.» Anche in questo caso il lessicografo (o la lessicografa) ha registrato il significato del termine senza mai alludere a un tipo di violenza esercitata solo su donna, come del resto aveva fatto quando, esemplificando gli usi del verbo violentare, aveva citato anche «un minorenne». Mi sembra che le due voci, violentare e stupro, rappresentino lo sforzo fatto dai redattori di un vocabolario contemporaneo per conciliare la rappresentazione della lingua d’uso con il rispetto delle minoranze e delle categorie svantaggiate. Ma sono anche convinta che non sarà l’eliminazione dei generi grammaticali, o l’imposizione di forme pronominali non marcate sessualmente, o l’aggiunta del riferimento a nuove categorie di vittime, a modificare le rappresentazioni simboliche interiorizzate e i comportamenti sociali. Valeria Della Valle, Coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008)
Gli stupri contro gli uomini di cui nessuno parla, soprattutto le vittime. In molti fin dai 18 anni se non prima hanno subito violenza sessuale. Il 47% degli uomini bisessuali, il 40% degli uomini gay e il 21% degli uomini etero, scrive Mary Tagliazucchi, Martedì 29/09/2015, su "Il Giornale". Le vittime silenziose di stupri non sono soltanto, come la maggior parte delle volte accade, le donne, ma anche molti uomini. A confermarlo negli Stati Uniti un sondaggio nazionale sulle vittime di crimini a sfondo sessuale che ha rivelato un dato inaspettato. Su 40mila famiglie americane, il 38% dei casi di violenza sessuale sono avvenuti contro gli uomini. Allarmante situazione se si pensa che i casi di stupro e violenza sessuale contro gli uomini si collocavano al massimo tra il 5% e il 14%. Lara Stemple, che collabora al Progetto Salute e Diritti Umani presso l’Università della California ha incluso, nelle sue indagini, una nuova categoria di stupro, che comprende le vittime che sono state costrette a violentare qualcun altro con proprie parti del corpo, sia con la coercizione fisica, sia quando la vittima era ubriaca o altrimenti incapace di prestare consenso. Quando sono stati presi in considerazione questi casi, i tassi di stupro di uomini e donne si sono sostanzialmente equiparati, con 1 milione e 270mila donne e 1 milione e 267mila uomini che affermano di essere state vittime di violenza sessuale. La stessa ricercatrice, sostiene che l’esperienza di uomini e donne sia molto più vicina di quanto chiunque di noi creda. Questo anche per via di alcuni fattori che fano percepire meno la vittimizzazione sessuale sugli uomini. Come i detenuti in carcere, ad esempio, che vengono esclusi persino dalle statistiche, come se il fatto di essere violentati non costituisca un dato rilevante perché delinquenti. Difficilmente denunciati o registrati da statistiche ufficiali, sono quei numerosi casi di violenza sessuale perpetrata ai danni di uomini anche durante dei conflitti armati. Le testimonianze sono spesso difficili da ottenere, e chi le rilascia dirà di avere assistito a queste violenze, piuttosto che ammettere di averle subite in prima persona. Per questo, secondo Lara Stemple, c’è un reale bisogno di rivedere completamente le nostre ipotesi sulla “vittimizzazione sessuale" e in particolare la nostra convinzione per cui gli uomini siano sempre gli autori e le donne sempre le vittime. Una recente analisi dei dati del Bjs, infatti, ha rivelato che il 46% degli uomini che si sono dichiarati vittime di violenza sessuale, sono stati stuprati da una donna. È solo di qualche mese fa infatti la notizia di un tassista violentato da tre donne sulla ventina che, dopo averlo immobilizzato, legato, e drogato, hanno abusato di lui a turno per ore. Il fatto è accaduto a Nizhni Novgorod, un grosso centro nella Russia centrale. Il malcapitato, ora sotto choc, ha dichiarato che le tre ragazze l’hanno costretto a fare delle cose che mai si sarebbe immaginato. Voleva sporgere denuncia ma il codice penale russo contempla solo il reato di violenza carnale ai danni delle donne ma non degli uomini. Il rischio è che le tre violentatrici restino impunite.
Shia LaBeouf: "Sono stato stuprato da una donna", scrive “Libero Quotidiano il 30 novembre 2014. Altro giorno, altro stupro. Hollywood non conosce pace. Ma a rompere il silenzio della decenza per l’ennesima volta è un uomo. Shia LaBeouf, noto al mondo più per le sue provocazioni che per la carriera, ha rincorso una giornalista del Dazed solo per gridarle la sua indignazione. «Sono stato abusato», avrebbe detto, sciorinando dettagli raccapriccianti. Il fattaccio, tuttora da confermare, sarebbe accaduto lo scorso febbraio, con l’attore di Nymphomaniac impegnato in un progetto artistico riassunto sotto l’hashtag #Iamsorry. Una performance al limite del reale, in cui LaBeouf non doveva far altro che stare immobile, silente al centro di una galleria di Los Angeles mentre a spettatori e curiosi era concesso pungolarlo in qualsivoglia modo. Con solletico, parole ed evidentemente molestie sessuali. «Una donna è venuta con il suo ragazzo», ha raccontato lui, «Mi ha frustato le gambe per dieci minuti, poi mi ha spogliato e stuprato. Se n’è andata via con il rossetto tutto sbavato». . Peccato solo che LaBeouf negli anni abbia abituato i media ad un «al lupo-al lupo» talmente costante da rendere quasi nulla la sua confessione odierna. (C. CAS.)
Le violenze sessuali sugli uomini, scrive “Il Post” il 14 febbraio 2014. Esistono e riguardano un numero consistente di persone, nonostante i luoghi comuni: nel Regno Unito una campagna del governo prova ad affrontare il problema. Quando si parla di violenza sessuale, e in particolare di stupro, generalmente ci si riferisce alla violenza di un uomo su una donna: è piuttosto raro, invece, pensare agli uomini come vittime di violenza sessuale, da parte di donne o di altri uomini, anche perché accade molto meno di frequente. Nel Regno Unito però se ne parla da qualche giorno, dopo che Damian Green, sottosegretario alla Giustizia, ha presentato un nuovo fondo di cinquecentomila sterline (circa seicentomila euro) dedicato al sostegno degli uomini vittime di violenza sessuale. Come ha spiegato parlando alla stampa, la decisione di istituire il fondo si deve al fatto che lo scorso anno in Inghilterra e Galles sono stati denunciati 2164 casi di violenza sessuale nei confronti di uomini dai 13 anni in su. Contestualmente all’annuncio del nuovo fondo per il supporto delle vittime di violenza Damian Green ha lanciato anche una campagna governativa chiamata #breakthesilence, “rompi il silenzio”, mirata a rendere più facile, anche per gli uomini, parlare e denunciare casi di violenza sessuale. Il fatto che comunemente la violenza sessuale si intenda come compiuta da un uomo verso una donna (perché è così nella maggior parte dei casi) costituisce uno dei principali problemi culturali nell’affrontare la violenza sessuale contro gli uomini. Fino a pochi anni fa, per esempio, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Come spiega un articolo pubblicato sul sito della CNN, è molto difficile per gli uomini riconoscersi come vittime di abusi sessuali. La questione era stata spiegata piuttosto chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan: «Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro». Ma c’è anche un secondo problema che rende difficile per gli uomini parlare delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. Aver subito una violenza di questo tipo viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere “meno uomini”, più fragili e dunque più simili alle donne (o meglio: agli stereotipi con cui vengono descritte le donne). Ma di cosa si parla? In primo luogo bisogna tenere presente che nelle varie giurisdizioni l’espressione violenza sessuale si riferisce genericamente a violenze diverse tra loro, che vanno dalla molestia fino allo stupro con penetrazione: riguardano quindi aspetti di violenza sia fisica che psicologica. In uno studio del 2009 dell’università californiana UCLA dedicato allo stupro degli uomini, Lara Stemple aveva cercato di dividere diverse tipologie di stupro sugli uomini mettendo insieme i dati disponibili. Nello studio vengono individuate tre situazioni in cui vengono perpetrate con maggiore frequenza violenze sessuali sugli uomini: nelle prigioni (negli Stati Uniti ogni anno circa il 5 per cento della popolazione carceraria subisce violenze sessuali), in regioni caratterizzate da conflitti armati (dove solo recentemente si è focalizzata l’attenzione su questo tipo di violenza sessuale) e, in generale, nei confronti dei bambini (un quarto delle violenze sessuali verso minori di 12 anni, negli Stati Uniti, è perpetrata su maschi). Tuttavia, come ha spiegato il New York Times, anche sugli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini pesano dei pesanti pregiudizi. In primo luogo, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria, ma «gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito». In secondo luogo, tendiamo a pensare che oltre una certa età, quando si smette di essere bambini, gli uomini non corrano più il rischio di essere violentati. C’è poi la questione degli uomini violentati dalle donne: se è piuttosto facile immaginare che una donna possa essere costretta da un uomo ad avere un rapporto sessuale, immaginare che un uomo possa essere forzato a un rapporto con una donna è più difficile. Si pensa insomma che gli uomini abbiano molto più controllo sulla loro erezione di quanto non sia vero e che comunque, essendo mediamente più forti fisicamente delle donne, potrebbero difendersi. Tuttavia i casi di uomini forzati ad avere rapporti sessuali penetrativi non sono rari – è molto comune per esempio che un’erezione venga scambiata per la volontà di avere un rapporto sessuale – e spesso si basano su un ricatto psicologico piuttosto che su quello fisico. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics ha mostrato come, a differenza di quello che ci potremmo aspettare e contrariamente a quello che succede tra i più giovani, per le persone con età compresa tra i 18 e 21 anni le percentuali di uomini e donne che hanno perpetrato una qualche forma di violenza sessuale almeno una volta nella loro vita sono piuttosto simili: il 48 per cento sono donne e 52 per cento uomini. Anche In Italia, come ha concluso una ricerca dell’università di Arezzo, la situazione è simile: «il fenomeno della violenza fisica, sessuale, psicologica e di atti persecutori, in accordo con la ricerca internazionale, vede vittime soggetti di sesso maschile con modalità che non differiscono troppo rispetto all’altro sesso».
Uomini stuprati dalle donne: i dettagli horror, cosa fanno ai maschi le donne predatrici", scrive “Libero Quotidiano il 2 dicembre 2016. Donne vittime ma anche donne carnefici. Che violentano sessualmente gli uomini. Una brutale (benché quasi incredibile) realtà fotografata nel questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention. Un articolo di Vice dà voce a Lara Stample, professoressa di diritto alla UCLA. Sono gli uomini che sono stati costretti a penetrare qualcuno - tramite la coercizione, l'uso di forza, o comunque in mancanza di consenso -: questo fenomeno entra nella categoria: "altre vittimizzazioni". Secondo la Stemple, "violenze come queste vengono minimizzate, sempre." Come riporta Dagospia, la terminologia vaga usata dal CDC per etichettare gli uomini vittime di violenze sessuali è sintomo di una tendenza preoccupante: "Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare," dice Stemple. "Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima". La studiosa da anni analizza il fenomeno, secondo lei sottovalutato, delle molestie sugli uomini. Nel 2014 ha pubblicato una ricerca sul tema degli uomini "costretti a penetrare". Un atto che come conseguenze negative può provocare: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Anche le donne, quindi, possono compiere abusi. "La gente pensa sia una cosa rara," dice Stemple. "Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile". Sono le "predatrici sessuali". Il 68,6 percento di uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di "stupratrici" donne. Un film con Demi Moore che "molestava" il suo subordinato, Michael Douglas, negli anni Novanta fece molto parlare su questo argomento. Ci sono molti ostacoli per gli uomini che vogliono denunciare una violenza sessuale. Molti si vergognano, altri mentono e dicono di essere stati violentati da un uomo. Gli stereotipi non aiutano: gli uomini sono comunemente considerati "non stuprabili". Invece, a quanto pare, lo sono.
Congratulazioni al Regno Unito, che ha eliminato il problema della violenza sessuale contro gli uomini tagliando i fondi agli enti che si occupano di aiutare le vittime, scrive Mary Elizabeth Williams per “Salon” il 27 maggio 2015. “Survivors UK” è la più grande organizzazione del suo genere e ha ricevuto circa 70.000 sterline all’anno dal fondo per le vittime, stanziato dal Ministero della Giustizia, grazie ai servizi a sostegno di chi ha subito abusi sessuali, da piccolo o da adulto. Offre psicologi e specialisti nella zona di Londra e chat on line per gli individui più lontani, ma dal 31 marzo i soldi non arrivano più, cancellati dall’agenda di governo. L’organizzazione ha ora lanciato una campagna su “Change.org” chiedendo che venga riconosciuto il sostegno alle vittime maschili di violenza sessuale, dato che negli ultimi due anni, solo a Londra, sono cresciute del 120%, con 307 uomini violentati e 518 oggetto di serie molestie sessuali. A ricordarci che anche i ragazzi sono vittime di stupro c’è l’inchiesta sui 34 stupri e le 214 molestie perpetrate dal comico Jimmy Savile. Il portavoce Michael May dice che dall’ufficio del sindaco non è partita alcuna notifica sull’eventuale rinnovo dei fondi, ma l’ufficio del sindaco risponde che entro il 2016 saranno stanziate oltre 4 milioni di sterline per fornire supporto alle vittime di violenza domestica, incluse quelle maschili. Le aggressioni di uomini adulti e ragazzi da parte delle donne vengono spesso ignorate o sminuite. Anzi le vittime sono ritenute “fortunate”, come a dire che gli uomini non sono violabili e sono sempre consensuali. Lo stupro da uomo a uomo avviene spesso e le vittime, dopo il danno, vengono beffate e bullizzate. Vieni sodomizzato con una matita a scuola? Una bravata da ragazzi, rispondono i presidi. In America un detenuto su dieci viene violentato in cella, i bersagli preferiti sono gay, trans o bisessuali. Lo stesso accade negli ambienti militari. Eppure proprio non si riesce ad accettare l’idea che gli uomini possano essere offesi sessualmente. Quel giovane stuprato e picchiato così tanto da doversi sottoporre a una plastica facciale chiamò subito il centro anti-stupro per sentirsi rispondere: «Il servizio è solo per le donne». Gli hanno riattaccato. Bisogna garantire eguale trattamento a uomini e a donne. Nel 2014, tra Inghilterra e Galles, sono stati perpetrati 3.580 violenze sessuali su uomini. La vergogna è tale che solo il 2-3% dei maschi decide di denunciare, gli altri soffrono in silenzio.
Ci sono molti aspetti positivi nel questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention, spiega Lara Stample, professoressa di diritto alla UCLA. "Chi se ne occupa fa un sacco di domande e mette a proprio agio gli interlocutori," spiega. "In più, è un questionario che dà la possibilità di parlare apertamente del proprio corpo e stato di salute." Scrive Steven Blum per vice.com il 2 dicembre 2016. Ma nel questionario non viene data alcuna rilevanza agli uomini che sono stati costretti a penetrare qualcuno—tramite la coercizione, l'uso di forza, o comunque in mancanza di consenso: quei dati finiscono sotto la categoria "altre vittimizzazioni", insieme a esperienze un po' meno gravi come "molestie sessuali senza contatto fisico." "È inserito nella stessa categoria di un apprezzamento non richiesto, o di chi assiste a un atto di esibizionismo," dice Stemple. "Violenze come queste vengono minimizzate, sempre." La terminologia vaga usata dal CDC per etichettare gli uomini vittime di violenze sessuali è sintomo di una tendenza preoccupante, diffusa tra i ricercatori come tra chi aiuta le vittime di violenze e le forze dell'ordine, dice Stemple. L'implicazione è che "Per gli uomini, il sesso è sempre sesso." "Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare," dice Stemple. "Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima." Da tempo Stemple, decisa a contrastare la scarsa attenzione sul tema, studia le molestie sugli uomini. Nel 2014 ha pubblicato una ricerca sugli uomini vittime di violenza sessuale, in cui analizzava i questionari e scopriva che, se si considerano i dati sui rapporti sessuali non consensuali, gli uomini che "sono stati costretti a penetrare" non sono affatto una minoranza. La voce "costretti a penetrare" è diversa da come immaginiamo di solito una violenza sessuale, ha scritto la giornalista di Slate Hanna Rosin in un articolo sulla ricerca di Stemple. Ma può avere gli stessi effetti: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Mentre ancora non ci sono studi sufficienti per capire le conseguenze della violenza sessuale sugli uomini, la nuova ricerca di Stemple si concentra su chi compie la violenza. In un nuovo studio ha esaminato insieme ad altri due ricercatori tre sondaggi del CDC e del Bureau of Justice Statistics americani per capire il comportamento delle donne autrici di violenza sessuale, analizzando sia le vittime uomini che donne. Quello che hanno scoperto va decisamente contro l'idea che le donne non compiano abusi sessuali. "La gente pensa sia una cosa rara," dice Stemple. "Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile." La minaccia rappresentata dalle predatrici sessuali è sempre stata incompresa o minimizzata dalla comunità dei ricercatori. Anche se è dagli anni Trenta che si ipotizza che esista, studi sistematici sulla vastità e la natura del fenomeno non sono stati condotti fino agli anni Novanta. Ma anche allora sono stati limitati, e si concentravano principalmente sulle violenze sessuali ai danni di minori. Solo durante l'ultimo decennio le ricerche sul tema hanno iniziato a essere più estese. Il nuovo studio di Stemple, con la sua inclusività, interpreta gli ultimi sondaggi dei CDC facendo notare che il 68,6 percento di uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di stupratrici donne. E, tra gli uomini che dichiarano di essere stati costretti alla penetrazione—"la forma di rapporto non consensuale che gli uomini hanno più probabilità di esperire nell'arco della loro vita," secondo lo studio—il 79,2 percento fa riferimento a donne. Gli autori dello studio hanno anche cercato di individuare il modo in cui operano le donne che compiono queste violenze. Secondo i questionari del Bureau of Justice Statistics—che usano termini chiari come "pompini", cosa che secondo Stemple aumenta l'accuratezza della risposta—le detenute donne hanno più probabilità di essere violentate da altre detenute che dagli uomini del personale. Inoltre, l'80 percento delle violenze sessuali perpetrate dallo staff carcerario ha come responsabile una donna, e tra i minorenni questo numero sale addirittura all'89,3 percento. E forse il dato più sorprendente, considerato lo stereotipo della vita in carcere, è che lo stesso questionario ha rivelato che le violenze sessuali tra donne sono superiori a quelle tra uomini. Detto questo, è ancora più sorprendente il fatto che pochissime donne finiscano nel registro dei sex offender. Uno studio ha evidenziato che solo una quantità inclusa tra lo 0,8 e il 3 percento dei nomi sul registro sono di donne; altri dati sostengono che sia meno del 2 percento. È però vero che ci sono molti ostacoli per gli uomini che vogliano denunciare una violenza sessuale. Secondo lo studio di Stemple, alcuni si vergognano. Altri mentono e dicono di essere stati violentati da un altro uomo, o vengono convinti a minimizzare quello che è successo. Inoltre, gli stereotipi di genere per cui gli uomini sarebbero non stuprabili non aiutano. La maggioranza degli studenti universitari che hanno risposto a un questionario a riguardo nel 1992 non credeva che un "uomo forte e grande potesse essere stuprato da una donna", e più recentemente, nel 2012, partecipanti della stessa età hanno dichiarato che essere stuprati da una donna non sarebbe stata un'esperienza "così brutta". Le violenze attuate da donne su altre donne, poi, sono state studiate "anche di meno rispetto alle violenze sugli uomini," stando allo studio. "A causa della cultura sessista, lesbiche e bisessuali sarebbero vittime di abuso che passano quasi inosservate," si legge nello studio. "Anche se pochi centri anti-violenza hanno creato programmi orientati alla comunità LGBT, le donne lesbiche o bisessuali riportano che, in generale, le linee telefoniche, i gruppi di supporto e le organizzazioni di supporto legale sembrano indirizzate solo a casi in cui è l'uomo il colpevole." "Ho conosciuto un uomo che è stato stuprato da una donna da bambino," mi dice Stemple. "Ancora oggi, ha paura di rimanere solo in una stanza con una donna. Come puoi immaginare, non è facile per lui condividere questa paura con altre persone. Oggi ritiene di aver superato il tutto, ma è una rarità. Ed è facile capire che altri uomini condividono la sua paura ad aprirsi, soprattutto se il carnefice è una donna."
Inchiesta choc: ecco le donne che violentano gli uomini, scrive venerdì 2 dicembre 2016 "Diretta News". Da un questionario sulla violenza sessuale dei Centers for Disease Control and Prevention distribuiti in tutti gli Stati Uniti è emersa una realtà della quale si parla pochissimo, ma che invece è più diffusa di quanto si possa pensare. Gli stessi ricercatori tendono a sottovalutare il fenomeno che però ha numeri statisticamente rilevanti. Si tratta degli uomini che subiscono violenze sessuali da parte delle donne, uomini che, come spiega la Prof.ssa Lara Stample “sono stati costretti a penetrare qualcuno—tramite la coercizione, l’uso di forza, o comunque in mancanza di consenso”. Questi dati raccolti in forma anonima vengono solitamente messi sotto la categoria “altre vittimizzazioni”, insieme a esperienze meno gravi come “molestie sessuali senza contatto fisico”. “È inserito nella stessa categoria di un apprezzamento non richiesto, o di chi assiste a un atto di esibizionismo,” spiega ancora la Stemple. Secondo la professoressa che insegna diritto alla UCLA c’è “una tendenza preoccupante, diffusa tra i ricercatori come tra chi aiuta le vittime di violenze e le forze dell’ordine. Il modo in cui parliamo del rapporto tra uomini e sesso deve cambiare. Con tutti questi stereotipi, è difficile per un uomo ammettere di trovarsi nella posizione di vittima”. Gli effetti di chi viene obbligato a penetrare una donna sono simili a quelli di chi subisce violenze sessuali: depressione, perdita di autostima, e difficoltà nel creare relazioni a lungo termine. Ma chi sono le donne autrici di violenza sessuale? “La gente pensa sia una cosa rara,” dice Stemple. “Crede che possa succedere solo in contesti specifici, per esempio prof-studente. Ma è molto diffusa e, stando ai questionari, a nessuno interessa. A me sembra incredibile”. Si tratta delle cosiddette predatrici sessuali. La Stemple spiega: “Il 68,6 percento degli uomini che dicono di essere stati vittima di violenze sessuali parlano di stupratrici donne. E, tra gli uomini che dichiarano di essere stati costretti alla penetrazione—la forma di rapporto non consensuale che gli uomini hanno più probabilità di esperire nell’arco della loro vita, secondo lo studio—il 79,2 percento fa riferimento a donne”. La professoressa conclude ricordando un episodio significativo: “Ho conosciuto un uomo che è stato stuprato da una donna da bambino. Ancora oggi, ha paura di rimanere solo in una stanza con una donna. Come puoi immaginare, non è facile per lui condividere questa paura con altre persone. Oggi ritiene di aver superato il tutto, ma è una rarità. Ed è facile capire che altri uomini condividono la sua paura ad aprirsi, soprattutto se il carnefice è una donna”.
Violenza sessuale: quando ad essere stuprato è un uomo, scrive il 18 gennaio 2016 Nicola Maria Coppola su "Bossy.it". Smentiamo categoricamente che le vittime di violenza sessuale siano sempre e solo le donne. Ritenere che gli uomini siano sempre e solo gli assalitori e le donne sempre e solo le aggredite è fuorviante, tendenzioso, sessista e profondamente ingiusto. Nessuno vuole sottostimare la gravità e la drammaticità della violenza sessuale ai danni delle donne, anzi; i dati parlano chiaro, ed è cosa nota che la violenza contro le donne sia un fenomeno ampio e diffuso. Secondo l’Istat, sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subito stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Questi dati, che si riferiscono al solo 2015, sono agghiaccianti, e chi di competenza dovrebbe affrontare con ancora più serietà e con un progetto a lungo termine il fenomeno, al fine di porre in essere strategie di contrasto e campagne di sensibilizzazione tali da debellare questo abominio. È giusto, però, e intellettualmente corretto dire che anche gli uomini sono vittime di violenza sessuale. Sì, anche i maschi vengono stuprati, checché si pensi e si dica. E le situazioni e le dinamiche in cui avviene lo stupro sono esattamente le stesse in cui si consuma la violenza sessuale ai danni delle donne. Lo stupro non è di genere: è compiuto sia da uomini sia da donne, sia ai danni degli uomini sia ai danni delle donne, e come tale la questione dovrebbe essere affrontata. Diversamente da quanto previsto e garantito dalla legge alle vittime femminili, però, l’uomo trova oggettive ed obiettive difficoltà nel denunciare la violenza subita, poiché non esiste nessun centro di accoglienza, non è attivo nessun numero verde, non c’è nessuno sportello di ascolto pubblico o privato. Niente di niente! “Persino in commissariato – hanno fatto notare quei pochi ricercatori che si dedicano allo studio delle violenze sugli uomini – quando prova a sporgere denuncia, l’uomo che ammette di essere (stato) vittima di violenza carnale ha difficoltà ad essere creduto e si scontra con un atteggiamento di sufficienza, sottovalutazione del fenomeno, spesso anche derisione”. Gli uomini violentati, dunque, non subiscono soltanto danni psicologici e fisici, ma devono affrontare anche lo stigma di una società tendenzialmente omofoba e in cui i valori predominanti sono quelli legati al concetto di macho, di maschio, di homme viril. Gli uomini che sono stati stuprati tendono a tenere nascosta la violenza e non chiedono aiuto a nessuno perché, qualora la notizia dovesse diventare pubblica, verrebbero immediatamente bollati, additati come omosessuali, emarginati dalla comunità, e, probabilmente, abbandonati dalla famiglia. L’abuso sessuale diventa una colpa che pesa come un macigno e che fa male: molti uomini violentati finiscono addirittura per suicidarsi. È molto difficile per gli uomini vedersi – ed eventualmente accettarsi – come vittime di abusi sessuali. La questione è stata spiegata chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan in un’intervista rilasciata alla CNN e ripresa dal Post: “Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro”. C’è pure un secondo motivo che impedisce agli uomini di parlare apertamente o meno delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. “Aver subito una violenza di questo tipo – spiega ancora la Dottoressa Donovan – viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere meno uomini, più fragili e dunque più simili alle donne”. In una cultura come la nostra in cui l’uomo, solitamente, deve rispondere di fronte alla legge del proprio comportamento sessuale aggressivo, è assai difficile che riesca a trovare facilmente posto dall’altra parte della barricata e, quindi, come vittima. Ma la realtà è un’altra! Secondo alcuni studi, la percentuale degli stupri sugli uomini si aggira intorno al 50% del totale degli stupri, decimale in più decimale in meno. Per esempio, stando ai dati raccolti e diffusi da STIRitUP, un progetto di ricerca europeo che ha analizzato la violenza tra partner nei giovani e che è stato condotto in 5 Paesi europei, ovvero l’Italia, l’Inghilterra, la Bulgaria, Cipro e la Norvegia, in 3 Paesi su 5 (inclusa, ahinoi, la nostra amata Repubblica) il numero di vittime maschili di stupro è superiore a quello delle vittime femminili. Inoltre, un altro studio del 2015 sulla violenza tra partner realizzato in 6 Paesi europei – Portogallo, Grecia, Regno Unito, Germania, Austria ed Ungheria – ha mostrato che entrambi i sessi sono vittime di violenza sessuale in egual numero ed egual misura. Indagini effettuate in Paesi non-occidentali come l’Uganda e l’India hanno dato gli stessi risultati, mostrando chiaramente che il fenomeno non legato alla cultura locale ma è trasversale. Andando un po’ a ritroso nel tempo, uno studio del 2014 pubblicato sulla rivista dell’American Psychological Association Psychology of Men & Masculinity e riportato dettagliatamente qui, ha svelato che oltre 4 uomini su 10 (il 43%) di scuola superiore e università avevano vissuto una coercizione sessuale, che si era tradotta nella metà dei casi in un rapporto sessuale. Il 31% dei partecipanti allo studio aveva ricevuto coercizione verbale, il 18% coercizione fisica e il 7% coercizione tramite sostanze per sesso non consenziente, mentre il 26% ha riportato di aver ricevuto seduzioni sessuali non volute per lo stesso motivo. Il 95% degli intervistati ha inoltre riferito che i perpetratori di tali violenze fossero donne e l’1,6% che fossero uomini e donne contemporaneamente. Ancora, un altro studio comparso sull’American Journal of Public Health, che riprende i dati raccolti dal 2010 al 2012 dal Bureau of Justice Statistics, dai Centers for Disease Control and Prevention e dall’FBI, rivela che proprio l’FBI sostiene che le indagini federali rilevano un’elevata prevalenza di vittimizzazione sessuale tra gli uomini in molte circostanze simile alla prevalenza trovata tra le donne. “Abbiamo identificato i fattori che perpetuano percezioni errate circa la vittimizzazione sessuale degli uomini: la dipendenza dagli stereotipi di genere tradizionali, le definizioni obsolete e incoerenti, e i pregiudizi metodologici di campionamento che escludono i detenuti”. Fino a pochi anni fa, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Lo stupro veniva considerato e affrontato a livello legislativo come: “Conoscenza carnale – carnal knowledge – di una femmina con la forza e contro la sua volontà”. Nel 2013, però, la definizione è stata modificata, e oggi l’FBI chiarisce che lo stupro è: “La penetrazione, non importa quanto delicata, della vagina o dell’ano con qualsiasi parte del corpo od oggetto, o la penetrazione orale da un organo sessuale di un’altra persona, senza il consenso della vittima”. I pregiudizi e gli stereotipi che orbitano attorno al fenomeno dello stupro maschile toccano anche gli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini. Innanzitutto, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria ma, come ha fatto giustamente notare il New York Times “gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito”. In secondo luogo, si tende a pensare che superata una certa età, e quando, quindi, si smette di essere bambini, gli uomini non rischino più di essere violentati. Non è così, perché un dettagliato studio americano del 2012 su studenti universitari ha rivelato che il 51,2% era stato vittima di una qualche forma di violenza sessuale dall’età di 16 anni in poi. C’è poi la questione degli uomini stuprati dalle donne perché sì, ci sono donne che stuprano uomini. Come si può leggere in un paper pubblicato nel 2013 sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics e ripreso qui: “Non è raro credere che un uomo non possa essere stuprato da una donna. Gli stereotipi di genere possono rendere difficile immaginare una donna dominante costringere o forzare un uomo che non vuole a fare sesso. Di conseguenza, le vittime maschili di autori femminili sono giudicate più duramente delle vittime maschili di autori maschili. Inoltre, gli stessi comportamenti percepiti come sessualmente aggressivi quando commessi da un maschio possono essere percepiti come romantici o promiscui se commessi da una femmina. Ciò nonostante, i dati fisiologici suggeriscono che gli uomini possono essere stuprati; un’erezione non significa necessariamente eccitazione sessuale e può essere riflessogenica. Gli operatori sanitari per gli adolescenti hanno bisogno di valutare il potenziale dei propri pregiudizi di genere in questo settore in modo che possano essere più efficaci nell’identificare e nel trattare autori femminili e vittime maschili quando essi si presentano”. È bene smentire, dunque, la radicata convinzione che sia impossibile per i maschi rispondere sessualmente quando molestati sessualmente da donne: è stato dimostrato, infatti, che l’erezione può verificarsi in una varietà di stati emotivi, tra cui la rabbia e il terrore. Dunque, “L’induzione di eccitazione e l’orgasmo non indicano che i soggetti vittime di violenza abbiano acconsentito alla stimolazione. La difesa dei perpetratori costruita semplicemente sul fatto che la prova di un’eccitazione genitale o dell’orgasmo dimostri il consenso non ha validità intrinseca” e deve essere ignorata quando ci si trova dinanzi a un episodio di stupro maschile. Non è questa l’occasione per parlare di stupro maschile come strumento di guerra, ma è bene notare che durante i conflitti spesso vengono commessi stupri allo scopo di seminare il terrore tra la popolazione, di disgregare famiglie, di distruggere comunità e, in alcuni casi, di modificare la composizione etnica della generazione successiva. Come scrive Kirthi Jayakumar, avvocato specializzato in diritto internazionale pubblico e dei diritti umani, la violenza sessuale contro gli uomini in situazioni di conflitto ha l’obiettivo di distruggere l’essenza del “maschio” che dovrebbe essere custode della società, i capifamiglia di famiglie in un contesto sociale, e di sbriciolare la santità legata alla loro mascolinità. Che lo stupro nella sua dimensione generale e globale sia una piaga da debellare è noto a tutti. Che lo stupro ai danni delle donne sia un abominio lo è altrettanto. Che le vittime di stupro possano essere e siano uomini, invece, è un fenomeno ancora sottovalutato e sottostimato. Uomini e donne non sono poi così diversi: sono potenziali vittime di violenza sessuale allo stesso modo. Lo stupro maschile non vale meno di quello femminile e non deve essere taciuto, né come fenomeno tangibile né come evidenza possibile. Solo quando si comincerà ad affrontare con fermezza ed onestà intellettuale il problema della violenza sessuale ai danni degli uomini potremmo dire di aver compiuto un ulteriore passo verso l’equiparazione tra uomini e donne.
Sesso e psiche: quando le donne violentano gli uomini. Sono sempre di più gli uomini che denunciano violenze fisiche e psicologiche da parte delle compagne, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Uomini violentati, uomini perseguitati. Anche loro vittime di stalking. Oltre il 30% degli uomini subiscono danneggiamenti, pedinamenti, telefonate indesiderate da ex mogli o compagne. Non sono solamente le donne ad essere minacciate, violentate anche psicologicamente e ridotte in fin di vita da uomini malati d’amore e di desiderio di possesso. Dietro la violenza si nasconde anche la sofferenza di molti uomini. “La “normalizzazione” pubblica della violenza femminile attraverso messaggi pubblicitari, spettacoli televisivi, cinema, stampa, video web sta creando assuefazione ed abbassando l’allarme sociale- spiega a Panorama.it, Sara Pezzuolo psicologa forense e autrice della ricerca “Violenza verso il maschile”- la scena di un uomo che schiaffeggia una donna in un reality suscita sdegno e scatena, giustamente, la condanna pubblica ma a ruoli invertiti, la stessa scena non suscita uguale sentimento ed uguali reazioni. Anzi, viene minimizzata diviene “normale”, perfino ironica”. Perché? Quali sono le differenze? E poi, gli episodi di violenza diventano “proponibili” anche pubblicamente, solo se ne sono vittime gli uomini? I dati della prima ricerca condotta in Italia sulle violenze sul sesso maschile sono sconcertanti, tanto quanto quelle sulle donne. Il 58,1% degli oltre mille uomini intervistati (1058), dichiara di subire violenze fisiche dalla propria partner con modalità tipiche maschili ovvero con percosse come calci o pugni. “Oltre il 63% degli uomini hanno dichiarato di subire la minaccia di violenze fisiche da parte della compagna e nel 60,5% dei casi, la violenza fisica risulta essere stata effettivamente messa in atto con modalità tipicamente femminili come graffi, morsi, capelli strappati - continua la psicologa – mentre il lancio di oggetti si attesta poco oltre il 50%”. Molto inferiore risulta la percentuale (8,4%) di coloro che dichiarano che una donna abbia posto in essere un’aggressione alla propria incolumità personale attraverso atti violenti che avrebbero potuto causare il decesso, come ad esempio il soffocamento, avvelenamento oppure ustioni. Resta però, l’utilizzo di armi proprie ed improprie che appare in circa un quarto (23,5% dei casi) delle violenze femminili. Il 15, 7% degli uomini di un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, invece, ha dichiarato di essere stato vittima di altre forme di violenza non contemplate nella ricerca come ad esempio: tentativi di folgorazione con la corrente elettrica, investimenti con l’auto, mani schiacciate nelle porte (in un caso nel cassetto), spinte dalle scale. Ma ad essere inquietanti per quanto sorprendenti sono i dati relativi alle violenze sessuali subite dagli uomini. Infatti, l’8,6% sono gli uomini vittime di violenza sessuale attraverso l’utilizzo della forza o delle minacce. In questi casi l’uomo denuncia di essere costretto ad avere rapporti sessuali in forme a loro non gradite come ad esempio rapporti sado-maso oppure rapporti nel periodo mestruale. Non solo, il 4,1% dei soggetti intervistati dichiara di essere stato forzato ad avere rapporti sessuali con altre persone incluso sesso di gruppo o scambi di coppia. “Ma ad essere risultate interessanti sono le note che hanno inserito negli spazi, previsti in ogni batteria di domande, per l’aggiunta facoltativa di ulteriori dettagli”, continua la psicologa. Tra le costrizioni sgradite, infatti, figurano alcune richieste “estrose”, ma vissute con disagio, vergogna o turbamento da parte degli uomini. E quali sono? La pretesa di accoppiamenti in luoghi aperti pur potendo disporre di un’abitazione, la presenza sul letto dei due gatti della partner, la richiesta da parte della moglie di solo sesso orale escludendo per 18 mesi la penetrazione. “Ed alcune richieste più “violente” in merito alle quali non sembra opportuno scendere nei dettagli - precisa Pezzuolo - ma che comunque comportano lesioni visibili, in alcuni casi permanenti come piccole cicatrici ed ustioni”. Solo il 2,2% degli uomini ha dichiarato di non aver mai subito alcun tipo di violenza sessuale. “Affrontando nella ricerca l’argomento della sessualità, risulta evidente come la difficoltà maschile nel riconoscere di aver subito violenza sessuale sia sensibilmente minore rispetto alla percezione di subire violenza fisica o psicologica - prosegue Sara Pezzuolo - infatti nessun item sulla violenza sessuale registra risposte positive in percentuali superiori al 50%”. La percentuale maggiore, il 48,7% dei casi, riguarda il rapporto intimo avviato ma poi interrotto dalla partner senza motivi comprensibili. “Gli uomini, pur riconoscendo alla donna la libertà di interrompere il rapporto sessuale in qualsiasi momento, riferiscono di rimanerne mortificati, umiliati, depressi. Nessun maschio afferma di pretendere la continuazione di un rapporto non più desiderato dalla donna, o tanto meno di costringerla a portarlo a termine; i soggetti intervistati esprimono la libertà di non essere costretti a fingere indifferenza e/o a negare la frustrazione che deriva dal rifiuto, nonché le conseguenze sul piano fisico ed emotivo. La gamma di turbamenti riferiti va dal malessere fisico all’insonnia, dalla mortificazione nel sentirsi rifiutato al dubbio di non essere più desiderato; dal timore di non essere in grado di soddisfare la partner al dubbio che in precedenza la stessa abbia simulato un desiderio ed un piacere che non ha mai provato; dal dubbio del tradimento alla sensazione di inadeguatezza; dal timore per la stabilità della coppia al calo dell’autostima”. Insomma forme di violenza fisiche che violentano anche la mente. Ma la violenza che colpisce i 3/4 degli uomini è quella psicologica ed economica. Oltre il 75,4% dichiara di essere insultato, umiliato e di provare sofferenza dalle parole utilizzate dalla propria compagna. Ma quali sono le forme di “controllo e costrizione psicologica” più frequenti? Il 68,8% degli uomini subiscono limitazioni o impedimenti nell’incontrare i figli o la propria famiglia d’origine mentre il 44,5% per le attività esterne: sport, hobby, amicizie; il 39,5% denuncia imposizioni in merito ad aspetto e comportamento in pubblico; controllo sul denaro speso, quanto e come nel 32,9% dei casi. Ma la forma più frequente è atteggiamento ostile della donna qualora non avesse l’ultima parola sulle scelte comuni. E questo accade nel 68,2% dei casi. L’uomo è costretto a subire, a differenza delle donne, le “minacce trasversali” ovvero aggressione verso oggetti personali della vittima, persone care e persino animali domestici. “Altro fenomeno emergente rilevato dal questionario è quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza – conclude la psicologa Pezzuolo - tale problematica compare in 512 casi sul totale dei casi esaminati (48,4%) proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. La domanda che ha raccolto il maggior numero di risposte positive riguarda le provocazioni fisiche e verbali nel 77,2% dei casi”.
Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta- che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”. Il fenomeno della violenza fisica, sessuale, psicologica e di atti persecutori, come è stato rilevato da numerose ricerche condotte in altri Paesi, anche in Italia vede vittime soggetti di sesso maschile con modalità che non differiscono troppo rispetto all’altro sesso. Non solo. “I dati dimostrano che le modalità aggressive non trovano limiti nella prestanza fisica o nello sviluppo muscolare - continua la psicologa - anche un soggetto apparentemente più “fragile” della propria vittima può utilizzare armi improprie, percosse a mani nude, calci e pugni secondo modalità che solo i preconcetti classificano come esclusive maschili”. Ma la maggior parte dei soggetti intervistati da Sara Pezzuolo che hanno dichiarato di avere figli, ha fatto emergere l’effettiva strumentalizzazione che i bambini hanno all’interno della coppia in crisi. “E’ proprio la separazione e la cessazione della convivenza, specialmente in presenza di bambini a costituire un terreno particolarmente fertile per comportamenti che implicano una violenza psicologica”. Quali sono le pressioni più frequenti attuate dalle donne che si trasformano in vere e proprie violenze? Il 68,4% del “gentil sesso” minaccia costantemente il compagno di chiedere la separazione, togliergli casa e risorse e di ridurlo in rovina; il 58,2% lo minaccia di portargli via i figli mentre il 59,4% di ostacolare i contatti con il proprio figli. Il 43,8% delle donne addirittura minaccia il compagno di impedirgli definitivamente ogni contatto con i figli. Ma questa violenza femminile talvolta non travolge solamente il compagno: “La violenza psicologica- continua Pezzuolo - si estende spesso all’interno ambito parentale paterno. La minaccia implica pertanto che i figli non potranno avere più alcun contatto non solo col padre, ma nemmeno con nonni, zii, cugini”. L’utilizzo strumentale dei figli come mezzo di rivalsa emerge in percentuali rilevanti, indifferentemente nelle coppie coniugate, conviventi o separate, sia prima, durante e dopo la separazione. Inoltre dall’indagine emergono tipologie di violenze psicologiche sul maschio anche nell’atto della procreazione. “La paternità imposta con l’inganno comprende perlopiù casi in cui la gravidanza non è frutto di un rapporto consolidato. La partner (114 risposte, in 21 casi la moglie o compagna stabile, in 93 casi una compagna occasionale) matura la decisione di procreare e ne tiene all’oscuro l’uomo - prosegue la psicologa - mettendo in atto strategie ingannevoli, mentendo sulla sua fertilità e/o sull’uso di anticoncezionali, per poi chiedergli di “assumersi le proprie responsabilità”. Questi atteggiamenti come vengono subiti e vissuti dagli uomini? “Tale assunzione di responsabilità, quando è frutto di una scelta unilaterale imposta all’altro con l’inganno, risulta essere vissuta - e descritta nelle domande aperte - come una grave forma di violenza e prevaricazione; va detto che in alcuni casi la descrizione avviene anche attraverso toni particolarmente aspri, rabbiosi, offensivi”. L’interruzione della gravidanza contro il parere paterno si verifica nel 9,6% dei casi, la paternità imposta con l’inganno nel 10,7% mentre l’attribuzione fraudolenta di paternità, o tentativo di attribuzione nel 2,7% dei casi presi in esame. Altro fenomeno emergente che il questionario ha rilevato è proprio quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza. Tale problematica emerge in 512 casi sul totale 1.058 casi esaminati proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. E la domanda posta agli uomini da Sara Pezzuolo che ha raccolto il maggior numero di risposte positive con il 77,2% riguarda proprio le provocazioni fisiche e verbali. Ecco alcune delle domande del questionario che Panorama.it, vi mostra con il numero dei soggetti e la percentuale di risposta.
1 - è capitato che una tua partner si sia arrabbiata nel vederti parlare con un’altra donna (Risposte: 726) 68,6%.
2 - è capitato che una tua partner ti abbia umiliato o offeso di fronte ad altre persone, trattandoti da sciocco, mettendo in ridicolo le tue idee o raccontando tuoi fatti personali (99) 66,1%.
3 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato sgradevolmente perché non riesci a guadagnare abbastanza(538) 50,8%.
4 - è capitato che una tua partner ti abbia invitato sarcastica a trovare un secondo o terzo lavoro (373) 35,2%.
5 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato perché le fai fare una vita modesta (526) 50,2%.
6 - è capitato che una tua partner ti abbia paragonato, irridendoti, a conoscenti, colleghi, mariti di amiche etc., che godono di posizioni economiche migliori della tua (405) 38,2%.
7 - è capitato che una tua partner abbia rifiutato di partecipare economicamente alla gestione familiare in maniera proporzionale al suo reddito (511) 48,2%.
8 - è capitato che una tua partner abbia criticato e/o offeso i tuoi parenti pur sapendo che questo ti ferisce (767) 72,4%.
9 - è capitato che l'atteggiamento di una tua partner sia diventato ostile quando non era lei ad avere l’ultima parola sulle scelte comuni (726) 68,2%
10 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per difetti fisici (bassa statura, calvizie, occhiali) (311) 29,3%.
11 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per abbigliamento, calzature, pettinatura, barba incolta, aspetto in generale (519) 49,1%.
12 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato per come ti occupi della casa o per come educhi i figli, ad esempio dicendoti che sei un incapace, un buono a nulla etc. (650) 61,4%.
13 - è capitato che una tua partner ti abbia ignorato, non ti abbia parlato, non abbia preso in considerazione ciò che dici o non abbia risposto alle tue domande (720) 68,1%.
14 - è capitato che una tua partner ti abbia insultato o preso a male parole in un modo che ti ha fatto stare male (798) 75,4%.
15 - è capitato che una tua partner abbia cercato di limitare i tuoi rapporti con la tua famiglia, i tuoi figli o i tuoi amici (728) 68,8%.
16 - è capitato che una tua partner ti abbia impedito o cercato di impedirti di fare sport, di coltivare un hobby o altre attività da svolgere fuori casa (471) 44,5%.
17 - è capitato che una tua partner ti abbia imposto o cercato di importi come vestirti, pettinarti o comportarti in pubblico (418) 39,5%.
18 - è capitato che una tua partner abbia messo insistentemente in dubbio la tua fedeltà e/o la tua sincerità (638) 60,3%.
19 - è capitato che una tua partner ti abbia seguito e/o abbia controllato i tuoi spostamenti (389) 36,7%.
20 - è capitato che una tua partner abbia controllato costantemente quanto e come spendi il tuo denaro (349) 32,9%.
21 - è capitato che una tua partner abbia danneggiato o distrutto i tuoi oggetti o beni personali, o minacciato di farlo (498) 47,1%.
22 - è capitato che una partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri figli (282) 26,6%.
23 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo a persone a te vicine (243) 22,9%.
24 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri animali domestici (85) 8,1%.
25 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di uccidersi, o altri gesti di autolesionismo (343) 32,4%.
26 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di chiedere la separazione e/o sbatterti fuori di casa e/o volerti vedere ridotto in rovina (724) 68,4%.
27 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di portarti via i figli (615) 58,2%.
28 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti più vedere i figli o di farteli vedere se e quando vuole lei (631) 59,4%.
29 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti avere più alcun contatto con i tuoi figli, nemmeno telefonico, escludendo definitivamente dalla loro vita te e la tua famiglia (464) 43,8%.
30 - è capitato che una tua partner ti abbia negato la paternità, interrompendo una gravidanza che tu avresti desiderato fosse portata a termine (102) 9,6%.
31 – è capitato che una tua partner ti abbia imposto una paternità con l'inganno (114) 10,7%.
32 - è capitato che una tua partner ti abbia fatto credere o abbia tentato di farti credere che fosse tuo un figlio concepito con un altro uomo (29) 2,7%.
33 - è capitato che una tua partner abbia provato a costruire false accuse di molestie e/o percosse nei tuoi confronti, nei confronti di tuoi familiari o nei confronti dei vostri figli (512) 48,4%.
34 - hai mai avuto l’impressione che una tua partner provasse a provocarti, verbalmente e/o fisicamente, con l’intento di scatenare una tua reazione (816) 77,2%.
35 – non ho mai subito violenze psicologiche o economiche da parte di una donna (22) 2,1%.
DEL MASCHICIDIO MEGLIO NON PARLARNE.
La strage dei qualunquisti tra jihad e femminicidi, scrive Giuseppe Marino, Venerdì 5/08/2016, su "Il Giornale". C'è la guerra del terrore, la guerra nelle famiglie e la guerra dei distinguo. Le prime due fanno vittime vere, di carne e sangue. La terza ci risparmia il dolore, ma a restare sul terreno è il buon senso. Il parallelo tra femminicidi e terrorismo jihadista, sdoganato ora anche dal Papa, è in realtà da tempo una costante dei commenti da bar o social network e ora approda pure sui giornali. Ogni volta che un uomo uccide una donna, specie se con modalità crudeli, si risveglia un fronte di commentatori pronto a rammentarci come in casa nostra sia presente una violenza in tutto e per tutto, secondo loro, paragonabile a quella dell'Isis. Questo fronte si fa forte di statistiche agghiaccianti sui femminicidi che parlano di 74 donne uccise nel primo semestre del 2016 e, su questo si può convenire, consola poco il fatto che il dato sia in netto calo rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Cifre che andrebbero scandagliate meglio, non per negare il fenomeno ma per cercare di averne un quadro obiettivo: sommano aritmeticamente delitti parimenti orrendi, e certo per chi perde una madre o una sorella poco conta che la molla sia il credo religioso, il sessismo o l'incapacità di gestire i propri sentimenti, ma anche delitti spesso molto diversi. È capitato ad esempio di veder includere negli elenchi di femminicidi la storia di una mamma e di una figlia uccise dal marito, trascurando il fatto che l'uomo in questione aveva sterminato l'intera famiglia, compreso il figlio maschio. È tutto uguale, non c'è differenza? Chi osserva dall'esterno dovrebbe restare lucido, se davvero vuole capire i due fenomeni. E invece, gli stessi commentatori che fanno fioccare i distinguo sul terrorismo islamico, diventano improvvisamente di bocca buona quando si tratta di uomini che odiano le donne. Se un giovane franco tunisino macella una folla pacifica sul lungomare di Nizza, questi «analisti» seguono un copione ormai fisso fatto di cavillosi distinguo: prima si tira fuori la cartella clinica, perché probabilmente è un pazzo. Se poi salta fuori che urlava Allahu Akbar e aveva programmato la strage nei dettagli, si precisa che in realtà era nato in Occidente, era uno di noi, l'Isis non c'entra niente. Se infine salta fuori che aveva una rete di complici e precisi ordini di morte, allora scatta l'esame di Corano: mica lo conosceva così bene, beveva pure alcol. Se invece un uomo uccide la moglie, la sorella o la figlia c'è poco da distinguere: tanto c'è una nuova voce del vocabolario creata apposta: è femminicidio. E improvvisamente anche la cartella clinico-psichiatrica non conta più. Che la religione abbia giustificato e istigato la violenza non è novità recente e non sorprende certo che il capo della più grande chiesa del mondo non ci tenga a sottolineare il nesso fede-sangue. Che a negarlo sia chi da sempre crede che la religione sia l'oppio dei popoli svela una partigianeria mentale che si rivela in tutta la sua flagranza quando poi si aggiunge che la violenza maschile è figlia della cultura cattolica. È una forma di sfruttamento delle donne a fini di polemica politica. Anche questo è cavalcare le paure, ma i populisti sono sempre gli altri.
Le donne italiane "portatrici sane" di pregiudizi maschilisti. Un’indagine rivela che spesso sono loro a coltivare stereotipi di genere su ruoli e opportunità nella famiglia e nella società, scrive Cristina Bassi, Domenica 10/01/2016, su "Il Giornale". Le donne italiane sono “maschiliste”? A quanto pare, sì. Almeno, coltivano una serie di stereotipi di genere, gli stessi e a volte persino di più dei concittadini maschi. Lo rivela un’indagine dell’Osservatorio Cera di Cupra. Alle domande dei ricercatori di Eikon Strategic Consulting il campione maschile e quello femminile hanno dato risposte spesso simili, a dimostrazione di avere visioni condivise e non antagoniste. Ma anche che le donne credono ancora in modo radicato nei tradizionali ruoli di genere, più o meno consapevolmente. L’indagine chiedeva di immaginare una storia con protagonisti un uomo e una donna che vivono varie fasi della vita. Ecco le risposte più significative. Professione: per la donna quelle citate più di frequente sono impiegata e insegnante, dal 40 per cento sia dei maschi sia delle femmine intervistate. Molto bassa la percentuale di risposte (minore nel campione femminile che in quello maschile) che assegnano alla donna un lavoro meno tradizionale, come imprenditrice, medico, informatica. Matrimonio: il desiderio di sposarsi, e quello di una famiglia tradizionale e stabile, è attribuito alla donna dalla maggioranza del campione maschile (52,8%) e femminile (43,4%). Mentre all’uomo si attribuisce di più la scelta della convivenza (la pensano così le donne nel 49,2% dei casi e gli uomini nel 53,6%). Vita domestica: sia le donne sia gli uomini intervistati credono nella collaborazione nei lavori domestici. Tranne che per lo stirare, considerato ancora prerogativa delle mogli: più dal campione femminile (76,5%) che da quello maschile (69,5%). L’eventualità che invece il marito possa fare il casalingo, cioè occuparsi da solo delle faccende, è considerata improbabile. Ancora una volta in percentuali maggiori tra le donne che tra gli uomini. Cura dei figli: nell’ipotesi immaginata dalla storia che nascano due gemelli, solo il 6 per cento del campione femminile risponde che può essere il compagno a prendersi una pausa dal lavoro per seguire i figli, contro il 14,3 per cento del campione maschile. Che sia la mamma a restare a casa per accudire i bambini è la risposta data dal 36,1 per cento degli uomini intervistati e, percentuale più alta, dal 41,2 per cento delle donne. Generazioni future: su quali saranno gli interessi dei figli della coppia sia gli uomini sia le donne indicano come scontate le preferenze “classiche” femminili per la figlia (danza, disegno, bellezza) e per il figlio quelle prettamente maschili: tecnologia, calcio, arti marziali. Gli stereotipi di genere così si trasmettono anche alle generazioni future. Sembra quindi che le stesse donne italiane non siano pronte a delegare ai compagni la cura della casa e dei figli. Ma se non si concepiscono ancora pari ruoli e opportunità in famiglia, è difficile immaginarli per l’intera società. E pare che gli ostacoli siano i pregiudizi radicati anche, e a volte di più, nelle donne. Il progetto dell’Osservatorio Cera di Cupra segue l’evoluzione del ruolo femminile. È arrivato alla sesta edizione, che per il 2015 si è occupato appunto di pari opportunità. L’indagine socio antropologica “Pari opportunità: un’educazione libera da stereotipi” si chiedeva se le donne sono pronte al cambiamento oppure sono “portatrici sane” di pregiudizi maschilisti. Il ha anche assegnato 12 borse di studio ad altrettante studentesse.
Femmine e maschi (cidio), scrive Eugenia Nicolosi su “Live Sicilia” Domenica 11 Agosto 2013. Quindi adesso in Italia il femminicidio è illegale. Mi raccomando, state attenti che mo' siete perseguibili per legge se uccidete una femmina. Ci voleva proprio una norma che finalmente spedisse di filato in galera chi le uccide, le femmine. Adesso sì che mi sento, da femmina, molto più sicura. Mica come prima, che i killer potevano andarsene in giro indisturbati a sparare o accoltellare le femmine senza rischiare nessuna pena o che il marito violento dovevamo tenercelo in casa e preparargli pure lo spezzatino, altrimenti oltre all'occhio nero dovevamo sorbirci anche la paternale del poliziotto all'antica e pro matrimonio. Le nuove norme prevedono infatti non solo che è possibile denunciare l'aggressione ma anche che, attenzione, la polizia, dietro richiesta della femmina, ovviamente, può buttare fuori da sotto il tetto coniugale il picchiatore. In effetti hanno fatto bene, è un'idea geniale definire il femminicidio emergenza nazionale. Stava diventando un Far West, questa Italia, paese in cui gli omicidi sono considerati giuridicamente diversi a seconda di chi sia la vittima. Altro che parità tra i sessi, uccidere una femmina è ormai cosa ben diversa, un vero e proprio reato. Ricapitoliamo quindi: le cose degli altri non vanno rubate, gli omosessuali non vanno offesi, le femmine non vanno uccise. Sarà difficile certo, quest'ultima è una consistente novità, ma cercheremo tutti di tenerla bene a mente. Anche se c'è un interrogativo che mi assilla, la femmina in questione è la femmina umana o hanno usato la parola 'femmina' per estendere il concetto alle femmine di qualunque specie? Nell'incertezza forse è meglio che stasera, se appiccico una zanzara al muro, mi accerti prima che sia una zanzara maschio. Comunque, facendo lo sforzo di parlare di cose serie, per una volta, e analizzando il decreto, ci sono delle falle di struttura che fanno pensare ad stesura quantomeno sbrigativa, per non dire inutile, maschilista e aggravante di una situazione religioso-culturale come quella italiana in cui la famiglia è considerata cosa sacra. Prima fra tutte è l'irrevocabilità della querela, l'irrevocabilità della querela non fa altro che dissuadere dal querelare. Sbagliato per quanto sia un qualcosa, l'aut aut non aiuta. Le donne continuano ad essere considerate diverse dagli uomini. Le donne continuano ad essere chiamate femmine dai 'maschi'. Il presupposto è che l'uomo non possa essere vittima di stalking, di violenza psicologica o fisica. Non tutti i cittadini sono pronti ad una novità simile. A volte possono essere sporte denunce prive di reali fondamenti e in quel caso, l'innocente querelato non avrebbe alcuna tutela. Non si fa cenno alla prevenzione o all'educazione alla non violenza. Parlare di punizione per il colpevole e non di aiuto per la vittima non è altro che nascondersi dietro il dito. Molte persone pensano che questa legge sia fumo negli occhi, un cavallo di Troia: sono inseriti all'interno del decreto nuove norme relative a sanzioni e pene per Ultras e No Tav. Cosa c'entra? È, dopotutto, il Decreto Sicurezza. Il mio word continua incredulo a segnarmi in rosso la parola femminicidio. Sì, esiste. Ultimo, ma più importante, punto: nel Codice Penale non si fa riferimento al maschicidio, questo significa che ho ancora tempo per risolvere quelle due cosine che c'ho in sospeso?
Femminicidio o Maschicidio? Scrive “Il Volo di Dedalo” martedì 10 agosto 2010. Si parla sempre della violenza contro le donne. Ogni omicidio o altra violenza contro le donne, raccontati dai media con morbosa enfasi, diventa sempre occasione per mettere il genere maschile sul banco degli imputati. "Gli uomini odiano le donne". A sentir parlare questi tromboni, pare chissà quale carneficina contro le donne stia accadendo in Occidente! Roba da WWF per la salvezza di una specie in via di estinzione ;-)Ma per fortuna non è così. Le donne non rischiano affatto l'"estinzione", anzi sono più numerose degli uomini e mediamente campano quasi 10 anni in più degli uomini (84 anni contro 75 anni degli uomini). Ma quante sono le donne che vengono uccise in Italia ogni anno "per mano maschile"? Vedendo i dati Istat tra il 2002 e il 2006 e facendo una media, vediamo che il numero medio di donne ammazzate ogni anno è 160, di cui 20 da altre donne. Dunque, 100 è il numero medio di donne ammazzate da uomini. Dato allarmante, certo, ma non tanto per poter affermare che la "prima causa di morte delle donne italiane è la violenza maschile". E comunque di uomini ammazzati ne sono oltre 500. Quindi: Per ogni donna ammazzata, vi sono almeno 3 uomini ammazzati. E ogni 4 morti ammazzati, 3 sono maschi. (Rapporto EURES-ANSA). Ciò significa che la "violenza maschile" uccide più uomini che donne. Tra l'altro non tutte queste 100 donne morte ammazzate mediamente ogni anno, lo sono state per motivazioni di cosiddetta "violenza di genere"(cioè ammazzate da ex mariti mollati e spennati o da ex fidanzati che non si sono dati pace della rottura non voluta del rapporto), ma anche per circostanze inerenti alla criminalità (ad es. rapine). Ma ammettiamo pure che tutte queste 100 donne ammazzate mediamente ogni anno da mano maschile lo siano state in circostanze di "violenza di genere"(che non esiste, ricordiamo), ciò non dimostra affatto i vari dogmi femministi sulla violenza maschile. Tra l'altro è assolutamente disonesto e cinico ostentare ed esibire (come fanno le femministe e simili), queste donne ammazzate dai loro ex, al fine di avvalorare questa assurda tesi sessista e femminista secondo cui gli uomini "odiano le donne" e che quindi le ucciderebbero per poter consolidare e riaffermare su di esse il "potere patriarcale e maschile". Perchè se si prova a fare una valutazione un pò imparziale e meno superficiale, si scopre che le prime vittime, in senso numerico, a seguito di una rottura di un rapporto sono proprio gli uomini. Infatti tutti parlano delle donne ammazzate dai loro ex, ma nessuno parla degli uomini che si suicidano a seguito della rottura non voluta del rapporto e di tutti i disagi e umiliazioni che ne conseguono. Se si guardano i dati, si vede che, in Occidente, il suicidio è un male maschile, cioè è molto più diffuso tra gli uomini che non tra le donne. E tra le principali cause di suicidio, oltre alla perdita (o mancanza) di lavoro(4), figura certamente quella sentimentale, cioè il non aver retto al dolore subito dall'abbandono della moglie (o fidanzata) e talvolta dalla conseguente umiliazione e disagio, in caso di divorzio, di vivere senza casa e/o di non poter rivedere i figli. Ogni anno, in Italia, mediamente, secondo i dati Istat, si suicidano circa 2500 uomini (al confronto di circa poco più di 700 donne). Quindi è assolutamente lecito pensare che almeno mille suicidi maschili siano scaturiti dall'essere stati abbandonati e soprattutto da tutti i disagi materiali (in caso di divorzio) che la separazione comporta. Certo, non si può affermare con sicurezza che ne siano almeno mille , ma di sicuro questo numero non può essere inferiore al centinaio(anche perchè tra l'altro, ed è accertato, solo il numero dei padri separati suicidi ogni anno è maggiore al centinaio, quindi mettendoci anche ex fidanzati ed ex conviventi suicidi, si va ben oltre) Ad ogni modo, quindi, se fossero onesti, quando parlano delle donne ammazzate dai loro ex dopo la fine del rapporto, dovrebbero parlare anche e soprattutto degli uomini che si suicidano a seguito della fine del rapporto. Cioè se "L' Amore uccide", come dicono loro, e vero anche e soprattutto che "L'Amore fa suicidare". Come mai la vita spezzata di una donna ammazzata deve valere di più di quella di un uomo suicidato? Bella domanda. Molto semplice la risposta. A voi l'onore e l'onere di darla. D'altro canto, il tasso di suicidi ci dà un'informazione sul livello di sofferenza e disagio psicologico all' interno fetta di popolazione su cui è stato valutato. E il fatto che tale tasso sia fortemente sbilanciato sul genere maschile, significa che quest' ultimo, mediamente, vive in una situazione di disagio esistenziale ed interiore maggiore rispetto a quello femminile. Depressione, vagabondismo, e alcolismo sono tra le conseguenze più diffuse negli uomini che vengono lasciati dalle fidanzate e mogli. Ciò oltre a smentire la balla femministe secondo cui vivremmo in una società "androcentrica" caratterizzata da un "potere maschile sulle donne", ci dà anche un buon spunto per dare la chiave di lettura giusta al fenomeno delle tragedie post-separazione. Cioè se la maggioranza (80%) dei suicidi è maschile e una parte consistente parte di questi suicidi sono scaturiti dalla sofferenza di essere stati lasciati, ciò significa che, in genere, gli uomini vivono con dramma e profonda sofferenza, l'esperienza di una rottura non voluta di un matrimonio o fidanzamento, al punto che in taluni di essi, a volte si sfocia nel suicidio, e in casi, ancor più minoritari, nell' omicidio. E però si parla solo di questo ultimissimo, e minoritario, aspetto, trascurando tutto ciò vi è dietro. L'ideologia femminista è, evidentemente, più importante della vita di queste donne e uomini vittime, rispettivamente, di omicidio e di suicidio. Le donne, in genere, non possono capire ciò, perchè nell'ambito dei rapporti con l'altro sesso, detengono il potere sessuale, sentimentale e legislativo: cioè sono loro che decidono con chi mettersi e a chi devono dare "due di picche"; sono loro che decidono a chi la devono dare e a chi no; sono loro che decidono di rompere il rapporto(fidanzamento o matrimonio); e infine sono loro che in caso di divorzio si vedono affidati i figli e quindi, di conseguenza, casa(anche se del marito), alimenti e mantenimenti vari, il tutto, ovviamente, a danno dell'ex marito. Però, talvolta, anche se raramente, queste situazioni possono capitare anche a parti invertite, cioè abbiamo casi in cui è lei a vedersi mollata, fregata e umiliata dal marito o fidanzato. Ed ecco che in questi casi, anche nelle donne vediamo depressioni e strazio e suicidi, talvolta, anche casi di incallite e violente stalker. Solo che sono casi molto rari, o comunque minoritari, e pertanto non possono ingenerare nessun fenomeno esteso e generalizzato(6), come invece accade tra gli uomini. Si vorrebbe l'uomo come un robot, un giocattolo, cioè privo di sentimenti e pertanto obbligato a subire senza fiatare e senza batter ciglio lo strazio di un abbandono da quella persona con cui aveva condiviso per anni e anni sentimenti, cuore, anima e beni materiali, e spesso l'umiliazione e la beffa-in caso di divorzio- di doversi vedere mandato via di casa(dalla propria casa, nella quale magari lei vive con la sua nuova fiamma) e di essere spennato economicamente e materialmente, nonchè essere precluso dal poter rivedere i suoi figli. Lo stato d'animo di quegli uomini che subiscono questo strazio e questa umiliazione non viene preso nemmeno in considerazione. "Gli uomini uccidono le donne per difendere il patriarcato!" Questa è la beffarda spiegazione che ne danno tv, giornali ed "esperti". Anzichè, quindi, cercare di analizzare in modo imparziale e costruttivo questo fenomeno in modo tale da poter intervenire alla base per cercare almeno di arginare questo fenomeno, si opta per la stupidità ideologica, altrimenti poi non è possibile fare vittimismo gridando per tv e giornali e ai quattro venti che "gli uomini uccidono le donne". Ma al di là di tutto, tiriamo le somme. Prima abbiamo visto che ogni anno, in Italia, il numero medio di donne ammazzate da uomini si aggira sui 140/150. Ma abbiamo anche visto che, in generale, per ogni donna ammazzata vi sono oltre 3 uomini ammazzati e almeno (di sicuro di più) altrettanti uomini suicidatosi per non aver retto al dolore di essere stati lasciati (nonchè un esercito di milioni di depressi e distrutti moralmente e interiormente). Risultato: in Italia, per ogni donna uccisa, abbiamo almeno una decina di uomini uccisi tra omicidi e suicidi. Il rapporto è eloquente e significativo su chi tra i due generi, maschile e femminile, stia messo peggio in termini di morti violente e di disagio interiore e psichico. Ma sorge ancora un'altra questione. Ciò che molti, anzi quasi tutti, dimenticano è quello di chiedersi di quante vite di donne ogni anno, nel piccolo e nel grande, vengono salvate da uomini e quanti uomini muoiono, o comunque, si sacrificano duramente anche a scapito della propria salute, per salvare donne! Nessuno ne parla, ma per ogni donna ammazzata da un uomo, vi sono tantissime, un numero indefinito di donne salvate da un uomo, in sala operatoria, oppure in terapia, oppure tra le fiamme di un incendio (lode ai pompieri), oppure tra i rottami dell'auto distrutta dall' incidente, oppure tra le macerie di un terremoto o tra i flutti di un'inondazione, oppure tra le braccia del marito, e così via. E inoltre nessuno si chiede di quanti sono gli uomini che in guerra e nel lavoro (nella acciaierie, nelle fabbriche, nelle miniere, sulle impalcature, mentre le sculettanti e milionarie Barbara D'Urso varie si lamentano di essere "oppresse dagli uomini"), e in altre circostanze rischiose, perdono la vita al posto delle donne. I morti sul lavoro sono nella quasi totalità maschili (98%), ma ovviamente, non è politicamente corretto dirlo, altrimenti poi come si fa a parlare a vanvera descrivendo questa società come "maschilista e androcentrica"? In entrambi i casi, a parti invertite, eccetto, in pochi casi che pure ci sono e sono innegabili, non si può dire che succeda altrettanto, a meno che in questione non ci sia la propria prole (la tenerezza e lo spirito di sacrificio che può avere una madre nel sacrificare la propria vita per salvare quella della prole, è davvero grandiosa e commuovente). Quindi, in Occidente, per gli uomini, rispetto alle donne, al maggior numero di morti ammazzati e di suicidi, si aggiunge anche un numero indefinito, ma spaventosamente grande, di uomini morti e feriti per salvare donne e per svolgere ruoli e mansioni di utilità pubblica (costruire case, ponti, scavare, ecc) che nessuna donna svolgerebbe mai, oltre che uno stato di profondo abbattimento e disagio collettivo. Un vero e proprio Maschicidio, altro che Femminicidio! Tutti sappiamo come vanno le cose (anche chi fa finta di non saperle queste cose). Sin da quando è nata l'Umanità, il ruolo dell'uomo è sempre stato quello di proteggere la donna, e quindi anche morire per lei e al suo posto, a casa, come in guerra, come in situazioni di emergenza, come nel lavoro e quant'altro(8). Un ruolo che a me non piace, non mi è mai piaciuto, ma che le donne, da sempre, non solo hanno accettato, ma hanno anche voluto e recriminato con forza: richiedere la sicurezza fisica ed economica dal proprio partner uomo, e di essere dispensate dall'assumere i ruoli e mansioni più rischiosi, faticosi e usuranti, anche ai tempi di oggi, in barba alla loro tanto sbandierata "parità". Ed ecco che l'uomo ha sempre accettato questo ruolo, mai ribellandosi, ma assumendolo, a torto (secondo me), come un qualcosa di naturale, di obbligatorio, di ineluttabile. Ed ecco perchè nonostante ciò, molti uomini subiscono in modo compiacente le valanghe di infamie e calunnie che le becere femministoidi, intellettualini e intellualine da salotto, tv e giornali, lanciano contro il genere maschile, e anzi, pur di apparire "fighi" davanti alle loro mogliettine. Fidanzatine o donne da corteggiare, molti uomini sono disposti anche ad infamare, umiliare, e non poche volte, anche a massacrare e uccidere, altri uomini. Ecco, allora, che mi rendo conto che questo Maschicidio avviene anche un pò per colpa di una parte degli uomini stessi, oltre che dell'arroganza femminista.
Femminicidio meno diffuso del “maschicidio”. Anche in Italia. Scrive il 6/07/2016 "Notizie Provita". Anche Adnkronos riporta i dati cui abbiamo fatto cenno qualche giorno fa sul femminicidio. L’agenzia di informazione si concentra in modo particolare sull’Italia, dove circa 3,8 milioni di uomini hanno subito abusi da parte delle donne. Pare che anche tra i giovani, nel 2014, gli abusi (dallo stalking a reati sessuali) subiti dai maschi siano del 4%maggiori di quelli subiti dalle femmine. Tra l’altro il fenomeno dal lato maschile è più sommerso che dal lato femminile. Se i casi di violenza e femminicidio sono spesso non denunciati per vari motivi (paura, sentimenti contrastanti, debolezza, ricatto…), i maschi hanno in più una grande vergogna nel denunciare l’aver subito violenza da una donna. Prosegue Adkronos: “Su questo tema Stiritup, progetto europeo che tratta la violenza nelle coppie giovani, nel 2014 si è concentrato su cinque Paesi europei tra cui l’Italia. Il risultato è che il numero di vittime maschili di molestie supera quello femminile. I giovani uomini sembrano una categoria a rischio anche secondo la rivista dell’American psychological association che parla di 4 uomini su 10 che tra scuola superiore e università sarebbero stati costretti ad avere rapporti non consensuali. Nel 31% dei casi la coercizione sarebbe stata verbale, nel 18% fisica e nel 7% dei casi attraverso la somministrazione di droghe. Il 95% degli intervistati ha spiegato che a mettere in atto le violenze o le molestie sarebbero state delle donne”. Se dobbiamo, quindi, abbattere gli stereotipi e prevenire gli episodi di violenza, sarà forse il caso di piantarla con la “violenza di genere” e il “femminicidio”. Pensiamo ad educare al rispetto reciproco e alla pace le persone, i giovani e i meno giovani, a prescindere dal “genere”…
Maschicidio in Italia: i numeri di una strage nell’ombra, scrive giovedì 10/04/2014 Giorgio Rini su “Nano Press”. Il maschicidio in Italia rappresenta un fenomeno, di cui non si sente parlare molto e spesso, eppure gli ultimi dati a disposizione dimostrano come la questione sia sempre più in aumento, non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo. Parlando di questo argomento è facile cadere negli stereotipi, perché non si fa altro che associare la violenza ad una personalità più propriamente maschile, non pensando invece che anche le donne possono essere protagoniste di fatti di sangue non meno crudeli. Una strage nell’ombra, quindi, quella delle donne che uccidono uomini. Da un certo punto di vista potrebbe rappresentare l’altra faccia della medaglia, in questo caso l’altra faccia del femminicidio. Anche da parte dei media negli ultimi tempi c’è stata molta attenzione ai casi in cui le vittime sono state donne. Anche il maschicidio, comunque, merita di ricevere la giusta considerazione, soprattutto per comprendere più in fondo la società nella quale viviamo.
I numeri. La violenza delle donne sui mariti o sugli uomini in generale, che possono essere anche conviventi o amanti, dilaga in tutto il mondo, dall’Europa all’America. Basta tenere presente alcuni dati che sono emersi nel corso degli ultimi anni, per rendersene conto. In Germania, ad esempio, il Ministero della Famiglia ha scoperto che il 25% degli uomini ha subito una violenza fisica all’interno delle mura domestiche, il 15% è stato vittima anche di violenza psicologica. In Inghilterra un uomo su sei sperimenta abusi familiari, mentre negli Stati Uniti la violenza fisica tra partner è stata attribuita per il 30% alle donne. E’ da specificare, inoltre, che spesso gli uomini non denunciano i maltrattamenti, perché provano un senso di vergogna e di colpa, per la loro “debolezza”, che li porterebbe ad essere vittime. I casi di maschicidio:
ANA TRUJILLO – Ana Trujillo era la fidanzata del professor Anderson, Alf Stefan Anderson, professore universitario di Houston. E’ stata proprio lei a colpirlo con 25 colpi di tacco in faccia, in testa e sul collo. Un tacco 14, e le scarpe sono state ritrovate accanto al cadavere. Ana è stata condannata per omicidio alla pena dell’ergastolo. Una sera di giugno la coppia era uscita e aveva bevuto. Tornati a casa, verso le due di notte, è scoppiato un litigio. Lui sarebbe caduto a terra e la donna gli si sarebbe seduta di sopra, impedendogli ogni movimento. Poi si è tolta la scarpa e ha iniziato a colpirlo con il tacco. La 45enne è stata descritta come una persona piuttosto violenta, visto che anche l’ex fidanzato ha raccontato di essere stato aggredito precedentemente. Secondo la tesi della difesa, si sarebbe trattato soltanto di legittima difesa, ma i giudici non hanno creduto a questa versione.
MARIA ANDRADA BORDEA – Maria Andrada Bordea era la moglie del muratore rumeno Dimitru Bordea, il quale è stato ritrovato morto nella sua abitazione il 2 marzo. La gola e il torace erano stati trafitti da varie coltellate. La coppia viveva il dramma della disoccupazione. All’inizio si era pensato ad un suicidio, dovuto alle difficoltà della crisi. Le indagini, invece, hanno fatto ricadere le accuse sulla moglie, che è stata arrestata per omicidio. L’autopsia dell’uomo ha rivelato l’impossibilità dello stesso di autocolpirsi. Ad inchiodare la donna sono state le testimonianze dei vicini, i quali avrebbero riferito di averla vista uscire con gli abiti sporchi di sangue.
MARIA MASCETTI – La vicenda di Maria Mascetti è accaduta a Scalea, in provincia di Cosenza. La donna ha ucciso il compagno a coltellate. La vittima è Giuseppe Ronco, di 75 anni. La donna di 69 anni avrebbe tentato il suicidio, ferendosi e poi avrebbe chiamato i soccorsi, facendo arrivare i carabinieri e i vigili del fuoco. E’ stata la donna a confessare l’omicidio del compagno, che sarebbe avvenuto in seguito ad una lite.
ANGELA BARAN – Il 25 marzo a Torino è stata ricoverata in rianimazione una donna di origine rumena. Tutto è accaduto in seguito ad una lite violenta con il marito a San Luigi di Orbassano. La donna era stata percossa. Il marito è invece morto in seguito ad una coltellata che la donna stessa gli ha praticato sull’addome con un coltello da cucina. A quanto pare la 54enne potrebbe aver reagito dopo un’aggressione dell’uomo. A trovare i genitori è stata la figlia. Secondo le ricostruzioni dei fatti i due litigavano spesso.
L'indignazione oltre la statistica. I femminicidi riempiono i giornali, i femminicidi sono in calo. Due notizie entrambe vere, due notizie in apparente contrasto. Ma forse no, scrive Andrea Cuomo, sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". I femminicidi riempiono i giornali, i femminicidi sono in calo. Due notizie entrambe vere, due notizie in apparente contrasto. Ma forse no. Dall'inizio dell'anno sono state 59 in Italia le donne uccise in quanto donne. In quanto cioè esseri più deboli, in quanto persone che noi uomini vorremmo intestarci e invece ci sfuggono, ci lasciano, ci tradiscono, ci dicono di no, ci smentiscono. Che fanno insomma quello che ogni persona di qualsiasi sesso ha diritto di fare: scegliere. Anche quello che a noi uomini non piace. Cinquantanove donne uccise per il più diabolico alias dell'amore: la gelosia. Cinquantanove donne uccise dagli uomini sono pur sempre cinquantanove di troppo. Eppure non sono di più che negli anni precedenti, malgrado la nostra percezione ci dica il contrario e ci faccia pensare a un'epidemia di misoginia. Proiettando il dato su tutto l'anno porterebbe a 136 vittime nel 2016. Ovvero lo stesso numero di donne uccise da uomini nel 2014. Appena qualcuna in più rispetto al 2015, quando le vittime dell'omicidio di genere furono 128. Ma meno rispetto al 2013 (179) e al 2012 (157). Se poi allarghiamo il raggio temporale di indagine il dato è ancora più evidente. Nel 2003 ci furono 0,65 massacrate per la colpa di essere donne libere ogni 100mila abitanti, mentre nel 2014 il dato è sceso a 0,47. Nessun negazionismo, si badi bene. Il fenomeno resta angosciante e ingiustificabile. Ma i numeri sono numeri. I femminicidi stanno lentamente diminuendo proprio nel momento in cui sembrano aumentare. Com'è possibile tutto ciò? Questo certamente deriva dal difetto di prospettiva a cui ci induce l'orrore di alcuni episodi che - vedi quello di Roma - per le modalità raccapriccianti dell'assassinio e per l'ambiente «normale» in cui è maturato, colpiscono ciascuno di noi più di altri casi borderline, liquidati come frutto di contesti malati. La colpa naturalmente è anche di noi giornalisti, per cui a dispetto degli slogan grillini uno non vale uno. E poi purtroppo c'è una cinica legge dell'informazione, quella in base alla quale ci sono filoni di notizie che fanno tendenza, come fossero tailleur: e nella primavera-estate 2016 il femminicidio va su tutto. Ma l'emergenza non è di oggi. L'emergenza c'è da sempre. Certe cose non iniziano a esistere solo perché diamo loro finalmente un nome buono per titoli e sommari. Certe cose abitano nelle nostre teste al di là degli slogan, perché per tanti uomini ancora è inaccettabile pensare che la donna non sia come un'auto che si registra al Pra con il proprio nome, e poi guai a chi te la tocca. L'emergenza non è di oggi, dunque. Epperò è bene che ci sia questa lieve miopia per quanto parzialmente falsa. È bene urlare qualche titolo, inventare slogan, fare reportage, anche a costo di sembrare allarmisti. Perché questo non guarirà gli uomini ammalati di gelosia, ma magari aiuterà qualche donna a individuare nei comportamenti del suo uomo geloso, del suo marito mollato, del suo ex insistente i semi di ciò che oggi chiamiamo femminicidio e che un tempo chiamavamo follia. Forse così quei diminuiranno ancora. Fino allo zero.
Cinque milioni di uomini ogni anno sono vittime delle violenze femminili. È raro che uccidano. Ma ricattano, umiliano e distruggono economicamente i compagni, scrive Barbara Benedettelli, domenica 20/11/2016, su "Il Giornale". Senza nulla togliere alla gravità della violenza maschile sulle donne, credo sia giunto il momento di coniare un nuovo termine anche per il fenomeno opposto: maschicidio. Perché anche il maschio può essere vittima della violenza femminile. Di certo lo è dell'informazione unidirezionale e di una cultura dominante che procede per stereotipi e pregiudizi: la donna è sempre docile incolpevole vittima e l'uomo sempre carnefice e bastardo. Ma la verità sta sempre in mezzo. Dopo l'elezione di Donald Trump e l'apertura del vaso di Pandora sui media che nascondono, insabbiano o discreditano modificando la verità secondo ideologia (o stereotipi), è emerso il bisogno di autenticità. Di una verità tale a trecentosessanta gradi, la sola capace di darci gli strumenti per risolvere il gap culturale che permette ancora differenze sostanziali tra uomini e donne. E che può fornirci forse perfino la soluzione per diminuire il numero dei femminicidi, costante nel tempo nonostante i passi avanti anche legislativi. Non possiamo dunque non tenere conto, quando osserviamo il fenomeno del femminicidio, dell'altra faccia della medaglia: la condizione maschile, l'emancipazione psicologica dell'uomo, i pregiudizi legati al concetto di maschio e il tabù che riguarda la violenza femminile sul sesso opposto. Violenza che esiste - anche se raramente ha dinamiche omicidiarie - e che riguarda la psiche, il portafogli e perfino la sessualità. In Italia sono poche le indagini in questo senso. Una di queste - passata quasi inosservata - è stata effettuata nel 2012 da una equipe dell'Università di Siena su un campione di uomini tra i 18 e i 70 anni. La metodologia è la stessa utilizzata dall'Istat nel 2006, per la raccolta dei dati sulla violenza contro le donne e che ancora oggi vengono riportati con grande enfasi. Secondo l'indagine dell'Università di Siena, nel 2011 sarebbero stati oltre 5 milioni gli uomini vittime di violenza femminile configurata in: minaccia di esercitare violenza (63,1%); graffi, morsi, capelli strappati (60,05); lancio di oggetti (51,02); percosse con calci e pugni (58,1%). Molto inferiori (8,4%), a differenza della violenza esercitata sulle donne, gli atti che possono mettere a rischio l'incolumità personale e portare al decesso. Una differenza rilevante questa, che in parte giustifica la maggiore attenzione al femminicidio. Nella voce «altre forme di violenza» dell'indagine (15,7%) compaiono tentativi di folgorazione con la corrente elettrica, investimenti con l'auto, mani schiacciate nelle porte, spinte dalle scale. Come gli uomini anche le donne usano forme di violenza psicologica ed economica se pur con dinamiche diverse: critiche a causa di un impiego poco remunerato (50.8%); denigrazioni a causa della vita modesta consentita alla partner (50,2%); paragoni irridenti con persone che hanno guadagni migliori (38,2%); rifiuto di partecipare economicamente alla gestione familiare (48,2%); critiche per difetti fisici (29,3%). Insulti e umiliazione raggiungono una quota di intervistati del 75,4%; distruzione, danneggiamento di beni, minaccia (47,1%); minaccia di suicidio o di autolesionismo (32,4%), specialmente durante la cessazione della convivenza e in presenza di figli, spesso utilizzati in modo strumentale: minaccia di chiedere la separazione, togliere casa e risorse, ridurre in rovina (68,4%); minaccia di portare via i figli (58,2%); minaccia di ostacolare i contatti con i figli (59,4%); minaccia di impedire definitivamente ogni contatto con i figli (43,8%). Nulla di nuovo rispetto alle ricerche sulla violenza nell'ambito delle relazioni intime condotte in altri paesi, dove c'è una maggiore propensione a studiare il fenomeno tenendo conto di entrambi i sessi. In una ricerca effettuata nel 2015 nell'ambito del progetto europeo Daphne III sulla violenza nelle dinamiche di coppia e che coinvolge 5 paesi tra cui l'Italia, analizzando un campione di giovani tra i 14 e i 17 anni: le ragazze che hanno subito una forma di violenza sessuale variano dal 17% al 41% in base all'entità dell'aggressione e i ragazzi dal 9% al 25%. Allora, tenendo conto del fatto che la violenza femminile sugli uomini è di entità più lieve, non possiamo negarla. Dobbiamo prendere atto che il problema della così detta violenza di genere va affrontato da un nuovo punto di vista. Gli sportelli antiviolenza, per esempio, sono attualmente dedicati per lo più alle donne e, come afferma Luca Lo Presti, Presidente di Fondazione Pangea, non sono sempre in grado di gestire la richiesta di aiuto del sesso opposto. «Oggi siamo al paradosso - sostiene Lo Presti - che un uomo cosciente di avere un problema legato alla mancanza di controllo della violenza e che chiede aiuto perché ha paura di ferire a morte la compagna, si trova di fronte a muri altissimi. Quando si presenta in un centro antiviolenza ci sono casi in cui viene aggredito psicologicamente e criminalizzato come se dovesse pagare per tutti, in quanto ritenuto parte di una categoria di esseri umani sempre carnefici». Oppure capita che se un uomo è vittima di una forma di violenza e trova il coraggio di denunciare - nonostante il rischio di derisione perché dimostra una fragilità non consona allo stereotipo di virilità e forza -, allora non è creduto. Perché il cliché lo vuole capace di reagire al sopruso senza fare una piega. In un caso e nell'altro non c'è soluzione. Senza la capacità di ascolto e di aiutare gli uomini concretamente a gestire gli impulsi distruttivi o a risanare una ferita dovuta ad abusi subiti da una donna, non ci sarà mai la possibilità di risolvere un problema profondo e articolato come quello della violenza domestica. Oltre il genere però. Perché il centro di tutto non siano i maschi o le femmine, ma la persona.
Toh, c’è pure il “maschicidio”. E tanto…Campagne mediatiche ben orchestrate. Ma smentite dai fatti. La verità è che siamo tutti esseri umani, a volte sfrenatamente, stupidamente, violenti…scrive Rino Tripodi. Le bugie hanno le gambe corte. Le campagne mediatiche in malafede anche. Si è inventato un neologismo, “femminicidio”, per montare un ennesimo assalto alla Bastiglia, con lo scopo di invocare nuovi diritti, nuove leggi (si pensi, tra l’altro, alle famigerate “quote rosa”), a protezione di un “genere”, quello femminile, già ultratutelato, almeno nei paesi occidentali. Per non pensare allo scopo, da parte delle promotrici di tali campagne, di arrivare a un bello scranno in parlamento o ad altre “onorificenze” per aver condotto tali “nobilissime campagne” di odio e disinformazione. A sostegno argomentazioni e dati assurdi, quali la panzana della violenza maschile «prima causa di morte delle donne italiane» (per la smentita di questo e di altri dati e argomentazioni folli, si veda, tra gli altri, Femminicidio o maschicidio?, nel blog Il Volo di Dedalo). I fatti. Nel giro di pochi giorni due donne, una signora di Villapiana (Cosenza) – dapprima considerata, col solito pregiudizio, “vittima” del “maschio” – e un’altra, residente a Livorno, hanno ucciso i propri mariti. Particolarmente efferato il secondo caso, comprendente prolungate sevizie varie, tra cui genitali maciullati e sodomizzazione con un oggetto in grado di procurare la perforazione dell’intestino. Non vogliamo indagare sui motivi che hanno spinto le due donne a far fuori i propri partner. Avranno avuto le loro “buone” ragioni, che, però, non sono mai “buone”, quando si toglie la vita a un altro essere umano. La questione è che la violenza, l’aggressività, lo scatenamento e la realizzazione di istinti omicidi sono immondo “patrimonio” dell’umanità. Tutta. Senza differenze “di genere”. Del resto, non erano necessari gli ultimi due episodi per avere un quadro meno fazioso e arrogante della realtà. La Adama – nomen omen! – senegalese “violentata” in Italia, e immediatamente eretta a simbolo della Giornata mondiale conto la violenza sulle donne, si era inventata tutto; anzi, pare sia una mezza criminale. Molteplici gli episodi di omicidi crudeli e sadici compiuti da donne sui mariti, magari con la complicità dei propri amanti. Più in generale: ci si è dimenticati delle disumane violenze commesse in Iraq dalle soldatesse statunitensi? Nei pestaggi al G8 di Genova (vedi Giuseppe Licandro, La “macelleria messicana” che bagnò di sangue Genova, nel numero 77 di LucidaMente), quante erano le poliziotte? Chi ha mai evidenziato che, tra i quattro poliziotti condannati per il bestiale pestaggio – due manganelli spezzati sul corpo di un ragazzo – di Federico Aldrovandi a Ferrara, c’è anche una “Monica”? E, persino nelle mafie, considerate terreno solo “maschile”, si scoprono donne spietate che ordinano omicidi e delitti vari. Infine, volendo fare un po’ il Bruno Vespa della situazione, che dire della simpatica combriccola matriarcale di Avetrana? Della dolcissima Erika di Novi Ligure? Della amorevole signora Franzoni di Cogne? O della pacata Rosa di Erba, col suo amato Olindo? E Amanda, a Perugia, l’ha scampata per un pelo, o perché… Usa. La verità è che siamo tutti esseri umani. Imperfetti. Spaventati. Violenti. A volte bestiali (ma forse, a dir così, si offenderebbero gli animali). Da sempre una cultura “sinistrorsa” e “politically correct” manichea divide l’umanità in buoni e cattivi. Donne e uomini. Neri e bianchi. Poveri e ricchi. Operai e borghesi. Laici e credenti. Omosessuali ed eterosessuali. Di fronte al problema – “mistero”, per chi è, “religioso” – del male, della violenza, della brutalità, che ci accomuna tutti, non sarebbe meglio un po’ di raccoglimento? Senza altre parole. LucidaMente si è già occupata più volte di “discriminazione positiva” (vedi tutto il n. 61 del gennaio 2011 e, in particolare, I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti; La violenza è solo degli uomini?; Il caro femminismo iattura per tutte/i?, oppure «Io e la giustizia italiana: dalla condanna per pedofilia all’assoluzione»), nonché della questione della bigenitorialità, segnalando alcune iniziative (ad esempio, dell’Associazione Adiantum o del Comitato dei cittadini per i diritti umani-Ccdu). Rino Tripodi (LM EXTRA n. 28, 15 maggio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 77, maggio 2012).
Strana fine quella del fantasioso personaggio Agamennone, combatte dieci anni da eroe nella sanguinosa guerra di Troia e poi finisce morto per mano della moglie Clitennestra, scrive Rosa Mistica su Cattolici Liberi”. Doveva probabilmente sentirsi sicuro nella vasca da bagno di casa sua quando venne ucciso dalla sua consorte e dal suo amante. Ma d'altra parte Clitennestra deve cedere il passo ad Elena, molto più professionale di lei in quanto a danni sugli uomini, sulla sua coscienza la fedigrafa aveva il peso delle migliaia di vittime della guerra di Troia, però esce magistralmente dalla scena ritornando sana e incolume fra le braccia del marito becco, lasciandosi alle spalle anche la morte di Paride che muore miseramente ucciso dalle frecce di Filottete. Certo la differenza tra i due miti è abissale, Clitennetra per far fuori il marito qualche ragione umanamente comprensibile ce l'aveva, Agamennone le aveva sottratto la figlia Ifigenia per sacrificarla ad Artemide, niente di meno per la ragion di stato più ignobile: quella della guerra, e una donna, tra l'altro madre, non poteva metabolizzare una simile crudeltà. Diametralmente opposto il caso di Elena che di attenuanti ne aveva poche. Ora prescindendo dal fatto, che spesso le seduttrici la fanno franca, bisogna pensare che effettivamente Clitennestra non è molto funzionale al male come lo è Elena, questo perché l'attitudine al male nella donna è più nella seduzione che nella violenza. Dello scorso novembre 2013 è un libro dal titolo "101 modi per far soffrire gli uomini", lo stile e l'apparenza vogliono rimandare ad un saggio umoristico, ma i contenuti del testo fanno poco ridere e l'autrice prende molto sul serio la possibilità di far soffrire il sesso "concorrente" al fine di assoggettarlo. Il tentativo di satana di rovinare l'armonia che Dio aveva previsto tra l'uomo e la donna, ovviamente non è nuovo, ma i tempi attuali vedono un tentativo delle donne in satana (seduttrici e non) di distruggere antropologicamente l’'uomo in una maniera che ha caratteristiche diverse dal passato. La possibilità che offre il mondo attuale alle seduttrici è l’'immunità dalle critiche sul loro abbigliamento. In virtù del solito (e travisato) non giudicare che poi è un non giudicare di Satana, un travisamento attraverso il quale il mondo vuol dire maliziosamente: "non ammonite i peccatori", quando invece, come ben sanno i cristiani, l'’ammonizione è opera di misericordia spirituale. Il mondo ha deciso, poi, di non condannare la smisurata voglia delle seduttrici di gestire le passioni per farsi dee in vanità, facilitando così il dominio del maligno sulla società e non quello di Dio. Tornando al paragone con la mitologia si noti che nella guerra di Troia operano come burattinai più vizi capitali e cattiverie, dalla discordia (di Eris) alla vanità (delle dee), dalla lussuria (di Paride) all’'ira (di Achille.) E' la catena ininterrotta dei vizi che si richiamano l’'un l’altro che determina lo spiegarsi delle violenze che caratterizza la guerra di Troia. Certo stupiscono le intuizioni greche che in racconti sia pure puramente fantasiosi riescono a cogliere con grande acume l’'essenza della radice del male. In ogni caso bisogna prendere atto che non è a breve che la condanna della seduzione femminile avverrà in una società fortemente anticristica. Per evitare, dunque, che le donne in satana creino danni, l’'uomo deve sapere che deve liberarsi dal machismo da trattoria e prendere consapevolezza di che tipo di debolezza ha nei confronti del male, quella debolezza che Dio stesso, poi, gli rivela nelle Scritture. Al di fuori dalla grazia di Dio, esiste nella donna (più che nell' uomo) il concretissimo rischio di una dolcezza in satana che cerca di ottenere spesso frutti che portano alla dannazione il proprio prossimo. Prossimo che poi magari è il marito, il fidanzato o semplicemente il ragazzo o il "maschio" che si vuole sedurre o circuire per ottenere comportamenti indotti che poi sono comodi ai propri scopi. Satana è una scimmia, uno squallido imitatore del Creatore, quindi, cerca di riprodurre perversamente la carità di Dio per veicolare le sue proposte di peccato. Le donne in satana altro non fanno che imitare quello che è il loro ispiratore comportamentale per farsi figlie di questo padre infernale loro maestro e strisciare al disotto dell'accusa formale del mondo, che condannerà sempre il visibile e mai l'invisibile, invisibile però che rimane tuttavia come macchia dell'anima e cancellabile quindi solo da Dio attraverso un percorso di conversione e pentimento come avvenne nell'adultera del Vangelo: "va e non peccare più". Tornando alla dolcezza in satana che danna: secondo San Tommaso D’aquino. Adamo pecca anche per un amore troppo accondiscendente nei confronti di Eva. Si noti che il santo non ritiene che il problema fosse l’'amore per Eva, ma quell'’amore che la fa preferire a Dio. L’'uomo cade più per la gentilezza di satana che per la sua violenza, stessa sventura infatti tocca a Sansone che imbattibile sul campo cade per mano della sua "amata" Dalida. Il cattolico non deve tanto guardare il suo nemico armato, ma deve sempre aver fisso il suo fine che è non cadere nel peccato e quindi lo sbaglio di Adamo gli deve tornare alla mente soprattutto se compagna gli è una che molto assomiglia ad Eva. Si illude l'uomo che vuole convertire la seduttrice decidendo al contempo di amarla", l'uomo deve fuggire l'occasione di peccato, perchè tenendosi vicino alla tentazione satana sempre vincerà e l'uomo perderà la sua anima. D'altra parte Berlicche che la sa lunga su come rovinare l'anima degli uomini, consiglia al diavolo Malacoda: "Poiché il matrimonio, quantunque invenzione del Nemico, ha le sue utilità. Vi devono essere diverse giovani donne nel quartiere che gli renderebbero la vita difficilissima, se tu soltanto riuscissi a sposarne una." Lewis, infatti, nel suo romanzo ci teneva a dirci che dal matrimonio, anche se consacrato, contratto con un’empia, Satana riesce a trovare molte sue utilità per rovinare l'anima del futuro marito e portarlo così alla dannazione. Questo perchè, se la dolcezza della donna non viene da Dio troppo spesso l’'uomo perde la sua anima. L'uomo, infatti, non ha tanto da temere da Clitennestra ma da Elena, con Clitennestra muore il corpo con Elena muore l’'anima.
STUPRI, ABUSI E VIOLENZA SESSUALE: DUE PESI E DUE MISURE.
Come distinguere Stupro, Abuso Sessuale e Violenza Sessuale, scrive l'Istituto Beck. Ci sono tanti modi e altrettanti termini per descrivere un comportamento sessuale non consensuale. Si può chiamare stupro, abuso sessuale o violenza sessuale. A prescindere dal nome, qualsiasi forma di violenza sessuale può influenzare negativamente la salute fisica e psichica delle vittime. Di seguito sono descritte le varie tipologie di violenza.
STUPRO. La definizione esatta di stupro differisce da paese a paese. Più in generale, lo stupro si riferisce a un atto sessuale non consensuale completo in cui l’aggressore penetra la vagina, l’ano o la bocca della vittima con il pene, la mano, le dita o altri oggetti. Presenta una o più delle seguenti caratteristiche:
manca il consenso di una delle persone che partecipa all’atto sessuale;
il consenso viene ottenuto con l’utilizzo della forza fisica, della coercizione, di inganni o minacce;
la vittima è incapace di intendere;
la vittima non è completamente cosciente (per uso volontario o involontario di alcool e/o droghe);
la vittima è addormentata o incosciente.
Uno degli elementi più critici riguardo allo stupro è il consenso. Infatti, se l’accordo di una delle due parti è forzato, coercizzato o ottenuto sotto pressione non può considerarsi consenso poiché non è stato dato liberamente. Nel tentato stupro l’aggressore tenta, ma non completa, l’atto sessuale non consensuale. La violenza che sfocia in un tentato stupro può avere sulle vittime lo stesso impatto di uno stupro con penetrazione completa. In letteratura vi è un accordo unanime nel ritenere lo stupro il crimine meno denunciato alla polizia, nonostante i tassi d’incidenza del fenomeno siano molto alti. Per esempio, negli Stati Uniti è stato stimato che 1/5 delle donne e 1/71 degli uomini ha subìto uno stupro in una fase della propria vita (Black et al., 2011). In Italia, i dati ISTAT del 2015 hanno mostrato che ben 652.000 donne hanno subìto stupri e che sono 746.000 le vittime di tentati stupri.
ABUSO SESSUALE. Per abuso sessuale si intende ogni tipo di contatto sessuale non consensuale. Le vittime possono essere donne o uomini di ogni età. L’abuso sessuale da parte del partner o di una persona intima può includere l’uso di parole dispregiative, il rifiuto di utilizzare metodi contraccettivi, causare deliberatamente dolore fisico al partner durante i rapporti sessuali, contagiare deliberatamente il partner con malattie infettive o infezioni di tipo sessuale oppure utilizzare oggetti, giochi o altre cose che causano dolore o umiliazione senza il consenso del partner. Scarica la traduzione a cura dell’Istituto A.T. Beck del capitolo “Comparative Qualification Of Health Risks. Geneva World Health Organization, 2004 (Chapter 23 Child Sexual Abuse)” autorizzata il 14 Maggio 2015. Si tratta di atti sessuali con un bambino, compiuti da un adulto o da un bambino più grande. E’ un crimine sessuale che, per essere attuato, è connotato necessariamente anche da un abuso di fiducia, potere e autorità del carnefice nei confronti del minore, che determina gravi problemi a breve e lungo termine su di esso (National Sexual Violence Resource Center, 2013). Alcuni comportamenti tipici dell’abuso su minori comprendono:
toccamenti a sfondo sessuale di qualsiasi parte del corpo, sia essa coperta da vestiti o nuda;
rapporti con penetrazione, inclusa la bocca;
incoraggiare un bambino a intraprendere attività sessuali, inclusa la masturbazione;
avere rapporti sessuali davanti a un bambino, essendo consapevoli della sua presenza;
mostrare materiale pornografico a minori o utilizzare bambini per produrre questo materiale;
incoraggiare un minore a prostituirsi.
L’abuso sessuale nei bambini non è sempre ovvio e molte delle vittime non riferiscono l’abuso che hanno subìto (Finkelhor et al., 2008). Ci sono alcuni cambiamenti comportamentali che possono indicare un abuso sessuale. Eccone alcuni:
la bambina/il bambino ha paura, in particolare, di alcune persone o di alcuni luoghi;
risposte inusuali del minore alla domanda “sei stata/o toccata/o?”;
paura irragionevole di una visita medica;
disegni che ritraggono atti sessuali;
variazioni improvvise del comportamento, come bagnare il letto o perdere il controllo degli sfinteri;
improvvisa consapevolezza dei genitali, degli atti e delle parole a sfondo sessuale;
tentativi di ottenere comportamenti sessuali da parte di altri bambini.
VIOLENZA SESSUALE. Si definisce violenza sessuale qualsiasi attività sessuale con una persona che non voglia o sia impossibilitata a consentire all’atto sessuale a causa di alcool, droga o altre situazioni. Violenza sessuale è un termine molto generico che include diversi comportamenti come:
lo stupro, anche se l’autore è il partner o il marito;
qualsiasi contatto sessuale indesiderato;
l’esposizione non gradita di un corpo nudo, l’esibizionismo e il voyeurismo;
l’abuso sessuale di un minore;
l’incesto;
la molestia sessuale;
atti sessuali su clienti o dipendenti perpetrati da terapeuti, medici, dentisti, capi, colleghi o altre figure professionali.
La violenza sessuale è un atto di potere e non sempre vengono utilizzate la forza fisica o le minacce contro la vittima, perché la violenza può essere molto sottile (come nel caso in cui l’autore dell’atto utilizzi la propria età, fisicità o status sociale per spaventare o manipolare la vittima). La violenza sessuale accade in tutto il mondo ed è presente in tutti i gruppi sociali, economici, etnici, razziali, religiosi e di età. Inoltre, gli uomini quanto le donne possono essere vittime di violenza sessuale. Per quanto riguarda il genere femminile, i dati ISTAT del 2015 hanno riportato che del 31,5% delle donne (di età compresa tra i 16 e i 70 anni), che nel corso della propria vita era stato vittima di una qualche forma di violenza, ben il 21% aveva subìto violenza sessuale.
Coro di Ratisbona, ora il Vaticano s’arrabbia: «Due pesi e due misure», scrive venerdì 21 luglio 2017 "Il Secolo d’Italia". Alla Chiesa in quanto “istituzione speciale” viene “giustamente richiesta un’esemplarità assoluta, ma questo ricorso costante a due pesi e due misure nel giudicare i suoi comportamenti e nell’attribuire responsabilità non giova a nessuno”. Lo sottolinea Lucetta Scaraffia in un suo intervento sull’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, nel quale torna sull’inchiesta legata agli abusi nel Coro di Ratisbona. “Non giova alla chiarezza delle questioni, e non giova soprattutto quando si tenta di eliminare ingiustizie, di punire i colpevoli di violenze, di impedire che queste si ripetano”, annota la storica nel sottolineare come di fronte ad altri gravi episodi di violenza avvenuti in altre istituzioni, “nonostante la gravità” dei casi non sia seguita la stessa “indignazione collettiva”. “Ben diversa – osserva Scaraffia sul quotidiano d’Oltretevere – è stata l’attenzione che i media hanno rivolto alla triste vicenda dei piccoli cantori di Ratisbona: ampio spazio e titoli che, denunciando 547 casi di violenze, hanno spesso lasciato intendere che si sia trattato di quasi seicento stupri, mentre i casi di abusi sessuali nell’arco di quasi mezzo secolo sono stati 67. E bisognava approfondire per capire che sono stati soprattutto deprecabili interventi maneschi – ma certo meno gravi degli stupri – da parte di docenti, peraltro non di rado sadici. E soprattutto per capire che non era uno scoop, ma il risultato di una rigorosa indagine voluta dal vescovo della diocesi, quindi dalla Chiesa stessa, decisa ad andare a fondo di voci e denunce su questo scandalo”. “Nessuno – osserva la storica – dubita che si tratta di atti ignobili e vergognosi, che dovevano essere puniti e soprattutto prevenuti, ma colpisce il livello di manipolazione mediatica del caso, e soprattutto la percezione diversa che l’opinione pubblica ha di episodi simili: da una parte tolleranza verso la vita militare e gli eccessi di un nonnismo che degenera in violenza, dall’altra estrema severità verso l’istituzione ecclesiastica. Del resto, l’abitudine a indicare la Chiesa cattolica come fonte di tutti i mali fa ormai parte dell’esperienza quotidiana e prepara l’opinione pubblica a considerare questo normale”.
STUPRO DOMESTICO. Stupri e femicidi, due pesi e due misure. Negli ultimi 10 anni in Italia 1.740 donne sono state uccise dal partner o dall’ex partner e 2.333 sono state stuprate. Due volti della stessa medaglia, la violenza del maschio sulla femmina, rispetto alla quale però valgono due pesi e due misure: nelle mura domestiche, dove c’è l’uomo che dovrebbe amarti, non vale la stessa indignazione provata per quanto è avvenuto a Rimini il 25 agosto scorso, scrive Natascia Ronchetti l'11 settembre 2017.
Stupro, dal latino stuprum: onta, disonore. Femicidio o femminicidio: la prima parola è un adattamento dell’inglese femicide, per la seconda dobbiamo risalire allo spagnolo parlato nel Centroamerica, che parla di feminicidio. Ma oltre l’etimologia qual è la vera e concreta differenza nelle nostre risposte alle violenze sulle donne? Certo, nel primo caso non c’è la morte. Eppure lo stupro – e ce lo insegna il caso della brutale aggressione avvenuta a Rimini nella notte tra il 25 e il 26 agosto ai danni di una giovane turista polacca e di una transessuale peruviana da parte di un gruppo di giovanissimi africani – riesce a calamitare la nostra attenzione più di quanto avviene, quotidianamente, di fronte a un femicidio, che è un omicidio di genere: la donna viene uccisa in quanto donna. Lo stupro, che mantiene di fatto inalterato nelle nostre menti il suo significato latino, ci indigna e ci impaurisce perché può essere commesso da chiunque, è il male che può colpirci in qualsiasi luogo fuori dalle mura protettive della nostra casa, mentre facciamo una passeggiata, mentre siamo in vacanza – come è accaduto alla giovane polacca -, mentre rientriamo nella nostra abitazione dopo una serata con amici o parenti. Il femicidio è invece l’estremo atto di violenza di chi conosciamo bene: il fidanzato, il marito, il convivente, l’ex partner; è qualcuno che fa parte della nostra vita, è il killer tra le mura di quella stessa casa che dovrebbe proteggerci e farci sentire al sicuro. Essendo l’omicida una persona della quale dovremmo fidarci da un lato potenzialmente respingiamo semplicemente l’idea che possa accadere a noi, dall’altro lato non ci confrontiamo pienamente con una realtà tragica: stupro e femicidio sono due facce della stessa medaglia, quella di una cultura patriarcale sopraffattrice, maschilista e misogina che continua a insinuarsi nella mente e nella vita di tutti noi, uomini e donne. Antropologi culturali e femministe potrebbero ricordarci – dandoci subito una prima risposta – che in realtà esiste una distinzione fondamentale tra femicidio e femminicidio. Il primo è uccisione, il secondo è l’insieme delle violenze di genere – fisiche, psicologiche, economiche – che vengono esercitate dagli uomini sulle donne. In base a questa distinzione è evidente che lo stupro non è altro che una delle tante drammatiche manifestazioni del femminicidio, un esercizio di potere sul corpo della donna attraverso la violenza sessuale. Un’aggressione di gruppo come quella di Rimini è capace di dare la stura, oltre alla nostra legittima indignazione, alle polemiche politiche più becere mentre di fronte a un femicidio ci spaventiamo, certo, ma non prendiamo atto fino in fondo della gravità del fenomeno come se fosse una terribile partita che si gioca in casa d’altri e non anche nella nostra casa. Titoli sui giornali e via, si passa – purtroppo – al prossimo, come dimostrano le statistiche. Negli ultimi dieci anni – i dati provengono dall’Istat e dal ministero della Giustizia – nel nostro Paese sono state uccise dal partner o dall’ex partner 1.740 donne, nel solo 2017 siamo stati costretti a contare un omicidio ogni tre giorni. Contemporaneamente nello stesso periodo, tra gennaio e luglio, sono stati commessi 2.333 stupri, in quattro casi su dieci l’autore era uno straniero. Il tema dell’immigrazione e dell’integrazione non è irrilevante rispetto al problema della differenza delle nostre reazioni. Nel caso di Rimini abbiamo potuto circoscrivere la gravità del fatto – lo stupro di gruppo è punito dal nostro ordinamento con pene che vanno da sei a dodici anni – a qualcosa che consideriamo estraneo: la violenza è stata perpetrata da quattro immigrati, di cui uno con il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel caso di un femicidio il nemico – il patriarcato – è semplicemente tra di noi.
Natascia Ronchetti. Vive e lavora a Bologna. È stata a lungo redattrice de "l’Unità". Ha scritto per "Diario", e ora per "Il Sole 24 Ore", "Venerdì di Repubblica", "l’Espresso", "D-Donna", "Linkiesta", "Left". Per le edizioni L’Atelier ha scritto “Finanza etica. Una rivoluzione silenziosa” (2012), con la casa editrice David and Matthaus ha pubblicato “Il rituale del femicidio” (2016). Nel tempo libero viaggia. O sogna di viaggiare.
STUPRO DI RAZZA. Stupro di Firenze, e quel garantismo di “razza”. Migranti e carabinieri trattati in maniera diversa, scrive Piero Sansonetti il 12 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Ieri il quotidiano Libero si è schierato con passione a difesa dell’arma dei carabinieri, dopo le polemiche provocate dall’accusa di stupro rivolta contro due militari di Firenze. E ha posto una domanda dalla risposta ovvia: «Se nei carabinieri ci sono due pecore nere, vuol dire che tutti i carabinieri sono pecore nere?». Chiaro che no. E una seconda domanda, dall’altrettanto ovvia risposta: «Per dichiarare colpevoli quei due carabinieri, non occorrerebbe, prima, una sentenza?». Chiaro che sì. Persino i giornali che son stati punta di lancia di svariate campagne giustizialiste capiscono che alcuni capisaldi del garantismo vanno rispettati, sennò è la fine. Il problema è però questo: se ne ricorderanno, tra qualche giorno, quando sul banco degli accusati siederanno gli immigrati? Lo stupro di Firenze e quel garantismo di “razza”. Ieri il quotidiano Libero si è schierato con passione a difesa dell’arma dei carabinieri, dopo le polemiche provocate dall’accusa di stupro rivolta contro due militari di Firenze. E ha posto una domanda dalla risposta ovvia: «Se nei carabinieri ci sono due pecore nere, vuol dire che tutti i carabinieri sono pecore nere?». Chiaro che no. E una seconda domanda, dall’altrettanto ovvia risposta: «Per dichiarare colpevoli quei due carabinieri, non occorrerebbe, prima, una sentenza?». Chiaro che sì. Persino il quotidiano Il Fatto, forse per la prima volta nella sua storia ( a parte la vicenda- Marra) ha parlato non di colpevoli ma di “presunti colpevoli”. Possiamo esultare. Dopo una estate nella quale si è fatto strame dei principi essenziali del diritto (in particolare sulla questione migranti) si torna finalmente a ragionare. Persino i giornali che son stati punta di lancia di svariate campagne giustizialiste capiscono che alcuni capisaldi del garantismo vanno rispettati, sennò è la fine. Il problema è semplicemente questo: se ne ricorderanno, tra qualche giorno, quando sul banco degli accusati non siederanno più due ragazzi in divisa ma due “balordi” qualunque, o forse due immigrati? E se ne ricorderanno anche quando il reato del quale vengono accusati gli imputati, o gli indiziati, non sarà più stupro ma, per esempio, immigrazione clandestina, o concussione, o abuso d’ufficio? (Spesso, nel nostro giornalismo, il reato di abuso di ufficio è considerato molto più grave del reato di stupro…) Ecco, io temo che non se ne ricorderanno. L’articolo che ha scritto sul Libero il mio amico Renato Farina (al quale voglio bene soprattutto perché in passato è stato spesso linciato dalla stampa giustizialista) è inappuntabile. Un vero esempio di garantismo e io non dubito della sua assoluta buonafede. Osserva come sia indecente prendere spunto dal reato di due appartenenti a una categoria per criminalizzare la categoria (in questo caso i carabinieri), osserva come prima di condannare qualcuno occorra un processo, osserva come i due ragazzi dell’Arma abbiano, come tutti, pieno diritto alla difesa. Sottoscrivo tutto, al 100 per cento. Sottoscrivo persino il suo sospetto – che mi è sembrato di intravedere – che ci sia qualcuno che vuole speculare, per motivi di potere, e indebolire i carabinieri o alcuni settori dei carabinieri. Quel che non mi convince è la contraddizione tra questo articolo, impeccabile, e la campagna che il giornale sul quale Farina scrive ha condotto nei mesi scorsi contro, ad esempio, gli immigrati, identificandoli – sempre ad esempio – come la categoria alla quale appartenevano i quattro africani accusati di stupro a Rimini (ripeto: “accusati- di- stupro- a- Rimini”). I titoli a tutta prima pagina erano molto chiari. Dicevano: gli immigrati ci portano stupri. E cioè esprimevano una bestialità. Così come è una bestialità quella di chi dice: i carabinieri ci portano stupri. Gli stupri sono opera semplicemente degli stupratori, che non sono negri, non sono sbirri, non sono disoccupati, né ingegneri, né padri di famiglia: sono stupratori e cioè colpevoli del reato peggiore di qualunque altro reato dopo l’omicidio. Detto questo, anche stavolta abbiamo assistito a dichiarazioni politiche che fanno a pugni col diritto. Comprese qualche dichiarazione degli stessi carabinieri, smaniosi di mostrarsi inflessibili. Non è di retorica inflessibilità che abbiamo bisogno, ma solo di diritto, di legge e di giustizia. E non abbiamo nessun bisogno di sentenze né anticipate né esemplari. Non è la gravità di un reato, o di un presunto reato, a determinare la colpevolezza e dunque la durezza delle contromisure. I reati vengono puniti più o meno severamente a seconda della loro gravità (e la loro gravità dovrebbe essere stabilita dai codici penali e non dalla pressione dell’opinione pubblica e dei giornali), ma i metodi di accertamento e le garanzie di difesa sono uguali per qualunque reato, anzi, nel caso di reati più gravi (siccome sono più gravi le conseguenze in caso di colpevolezza) le garanzie devono essere più grandi. Allora delle due l’una: o i giornali (non solo Libero) che nei giorni scorsi hanno avuto atteggiamenti forcaioli nei confronti degli africani si rendono conto di avere sbagliato. E questo, francamente, farebbe fare un bel passo avanti al dibattito pubblico. Oppure dichiarano apertamente e onestamente di voler affermare una distinzione tra due modi di fare giustizia: una verso i cittadini italiani e l’altra verso gli africani. E di volerlo fare per una serie di ragioni che saranno anche fondatissime e che ora non ci interessa approfondire. Ci interessa che sia chiaro che in questo modo si afferma il seguente principio: esiste una giustizia di razza. Diversa a seconda della razza (o presunta razza) alla quale appartiene il sospettato. Questo principio, dal punto di vista scientifico (lasciamo stare le polemiche politiche o gli anatemi) si chiama “razzismo”. Possiamo anche decidere che il “razzismo”, come tante altre ideologie (spesso sciaguratissime) sia legittimo, perché ogni opinione anche la più orrenda è legittima, purché si chiamino le cose con il loro nome. Senza alzare la voce. Senza pretendere sdegno o condanne e senza esprimere senso di superiorità. Del resto la giustizia razzista è solo una delle tante varianti del “garantismo- giustizialista”. Scusate se uso questo ossimoro, ma non è un paradosso, è più o meno la normalità nella discussione politica. L’idea che solo i propri amici debbano essere garantiti. O solo i sospettati di alcuni reati. E tutti gli altri vadano presi e messi sulla graticola. Questo è il garantismo giustizialista che dilaga nella politica, nel giornalismo, nell’intellettualità. Volete qualche esempio? Date un’occhiata alla polemica feroce che si è aperta, da parte di molti giornali e anche del sindacato giornalisti, contro l’ipotesi di un decreto che limiti la possibilità di mettere alla gogna liberamente tanta gente attraverso l’uso incontrollato delle intercettazioni e la loro pubblicazione. Perché questa ira? Davvero qualcuno teme che possa essere messa in discussione in Italia la libertà di stampa? No, tranquilli, nessuno lo crede. Molti però pensano che la stampa possa essere costretta ad essere garantista, non solo con i propri amici; e ritiene che in questo modo la stampa perda la metà del suo potere. Soprattutto – credo – perda il potere di interagire con pezzi di magistratura creando una potenza che sfugge a ogni legge, a ogni controllo, a ogni meccanismo democratico. Cosa c’entra questa discussione con la polemica con Libero? C’entra. Finché non ci si convincerà che il garantismo è uno solo e che è essenziale alla democrazia, i giornali resteranno quello che in gran parte sono oggi: megafoni di faziosità, esibita e rivendicata.
Carabinieri accusati di stupro, Salvini: "Vicenda molto strana". Molti i punti ancora da chiarire. Il leader della Lega: "Se hanno fatto sesso con le due ragazze, anche se queste erano d'accordo, devono lasciare la divisa. Se si trattasse di stupro dovrebbero essere trattati come tutti gli altri infami. Ma ho dei dubbi che sia successo questo", scrive il 9 Settembre 2017 “Il Populista”. La vicenda dei presunti stupri commessi a Firenze da due Carabinieri in servizio, nei confronti di due studentesse americane, presenta ancora molti punti oscuri. Sabato uno dei due militari accusati si è presentato in Procura, con il suo avvocato, dichiarando di aver avuto un rapporto con una delle due ragazze. Precisando però che “lei era consenziente”, e che dunque “non c’è stata violenza”. “Lei mi ha invitato a casa e poi siamo stati insieme”, ha raccontato. Intanto l’Arma ha avviato le procedure per la sospensione dal servizio di entrambi. Il leader della Lega Matteo Salvini, nel tardo pomeriggio di sabato, ha commentato così su Facebook: "In Italia ci sono più di 100.000 Carabinieri che fanno bene il loro lavoro. Hanno tutta la mia stima, guai a chi li tocca. Se due di questi a Firenze, in divisa e in servizio, hanno fatto sesso con due ragazze, anche se queste erano d'accordo, hanno fatto un errore enorme e dovrebbero immediatamente lasciare il lavoro e la divisa. Se poi si trattasse di stupro, dovrebbero essere trattati come tutti gli altri infami che mettono le mani addosso a donne o bambini. Permettetemi però, fino a prova contraria, di avere dei dubbi che si sia trattato di uno "stupro", e di ritenere tutta la vicenda molto, molto, molto strana. Sono l'unico a pensarla così?”. Il post ha ricevuto nel giro di poco tempo migliaia e migliaia di approvazioni.
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze [VIDEO]. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
"Se la sono cercata", su Facebook l'odio per studentesse stuprate a Firenze, scrive il 09/09/2017 Marta Repetto su "Adnkronos.com". Bugiarde, disoneste, drogate, prostitute. Nessuna pietà per le presunte vittime: il caso di Firenze, che vede indagati due carabinieri per stupro, visto dai social mette i brividi. Nessuna empatia o quasi per le studentesse americane ma, al suo posto, un'ondata d'odio e di scherno in ogni singolo post o notizia pubblicati sull'argomento. Giovani ree, secondo gli umori dei commentatori, di aver peccato di ingenuità, di aver irretito i due appartenenti all'Arma o, nel peggiore dei casi, di essersela andata a cercare, perché "se non vuoi andarci a letto, sulla macchina dei militari non ci sali". La giuria del web, insomma, ha già emesso il verdetto: le ragazze - e "non dimenticate che sono americane e gli americani sono famosi per il vittimismo" - sono le colpevoli e saranno loro a doversi discolpare agli occhi degli italiani e degli inquirenti. Tanta, tantissima solidarietà invece per gli indagati, per molti "innocenti a prescindere". E fra le notizie trapelate finora dalle indagini in pieno svolgimento, più che colpire il fatto che siano stati trovati dei riscontri al racconto delle due ragazze - fra cui le immagini di alcune telecamere di sorveglianza che testimonierebbero l'effettiva presenza delle giovani sulla macchina dei carabinieri -, i lettori sembrano concentrarsi sul particolare dell'assicurazione contro lo stupro stipulata dalle ragazze. Un'assicurazione che, sempre secondo la giuria popolare online, certificherebbe senza ombra di dubbio la colpevolezza delle americane: "Hanno inventato tutto - sentenziano - per prendersi i soldi". E poco importa che questo tipo di assicurazioni - che riguardano ogni aspetto e ogni eventualità medica - siano pressoché la prassi per gli stranieri che risiedono in Italia per un periodo medio-lungo. Come del resto ha spiegato l'avvocato di una delle due giovani. Ma non c'è solo l'analisi minuziosa delle indagini. C'è infatti anche chi si spinge più in là, magari vestendo i panni del medico che le ha prese in carico per gli accertamenti clinici: "Se non ci sono lesioni la violenza non c'è stata", azzarda qualcuno, che evidentemente ha già il quadro chiaro pur non avendo in mano gli atti. Fra gli esperti e i giudici, colpisce come siano tante le donne che non mostrano alcun tipo di compassione, ma che invece rincarano la dose nei 'commenti tecnici' al caso: "Saranno state loro a fare le zoccole", l'opinione più diffusa. Nel mezzo, una minoranza che ricorda - o almeno prova a far ricordare - come in Italia siano previsti tre gradi di giudizio per gli imputati, "di qualsiasi colore siano" aggiungono riferendosi ai recenti fatti di Rimini, che investigatori e scientifica sarebbero forse gli unici a dover indagare sul complesso caso e che le presunte vittime siano da tutelare e proteggere fino a prova contraria. Una minoranza che purtroppo sembra avere la peggio, persa irrimediabilmente in quel girone infernale di commenti su Facebook e Twitter dove tutti diventano esperti di tutto, sostituendosi spesso e volentieri a inquirenti e tribunali.
Stupro di Firenze. Quando il web è pronto a giustificare gli aggressori. Su Internet i carabinieri indagati dopo la denuncia per stupro di due studentesse americane hanno raccolto la solidarietà di molti utenti (anche donne), che invocano il garantismo e mettono in dubbio la credibilità delle ragazze. Ma era andata molto diversamente, fin dalle prime ore, nel caso degli stupri compiuti a Rimini da quattro ragazzi di origine straniera, scrive Massimiliano Jattoni Dall'Asèn su "Io Donna" dell'8 settembre 2017. “Come sono le studentesse americane a Firenze lo sappiamo tutti…”. “L’hanno fatto apposta per i soldi”. “Sono delle bugiarde”. La fiera degli orrori social, il bar sport dell’insulto virtuale e becero, non chiude mai. Ogni occasione è buona in Italia per sfogare in rete il disprezzo verso le donne. Ma questa dilagante piaga nazionale non riguarda solo gli uomini: le frasi qui sopra riportate, per esempio, sono state scritte da due ragazze e una signora. Loro, come molti altri lettori, nelle ultime ore hanno voluto commentare così la notizia delle due studentesse americane che hanno sporto denuncia per stupro a Firenze, e che hanno indicato in due carabinieri i loro aguzzini (i militari, di 33 e 45 anni, sono stati identificati grazie a telecamere che hanno ripreso il passaggio della pattuglia e ora sono indagati per violenza sessuale). Basta scorrere i profili social di chi è accorso a commentare gli articoli online per difendere i carabinieri (qui il vero insulto, se sarà appurato, è lo stupro di due ragazze, penseremo poi al buon nome dell’Arma) per scoprire che gli stessi hanno commentato con ben altre posizioni le violenze avvenute pochi giorni fa a Rimini a una donna polacca e una trans peruviana, ancora prima di avere la certezza di chi fossero i colpevoli. In occasione di quella terribile vicenda, i quattro stupratori di origine straniera sono stati subito processati e condannati da chi invece per la vicenda di Firenze chiede “cautela prima di puntare il dito” o solleva dubbi sulla credibilità delle vittime, visto che “le americane la danno via subito”. Lo stupro che avrebbero subito le due studentesse americane non suscita dunque lo stesso sdegno, la stessa voglia di giustizia; e così i leoni (e leonesse) da tastiera hanno sentito il bisogno di difendere aprioristicamente i carabinieri e insultare le vittime, proprio a partire dal loro essere donne, giovani e – forse – sessualmente libere. In migliaia hanno condiviso la bufala creata ad hoc dai soliti mendicanti di “like” sulla polizza antistupro che le ragazze potrebbero incassare, accusando le vittime di aver architettato tutto per “farsi una vacanza gratis in Italia”. È chiaro che chi usa due pesi e due misure nel giudicare queste due storie di stupro, chi è forcaiolo e spietato se si parla di violenze commesse da stranieri, e garantista se quelle stesse violenze le hanno commessi degli italiani, non è mosso da alcun interesse per la tutela delle donne e della loro sicurezza. Le sue ragioni sono altre e sono quelle che fanno la fortuna social (e nelle urne) di alcuni politici senza scrupoli. E così, mentre si consuma la solita canea social, mentre alcuni quotidiani preferiscono dimenticarsi del ruolo culturale e sociale che dovrebbe avere la stampa in un Paese civile, per cercare di vendere una copia in più stimolando i bassi istinti della gente, le vittime vengono strattonate, usate, mercificate per un click in più e poi abbandonate in pasto agli sciacalli. Abusate una seconda volta. Del resto, lo si evince bene dal Rapporto della Commissione parlamentare “Jo Cox” sui fenomeni dell’intolleranza, della xenofobia, del razzismo in Italia: nella “piramide dell’odio” è alle donne che spetta un posto di rilievo. Sono loro «le maggiori destinatarie del discorso d’odio online», come aveva spiegato durante la presentazione del rapporto nel luglio scorso la presidente della Camera Laura Boldrini (lei che conosce purtroppo sulla sua pelle cosa significhi essere insultati, minacciati e umiliati sul web). Se le donne sono oggetto del 63% di tutti i tweet negativi rilevati all’Italia nel periodo agosto 2015-febbraio 2016, come evidenzia l’indagine dell’Osservatorio VOX, è chiaro che viviamo in un Paese dove gli uomini odiano le donne, ma dove anche le donne disprezzano le donne. E a nulla serve, per quanto giusto, far chiudere profili (che tanto poi rinascono sotto altre forme e con altri nomi), così come non basterebbe una legge capace di punire severamente certi comportamenti. Perché la verità è che prima di Internet, dei social network o dei politici delinquenti, che hanno sdoganato l’insulto e la violenza verbale pur di arraffare una sedia in Parlamento, prima di tutto questo c’è un grande vuoto umano e culturale. Perché non sono Internet e i social network il vero problema: siamo noi.
Stupro Firenze: i fanatici della ruspa, le ragazze facili e le fake news, scrive Sara Frangini il 12 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Per i fanatici del Ruspa, quello che è successo a Firenze è un dramma nel dramma. L’accusa di stupro è arrivata per due italianissimi, due appartenenti alle forze dell’ordine, due militari, per l’esattezza carabinieri. Non per “i soliti stranieri”, come si legge su Facebook nei commenti vomitati dai giustizieri da quattro soldi. Non per i “vermi che hanno aggredito la turista polacca” o hanno abusato della donna trans peruviana. Ora sono finiti sotto i riflettori coloro che avrebbero dovuto tutelarci, difenderci, darci sicurezza e protezione. Allora che si fa? Cerchiamo di screditare le ragazze, diciamo che sono facili, che avevano la gonna corta, che andavano perfino in discoteca. Ah la discoteca, che luogo di perdizione! E che ci facevano? Ballavano. Allora erano facili, sicuro. In pochi azzardano un “se la sono andate a cercare” ma lo pensano in molti, compresi gli imbecilli che hanno fatto girare sui social network la foto di una coppia di ragazze insinuando fossero le americane stuprate. Così le hanno volute rappresentare: che bevono senza remore, di facili costumi. I commentatori di quelle immagini e i “condivisori” della bufala di questa portata, soprattutto, hanno pensato più ai carabinieri che alle vittime. E sono gli stessi che hanno fatto girare la notizia dell’assicurazione contro lo stupro come se fosse stata tutta una messinscena delle vittime per poter intascare qualche soldo alla faccia dei poveri carabinieri. Le cose restano così: per parecchi ci sono presunti stupratori e stupratori da evirare. Ci sono italiani che “potrebbero aver commesso una violenza sessuale anche se sembra strano” e stranieri che “hanno violentato una ragazza”. “Irregolari che devono essere cacciati”. “Che sono degli schifosi”. Per me siete voi gli schifosi. Voi che fate i distinguo quando, per chi subisce una violenza, la nazionalità dell’aguzzino è l’ultimo pensiero. Voi che cercate ogni pretesto per scagliarvi contro gli immigrati e magari avete per anni taciuto davanti ai tantissimi casi di violenze domestiche. Voi che vedevate gli stupri dei mariti alle mogli come abusi di serie B su cui tacere. Entrare nel merito delle differenze tra violenze è una pratica che rasenta il morboso: ve la lascio volentieri. Voglio solo ricordare che non sono stati questi i soli stupri avvenuti. Che dovremmo parlare più del problema, meno dei singoli casi. Che non sono tutti sociologi né investigatori. Ma soprattutto che a fine agosto ci sono stati anche altri soprusi, e che in quei giorni di vermi ne sono strisciati parecchi. Una giovane donna, nemmeno trentenne, ha denunciato di essere stata attirata nel bosco tra Paganico e Capannori e violentata da due uomini stranieri. Come straniera è la vittima 17enne di una violenza sessuale avvenuta a Desio, in Brianza. Lo stesso giorno è stato accusato un 27enne originario di Latina per uno stupro avvenuto in Salento. A Cinisello Balsamo, poi, è stata violentata un’ottantunenne al Parco Nord, mentre due giorni prima a Jesolo è stato arrestato un 25enne vicentino, di origini marocchine, per una violenza sessuale verso una 17enne paraguaiana residente nel veronese. Di ieri, infine, la violenza a Roma di una ventenne finlandese. Un ultimo appunto, con gentilezza. Alcuni “colleghi” riportano su testate nazionali dati inquietanti quanto, a mio parere, fantasiosi e inopportuni. Come la frase che leggiamo in un articolo: “Però non si può neppure dimenticare che tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. Guardate qui quante sono le denunce e qui quante altre volte vengono diffuse informazioni superficiali. Nel 2016 sono stati complessivamente denunciati 51 casi di violenza (non solo verso “americane”) mentre nel 2015 sono stati 57. E, per dire se sono stupri falsi o meno, c’è da aspettare davvero molto più di qualche mese, cari colleghi. Visti i tempi e le articolazioni delle indagini (e vista la burocrazia), spesso un anno nemmeno basta. Cerchiamo di essere seri, ve ne prego.
La Stampa ha deciso di ritirare una falsa notizia sugli stupri a Firenze. Un dato palesemente inventato sulle denunce di violenza sessuale era stato molto contestato su internet: il direttore ha ammesso che non aveva "le dovute conferme", scrive il “Il Post" il 12 settembre 2017. Il direttore del quotidiano La Stampa ha annunciato che il giornale ha rimosso dall’edizione online di un articolo, uscito sabato anche sul quotidiano di carta, un passaggio che era stato contestato da molti lettori soprattutto su internet nei giorni passati. L’articolo riguardava i primi sviluppi delle indagini sulle accuse di stupro contro due carabinieri da parte di due studentesse americane a Firenze. A un certo punto vi si diceva: Però non si può neppure dimenticare che tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90 per cento risulta falso. Il dato era subito sembrato implausibile e privo di qualunque fondamento a molti lettori (tra le prime diffidenze online c’erano anche state anche quelle del Post), oltre che vergognoso e pericoloso per quello che implicava sulla presunta falsificazione delle denunce di violenza sessuale da parte delle donne che ne sono vittime. Lo stesso articolo era stato pubblicato anche su un altro quotidiano del gruppo, Il Secolo XIX, e il dato era stato riportato anche dai quotidiani Il Messaggero e Il Mattino. Dopo molte proteste online il Messaggero aveva rimosso da internet senza spiegazioni il suo articolo (in cui quel passaggio sembrava stato aggiunto a un testo originario, scritto da New York), mentre la Stampa si era limitata a mettere la frase tra virgolette e a sostenerla confermata. Intanto il dato veniva fattualmente smentito dalle indagini di alcuni lettori online, e dallo stesso questore di Firenze, mentre crescevano i sospetti sulle possibili fonti che fossero state interessate alla diffusione di quella calunnia. Martedì sera la “public editor” della Stampa Anna Masera ha pubblicato nel suo spazio online una domanda al direttore Maurizio Molinari sulla vicenda. Nella risposta Molinari – pur sostenendo contraddittoriamente che la presunta notizia fosse stata “più volte avvalorata” – dice che ulteriori verifiche hanno “preso tempo” e non hanno “trovato le dovute conferme”. Da qui la decisione di rimuovere quel falso, tre giorni dopo la pubblicazione, con scuse verso i lettori. Cara Anna, la notizia in questione è stata pubblicata da La Stampa e da altri tre quotidiani il 9 settembre. La fonte che ce l’ha fornita l’ha più volte avvalorata, su richiesta dei lettori abbiamo svolto ulteriori verifiche senza trovarne le dovute conferme. Dunque l’abbiamo tolta dalla versione online dell’articolo in questione. Come è evidente tale processo di verifica delle fonti ha preso tempo, e di questo ci scusiamo con i lettori, ma ci ha portato a rispondere in maniera corretta alle richieste di delucidazione ricevute. Confermando il rispetto che questo giornale ha per le notizie ed i lettori. La Stampa non ha ritenuto di pubblicare la risposta del direttore sull’edizione di carta del quotidiano, ma solo su internet.
Quella cosa delle fonti, scrive l'11 settembre 2017 Luca Sofri su Wittgenstein. La lezione preziosa di questa storia è che ora ci possiamo domandare: se è andata come è sospettabile, quante altre volte leggo sui giornali notizie che arrivano strumentalmente da fonti interessate? E possiamo spiegare quanto sia importante quello che a molti giornali sembra un rigido capriccio, ovvero l’attribuzione alle fonti (anche fonti anonime, ma definite, rivendicate, contestualizzate): perché chi scrive si assuma la responsabilità di un fatto e ne indichi i confini di credibilità. È il solo modo per avere un’informazione affidabile oppure per non diventare stupidamente paranoici e dietrologi e non fidarsi più di niente (che è l’ingenuità speculare a quella di credere a tutto). Il giornalismo dei “circola voce”, “pare che”, “risulta”, non è giornalismo: è fiction, o Facebook. I giornalisti e i giornali sono responsabili della credibilità di quello che pubblicano: altrimenti incollare qualunque cosa e inventare qualunque cosa è capace di farlo chiunque, e hai voglia a dire “la professionalità dei giornalisti”. Se tu lo pubblichi, ritieni di avere sufficienti garanzie che sia vero: se non lo ritieni ma pensi sia importante, allora condividi i tuoi dubbi e i limiti di quella informazione, insieme all’informazione stessa. E se decidi che quelle fonti debbano restare anonime, devi averne una ragione: che ragione di timore ci può essere per la fonte di un dato di fatto che dovrebbe essere pubblico e verificabile? (e che dovresti avere facilmente verificato prima di pubblicarlo, se non ti basta la testa a capirne l’implausibilità e la natura). A lavorare in questo modo, assumendosi responsabilità, definendo le fonti, diffidando degli interessi delle fonti – non c’entrano i singoli cronisti, ripeto: è una cultura di cui è mandante tutto il sistema dell’informazione italiana e chi ne ha maggiori responsabilità; nei giornali stranieri seri li licenziano, come approccio, e prima gli hanno insegnato che non si fa – quella notizia non sarebbe mai uscita. Ma siccome lavorare così in Italia è vissuto come un rigido capriccio (“eddai, tu non sbagli mai?”), ai lettori tocca stare all’erta ogni giorno.
STUPRO DI PARTE. "Devono tutti vergognarsi": Myrta Merlino e Laura Boldrini, la gogna in diretta a "L'aria che tira", scrive il 10 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Lunedì mattina Myrta Merlino torna su La7 con L'aria che tira e per l'occasione lancerà una campagna stile Laura Boldrini contro i tweet sessisti che riceve ogni giorno. "Rintracciare gli anonimi dei social è praticamente impossibile, non ho mai presentato denunce, assuefatta all'idea che non ci potevo far niente - ha spiegato la conduttrice al Corriere della Sera -. Poi, quest' estate, guardavo mia figlia Caterina, 16 anni, controllare like e faccine e mi sono accorta di essere terrorizzata: io, se ricevo un insulto, spengo e non ci penso più, ma una sedicenne no, ne soffre. Buona parte del riconoscimento della sua identità passa dai social". Da qui è nata la nuova campagna tv, "Odio l'odio". "La presidente della Camera Boldrini mi ha promesso il suo sostegno e sarà nella prima puntata, l'11 settembre. L'odio fa male a chi lo prova e a chi lo riceve. Ed è contagioso. Gli odiatori vanno stanati, segnalati, puniti". Accanto alla Merlino nella sua lotta ci sarà anche Enrico Mentana, "il primo a dire che tutti devono essere rintracciabili facilmente, anche se nascosti da un nickname. Io ho querele da persone che si sono ritenute offese da cose che ho detto, ci metto la faccia e pago dazio. Nell'era Gutenberg abbiamo imparato che non tutto si può dire in pubblico, l'era Zuckerberg deve offrire la stessa lezione di civiltà". Pronta, dunque, la gogna per gli incivili e i mazzolatori del web: "Ogni giorno, darò una grafica con i peggiori post. Che siano persone comuni, anonimi, politici, devono tutti vergognarsi. E manderemo i nostri redattori a cercarli".
Laura Boldrini dalla Merlino a La7: "Perché non ho parlato dello stupro di Rimini. Italia peggio dell'ex Jugoslavia", scrive l'11 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Dopo lo stupro di Rimini "non ho parlato subito perché c'erano ancora indagini in corso". Laura Boldrini torna sulla polemica successiva al suo silenzio nei giorni della violenza sessuale dei 4 immigrati alla turista polacca in spiaggia a Miramare. L'occasione, in diretta da Myrta Merlino a L'Aria che tira, su La7, è quella giusta per criticare chi l'ha accusata di indifferenza e alzare il tiro, confondendo i piani. Quelli, cioè, tra critica politica e vile insulto social: "Trovo disgustosa la strumentalizzazione. Oggi per offendere una figura istituzionale si arriva ad evocare lo stupro. Non c'è più niente da dire. Lo ho visto fare solo in guerra: in Rwanda ed in ex Jugoslavia". Frase che descrive nella maniera più brutale il livello, spesso rasoterra, dei commenti politici e non solo sui social. Una situazione che, al di là delle iperboli presidenziali, umilia l'Italia. "Io non faccio la commentatrice di professione - prosegue -. Il mio impegno a 360 gradi sulle donne è noto. Che qualcuno metta in dubbio il mio impegno dimostra tutta la cattiva fede e la volontà di strumentalizzare". Tutto vero, ma proprio perché la Presidenta della Camera non ha mai mancato un commento sulla violenza subita dalle donne, anche in caso di inchieste ancora aperte, è suonata perlomeno singolare la scelta di tacere su un atto così efferato che ha coinvolto una turista straniera e quattro immigrati. Un atto che ha messo a durissima prova l'immagine dell'Italia, il senso di sicurezza di residenti e ospiti e l'onore stesso di tanti immigrati onesti e regolari. Una parola di condanna per le bestie di Rimini avrebbe giovato non solo alle donne, ma anche a loro.
VIOLENZA SESSUALE: QUANDO AD ESSERE STUPRATO È UN UOMO, scrive il 18 gennaio 2016 Nicolamaria Coppola. Smentiamo categoricamente che le vittime di violenza sessuale siano sempre e solo le donne. Ritenere che gli uomini siano sempre e solo gli assalitori e le donne sempre e solo le aggredite è fuorviante, tendenzioso, sessista e profondamente ingiusto. Nessuno vuole sottostimare la gravità e la drammaticità della violenza sessuale ai danni delle donne, anzi; i dati parlano chiaro, ed è cosa nota che la violenza contro le donne sia un fenomeno ampio e diffuso. Secondo l’Istat, sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subito stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Questi dati, che si riferiscono al solo 2015, sono agghiaccianti, e chi di competenza dovrebbe affrontare con ancora più serietà e con un progetto a lungo termine il fenomeno, al fine di porre in essere strategie di contrasto e campagne di sensibilizzazione tali da debellare questo abominio. È giusto, però, e intellettualmente corretto dire che anche gli uomini sono vittime di violenza sessuale. Sì, anche i maschi vengono stuprati, checché si pensi e si dica. E le situazioni e le dinamiche in cui avviene lo stupro sono esattamente le stesse in cui si consuma la violenza sessuale ai danni delle donne. Lo stupro non è di genere: è compiuto sia da uomini sia da donne, sia ai danni degli uomini sia ai danni delle donne, e come tale la questione dovrebbe essere affrontata. Diversamente da quanto previsto e garantito dalla legge alle vittime femminili, però, l’uomo trova oggettive ed obiettive difficoltà nel denunciare la violenza subita, poiché non esiste nessun centro di accoglienza, non è attivo nessun numero verde, non c’è nessuno sportello di ascolto pubblico o privato. Niente di niente! “Persino in commissariato – hanno fatto notare quei pochi ricercatori che si dedicano allo studio delle violenze sugli uomini – quando prova a sporgere denuncia, l’uomo che ammette di essere (stato) vittima di violenza carnale ha difficoltà ad essere creduto e si scontra con un atteggiamento di sufficienza, sottovalutazione del fenomeno, spesso anche derisione”. Gli uomini violentati, dunque, non subiscono soltanto danni psicologici e fisici, ma devono affrontare anche lo stigma di una società tendenzialmente omofoba e in cui i valori predominanti sono quelli legati al concetto di macho, di maschio, di homme viril. Gli uomini che sono stati stuprati tendono a tenere nascosta la violenza e non chiedono aiuto a nessuno perché, qualora la notizia dovesse diventare pubblica, verrebbero immediatamente bollati, additati come omosessuali, emarginati dalla comunità, e, probabilmente, abbandonati dalla famiglia. L’abuso sessuale diventa una colpa che pesa come un macigno e che fa male: molti uomini violentati finiscono addirittura per suicidarsi. È molto difficile per gli uomini vedersi – ed eventualmente accettarsi – come vittime di abusi sessuali. La questione è stata spiegata chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan in un’intervista rilasciata alla CNN e ripresa dal Post: “Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro”. C’è pure un secondo motivo che impedisce agli uomini di parlare apertamente o meno delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. “Aver subito una violenza di questo tipo – spiega ancora la Dottoressa Donovan – viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere ‘meno uomini’, più fragili e dunque più simili alle donne”. In una cultura come la nostra in cui l’uomo, solitamente, deve rispondere di fronte alla legge del proprio comportamento sessuale aggressivo, è assai difficile che riesca a trovare facilmente posto dall’altra parte della barricata e, quindi, come vittima. Ma la realtà è un’altra! Andando un po’ a ritroso nel tempo, uno studio del 2014 pubblicato sulla rivista dell’American Psychological Association Psychology of Men & Masculinity e riportato dettagliatamente qui, ha svelato che oltre 4 uomini su 10 (il 43%) di scuola superiore e università avevano vissuto una coercizione sessuale, che si era tradotta nella metà dei casi in un rapporto sessuale. Il 31% dei partecipanti allo studio aveva ricevuto coercizione verbale, il 18% coercizione fisica e il 7% coercizione tramite sostanze per sesso non consenziente, mentre il 26% ha riportato di aver ricevuto seduzioni sessuali non volute per lo stesso motivo. Il 95% degli intervistati ha inoltre riferito che i perpetratori di tali violenze fossero donne e l’1,6% che fossero uomini e donne contemporaneamente. Un altro studio comparso sull’American Journal of Public Health, che riprende i dati raccolti dal 2010 al 2012 dal Bureau of Justice Statistics, dai Centers for Disease Control and Prevention e dall’FBI, rivela che proprio l’FBI sostiene che le indagini federali rilevano un’elevata prevalenza di vittimizzazione sessuale tra gli uomini in molte circostanze simile alla prevalenza trovata tra le donne. “Abbiamo identificato i fattori che perpetuano percezioni errate circa la vittimizzazione sessuale degli uomini: la dipendenza dagli stereotipi di genere tradizionali, le definizioni obsolete e incoerenti, e i pregiudizi metodologici di campionamento che escludono i detenuti”. Fino a pochi anni fa, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Lo stupro veniva considerato e affrontato a livello legislativo come: “Conoscenza carnale – carnal knowledge – di una femmina con la forza e contro la sua volontà”. Nel 2013, però, la definizione è stata modificata, e oggi l’FBI chiarisce che lo stupro è: “La penetrazione, non importa quanto delicata, della vagina o dell’ano con qualsiasi parte del corpo od oggetto, o la penetrazione orale da un organo sessuale di un’altra persona, senza il consenso della vittima”. I pregiudizi e gli stereotipi che orbitano attorno al fenomeno dello stupro maschile toccano anche gli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini. Innanzitutto, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria ma, come ha fatto giustamente notare il New York Times, “gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito”. In secondo luogo, si tende a pensare che superata una certa età, e quando, quindi, si smette di essere bambini, gli uomini non rischino più di essere violentati. Non è così, perché un dettagliato studio americano del 2012 su studenti universitari ha rivelato che il 51,2% era stato vittima di una qualche forma di violenza sessuale dall’età di 16 anni in poi. C’è poi la questione degli uomini stuprati dalle donne perché sì, ci sono donne che stuprano uomini. Come si può leggere in un paper pubblicato nel 2013 sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics e ripreso qui: “Non è raro credere che un uomo non possa essere stuprato da una donna. Gli stereotipi di genere possono rendere difficile immaginare una donna dominante costringere o forzare un uomo che non vuole a fare sesso. Di conseguenza, le vittime maschili di autori femminili sono giudicate più duramente delle vittime maschili di autori maschili. Inoltre, gli stessi comportamenti percepiti come sessualmente aggressivi quando commessi da un maschio possono essere percepiti come romantici o promiscui se commessi da una femmina. Ciò nonostante, i dati fisiologici suggeriscono che gli uomini possono essere stuprati; un’erezione non significa necessariamente eccitazione sessuale e può essere riflessogenica. Gli operatori sanitari per gli adolescenti hanno bisogno di valutare il potenziale dei propri pregiudizi di genere in questo settore in modo che possano essere più efficaci nell’identificare e nel trattare autori femminili e vittime maschili quando essi si presentano”. È bene smentire, dunque, la radicata convinzione che sia impossibile per i maschi rispondere sessualmente quando molestati sessualmente da donne: è stato dimostrato, infatti, che l’erezione può verificarsi in una varietà di stati emotivi, tra cui la rabbia e il terrore. Dunque, “L’induzione di eccitazione e l’orgasmo non indicano che i soggetti vittime di violenza abbiano acconsentito alla stimolazione. La difesa dei perpetratori costruita semplicemente sul fatto che la prova di un’eccitazione genitale o dell’orgasmo dimostri il consenso non ha validità intrinseca” e deve essere ignorata quando ci si trova dinanzi a un episodio di stupro maschile. Non è questa l’occasione per parlare di stupro maschile come strumento di guerra, ma è bene notare che durante i conflitti spesso vengono commessi stupri allo scopo di seminare il terrore tra la popolazione, di disgregare famiglie, di distruggere comunità e, in alcuni casi, di modificare la composizione etnica della generazione successiva. Come scrive Kirthi Jayakumar, avvocato specializzato in diritto internazionale pubblico e dei diritti umani, la violenza sessuale contro gli uomini in situazioni di conflitto ha l’obiettivo di distruggere l’essenza del “maschio” che dovrebbe essere custode della società, i capifamiglia di famiglie in un contesto sociale, e di sbriciolare la santità legata alla loro mascolinità. Che lo stupro nella sua dimensione generale e globale sia una piaga da debellare è noto a tutti. Che lo stupro ai danni delle donne sia un abominio lo è altrettanto. Che le vittime di stupro possano essere e siano uomini, invece, è un fenomeno ancora sottovalutato e sottostimato. Uomini e donne non sono poi così diversi: sono potenziali vittime di violenza sessuale allo stesso modo. Lo stupro maschile non vale meno di quello femminile e non deve essere taciuto, né come fenomeno tangibile né come evidenza possibile. Solo quando si comincerà ad affrontare con fermezza ed onestà intellettuale il problema della violenza sessuale ai danni degli uomini potremmo dire di aver compiuto un ulteriore passo verso l’equiparazione tra uomini e donne.
Stupro di Rimini, la madre dei fratelli marocchini una clandestina. E il padre fu espulso ma restò in Italia, scrive il 4 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Lo stupro di Rimini uno stupro di Stato? L'affermazione è forte, certo, eppure andando ad analizzare a fondo la vicenda non si può non tenere conto di alcuni particolari decisivi, che mettono l'intera vicenda sotto un'altra luce. Si parla, in questo caso, dei due fratelli marocchini e minorenni, i primi ad essersi consegnati. E del loro padre, entrato in Italia negli anni '90 - come riporta Il Giornale - e si insedia in Veneto. È irregolare, ma una sanatoria del 1995 gli dà la possibilità di regolarizzare la sua posizione. Peccato che poi inciampi nella legge, tra denunce, arresti e altri precedenti: permesso revocato, lui dovrebbe essere espulso. Ma, afferma, deve accudire i suoi bimbi. Di solito è la madre a rivendicare quest'occupazione. Peccato però che la madre sia clandestina. Insomma, nessuno è regolare nella famiglia che ha allevato i due baby-stupratori. E nessuno, in Italia, ci sarebbe dovuto restare. Ma tant'è, questo il Paese in cui tutto è possibile (per gli immigrati). Ma se le leggi fossero più dure, e soprattutto applicate e rispettate, forse avremmo avuto due stupratori in meno a casa nostra.
L'ira dei vicini (marocchini): "Già denunciati, inutilmente". Nella palazzina dove vivevano i due fratelli arrestati «Furti, minacce, violenze: forse ora avremo giustizia», scrive Stefano Zurlo, Lunedì 4/09/2017 su "Il Giornale". Una macchina sfreccia sula strada e dalla finestra aperta entra un urlo terrificante: «Andate via». Donia fa una faccia feroce: «L'Italia è un paese di m perché più processi hai, più guai combini, più ti tengono qua». Anna, la sua amica, un velo colorato in testa, conferma con un cenno. Qualcuno punta una telecamera e comincia a riprendere. Allora le due donne, rabbiose, gridano a loro volta: «Noi non c'entriamo». Ma ormai quella palazzina bianca che si affaccia sul fiume è l'edificio più fotografato d'Italia e i vicini di Donia e Anna sono sulla bocca di tutti: i loro figli di 15 e 17 anni sono in carcere dopo aver confessato le violenze di Rimini. Una manciata di gradini e un piccolo corridoio separano gli inquilini, ma Donia vorrebbe che in mezzo ci fosse il Mar Rosso. Non è per la vergogna di quello che è successo. Anzi: «Forse è la volta buona che ottengo giustizia». Donia è minuta. Ha 37 anni e lo sguardo di chi non si rassegna: «Quei due fratelli, oggi in carcere, me ne hanno fatte di tutti i colori. È anni che subisco le loro angherie e quella della madre. Lei mi ha minacciato con il coltello, loro mi hanno rubato, mi hanno spinto per terra, mi hanno fatto finire all'ospedale con un trauma cranico». Donia ha origini marocchine, è nata in Francia ma ha la cittadinanza italiana. Come Anna. Le due riprendono: «Abbiamo testimoniato in tribunale contro la madre e i due figli, ma non è servito a niente, almeno finora». Donia è inarrestabile: «È tre anni che vivo nel terrore, è tre anni che questi rubano e spadroneggiano, è tre anni che chiamo i carabinieri e sporgo denunce. È tre anni che i militari ripetono che, fosse per loro, avrebbero risolto il problema da un pezzo, ma che più di tanto non possono fare, le leggi sono queste, tocca andare avanti cosi». Fuori diluvia e dal bosco sale un assaggio di inverno. Gelido e desolato. Le case intorno si contano sulle dita di una mano: Ponte Vecchio è una frazione lillipuziana di Vallefoglia. Qui le Marche sono una cartolina da sogno: il Montefeltro carico di storia; Urbino e i tesori del Rinascimento e poi Tavullia che è sinonimo di Valentino Rossi. Invece, Donia vive il suo piccolo inferno: «Ogni giorno ho paura che mi facciano del male, anzi che mi ammazzino». C'è da stropicciarsi gli occhi: la famiglia dei fratelli che hanno terrorizzato Rimini è nell'occhio della giustizia da tempo. Piano piano saltano fuori le carte che documentano quella situazione grottesca: la mamma dei due, e di un altro fanciullo più piccolo e di una sorellina di quattro anni, è stata raggiunta da un ammonimento per stalking e nei suoi confronti è aperto un procedimento per atti persecutori. «Non può avvicinarsi a casa mia - riprende Donia - ma qui siamo tutti stretti in pochi metri». Insomma, il provvedimento è un pezzo di carta all'italiana: vale per quello che vale. «Io ho fatto l'errore di aiutarli all'inizio, poi loro non mi hanno più mollato. Furti. Botte. Ingiurie. Ma sono sempre qui, nessuno li butta fuori, nessuno li rimanda in Marocco. E non hanno rubato solo a me, no qua tutti sanno chi sono». Ma le sorprese non sono finite. Saliamo i gradini e bussiamo. Una tenda copre la porta: un mano la sposta e dall'oscurità emerge, solo in parte, il volto di un uomo sulla cinquantina. La suggestione è fortissima: sembra di stare dentro un dipinto di Caravaggio. «Sono distrutto, non voglio dire più nulla, almeno per oggi, ho già spiegato che i miei figli devono pagare». Solo che pure lui sta pagando: è blindato, in detenzione domiciliare, in quella casa popolare dal canone bassissimo. La situazione è quasi incredibile: la famiglia, in Italia dagli anni Novanta, ha messo radici ma è irregolare che più irregolare non si può. Una sanatoria nel 95, poi la revoca del permesso di soggiorno per i troppi inciampi penali, poi equilibrismi e i tanti misteri della legge italiana. Il grappolo dei figlioletti a fare da scudo. Il nucleo resiste a dispetto di tutto e tutti. Donia riassume la propria frustrazione: «Io ora sono italiana, io pago le tasse e pretendo giustizia, invece devo adeguarmi ai ritmi del tribunale e del tribunale per i minori». Si avvicina il figlioletto di Anna: «Mi ricordo quando a scuola il secondogenito, quello che oggi ha 15 anni, ha tirato un bidone in faccia alla maestra». A quanto pare, il primo di una lunga serie di episodi di bullismo. Ma nessuno è riuscito a fermarlo.
Stranieri che stuprano? Il problema esiste, scrive Tiziana Maiolo il 3 Settembre 2017 su "Il Dubbio". È vero che da un punto di vista culturale il problema dell’indisponibilità del corpo delle donne non è ancora stato risolto tra i maschi italiani. È altrettanto vero che la presenza di uomini di diverse culture e di differenti valori e disvalori come quelle dei paesi dell’est o di un mondo dove prevale lo Stato etico sullo Stato di diritto… Migranti, non tutti sono stupratori Ma non si può ignorare il problema…(come è una parte del mondo islamico) ha aggravato di molto la condizione delle donne nel nostro paese. È vero che in termini assoluti sembra che la maggior parte degli stupri avvenga a opera di italiani: dei 2.438 denunciati nei primi mesi di quest’anno, 1.534 sono italiani e 904 stranieri. Ma sono vere altre due cose. La prima è puramente matematica: millecinquecento italiani su una ventina di milioni è una percentuale un po’ diversa da novecento su qualche centinaio di migliaia. Ma la seconda è ben più rilevante: le donne che sono state stuprate sono molte di più, ma la gran parte di loro non ha sporto denuncia. Più che la paura (una componente a volte presente, specie nei piccoli centri), è la sfiducia nelle istituzioni a frenare. Noi donne sappiamo da sempre che i luoghi del potere non ci sono amici. Neanche la magistratura. Non è solo questione di pari opportunità, qualcuna ce la fa anche a infilarsi tra le cravatte, ma la questione del corpo femminile è sempre lì presente, sia quando viene usato nella complicità di alcune donne, sia quando viene insidiato dagli uomini, colleghi capoufficio eccetera. Non se ne può prescindere, anche quando non parliamo di stupri. Le donne non chiedono pene esemplari o ergastoli o castrazione chimica, ma pretendono dalle istituzioni una presa di coscienza sull’inviolabilità dei loro corpi. Se è così difficile far entrare nella testa degli uomini italiani il fatto che il corpo delle donne, di tutte le donne, non è sempre e comunque a loro disposizione, ancora più complesso è entrare in altre culture. Sia in quelle che non danno importanza alcuna alla stessa vita (come hanno dimostrato spesso alcuni cittadini albanesi o rumeni), sia in quelle a prevalenza religiosa dei paesi islamici, per i quali il corpo della donna è addirittura considerato impuro e quindi nascosto in abiti- carcere che consentono, nelle situazioni migliori, di esporre solo il viso e le mani. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che anche nel nostro paese, prima che arrivassero le suffragette dei primi novecento e prima della rivoluzione di Mary Quant e della minigonna, il corpo delle donne era più coperto e una caviglia nuda era considerata un potente afrodisiaco. Le differenze sono due: la prima è l’assenza della questione religiosa e la seconda è la volontà delle donne che, quando hanno voluto spogliarsi lo hanno fatto e basta. Nessuno le ha lapidate. Non chiudiamo gli occhi di fronte a una realtà tremenda: le donne vengono stuprate in guerra e il loro corpo a volte diventa merce di scambio e il soggetto stupratore si fa pallottola, e le donne vengono stuprate in tempi e luoghi di pace, anche dal ragazzo della porta accanto quando non dal marito e compagno. Ma oggi in Italia abbiamo un problema in più, e non va nascosto, anzi va studiato con attenzione. Anche perché non se ne occupa nessuno, né i politici né il mondo dell’informazione, né studiosi o sociologi o psicologi. E’ il problema della solitudine di queste migliaia di ragazzi africani che sbarcano sulle nostre sponde in cerca di fortuna. Questi ragazzi arrivano qui senza famiglia né fidanzata. Sono giovani e con sani, normali appetiti sessuali, ma anche un grande vuoto affettivo. A questo aggiungiamo il fatto che nella loro mentalità, se un corpo femminile è poco coperto, cioè vestito come normalmente ci vestiamo noi, questo è sicuramente disponibile. Quindi alcuni di loro cercano di prenderselo. Non trattiamoli tutti come potenziali stupratori, ma non sottovalutiamo il problema. La violenza di una parte di loro c’è, la loro visione della donna anche, e per noi donne occidentali è inaccettabile. E il fatto grave è che il loro arrivo in massa (tutti maschi giovani sani e dannatamente soli) si inserisce in una situazione quale quella di tanti uomini italiani che non è proprio tranquillizzante nella quotidianità delle donne. Italiane e non.
"Cara Presidente Boldrini, adesso ti racconto il mio stupro". Polemiche per i silenzi della Presidente su Rimini. Così la donna violentata nella Capitale da due rom scrive alla terza carica dello Stato: "Sulle violenze sessuali dei 4 immigrati la politica dice cose folli, e quel mediatore va cacciato" di (Lettera firmata dalla ragazza violentata da due rom a Roma) Pubblicata su “Il Tempo” il 30 Agosto 2017. "Caro direttore, mi permetta l’intrusione ma a tutto c’è un limite. Le chiedo un po’ di spazio e un po’ di coraggio che so non mancarle. Ci ho pensato e ripensato ma penso che oggi serva far parlare i fatti per mettere fine a questa follia dello stupro politico-mediatico. Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata. Le racconto cosa significa precipitare all’inferno, sporcarsi l’anima e non rivedere mai più la luce. Non ne posso più dell’ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre giorni dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore culturale della coop, rilancia l’idea che lo stupro è tale solo all’inizio perché poi la donna si calma e gode. Ora le racconto..."
"Cara Boldrini, ti racconto il mio stupro". Sul quotidiano Il Tempo, la lettera di una ragazza vittima della brutalità due rom nella Capitale: "Ora basta col perbenismo", scrive Luca Romano, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". "Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata". Inizia così una lettera pubblicata in prima pagina dal quotidiano Il Tempo e firmata da una ragazza violentata da due rom a Roma. "Non ne posso più dell'ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre gironi dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore della coop, rilancia l'idea che lo stupro è tale solo all'inizio perché poi la donna si calma e godo", scrive la ragazza. Che poi si addentra nel racconto della sua tremenda vicenda in cui è finita vittima di "esseri umani stranieri che sarebbe meglio chiamare animali". "Mentre chattavo su Facebook al telefono con il mio ex ragazzo ho visto un'ombra nera allungarsi sempre di più. Mi sono fermata per capire cosa fosse ma quando l'ho vista correre verso di me era già troppo tardi. Ho provato a strillare ma l'urlo è tornato in gola rimbalzando sulla mano pigiata sulla bocca. Quell'uomo mi ha colpita e trascinato attraverso oltre la rete fino a chiudermi in una baracca maleodorante. Due belve feroci. Non era solo, quel bastardo. Mi hanno fatto sdraiare su un materasso putrido, strappato, mi hanno bloccato le gambe e a quel punto ho chiuso gli occhi e pregato mentre mi sentivo strappare la pelle, violare nell' intimità, in balia del mostro, privata della mia libertà, carne da macello. Come se la mia vita non avesse valore. Piangevo e tremavo mentre quei maiali si divertivano a turno. Sarà politicamente scorretto, sarà non bello a dirsi, sarà che cristianamente bisogna perdonare, ma queste persone, caro direttore, non credo possano vivere in mezzo a noi. Non posso dire cosa gli farei, ma chiunque nelle mie condizioni penserebbe di fargli esattamente le stesse cose. Fatico a considerarli umani. Perversi, infami, vigliacchi, questo sono". La ragazza poi spiega di aver ripensato a quel momento quando la vicenda dello stupro di Rimini ha fatto capolino nelle cronache. Anche lì uno stupro violento nei confronti di una donna e poi di un transessuale. "Per quegli schifosi, quell'abuso sessuale era una via di mezzo tra una festa e un sacrificio. Io ero lì, loro fumavano, bevevano, ridevano, si sfogavano sessualmente, parlavano tra loro mentre io ero buttata lì. Poi, forse per eccitarsi, inframezzavano parole in italiano e discutevano ad alta voce se uccidermi o tenermi invita, ovviamente dopo aver fatto un altro giro sguazzando nella mia carne, stuprando la mia anima. E ridevano, quanto ridevano...", si legge ancora sul Tempo. Poi alla fine la ragazza è riuscita a scappare, approfittando di un momento di distrazione di uno dei rom. Un incubo finito. Un incubo che rimarrà impresso indelebilmente nella sua anima. "Sa, direttore, tanta era la vergogna che non ho detto nulla a mio papà per 4 giorni, non volevo farlo soffrire. Poi però non ce l'ho fatta e mi sono liberata di tutto. Lui è stato un papà d' oro, si sorprendeva solo del silenzio stampa intorno a questa storia che coinvolgeva dei rom (zingari non si può scrivere, vero?). Ma non si dava pace. Temeva che altre ragazze potessero fare la mia stessa fine. Sa cosa ha fatto? Ha riempito il quartiere di volantini per raccontare cos'era successo, ed è solo a quel punto che i giornali hanno cominciato a scrivere. Non voglio buttarla in politica, non mi interessa. Non sono di destra e nemmeno di sinistra. Ma da allora sono iniziate ad accadere cose assurde. Certe associazioni di sinistra non solo non hanno avuto il minimo rispetto per quanto avevo subìto, ma hanno addirittura detto per telefono a mio padre che non doveva manifestare perché i due violentatori erano dei rom e così si sarebbe alimentato il «razzismo». Quei giorni sono stati terribili, ci chiamavano «fascisti», andavano in giro per il quartiere a mettere voci in giro che io mi ero inventata tutto, che ero una puttana". Infine l'appello: "Supplico tutti a finirla con questo politichese da schifo, col perbenismo, coi due pesi e le due misure. Perché quel che è capitato a me può capitare stasera a vostra figlia. Vorrei che la signora Boldrini, che tanto si batte per i diritti delle donne, non avesse remore a parlare di immigrati se immigrati sono gli stupratori, o di italiani se un italiano fa cose del genere. La violenza sessuale non ha colori, ideologie, religioni".
Boldrini clandestina. Accusa la polizia violenta, ma tace sugli stupratori nordafricani. Poi insulta chi la critica. E a Rimini il branco è ancora libero, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, critica a modo suo Laura Boldrini per il silenzio sullo stupro di Rimini e scoppia il pandemonio. La presidentessa è poi uscita dal riserbo solo per difendere se stessa dall'attacco, ma ancora una volta non ha detto una parola sulla ragazza vittima e sui nordafricani immigrati suoi aguzzini. Piagnucola come una bambina viziata, quasi che il problema del Paese e delle donne fosse la Meloni e non i suoi amici migranti fuori controllo e spesso in combutta con la delinquenza locale. Clandestina tra i clandestini, per la Boldrini è violenta solo la polizia che pochi giorni fa ha sgomberato una casa nel centro di Roma occupata dai clandestini e che oggi si scopre essere stata pure un «ufficio» dei trafficanti di esseri umani. Vorremmo tanto che la presidentessa della Camera, terza carica dello Stato, rompesse il silenzio per fare un appello alle comunità di immigrati che da quattro giorni proteggono, aiutano e forse ospitano i nordafricani autori dello stupro, sottraendoli così alla giustizia. Avremmo voluto vederla all'ospedale di Rimini a portare la solidarietà di tutti gli italiani alla ragazza vittima dell'abuso. Avremmo voluto sentirla zittire chi in questi giorni dà a noi dei razzisti perché abbiamo osato svelare l'identità (scomoda per quelli del politicamente corretto) degli aggressori. Sarebbe stata interessante una sua riflessione sul fatto che nella cultura islamica lo stupro non è poi così grave perché la donna non ha diritti, come scritto nel Corano (anzi, come noto, un giovane mediatore culturale pakistano da noi gentilmente ospitato, e pagato, ha sostenuto nelle scorse ore che alle donne lo stupro, superato il primo impatto, piace assai). Purtroppo le nostre speranze resteranno deluse. Ci resta la speranza che le donne italiane, soprattutto le politiche di ogni partito, in questa ennesima polemica, sappiano scegliere da che parte stare. Chi sta con i silenzi della Boldrini agevolerà la voglia di immunità degli stupratori nordafricani, della loro comunità e di eventuali balordi italiani che li stanno proteggendo; chi starà con Giorgia Meloni sarà al fianco della ragazza stuprata.
Filippo Facci su "Libero Quotidiano" il 29 Agosto 2017: le stuprate godono? È ciò che pensano gli islamici in Africa e Medio Oriente. Fosse solo un demente - un cretino, un idiota, scegliete voi - sarebbe meno grave: «Lo stupro è un atto peggio ma solo all’inizio, una volta che si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale». Ma non è solo un demente sgrammaticato: ad aver scritto che alle donne, in pratica, lo stupro piace - scritto su Facebook a commento della violenza di Rimini - è un 24enne che si chiama Abid Jee e che vive a Crotone anche se studia giurisprudenza a Bologna. Ma non è solo un demente sgrammaticato e immigrato che si presuppone minimamente istruito: è uno che, intanto, fa anche il «mediatore culturale e operatore sociale» in una cooperativa bolognese che gestisce migranti e che, l’anno passato, ha guadagnato 883.992 euro di utile: dunque costui, con questa mentalità progredita, sarebbe un pontiere tra la nostra cultura e un’altra. Quale? Ecco, ci siamo: perché costui non è solo un demente e un migrante istruito eccetera che viene pagato per gestire altri migranti e fa il mediatore culturale, ma la cultura che dovrebbe «mediare» è quella islamica, visto che è un pakistano di Peshawar (paese dove i musulmani sono il 98 per cento) e visto che a quanto pare frequentava una comunità islamica. Da qui, in sintesi, il giustificato sospetto che la sua considerazione della donna non sia tanto quella di un demente, ma semplicemente quella di un musulmano: quella, cioè, che la sua cultura e religione gli suggeriscono. Tipo che la donna sia inferiore, impari, sprovvista di tutti i diritti, una bambola in mano all’uomo, una a cui spetta meno quota di eredità, la cui testimonianza vale meno nei processi, una che non può decidere di divorziare, viaggiare, guidare, fumare, talvolta studiare o vestirsi senza celare il corpo. Questo è lo status femminile nei paesi più ortodossi, beninteso: laddove una 19enne saudita, per esempio, è stata violentata da un gruppo di sette uomini e però poi, a processo, è stata condannata a 200 frustate perché colpevole di trovarsi in un luogo pubblico senza un membro maschio della famiglia. Accadeva nel 2015. Ma qui per fortuna siamo in Occidente, dove esiste una «mediazione culturale» che ti permette di sostenere, al massimo, che alle donne piace essere stuprate purché abbiano la pazienza di aspettare che «entra il pisello». Ora: se per voi questa è una notiziola - come l’hanno trattata molti quotidiani online - per noi non lo è, perché sintetizza molte cose. Ovviamente è scoppiato un casino. Il mediatore culturale ha subito rimosso il suo commento da Facebook ma era comunque troppo tardi: tanto che la cooperativa Lai Momo di Sasso Marconi, nel pomeriggio, ha dovuto smarcarsi e ha detto di ritenere «gravissime» le sue dichiarazioni. Il ragazzo lavorava all’hub regionale di via Mattei dove si smistavano i migranti poi ridistribuiti in tutta la regione o in altre strutture di accoglienza della città: prima di essere assunto a tempo determinato, e di firmare il contratto, ha dovuto sottoscrivere un codice etico che a questo punto ci piacerebbe leggere. La decisione di sospenderlo è avvenuta solo dopo le polemiche politiche: non tanto quelle della consigliera comunale della Lega Nord Lucia Borgonzoni («gente così meriterebbe solo di stare in galera», mi aspetto «una presa di posizione dalla comunità islamica cittadina») ma solo dopo l’intervento dell’assessore bolognese al welfare Luca Rizzo Nervo: «Parole di una gravità inaudita da parte di un operatore sociale che opera nel campo della accoglienza dei migranti: è intollerabile». Sì, lo è. Se n’erano già accorti tutti da diverse ore. Ma l’assessore si è detto certo «che la cooperativa, che conosco per la serietà del lavoro che svolge, saprà trarre le conseguenze». Insomma, si sono telefonati. In serata sui social è poi circolato un cosiddetto «fake» (un falso) scritto da un presunto esponente del Pd, Alberto Neri: «Abid non ha detto nulla di sbagliato, a livello biologico ha ragione». Un falso, appunto. O - peggio - l’esito di una mediazione culturale.
SIAMO TUTTI CHRISTIAN RAIMO. QUELLO CHE ..., scrive il 30.08.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". È difficile reggere una trasmissione come Dalla vostra parte, in onda nel pre-serale su Rete 4, già come spettatore, figurarsi come ospite. Il coraggio di Christian Raimo, giornalista di Internazionale, si è manifestato innanzitutto quando ha accettato di essere protagonista di un collegamento con lo studio diretto da Maurizio Belpietro, ma è emerso ancor di più quando ha scelto il modo in cui portare avanti lo stesso collegamento. Raimo ha deciso di non giocare un ruolo passivo, ma di attaccare una trasmissione che – nella puntata del 28 agosto come in altre occasioni – aveva l’unico scopo di proporre agli italiani una versione dei fatti tarati su una certa opinione politica: l’attacco indiscriminato ai migranti, accusati di essere tutti stupratori, terroristi, delinquenti e artefici del declino dell’Italia. Dall’altra parte dello schermo, sempre in collegamento, c’era il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, con cui Raimo, nei giorni scorsi, aveva avuto un’altra, fortissima discussione su La7, durante la trasmissione In Onda. Proprio durante un intervento del direttore de Il Giornale, Raimo ha deciso – all’ennesimo attacco gratuito nei confronti dei migranti – di abbandonare lo studio, non prima di aver mostrato dei cartelloni – scritti al momento – con frasi provocatorie. L’ultimo diceva «Non c’avete un altro servizio sui negri cattivi?» e intendeva denunciare proprio il continuo ciclo di interventi proposti dalla trasmissione sul rapporto tra l’Italia e i migranti, caratterizzato da un forte pregiudizio nei confronti di quest’ultimo. Raimo ha poi spiegato il suo punto di vista in un lungo post su Facebook, in cui metteva in luce l’approssimazione di un certo tipo di giornalismo, che non offre dati numerici e che si basa soltanto sulle reazioni «di pancia» nei confronti di questo o di quell’argomento. «A un certo punto – scrive Raimo su Facebook -, visto che si parlava di occupazioni, ho chiesto a Belpietro, se si era preparato qualche dato sull’emergenza abitativa. Ha balbettato che glieli fornissi io. Gli ho detto: Ma come hai fatto un pezzo di trasmissione su questo e non c’hai manco un dato?, e poi glieli ho detti io. Ho detto a Sallusti che tutto ciò che stava dicendo su immigrazione e occupazioni non aveva nessuna base dal punto di vista dell’informazione. Mi ha risposto che è vero è d’accordo anche lui che i giornali dovrebbero fare più inchieste; gli ho detto che gli basterebbe leggere mezzo libro, o qualche giornale fatto appena decentemente, e ripetere quello che c’è scritto lì». Ma è proprio la trasmissione Dalla vostra parte a rappresentare una delle pagine peggiori del giornalismo in Italia. Raimo – sempre su Facebook – l’ha definita «una trasmissione orripilante, che si compone essenzialmente di servizi, girati con i piedi, su neri che stuprano, neri che rubano, neri che minacciano bambini, neri che occupano le case degli italiani, neri che sono troppi, neri che se ne dovrebbero andare, neri che è già tanto che li sopportiamo e non li facciamo affogare tutti». Il suo post ha scatenato un ampio dibattito sul social network, farcito di insulti e offese. Dalle più banali volgarità riferite direttamente alla persona, sino ad arrivare a discorsi più ampi, a sfondo populista e razzista. C’è chi scrive: «ma lo fai o ci sei? vivi su Marte? ti piacciono? la mia città è rovinata da questi spacciatori del c***o. E se questo vuol dire essere razzista, ok: IO SONO RAZZISTA E ME NE FOTTO DI QUELLI COME TE E QUANDO SARAI A PECORA CON LORO IO RIDERÒ», o ancora: «Ridiamo l’Italia agli italiani! Poi se rimane spazio qualcuno può rimanere! E voi radical chic del c***o fatela finita di fare i finti buonisti». Anche da questo punto di vista, Raimo ha avuto il coraggio di denunciare. Sempre nel suo post su Facebook ha scritto: «Oggi sulla mia bacheca ci sono commenti di insulti, minacce di stupro a donne che commentano, la feccia della feccia. Risponderò ad uno ad uno, appena avrò tempo. Ma risponderò con la stessa franca risata con cui, prima di andarmene a metà, ho opposto ieri a Sallusti che affermava che nel Corano c’è scritto di fare attentati terroristici».
La lotta di Christian Raimo contro il fascismo da talk show. Christian Raimo ha osato criticato il fronte anti-immigrazionista guidato da Sallusti e Belpietro e per tutta risposta oggi il Giornale gli dedica un attacco personale dove lo si accusa di volere vedere di essere amico degli immigrati per poter avere un posto in Parlamento. Nessuna notizia invece sul colore dei suoi calzini. Per ora, scrive Giovanni Drogo mercoledì 30 agosto 2017 su "Next". Nonostante al Giornale ci sia chi sostiene che non è deontologicamente corretto per un giornalista criticare un collega oggi sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti possiamo leggere un attacco a Christiam Raimo. Per il Giornale Raimo, giornalista di Internazionale è “il solone della sinistra” e “il nuovo provocatore che agita i talk show”. Cosa ha fatto di così terribile per meritarsi di essere definito “provocatore smanioso di visibilità à la Gabriele Paolini”? Semplice, non ha dato ragione ad Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro sullo scottante tema dei crimini dei negri.
Per il Giornale Raimo è un “aspirante profeta dell’umanitarismo”. Lunedì sera Raimo era ospite della trasmissione gentista condotta dal direttore della Verità (il giornale che qualche giorno fa ci raccontava degli esperimenti all’ossitocina per farci amare gli immigrati) dove si parlava di terrorismo, di occupazioni, di stupri commessi da parte degli immigrati e del silenzio della sinistra buonista che minimizza quanto successo a Rimini. A “Dalla vostra parte” gli italiani vengono costantemente presentati come vittime dell’immigrazione e gli immigrati sono naturalmente e culturalmente tutti votati alla violenza e alla sopraffazione. In buona sostanza il programma di “approfondimento” di Rete 4 è la versione televisiva delle vignette di Ghisberto. Perché, ha esordito Belpietro, sui giornali si tace dell’origine di questi stupratori? Non è che forse c’è la volontà di nascondere che sono di origine nordafricana e forse anche clandestini (in realtà risulterebbero essere immigrati regolari NdR)? Sallusti né è convinto, è colpa del “virus che hanno seminato per l’Italia le varie Boldrini e i vari Saviano”. È il temutissimo virus del “razzismo all’incontrario” per cui non si può dire e non è politicamente corretto dire che i nordafricani stuprano delle donne. I buonisti insomma hanno tutto l’interesse a nascondere agli italiani la verità: gli immigrati sono tutti violenti, terroristi e stupratori. Verità che invece viene raccontata ogni sera su Rete 4. La realtà delle cose è che tutti i giornali hanno parlato della presunta nazionalità degli stupratori. Così come nessun organo di stampa ha nascosto in qualche modo il fatto che a Barcellona (o a Parigi o a Bruxelles) gli attentatori fossero di fede islamica. Certo, magari non hanno titolato “bastardi islamici” come fece Belpietro quando era direttore di Libero. E di sicuro i buonisti non godono in prima pagina quando muore un razzista.
Non avete un alto servizio su negri cattivi? Ma il vero crimine di Raimo è stato un altro. Lui, con “la sua aria da letterato impegnato che si carica sulle spalle tutta la sofferenza del mondo” ha osato chiedere a Belpietro alcuni dati sull’emergenza abitativa a Roma. Era appena stato mandato in onda un servizio che contrapponeva i criminali stranieri che prendono quello che vogliono e occupano abusivamente le case alla situazione di una donna italiana costretta a vivere in auto. È la solita storia degli immigrati negli alberghi a 5 stelle e gli italiani terremotati nelle tende.
Dalla vostra parte: e gli analfabeti funzionali godono..., scrive Fabio Morasca lunedì 28 agosto 2017 "Tv Blog". Gli analfabeti funzionali sono un target appetibile. Come i vegani. Non stiamo dicendo che i vegani siano analfabeti funzionali (anche se una parte, effettivamente, lo è), stiamo solo parlando di marketing. Concentriamoci sui vegani. Ci sono aziende che, coraggiosamente, li sfottono, come il Panettone Motta, e altre aziende che, dopo aver intravisto il business, decidono di lanciare sul mercato prodotti ad hoc, come lo storico Cornetto Veggy, tanto per fare un esempio. Perché? Perché i vegani sono un target appetibile. Medesimo discorso, per i complottari dell'olio di palma. C'è chi coraggiosamente li sfida, proponendo un confronto, come la Nutella, e c'è chi, invece, stampa sulle confezioni dei propri prodotti, la scritta "SENZA OLIO DI PALMA" a caratteri cubitali. Perché? Perché i complottari dell'olio di palma sono un target appetibile. Stesso discorso, quindi, si può fare sugli analfabeti funzionali (che ci rifiutiamo di definire "pancia del paese"). Sono un target appetibile, soprattutto perché sono tanti. Se li lavorano i politici, se li lavorano i programmi televisivi. Programmi televisivi come Dalla vostra parte. Dalla vostra parte è come un Cornetto Veggy, con la differenza che quest'ultimo può anche essere buono mentre il programma di Rete 4 risulta ampiamente indigesto. Si può intuire il target della trasmissione in appena 10 secondi. E' incredibile. L'intento di certi programmi televisivi, e di certi media in generale, è palese, non si spendono neanche nello sforzo di renderlo subliminale. Definirlo giornalismo sfacciato è quasi come fare una carezza su un volto. Ma, essendoci gli analfabeti funzionali che, se ancora non vi è chiaro, sono un target appetibile, programmi come Dalla vostra parte avranno sempre senso di esistere. Il problema è di chi li guarda, non di chi li fa.
20:33. Inizio trasmissione. Maurizio Belpietro saluta gli spettatori e annuncia gli argomenti: terrorismo, sgomberi e criminalità sulle spiagge. In collegamento c'è Chiara Russo, sorella di Luca Russo, vittima dell'attentato di Barcellona.
20:36. Va in onda un servizio dedicato al terrorista arrestato a Torino. Chiara Russo: "Stiamo cercando di dare un senso a tutto ciò ma il senso non c'è".
20:39. Chiara Russo: "Bisogna pensare a come cambiare le cose. Non è concepibile una morte del genere. E' una cosa atroce. Non voglio che Luca diventi un numero".
20:42. Va in onda un servizio dedicato agli stupri avvenuti a Rimini e a Jesolo.
20:45. A Rimini, c'è l'inviato Mario Marchi: "C'è una pista specifica e sicura. Il caso si risolverà nelle prossime ore". In collegamento ci sono Alessandro Sallusti e Christian Raimo. Sallusti: "Per 2 giorni, non si è detta la nazionalità degli stupratori".
20:48. Raimo: "Tutti l'hanno detto. Avete fatto 4 servizi di questo tipo. Mai vista una tv così brutta". Raimo mostra un cartello con su scritto: "Fate una tv razzista e islamofoba". Belpietro risponde polemicamente.
20:51. Sallusti: "C'è un razzismo al contrario. Non si può dire la nazionalità". Raimo: "Ma la state dicendo!". Va in onda un servizio dedicato agli sgomberi a Roma.
20:54. In collegamento c'è l'inviato Alessio Fusco che si trova a Roma, all'interno di un palazzo occupato.
21:03. Fusco si addentra nel palazzo occupato. In collegamento c'è una donna che vive in un'automobile. Va in onda il servizio dedicato a lei.
21:06. La donna si chiama Simona: "Non ci sono possibilità su questo territorio. I servizi sociali, ci mettessero la faccia".
21:09. Nuova polemica Raimo - Belpietro. Raimo: "A casa mia, ospito due sfollati. Conosco la trafila della signora".
21:12. Sallusti: "Noi non pensiamo più ai nostri cittadini". Raimo mostra un altro cartello con su scritto: "Avete un altro servizio sui negri cattivi?". Raimo discute con Sallusti sul terrorismo. Raimo: "I terroristi non sanno nulla del Corano".
21:15. Raimo abbandona la sua postazione. Nuovo collegamento con Marchi. In collegamento c'è un bagnino picchiato da un venditore ambulante, Riccardo Bonato. Va in onda il servizio.
21:17. Bonato: "Le forze dell'ordine hanno le mani legate. Sono troppo tutelati". Fine prima puntata.
Il nuovo provocatore che agita i talk show e vede fascisti ovunque. Christian Raimo, prof di liceo, fa il solone di estrema sinistra. E magari cerca un seggio, scrive Laura Tecce, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". «In futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti». Aveva ragione Andy Warhol, tutti vogliono apparire, tutti bramano quel breve ed effimero briciolo di notorietà. Che non si nega a nessuno. Neanche a Christian Raimo, assurto nei giorni scorsi agli agognati «onori della cronaca» per l'accanita difesa degli immigrati sgomberati dall'immobile occupato di piazza Indipendenza a Roma. Classe 1975, professore in un liceo statale della Capitale dove insegna storia e filosofia, scrittore per Minimum Fax e articolista per L'Internazionale, quest'estate la palma del provocatore smanioso di visibilità à la Gabriele Paolini, spetta dunque a Raimo. Con la sua aria da letterato impegnato che si carica sulle spalle tutta la sofferenza del mondo, si candida al ruolo di vice Saviano - causa ferie agostane di quest'ultimo - e di leader mediatico dei movimenti per il diritto alla casa. Il copione è il solito: il prof ha imparato la lezioncina e ha messo in atto con scrupolo ciò che un aspirante intellettuale di riferimento di una certa area culturale di sinistra, la cui longa manus si estende dai centri sociali ai salotti radical chic, deve fare: il cavaliere senza macchia nella difesa degli «ultimi». Dove gli ultimi, ovviamente, sono i profughi e gli immigrati come ogni aspirante star del politicamente corretto che si rispetti ben sa. Laura Boldrini docet: ci ha costruito una carriera politica. Chissà se anche Raimo non voglia fare il grande salto e dalla testa dei cortei anti sgombero planare diretto in Parlamento. L'aspirante profeta dell'umanitarismo a un certo punto però si deve essere reso conto che mancava un tassello: l'antifascismo militante in assenza di fascismo. Un cliché logoro ma che ancora racimola qualche indignato e titoli di giornale. Al via dunque il lancio della petizione su change.org «Per una Roma antirazzista, antifascista e solidale» e poi l'occasione della vita: dare del fascista in diretta tv a un direttore di un quotidiano «nemico», il Giornale, Alessandro Sallusti. «Essere comodamente fascisti in questo tempo conviene» (In Onda, La7, 24 agosto). Così parlò il filosofo illuminato Raimo. Del resto «in questo tempo» affibbiare a casaccio epiteti quali fascista, razzista, xenofobo a chi la pensa differentemente o a chi difende la legalità è un sicuro lasciapassare per l'Olimpo delle star del buonismo in salsa terzomondista. Mai domo, il nostro campione dall'alto della sua superiorità morale e culturale, il giorno dopo ha esternato nuovamente il suo fine pensiero con un post su Facebook: «Ieri ho partecipato a una trasmissione tv. C'era anche Alessandro Sallusti in collegamento da Forte dei Marmi (in prima linea in zona apericena) che biascicava dati completamente sbagliati, faceva esempi incomprensibili, e diceva cose comodamente fasciste. Non c'era nessun giornalista del suo Giornale in piazza tra l'altro, per le notizie fa direttamente Ctrl+C dalle veline della questura. Per intenderci anche, il fondatore del Giornale Indro Montanelli a suo tempo si comprò un'eritrea di dodici anni come schiava sessuale e nel 1936 rispetto alla guerra italiana in Etiopia dichiarava: Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità». Stendiamo un velo pietoso. Tutta la nostra umana comprensione agli studenti liceali che loro malgrado hanno a che fare con un insegnante che mostra di avere un tale equilibrio, tale proprietà di linguaggio e tale rispetto per la legalità.
Però nè fascisti nè comunisti parlano del fenomeno del razzismo sui meridionali.
Cori razzisti contro il Napoli. Barbari e pure ignoranti. A Verona, alcuni tifosi, oltre che barbari, sono razzisti e pure ignoranti. Un video pubblicato dal canale YouTube "Tutto Verona web 1" mostra l'inizio della prima di campionato del Napoli allo stadio Bentegodi il 19 agosto 2017. Lo speaker annuncia la formazione azzurra e la curva urla "scimmia" dopo il nome di ogni giocatore (video Tutta Verona web 1). Peccato che nella formazione del Napoli c’era solo un italiano: il napoletano Lorenzo Insigne.
Certo è che l'analisi di Sansonetti può essere condivisibile. Come certo è che i media di propensione buonista e catto comunista, con il sistema ideologico del politicamente corretto, disinformano ed influenzano la società civile.
I diritti negati che cancellano la proprietà, scrive Carlo Lottieri, Martedì 29/08/2017, su "Il Giornale". A sinistra come a destra, quando si parla di accoglienza e immigrazione si fa riferimento alla necessità che quanti arrivano da lontano riconoscano i nostri diritti e si comportino di conseguenza. In fondo, è idea abbastanza condivisa che sia più «integrato» uno straniero che non sa una parola della nostra lingua ma si guadagna onestamente da vivere rispetto a uno che, invece, ha imparato bene l'italiano, ma vive di furti e violenze. Se le cose stanno così, bisognerebbe essere chiari sul tema delle occupazioni abusive. Venire in Italia ed entrare in casa d'altri significa fin dall'inizio non voler rispettare i diritti del prossimo. In uno degli episodi più affrontati dalla stampa nel corso degli ultimi giorni, lo sgombero ha riguardato una proprietà detenuta da una società tra i cui azionisti vi sono, essenzialmente, fondi pensione. In questo caso, occupare un immobile senza pagare l'affitto significa dare pensioni più esigue agli anziani. Quando il governo ha deciso che prima di sgombrare un immobile bisognerà trovare una sistemazione agli occupanti, esso ha rinunciato del tutto all'idea che sia suo compito garantire il diritto. Dinanzi a chi viene in Italia e occupa stabili, invece che cercare abitazioni alternative bisognerebbe capire come sia possibile rispedire nel Paese d'origine queste persone. Questo non per assumere un atteggiamento punitivo, ma per affermare il principio che non si può avere convivenza senza regole e, soprattutto, senza rispetto della proprietà. Perché tutto questo non avviene? Perché il governo non è spinto dall'opinione pubblica ad adottare soluzioni drastiche di fronte agli occupanti? La ragione di tale disfatta è semplice ed è da trovare nel fatto che gli italiani, per primi, hanno perso ogni cognizione elementare del diritto. Gli abusi compiuti dagli immigrati, d'altro canto, sono assai simili a quelli compiuti da molti nostri connazionali, che senza problemi occupano case altrui e non vengono perseguiti dalle autorità. E in fondo gli stessi squatter copiano una classe politica tanto abile nel mettere le mani dentro le nostre tasche. Dobbiamo capire che se non sappiamo integrare nel nostro ordine giuridico chi viene da lontano la prima ragione sta nel fatto che noi stessi abbiamo dissolto (quasi) ogni regola e ogni rispetto del prossimo. Avendo smesso di credere nella proprietà e nel diritto, abbiamo aperto la strada alla barbarie.
Jesolo, arrestato un 25enne marocchino: "Violenza sessuale su una 17enne in discoteca", scrive il 28 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". Una ragazza 17enne ha denunciato di avere subito una violenza sessuale dopo una notte passata in discoteca. La denuncia è arrivata ai carabinieri di Jesolo (Ve) dalla giovane, originaria del Paraguay e residente a Verona, che ha passato sabato notte alla discoteca Il Muretto di Jesolo. Lì avrebbe conosciuto un ragazzo di origine marocchina di 25 anni, residente nel vicentino. Nelle prime ore siti e tv parlavano del presunto stupratore come di "italiano", ben specificandolo nel titolo di lancio della notizia. Alle prime ore della mattina di domenica la ragazza è stata trovata dalle sue amiche sotto choc davanti all'ingresso della discoteca e ha detto di essere stata stuprata. I gestori della discoteca hanno quindi chiamato i carabinieri che domenica hanno rintracciato e arrestato il presunto violentatore che è accusato di violenza sessuale. I due giovani sabato sera, dopo una prima parte della serata trascorsa insieme a ballare, si sono allontanati dal locale mano nella mano, come evidenziato dalle telecamere di videosorveglianza del locale, ma, una volta raggiunta una zona appartata nel parcheggio, il ragazzo avrebbe costretto la 17enne a un rapporto sessuale.
Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.
"Lo strano mistero dello stupro di Rimini", scrive Pietro Senaldi il 27 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". I giornali non dicono la verità sugli stupratori di Rimini. O meglio, omettono che essi siano magrebini. Pietro Senaldi, a #90secondi, spiega perché al contrario Libero lo ha rivelato subito: "Non è nascondendo la verità che si evita l'odio sociale". La nuova prassi italiana, ma forse sarebbe più appropriato definirla terzomondista, per cui i carnefici si proteggono e le vittime si offrono alla piazza, si è arricchita di un altro capitolo. Dopo la solidarietà agli immigrati che avevano occupato abusivamente un palazzo romano di proprietà dei pensionati e la condanna dei poliziotti che, presi a bombole del gas in testa, li hanno sgomberati con la forza, il circolo mediatico votato al boldrinismo più fazioso si è cimentato in un altro fattaccio di cronaca. Una coppia di turisti è stata aggredita da una banda di ragazzotti sulla spiaggia di Rimini che hanno pestato a sangue lui e violentato ripetutamente lei. Sappiamo che le vittime sono polacche, che i delinquenti hanno poi riservato lo stesso trattamento a un trans peruviano e che la testimone chiave della vicenda è una prostituta romena. I particolari sono stati riportati da tutti, in certi casi perfino con disegnini illuminanti. Ma solo Libero, il Quotidiano Nazionale e i «giornalacci» della destra hanno evidenziato che secondo la polizia gli stupratori erano sì ubriachi, come hanno scritto tutti, ma anche immigrati, particolare ritenuto irrilevante invece dagli altri, per i quali era viceversa fondamentale la nazionalità delle vittime. Cautela? Può darsi, perché i criminali sono alla macchia e il rischio figuraccia c' è, ma non ci crediamo poi tanto. Dopo la cinquantesima riga infatti qualcuno l' ha anche scritto, in un sussulto di professionalità o confidando che il caporedattore non si spingesse fino a lì nella lettura, qual è l' origine degli aggressori, il che significa che è stata confermata da più fonti. Cionondimeno, anche ieri, i tg non hanno ritenuto di calcare sull' argomento. Insomma, è fondamentale che la prostituta sia romena e le vittime polacche e peruviane ma è un dettaglio da omettere chi abbia fatto loro la festa. Forse perché nessuno vuole che le lettrici e le telespettatrici si allarmino se vengono circondate di notte da una banda di immigrati. Meglio non instillare in loro il germe del razzismo e lasciare che girino, ignare e sicure, per le nostre spiagge e strade multietniche. Tutt' altro trattamento è stato riservato invece all' italiano che, multato per aver parcheggiato sul posto riservato a un disabile e da questi denunciato ai vigili, si è vendicato affiggendo un cartello infame in cui insultava il portatore di handicap rallegrandosi per la sua condizione. Un comportamento orribile, stigmatizzato anche da Libero ma che è valso al suo autore una gogna nazionale senza eguali. Di lui sappiamo l'età, l'auto, la professione, il titolo di studio e perfino il paese. Infatti non è un immigrato ma un italiano, addirittura un truce brianzolo, a cui forse Paolo Virzì, il regista di «Il capitale umano», sta già dedicando un film. Da stigmatizzare anche il silenzio del presidente della Camera, Laura Boldrini e, al momento della stragrande maggioranza delle paladine del femminismo. Evidentemente le donne si tutelano meglio se si costringono gli italiani a chiamarle avvocata o presidenta piuttosto che se le si mette in guardia dai rischi dell'invasione. D' altronde è cosa nota che per i nostri rappresentanti, e per i nostri media, un fatto non vale tanto per se stesso bensì per il significato politico che gli si vuole dare e per l'ideologia alla quale è funzionale. Il villano brianzolo, forse vicino di casa di Berlusconi, va messo alla gogna più dello stupratore nordafricano, del quale si sottolinea lo stato di ebbrezza, a mo' di attenuante, quando invece è un'aggravante, e non solo per il Corano ma anche per il nostro codice penale. Forse questa cortina di fumo viene messa per non alzare il livello di tensione sociale, come i tedeschi che non rivelano le nazionalità di chi commette attentati per evitare episodi di linciaggio. Forse siamo noi maliziosi nel voler vedere a tutti i costi la cattiva fede altrui e a sentire odore di ordini di scuderia in redazione. Ma la verità è che siamo allarmati e che chi nasconde l'identità degli stupratori immigrati ci fa quasi paura quanto questi. Nascondere, minimizzare, relativizzare i problemi, non aiuta a risolverli ma li aggrava rapidamente, fino a farli diventare ingestibili e portarli al punto di esplosione. Non si sa quando lo scoppio avviene, perché fino a un attimo prima la situazione è immutata e immanente, ma quando accade, è incontrollabile. È successo così con il traffico di uomini agevolato dalle organizzazioni non governative, molte delle quali, in combutta con gli scafisti, facevano i soldi spacciandosi per santi. È capitato con gli occupatori abusivi di case, a cui lo Stato fino al giorno prima aveva permesso di comportarsi come proprietari, consentendo loro di dare addirittura in affitto gli alloggi che abitavano illegalmente. Succederà anche con le violenze degli immigrati che nascondiamo sotto il letto come la polvere. Un giorno, improvvisamente, per vincere le elezioni, perché colpito in prima persona o per "impazzimento" individuale, qualcuno non ne potrà più, e sarà il caos. Ci auguriamo di no, ma lo temiamo.
Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.
All'armi son fascisti. Repubblica e Stampa fanno a gara a nascondere i fatti di nera che vedono protagonisti gli immigrati. Vogliono imporre il pensiero unico manipolando i fatti e occultando la realtà, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 2/09/2017 su "Il Giornale". In questi giorni mi sono sentito dare più volte del fascista per via dello spazio che stiamo dedicando sul giornale agli episodi di cronaca - occupazioni, stupri, rivolte - che vedono coinvolti gli immigrati. In effetti i giornali che rappresentano il mondo politico e culturale da cui partono queste critiche - il nuovo polo editoriale unico della sinistra salottiera tra La Repubblica e La Stampa - fanno a gara a nascondere i fatti di nera che vedono protagonisti gli immigrati. Ieri sulle loro prime pagine non c'era traccia dei nuovi casi di stupro a Rimini, Milano e Desio, solo scarni e incompleti resoconti all'interno (nell'articolo della Stampa non è citata neppure la nazionalità marocchina degli aggressori). Grande spazio i due quotidiani dedicano invece ad appelli di politici e prelati a non alimentare odio e razzismi, un'ossessione che i loro lettori, non conoscendo i fatti censurati dal giornale che stanno leggendo, potrebbero addirittura trovare eccessiva e incomprensibile.
Facciamo subito chiarezza. Primo, noi non odiamo gli immigrati, semplicemente troviamo odioso - e lo scriviamo a caratteri cubitali - che un uomo, di qualsiasi colore sia la sua pelle, stupri una donna. Riteniamo però molto pericoloso che una politica dell'accoglienza fuori controllo abbia prodotto l'effetto che, a differenza degli stupratori italiani, quelli immigrati il più delle volte non sappiamo chi siano e dove andarli a prendere per assicurarli alla giustizia, perché oltre che delinquenti sono fantasmi, spesso protetti dalla loro stessa comunità che a differenza delle nostre non considera la violenza sulle donne un reato grave e odioso.
Secondo. Non siamo razzisti, banalmente pensiamo che senza legalità non ci possa essere uguaglianza, solidarietà, democrazia e libertà. La legalità, come ha scritto di recente persino la Gabanelli, non è di destra né di sinistra, né bianca né nera. O è o non è. E se non è - come nel caso dei flussi immigratori che abbiamo subito e non governato - sono guai per tutti e dirlo è un dovere. Per intenderci, siamo fieri degli atleti di colore che vestono le maglie delle nostre nazionali e guardiamo con ammirazione e rispetto le tante ragazze straniere che studiano nelle nostre scuole e università anche se consideriamo ridicolo che una bellissima ragazza di colore vinca Miss Italia, come successo anni fa, perché sarebbe come dire che l'ottimo kebab rappresenta il meglio della cucina italiana nel mondo.
Terzo. Non siamo fascisti, e la prova sta proprio nell'accusa che ci viene mossa. Una delle architravi del fascismo fu di imporre ai giornali il divieto assoluto di pubblicare notizie di cronaca che potessero contraddire la narrazione ufficiale del regime. Cito da La stampa nel ventennio di Mauro Forno (edizioni Rubbettino): «Fin dal 1925, l'allora ministro dell'interno Luigi Federzoni, aveva ordinato attraverso apposite circolari ai prefetti di sequestrare tutti i giornali che indugiavano su delitti di sangue adulteri e simili e Mussolini stesso aveva impartito l'ordine di smobilitare la cronaca nera. Il fascismo temeva molto la cronaca nera perché poteva distrarre il lettore dalle pagine politiche e per l'intralcio che essa arrecava al processo di una tensione positiva, in grado di rafforzare la tensione sociale e il senso di appartenenza ad una grande nazione sempre in marcia verso alti ideali... Insomma per uno stato totalitario era intollerabile che la stampa si facesse portavoce di messaggi negativi diffondendo all'esterno immagini di disagio e di disgregazione sociale».
Mi sembra quindi chiaro che «fascista» è obbedire «all'ordine» del ministro della Giustizia Orlando di dire che non c'è alcuna emergenza e censurare dalle prime pagine dei giornali e dei telegiornali i fatti efferati che vedono protagonisti gli immigrati. Il pericolo di un neofascismo - cioè di un nuovo totalitarismo - non viene dai nostalgici di destra che salutano a mano tesa in ridicoli raduni ma da chi, come il gruppo La Repubblica-La Stampa, vorrebbe imporre un pensiero unico manipolando i fatti e occultando la realtà. Verrebbe da dire: all'armi, son fascisti.
Lo stupro innocente, scrive Antonella Grippo il 30 agosto 2017 su "Il Giornale". C’è stupro e stupro. C’è fallo e fallo. Quello immigrato, ad esempio, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica, persino nella sua massima e ruvida erezione. Non è che puoi fare la femminista, se non c’è di mezzo un maschio di Ladispoli, di Muro Lucano o di Busto Arsizio! Come fai a prendertela con il piffero magrebino? A ben guardare, è poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti di guerra e povertà. Si tratta di un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato, discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Vuoi mettere…Altro che la saccente protuberanza virile degli impiegati del catasto di Avellino, che, ancorché dimessa, si sollazza con lo stupro di suocere, colpevoli assertrici della secessione di Romagna. Per non parlare della fava dei benzinai di Matera, che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’intera arte operaia del Femminicidio. Tutto il resto non fa dottrina. Del resto, non si può pretendere che le Damine di San Vincenzo disertino i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, per occuparsi di femmine sfigate, perdippiù polacche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni africani, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima di Multimazza. Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza: Il cazzo non vuole pensieri. Contrordine, compagne: il pisello magrebino convoca tutta la storia del pensiero occidentale. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane. Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. In fondo, è un’innocenza analitica. Politically correct.
Stupri e immigrati, scrive Giampaolo Rossi il 31 agosto 2017 su "Il Giornale".
PREGIUDIZI E TABÙ. L’argomento è scottante e viola il rigido protocollo imposto dai talebani del politically correct. Certo, se decidete di affrontarlo, aspettatevi la solita accusa di essere i nipotini di Goebbels. Non vi preoccupate, fa parte del gioco; sopportate con santa pazienza e andate avanti perché il problema esiste e non va rimosso; e non solo sull’onda dell’emotività che la cronaca ci riserva: la giovane turista polacca stuprata a Rimini o l’anziana di Forlì violentata da un nigeriano o la 12enne di Trieste abusata da tre immigrati (solo per citare gli esempi più recenti). Quando un anno fa la piddina Debora Serracchiani, di fronte allo stupro di una studentessa italiana minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno, dichiarò: “la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”, un fiume in piena di scandalizzata indignazione si riversò contro di lei: colleghi di partito e immancabili intellettuali del Pensiero Collettivo. Allora proviamo ad affrontare il tema senza tabù e senza pregiudizi.
I NUMERI IN ITALIA. Stefano Zurlo, su Il Giornale, ha riportato una notizia scioccante: un’indagine di Demoskopika, realizzata elaborando dati del Viminale, ha svelato che “nel quinquennio 2010-2014, il 39 per cento delle violenze sessuali in Italia è stato compiuto da stranieri”. Un numero impressionante – nota Zurlo – se si considera “che nel 2014, solo l’8,1% dei residenti in Italia veniva da fuori”. Ovviamente Zurlo è molto cauto e sottolinea che non bisogna fare “generalizzazioni”, né “distribuire patenti di primogenitura”. Anche perché a distribuirle ci pensa il Ministero dell’Interno il giorno dopo, inviando una nota all’AdnKronos in cui spiega che nel 2016 i reati contro le donne compiuti dagli italiani sono aumentati (1.534 contro i 1.474 del 2015), mentre quelli degli stranieri sono diminuiti (904 contro i 909 del 2015, 4 in meno). Ma la stessa AdnKronos ammette che se si guardano le percentuali in rapporto alla popolazione (che è esattamente ciò che si dovrebbe controllare) le violenze commesse dagli stranieri sono maggiori. Anche perché al conteggio sfuggono ovviamente i casi non denunciati che è plausibile siano maggiori nelle comunità di immigrati perché una donna straniera (magari profuga e richiedente asilo, inserita in contesti comunitari chiusi) ha più timore a denunciare una violenza subita rispetto ad una donna italiana. D’altronde è un dato di fatto che la possibile correlazione tra l’esodo migratorio di giovani maschi e l’aumento delle violenze sessuali non sembra riguardare solo l’Italia. In tutti i paesi che hanno adottato politiche di accoglienza massiccia i reati a sfondo sessuale sono tra quelli con maggiore aumento, insieme ai furti.
I NUMERI IN GERMANIA. Il Rapporto annuale sulla “Criminalità nell’ambito della migrazione” pubblicato il 27 Aprile scorso dalla Bundeskriminalamt (BKA), la Polizia Federale tedesca, rivela che nel 2016, il numero dei reati a sfondo sessuale compiuti da stranieri è aumentato del 102%, passando da 1.683 violenze del 2015 alle 3.404 del 2016. In altre parole, da quando la signora Merkel ha aperto le frontiere ad oltre un milione di immigrati, avvengono circa 5 reati sessuali al giorno compiuti dai nuovi arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’aumento è stato del 500%. I reati comprendono molestie, stupri e abusi sessuali su bambini e minori; quest’ultimo reato (il più odioso) è quello che ha registrato il tasso di crescita più elevato, +120%. Il 71% degli immigrati autori di violenze sessuali ha meno di 30 anni (il 17% è in età adolescenziale). Soeren Kern analista del Gatestone Institute e studioso dei problemi connessi alla migrazione in Germania l’ha definita una “epidemia di stupri”.
IL CAPODANNO DI COLONIA. Il caso più eclatante avvenne la notte di Capodanno del 2015, quando circa 1200 donne subirono aggressioni e molestie sessuali in diverse città tedesche (600 solo a Colonia e 400 ad Amburgo). Un vero e proprio assalto di massa perpetrato, “nella stragrande maggioranza da persone che rientrano nella categoria generale dei rifugiati”, come dichiarò allora il Procuratore di Colonia Ulrich Bremer. Il Capo della Polizia Holger Münch dichiarò che era evidente “la relazione tra ciò che era accaduto e la forte immigrazione avvenuta nel 2015″. La polizia tedesca denunciò i fatti di Colonia come applicazione del Taharrush, una sorta di “molestia sessuale collettiva” (che a volte si conclude con stupri di gruppo) praticata in alcuni paesi islamici e venuta alla ribalta dei media occidentali durante le manifestazioni di piazza della Primavera Araba, quando si verificarono diversi casi di violenze ai danni di giovani donne musulmane. Da sottolineare che per mesi, i media tedeschi hanno nascosto la portata dell’accaduto secondo un comportamento coerente con la volontà di manipolare l’informazione sui temi dell’immigrazione; volontà denunciata da una clamorosa ricerca scientifica che inchioda la stampa tedesca alle proprie responsabilità. La situazione è divenuta di una tale emergenza sociale che il 7 luglio 2016 il Parlamento tedesco ha dovuto approvare modifiche al codice penale proprio sui reati sessuali, ampliando la definizione di stupro per consentire più facilmente l’espulsione degli immigrati colpevoli.
SVEZIA E FINLANDIA. Il tema dell’aumento dei reati sessuali in relazione all’immigrazione è stato analizzato anche in altri paesi come la Svezia e la Finlandia dove hanno fatto scalpore episodi cruenti di violenze operate da giovani immigrati. In particolar modo nel 2016, in Svezia venne a galla lo scandalo della copertura che la polizia operò sulle violenze durante un festival musicale a Stoccolma, quando diverse adolescenti svedesi furono aggredite da giovanissimi immigrati, per lo più afghani. Uno solo caso di stupro ma decine i casi di molestie sessuali e violenze. La legislazione svedese vieta di rendere note le identità etniche e religiose di chi commette reati; è quindi impossibile capire se l’aumento oggettivo di stupri negli ultimi 10 anni sia legato al massiccio aumento di immigrati dai paesi islamici o solo a modifiche dell’apparato legislativo svedese che ha allargato la definizione di violenza sessuale (come tendono ad affermare i difensori del modello multiculturale). In Finlandia il più recente rapporto della polizia denuncia un aumento dei reati sessuali del 23% nei primi 6 mesi del 2017 ed un calo del 5% di quelli commessi da stranieri. Ma la percentuale degli abusi sessuali commessi da immigrati continua ad essere altissima, quasi il 30%.
IL PROBLEMA C’È. Tutto questo cosa significa? Che esiste un’equazione immigrato = stupratore? Certo che no e se qualcuno lo pensa è un imbecille. Ma è un imbecille anche chi nasconde l’identità di uno stupratore quando è un immigrato, per non suscitare sentimenti razzisti. È evidente che l’immigrazione a cui l’Europa si è aperta, presenta enormi criticità che mettono a rischio la tenuta sociale ed economica delle nazioni e la loro identità culturale ed il loro sistema giuridico. Alcuni punti da sottolineare: Profughi e richiedenti asilo rappresentano una minoranza di coloro che entrano in Europa. Dalle guerre fuggono in genere donne e bambini, mentre l’Europa sta accogliendo prevalentemente maschi giovani di età compresa tra i 17 e i 30 anni in piena vitalità sessuale. Quando un processo immigratorio non è governato ma subìto, come avviene (grazie all’irresponsabilità dei governi europei e alla volontà criminale delle élite globaliste), è impossibile controllare chi accogli nei tuoi paesi. Gli immigrati provengono prevalentemente da paesi con culture che hanno una visione del “femminile” e dei diritti tra uomo e donna molto diversi dall’Occidente. In queste culture (soprattutto islamiche) la condizione di sottomissione della donna rende difficile stabilire i limiti legislativi all’interno dei quali definire cos’è un abuso sessuale o una violenza
Ovviamente il problema non è se gli europei stuprano più degli immigrati o se un immigrato che stupra è più colpevole di un europeo (anche se il principio dell’accoglienza e dell’ospitalità, implica l’obbligo della reciprocità e rende più odioso un reato commesso da un immigrato, su questo ha ragione la Serracchiani); il problema è sancire l’esistenza di un problema sociale e culturale senza rimuoverlo secondo quel meccanismo paranoico proprio dell’ideologia globalista, liquidando come razzista chi lo pone; problema che deriva da un’immigrazione non più sostenibile.
IL CASO GOREN. In Germania fece scalpore il caso di Selin Goren giovane portavoce di Solid, movimento di estrema sinistra; una ragazza impegnata in politica nei movimenti a favore dell’immigrazione. Una sera di Gennaio del 2016, in un parco di Mannheim, la ragazza venne violentata da tre uomini. Alla polizia dichiarò che i tre parlavano tedesco. Solo tempo dopo, convinta da una sua amica, ritrattò e affermò che i tre erano immigrati e parlavano arabo. In un’intervista a Der Spiegel spiegò che aveva mentito per non “aumentare l’odio verso i migranti”. Dopo essere stata violentata questa ragazza imbevuta di ideologia, si è auto-violentata in nome di un buonismo che rasenta la patologia sociale. Vittima due volte: di una violenza generata da altri e di una generata da se stessa. Ecco questa è l’immagine più chiara di come l’Europa rischia di finire: auto-violentandosi per non guardare in faccia la realtà.
Stupratori, il dato choc: stranieri quattro su dieci. I non italiani sono l'8% della popolazione. I nodi: espulsioni e controllo del territorio, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". I dati sembrano essere fatti apposta per rovinare il presepe del politicamente corretto, ma i numeri non possono essere ignorati. Le statistiche criminali, anche se incomplete e in ritardo, ci dicono che quasi 4 stupri su 10 sono commessi da stranieri. Tanti, tantissimi, ancora di più se si pensa che i non italiani rappresentano solo l'8 per cento della popolazione. Inutile voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere: la realtà è lì con tutto il suo peso a travolgere facili teorie buoniste, ingenue come le favole. Non si tratta di un atto d'accusa, ma di riflettere su un Paese che si sta slabbrando per tante ragioni, non ultima un'immigrazione senza griglie e controlli che sta regalando frutti avvelenati. L' indagine condotta da Demoskopika, elaborando le tabelle del Viminale, compone un quadro purtroppo inquietante: nel quinquennio 2010-2014 il 39 per cento delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61 per cento opera di italiani. Dal punto di vista delle proporzioni qualcosa non quadra, anzi stride: nel 2014 risiedevano nel nostro Paese 60,8 milioni di persone e di queste il 91,9 per cento era italiano e solo l'8,1, circa 4,9 milioni, veniva da fuori. Le quote non sono in linea. Anzi. Denunce e arresti si sono moltiplicati in quella direzione. Su 22.864 casi segnalati nel quinquennio (il numero vero delle violenze resta naturalmente sconosciuto) molto spesso gli investigatori hanno messo nel mirino individui con passaporto non tricolore: romeni, anzitutto, e poi albanesi e marocchini. Sia chiaro, non si tratta di assolvere frettolosamente i nostri connazionali: sappiamo benissimo che tante donne subiscono angherie, soprusi e molestie di ogni genere fra le mura domestiche: gli autori sono mariti, fidanzati, ex che non ne vogliono sapere di alzare bandiera bianca. E sappiamo altrettanto bene che la lista degli autori di questi crimini efferati, dallo stalking fino al femminicidio, comprende nomi che suonano e ci sembrano familiari. Dunque non pericolosi, secondo un'equazione che invece non torna. Ma questo è solo un capitolo del libro nero: poi c'è l'altro che ha a che fare, gira e rigira, con la qualità di chi arriva. L'Italia è diventata, anche se non è elegante sottolinearlo, una sorta di Bengodi per ceffi e delinquenti in fuga dai loro Paesi e convinti, come ha scritto un giudice, che qui sia possibile fare quel che si vuole. Nella più completa impunità. Poi c'è il nodo di un'immigrazione fuori controllo, regolata con superficialità o peggio, come per la Romania, sottovalutando sconsideratamente le obiezioni all'ingresso di Bucarest nella Ue. Ci sono pure paesi in cui la donna vale poco o niente e questo inevitabilmente non è un elemento neutrale. Tanti problemi che si sommano, quelle cifre sconfortanti da mettere in fila. I romeni sono solo l'1,8 per cento dei residenti, ma vengono loro addebitati l'8 per cento degli stupri. Numeri pesanti anche per albanesi, tunisini, marocchini. Nessuna generalizzazione, ci mancherebbe, e nemmeno distribuzione di patenti di primogenitura. È che il nostro Paese ha una politica criminale che fa acqua: si difende poco e male e cosi tutela ancora meno le donne, italiane e non. La terribile vicenda di Rimini, la caccia al branco che viene da fuori, riapre una ferita mai chiusa. E che tocca tanti nodi: il controllo impossibile del territorio, l'effettività della pena, gli ingressi senza semaforo e le mancate espulsioni, la lentezza e la farraginosità della nostra giustizia. Non e' con qualche formuletta multietnica che si affrontano questi temi, come non è con una legge a costo zero e con la solita retorica delle buone intenzioni che si può fermare la mattanza che insanguina le nostre case da troppo tempo.
Ogni anno mille stupri commessi da immigrati: 3 casi al giorno. Gli abusi sessuali non calano mai. Ogni anno mille casi da stranieri, che sono i violentatori nel 40% dei casi. E spesso gli stupri rimangono senza denuncia, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Ogni anno mille stupri commessi da migranti, regolari o clandestini. Un dato che allarma le autorità e gli italiani, sempre più spaventati dal rischio di finire vittime di un branco di stupratori come accaduto nei giorni scorsi a diverse coppie a Rimini. Le stime diffuse dall'Istati parlano chiaro e sono sempre numeri al ribasso, visto che solitamente solo il 7% degli stupri viene denunciato. L'istituto di statistica, come riporta il Corriere, spiga che nei primi sei mesi del 2017 le violenze sessuali sono state 2.333, allo stesso livello di quelle commesse nell'anno precedente, quando gli stupri furono 2.345. Tanti, anche se sottostimati. A sorprendere però sono gli autori denunciati di tali orribili atti: nel 2017 sulle scrivanie delle forze dell'ordine sono finiti i profili di 1.534 italiani e ben 904 stranieri. Divisione rimasta anche questa pressocché invariata rispetto all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini 1.474. A conti fatti, dunque, ogni anno mille migranti si macchiano dell'orrendo reato dello stupro. Vi sembrano pochi rispetto agli italiani? Non è così. Perché il calcolo va fatto considerando che gli stranieri regolari in Italia sono appena 5 milioni (secondo l'ultimo dato ufficiale) oltre ad un altro milione di irregolari. Questo significa che il tasso di incidenza sulla percentuale di stupri è molto più alta rispetto a quella dei cittadini autoctoni. La "società di ricerche Demoskopica - scrive il Corriere - ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010- 2014, secondo cui 'il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali'". I numeri sulle violenze carnali non sono incoraggianti. Secondo le stime il 21% delle donne italiane, ovvero 4,5 milioni di individui, almeno una volta nella vita è stata costretta ad avere un rapporto sessuale e almeno 1,5 milioni sono state vittima di volenze carnali più gravi: "653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro", scrive il Corriere. E spesso le violenze avvengono in famiglia, dove quasi il 40% delle mogli, figlie o fidanzate è stata vittima almeno una volta di aggressioni che hanno portato a ferite o lesioni.
Il dossier del Viminale: 2.438 denunciati per stupro o abusi. Secondo i dati sui primi sei mesi di quest’anno, sono 1.534 italiani e 904 stranieri, scrive Fiorenza Sarzanini il 31 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". È certamente uno dei reati più odiosi. Ed è anche l’unico a restare sempre uguale nel numero di segnalazioni, a fronte di un generale calo dei delitti. Segnalazioni che, peraltro, sono una percentuale minima rispetto alla realtà. Perché le stime diffuse dall’Istat dicono che appena il 7 per cento degli stupri viene denunciato, vuol dire che migliaia di episodi rimangono impuniti. Le donne hanno paura, visto che molto spesso la violenza la subiscono in famiglia. Oppure si vergognano, comunque temono le conseguenze. La conferma è nei dati forniti dal Viminale: tra gennaio e giugno del 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali, nello stesso periodo del 2016 furono 2.345. Basso anche il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 nei primi sette mesi di quest’anno. Tra loro, 1.534 italiani e 904 stranieri. Un dato che - come chiariscono investigatori e analisti - si deve però rapportare al numero degli abitanti e dunque all’incidenza percentuale rispetto alla popolazione. Nel 2016 sono stati 2.383 con una divisione che è rimasta pressoché invariata: 1.474 italiani, 909 stranieri.
6 milioni di vittime. È proprio l’Istat a fornire una fotografia drammatica. Secondo l’ultimo rapporto ben il 21 per cento delle donne italiane - pari a 4,5 milioni - è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro. Un intero capitolo è dedicato della relazione è dedicato agli abusi in famiglia: il 37,6% tra mogli e fidanzate ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. E in una catena di orrori senza fine si scopre che nel 7,5 % dei casi a scatenare l’ira del partner è la gravidanza indesiderata. Indicativo, secondo gli analisti, è lo stato di vessazione psicologica che riguarda ben 4 donne su 10. In questo caso viene sottolineata l’incidenza sui rapporti interpersonali di quello che gli esperti definiscono l’«asimmetria di potere» che «sempre più spesso sfocia in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni, «è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria».
Delitti in calo. I numeri forniti dal ministero dell’Interno a Ferragosto segnalano un generale calo - in alcuni casi molto evidente - dei delitti. Negli ultimi due anni c’è stata una diminuzione pari al 12 %: si è infatti passati da 1.463.156 reati denunciati nei primi sette mesi del 2016 a 1.286.862 nello stesso periodo del 2017. Scendono del 15,1% gli omicidi passando da 245 a 208; giù del 11,3% le rapine da 19.163 a 16.991; si riducono del 10,3% i furti (anche se pure in questo caso gioca soprattutto la diminuzione delle denunce) da 783.692 a 702.989. A rimanere stabile è appunto soltanto il numero degli stupri: la statistica parla di una riduzione dello 0,5% quindi, di fatto, inesistente. E a far paura è anche l’analisi di un fenomeno che coinvolge spesso anche i minorenni. Nel 2015 il ministero della Giustizia aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo.
Gli stranieri denunciati. Il numero di stranieri denunciati o arrestati è basso, ma diventa indicativo se si fa un raffronto con le presenze in Italia che - secondo le ultime stime - sono di circa 5 milioni di residenti e quasi un milione di irregolari. Nei giorni scorsi la società di ricerche Demoskopica ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010-2014, secondo cui «il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali». L’analisi per etnie delle denunce presentate dice che dopo gli italiani «ci sono i romeni, poi gli albanesi e i marocchini». Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, avverte: «Più che fare una differenza di cittadinanza, dobbiamo preoccuparci visto che sta passando un messaggio tremendo di impunità. Gli stupri in Italia sono all’ordine del giorno».
"Non urla e non piange": violentatore assolto Torino diventa porto delle nebbie sugli stupri. Terzo caso in poche settimane sotto la Mole: vittime non credute o reati prescritti, scrive Luca Fazzo, Giovedì 23/03/2017, su "Il Giornale". Torino, di nuovo Torino: nelle cronache giudiziarie dei processi per stupro le sentenze che arrivano dal capoluogo piemontese hanno avuto spesso negli ultimi mesi la prima pagina dei giornali; e ogni volta si è trattato di vicende in grado di suscitare dubbi sull'operato dei magistrati chiamati a processare i responsabili di crimini odiosi. Al punto da rendere inevitabile chiedersi se esista un «caso Torino», una sorta di buco nero nella macchina della giustizia che all'ombra della Mole offre ai violentatori la scappatoia verso l'impunità. L'ultimo caso viene alla luce ieri, quando un articolo del Corriere rende note le motivazioni con cui il tribunale torinese ha assolto un infermiere accusato dello stupro di una collega, e hanno proposto alla Procura di incriminare per calunnia la presunta vittima. A rendere inattendibile la versione della donna sarebbe il fatto che durante l'aggressione non avrebbe cercato di difendersi e nemmeno gridato. «Non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», scrivono i giudici. Non lamenta dolori, non fa neanche un test di gravidanza, e anche questo convince la corte che menta. Eppure altre sentenze di altri tribunali si guardano bene dal pretendere dalle vittime comportamenti logici e lineari durante e dopo l'aggressione. L'assoluzione dell'infermiere arriva a poche settimane di distanza da altre due notizie torinesi sullo stesso tema: e che sollevano entrambe l'aspetto dei tempi biblici che a Torino permettono a due violentatori di farla franca. Il 21 febbraio si era scoperto che uno stupratore di bambini era tornato libero, dopo essere stato condannato in primo grado a dodici anni di carcere, per il semplice motivo che in dieci anni la Corte d'appello torinese non era riuscita a fissare l'esame del suo ricorso, provocando così la prescrizione del reato. Una manciata di giorni dopo, il 3 marzo, storiaccia simile: un patrigno che stuprava la figlia della sua compagna se la cava in Cassazione con tre anni e mezzo di condanna perché gli altri capi d'accusa sono prescritti grazie alla Corte d'appello torinese ha impiegato otto anni a fare il suo lavoro. Intanto lo stupratore se n'è tornato a casa sua, in Perù, donde difficilmente verrà mai estradato; e a rendere tutto più tragico c'è il fatto che la vittima non conoscerà mai l'esito del processo perché si è ammazzata lanciandosi dalla finestra. Sui giudici che hanno lasciato prescrivere il primo caso il ministro della Giustizia ha disposto una inchiesta interna, ma il timore è che il problema sia più vasto, ovvero una sottovalutazione della gravità di questi crimini e della necessità di reprimerli severamente e rapidamente. Il Giornale ha parlato di numerosi casi di processi per stupro persi per anni nelle nebbie torinesi. E anche altre fonti confermano che - almeno fino a tempi recenti - a Torino nessuno si era mai preso la briga di garantire una corsia preferenziale ai processi per stupro, che finivano a bagnomaria nel minestrone dei furti e delle bancarotte, delle truffe e dei piccoli spacci di droga: perché indicare delle priorità vuol dire anche prendersi responsabilità e correre dei rischi. Ora l'aria sta cambiando: «Sono reati su cui indagare è delicato e complesso - dice il procuratore torinese Armando Spataro - ma i pm che qui se ne occupano lavorano tanto e bene. E col nuovo presidente del tribunale abbiamo stilato un programma che prende di petto queste esigenze».
IL FORTE, IL DEBOLE E L’ESCLUSIONE SOCIALE.
Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico. Proverbio cinese.
L'uomo forte soffre senza lagnarsi, l'uomo debole si lagna senza soffrire. Ruggiero Bonghi (Fonte sconosciuta).
L'applauso è lo sprone degli spiriti nobili, il fine e la mira dei deboli. Charles Caleb Colton, Lacon, 1820/22.
Quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli. Umberto Eco, Il nome della rosa, 1980.
Il debole dubita prima di prendere una decisione, il forte dopo. Karl Kraus, Pro domo et mundo, 1912.
Si vede che lo sport rende gli uomini cattivi, facendoli parteggiare per il più forte e odiare il più debole. Alberto Moravia, Racconti romani, 1954.
Nell'umanità la regola − che naturalmente comporta delle eccezioni − è che i duri sono dei deboli di cui gli altri non si sono curati, e che i forti, preoccupandosi poco che ci si curi o meno di loro, sono i soli ad avere quella dolcezza che il volgo scambia per debolezza. Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, 1921/22.
L'umiltà ci rende forti, e poi sapienti; l'orgoglio, deboli e stolti. Niccolò Tommaseo, Aforismi della scienza prima, 1837.
L'uomo è debole, la donna è forte, l'occasione è onnipotente. Ivan Turgenev, Fumo, 1867.
L'uomo forte crea lui gli eventi, l'uomo debole subisce quelli che il destino gli impone. Alfred de Vigny, Diario di un poeta, 1867 (postumo).
Il mondo è dei conquistatori, perché la maggioranza è volgare e debole. Alfred de Vigny, Diario di un poeta, 1867 (postumo).
Soltanto i deboli commettono crimini: chi è potente e chi è felice non ne ha bisogno. Voltaire, Quaderni, 1952 (postumo).
I deboli vogliono talvolta essere creduti cattivi, ma i cattivi ci tengono a passare per buoni. Luc de Clapiers de Vauvenargues, Riflessioni e massime, 1746.
La storia delle donne è la storia della peggior forma di tirannia mai vista al mondo. La tirannia del più debole sul più forte. È la sola tirannia che duri. Oscar Wilde, Una donna senza importanza, 1893.
Solo i deboli hanno paura di essere influenzati. Johann Wolfgang von Goethe.
Nulla è più pericoloso per l'anima che occuparsi continuamente della propria insoddisfazione e debolezza. Hermann Hesse.
Fragilità il tuo nome è donna. William Shakespeare
Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura. Voltaire.
La fantasia è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio. Giambattista Vico.
Il destino è un'invenzione della gente fiacca e rassegnata. Ignazio Silone.
La debolezza di carattere è l'unico difetto che non si può correggere. François de La Rochefoucauld.
La storia delle donne è la storia della peggiore tirannia che il mondo abbia mai conosciuto: la tirannia del debole sul forte. E' l'unica tirannia che duri. Oscar Wilde.
L'amore è la più nobile debolezza dello spirito. John Dryden.
La durezza di alcuni è preferibile alla delicatezza di altri. Kahlil Gibran.
Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti o che non hanno mai inciampato. A loro non si è svelata la bellezza della vita. Boris Pasternak.
Anche l'uomo più miserabile è in grado di scoprire le debolezze del più degno, anche il più stupido è in grado di scoprire gli errori del più saggio. Theodor Wiesengrund Adorno.
Neppure Apollo sta sempre con l’arco teso. Orazio Flacco.
Il guerrigliero è un riformatore sociale, il quale impugna le armi per rispondere all’irata protesta del popolo contro l’oppressore e lotta per cambiare il regime sociale colpevole di tenere i suoi fratelli inermi nell’ombra e nella miseria. Ernesto Che Guevara.
Io sono responsabile di tutto. Tranne che della mia stessa responsabilità. Jean Paul Sartre.
L'ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati. Johann Wolfgang von Goethe.
Chi segue gli altri non arriva mai primo. Anonimo.
Più intelligenza avrai, più soffrirai. Arthur Schopenhauer.
Non avere paura della perfezione, tanto non la raggiungerai mai. Salvador Dalì.
Per i paurosi il futuro resterà sconosciuto, per i deboli sarà irraggiungibile, per gli incoscienti offrirà nuove opportunità. Anonimo.
L'esperienza c'informa che la prima difesa degli spiriti deboli è recriminare. Samuel Taylor Coleridge.
I beni superflui rendono superflua la vita. Pier Paolo Pasolini.
L'uomo non è nulla più di un giunco, il più debole della natura: ma è un giunco pensante. Blaise Pascal.
Le persone intelligenti non disprezzano nessuno, perché sanno che nessuno è tanto debole da non potersi vendicare, se subisce un'offesa. Esopo.
La moglie è spesso il punto debole del marito. James Joyce.
Chi vi vuole bene, vi fa paura. Aristofane.
Solamente chi è forte è capace di perdonare. Il debole non sa né perdonare né punire. Gandhi.
L'amore è solo una debolezza dell'animo se non è intrecciato all'ambizione. William Congreve.
La ragione è la follia del più forte. La ragione del meno forte è follia. Eugène Ionesco.
La più grande debolezza della violenza è l'essere una spirale discendente che dà vita proprio alle cose che cerca di distruggere. Invece di diminuire il male, lo moltiplica. Martin Luther King.
Talvolta i nostri difetti ci legano l'uno all'altro tanto strettamente quanto la virtù stessa. Luc de Clapiers de Vauvenargues.
Che cosa si intende per esclusione sociale?
La situazione di esclusione sociale è riconducibile ad un complesso di situazioni di disagio, quali: forme di dipendenza, disabilità, difficoltà di integrazione, esclusione dal mondo lavorativo, violenza, solitudine o assenza di riferimenti familiari e affettivi. Tali situazioni portano l'individuo ad una perdita di legami che può incidere in maniera rilevante sulla sua esistenza: se le condizioni di esclusione si cumulano (ad esempio perdita del lavoro con assenza di legami familiari) la persona rischia di cadere in una situazione di povertà economica.
Socialmente esclusi sono quegli individui la cui capacità di partecipare pienamente alla vita sociale è fortemente compromessa. Nelle società contemporanee le categorie maggiormente vulnerabili sono: le persone senza fissa dimora, i disabili, i detenuti o ex-detenuti, le persone con dipendenza da sostanze, gli anziani, gli immigrati, i rom, le famiglie numerose o monoparentali, i minori. Dalla risoluzione del fenomeno della marginalità sociale dipende il benessere non solo dei singoli individui ma della comunità globale. L’adozione di interventi economici e sociali efficaci, in grado di arrestare il moltiplicarsi dei processi di emarginazione, è la via principale da percorrere per favorire la reintegrazione dei cosiddetti esclusi.
In Italia "la povertà e l'esclusione sociale, in particolare la forte deprivazione materiale, hanno registrato un forte incremento". E' quanto rileva la Commissione europea nel suo rapporto sugli sbilanci economici dei Paesi membri, l'Alert Mechanism Report 2014. Italiani sempre più poveri e a rischio di esclusione sociale. A dirlo è l’Istat che lancia l’allarme: nell’ultimo anno quasi il 30 % delle persone residenti in Italia ha avuto non poche difficoltà date della severa deprivazione materiale e della bassa intensità di lavoro.
«La cultura dello scarto respinge i più deboli».
"Purtroppo nella nostra epoca, così ricca di tante conquiste e speranze, non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello scarto; e questa tende a divenire mentalità comune". Lo ha denunciato Papa Francesco, per il quale "le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più deboli e fragili. cioè i nascituri, i più poveri, i vecchi malati, i disabili gravi, che rischiano di essere scartati, espulsi da un ingranaggio che dev'essere efficiente a tutti i costi". "Questo falso modello di uomo e di società - ha spiegato in un discorso rivolto all'Istituto Dignitatis humanae, presieduto dal cardinale Renato Raffaele Martino e dall'onorevole Luca Volontè - attua un ateismo pratico negando di fatto la Parola di Dio che dice: 'Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza". Per Bergoglio, va riconosciuta e rispettata "una dignità originaria di ogni uomo e donna, insopprimibile, indisponibile a qualsiasi potere o ideologia". Ed è proprio "la forza della Parola" sull'uomo creato da Dio "a Sua Immagine" che, secondo Papa Francesco, "pone dei limiti a chiunque voglia rendersi egemone prevaricando i diritti e la dignità altrui". Ma occorre farsi interrogare da questa Parola e non lasciarla mai nel dimenticatoio: "se lasciamo che essa interpelli la nostra coscienza personale e sociale, se lasciamo che metta in discussione i nostri modi di pensare e di agire, i criteri, le priorità e le scelte, allora - ha spiegato infatti il Pontefice - le cose possono cambiare". Essa, inoltre, "nel medesimo tempo, dona speranza e consolazione a chi non è in grado di difendersi, a chi non dispone di mezzi intellettuali e pratici per affermare il valore della propria sofferenza, dei propri diritti,della propria vita". Tuttavia, ha ammesso Bergoglio rispondendo ai discorsi del cardinale Martino e di Luca Volontè, già deputato Udc, oggi al Consiglio d'Europa, "non sono pochi i non cristiani e i non credenti convinti che la persona umana debba essere sempre un fine e mai un mezzo". Nel suo discorso, il Papa ha comunque indicato come "bussola" per un laicato impegnato in difesa della vita e dei deboli "la Dottrina sociale della Chiesa, con la sua visione integrale dell'uomo, come essere personale e sociale". "Lì - ha osservato - c'è un frutto particolarmente significativo del lungo cammino del Popolo di Dio nella storia moderna e contemporanea: c'è la difesa della libertà religiosa, della vita in tutte le sue fasi, del diritto al lavoro e al lavoro decente, della famiglia, dell'educazione". "Sono benvenute quindi - ha scandito - tutte quelle iniziative come la vostra, che intendono aiutare le persone, le comunità e le istituzioni a riscoprire la portata etica e sociale del principio della dignità umana, radice di libertà e di giustizia". Secondo Francesco, "a tale scopo è necessaria un'opera di sensibilizzazione e di formazione, affinchè i fedeli laici, in qualsiasi condizione, e specialmente quelli che si impegnano in campo politico, sappiano pensare secondo il Vangelo e la Dottrina sociale della Chiesa e agire coerentemente, dialogando e collaborando - ha insistito - con quanti, con sincerità e onestà intellettuale, condividono, se non la fede, almeno una simile visione di uomo e di società e le sue conseguenze etiche".
POLITICHE DELLA RESIDENZIALITA’. Antropologia della città e dell’esclusione sociale, scrive Letizia Bindi. Tra le prime performance sociali richieste ad un soggetto inserito in un dato contesto urbano, regionale o nazionale vi è l’esibizione dei propri documenti: carta d’identità, codice fiscale, passaporto, patente di guida, tessera sanitaria. Il cittadino cresce sapendo che in situazioni diverse della vita sociale, in particolari momenti della vita politica del paese di appartenenza, nei rituali economici annuali (dichiarazioni dei redditi, censimenti nazionali di vario genere..) gli verrà richiesto di attestare la propria qualità di cittadino attraverso tali documenti. Questi stessi documenti, questo insieme di dati mappati da diverse istituzioni delimitano e al tempo stesso definiscono la sua identità di cittadino, la sua personalità minimale da un punto di vista sociale, economico e politico. E così che questa "cartella di identità" finisce per divenire metonimia della sua stessa esistenza di cittadino, talora, diremmo, coincide con la conferma sociale della stessa sua esistenza tout court. La dichiarazione di cittadinanza inserisce il soggetto all’interno del contesto nazionale di cui viene a far parte beneficiando dei diritti e sottoponendolo ai doveri previsti dallo statuto nazionale di riferimento. Più specificamente la nazionalità lo iscrive all’interno del fascio di regole, leggi, ordinamenti cui egli viene tra l’altro educato nella maggior parte dei casi dalle innumerevoli agenzie di formazione che di volta in volta si incaricano della trasmissione dei saperi necessari al vivere comune. Tuttavia la cittadinanza definisce solo il cerchio più ampio dell’appartenenza del soggetto al complesso socio-politico e giuridico della nazione. Sul piano territoriale e socio-politico di riferimento l’elemento maggiormente qualificante dell’identità e riconoscibilità del soggetto è la residenza. Essa infatti, insieme alla identificabilità fiscale, consente alla comunità di riconoscere il soggetto, di raggiungerlo e metterlo in condizione di essere tutelato, ad esempio attraverso l’insieme dei servizi di assistenza pubblica fondamentali (sanitaria, giudiziaria, rappresentanza politica, sistemi di polizia e controllo della criminalità, ecc.). La residenza conferisce all’individuo una riconoscibilità giuridica e istituzionale che ne consente dunque il controllo così come l’assistenza e ne salvaguarda le possibilità di rappresentanza politica. La perdita della residenzialità trascina con sé d’altronde altre forme di esclusione dai processi di riconoscibilità sociale e politica del soggetto. L’individuo "errante", non collocabile, almeno formalmente, all’interno di un dato contesto spaziale si presenta infatti come uno "sradicato" che insieme ai diritti di cittadino, perde anche progressivamente un'appartenenza culturale, l’ancoraggio sociale al tessuto urbano di appartenenza. Il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita rappresentano dei dati identitari invariabili nel tempo, entrano nella composizione automatica dei codici fiscali, identificano e distinguono da chiunque altro un individuo da un altro all’interno di uno specifico contesto nazionale; ma la residenza rappresenta un dato identitario maggiormente relazionale, diremmo, e storicamente identificante del soggetto. Essa si modifica in conseguenza delle scelte familiari del soggetto (permanenza nel nucleo familiare originario, matrimonio, separazioni, divorzi, etc.), delle scelte professionali dello stesso (spostamenti per ragioni di lavoro non necessariamente registrati dal soggetto -), dalla scelta autonoma infine dello stesso di eleggere a propria residenza ufficiale, pur nel fluttuare dei domicili più o meno occasionali, un certo luogo, una certa casa, un certo comune. E vero che oggi sempre meno la residenza dichiarata corrisponde al domicilio in cui il soggetto finisce per trascorrere fattivamente buona parte della sua vita, tuttavia essa rappresenta senza dubbio un'ancora sociale, politica e giuridica fondamentale per quanti istituzionalmente debbano rintracciarlo e per il soggetto stesso nella relazione con le istituzioni. La privazione quindi di una residenza dichiarata e stabile, di una "fissa dimora", condanna insieme, è ovvio, ad altri fattori - il soggetto allo sprofondamento in quella categoria di "non-persone" di cui ha recentemente scritto Alessandro Dal Lago, privandolo sia di un domicilio nei fatti, sia di quella rappresentatività istituzionale, resecandolo da quei circuiti virtuosi dell’assistenza, del welfare e della tutela politico-giuridica della sua personalità pubblica. Si potrebbe obiettare a quanto detto fin qui che la residenza sia solo l’epifenomeno di un fascio di problematiche che scindono ben più profondamente l’individuo dal contesto socio-culturale di appartenenza. E indubbio che i percorsi della marginalità e dell’esclusione sociale vengono da lontano e non possono catalizzarsi solo intorno alla perdita o allo smarrimento della residenza da parte di un individuo. Tuttavia si legano a questo fattore ulteriori aggravamenti della deriva imboccata da soggetti marginali già in precedenza e che ulteriormente preclude loro il recupero di una dimensione di vita attualmente sostenibile. Le "non-persone" di cui Dal Lago parla nel suo caso l’accento è spostato sulla popolazione migrante come anello estremo della negazione identitaria da parte della collettività che li percepisce come minaccia sono coloro che non possono farsi forti di alcun documento, dei "formalmente inesistenti" sia da un punto di vista della nazione di accoglienza che di quella di provenienza: esposti proprio per questo più di chiunque altro al rischio dello smarrimento nelle reti mondiali dell’emigrazione e per questo considerati potenziale minaccia per la sicurezza dei "cittadini", in quanto bacino privilegiato della microcriminalità, catalizzatori della "tautologia del razzismo". In un notevole saggio tratto da Vita Activa, Anna Arendt chiosando la struttura della pòlis greca e la costruzione reciproca degli spazi privati e pubblici al suo interno si legge: "Ciò che impediva alla pòlis di violare la vita privata dei suoi cittadini e le faceva ritenere sacri i confini di ogni proprietà non era il rispetto per la proprietà privata come la intendiamo noi, ma il fatto che senza possedere una casa un uomo non poteva partecipare agli affari del mondo, perché in esso non aveva un luogo che fosse propriamente suo". Il luogo "propriamente proprio" rappresentava dunque in questa polis arendtiana, che viene presa quasi a simbolo dell’inaugurazione delle forme classiche della politica occidentale, la base per l’esercizio della propria soggettività e quindi della propria cittadinanza, laddove essa mette in evidenza come in ogni sistema politico-sociale è la necessità a muovere l’associazione degli individui nella sfera domestica (mantenimento e prosecuzione della famiglia) e la libertà a rappresentare la base per l’esercizio politico. La mancanza dell’eudamonia, considerata nel contesto classico essenzialmente come unione di ricchezza e salute , equivaleva alla possibilità di essere individui liberi dalla necessità fisica e dall’asservimento ad altri individui. La sfera domestica restava dunque, in quest’ottica, il luogo della "più rigida disuguaglianza" (autorità del pater familias sugli altri soggetti della casa), mentre la sfera del pubblico si caratterizzava come garanzia di libertà indipendente dalle ricchezze personali, ma solo per la propria natura di cittadini. Alla radice delle democrazie moderne persiste questa idea politica dell’uguaglianza, così come si mantiene una disuguaglianza sul piano delle proprietà, delle ricchezze che potremmo assimilare oggi al sociale, ieri alla sfera del domestico. Tuttavia questa formale uguaglianza della cittadinanza politica si somma, e si sommava già nella pòlis greca, ad una disuguaglianza sul piano giuridico, che riduce di molto la natura ugualitaria del nostro esercizio libero della qualità di cittadini. Alle radici stesse della città stato antica sta una nozione di proprietà privata sganciata almeno formalmente dall’accumulazione di ricchezze nozione sempre meno concepibile nelle moderne società capitalistiche che permetteva all’individuo il riconoscimento come soggetto pubblico, "padrone" in nome di quella quota di proprietà dell’esercizio della libertà politica e della legittimazione sociale: è a questa nozione inaugurale di proprietà che dobbiamo agganciare oggi una riflessione sulla residenzialità come dato basilare della costituzione del soggetto come cittadino e dell’analisi delle diverse modalità di esclusione sociale. Perdere la "proprietà" (perdere il lavoro, la casa, la presenza sociale nella comunità di appartenenza o di accoglienza) coincide spesso oggi con l’essere poveri e concorre alla costruzione moderna della identità sociale dell’errante, del senza dimora, del migrante clandestino che in molti casi equivale ad una non-identità, ad una negazione di esistenza. Che la povertà sia assimilabile, per la comunità, ad una forma particolare della "estraneità", che il povero sia prossimo dello straniero e dei molti "nemici interni" della comunità era già stato fatto notare da Georg Simmel , che aggiungeva tra l’altro come la natura propria di povero coincidesse non tanto con una serie di privazioni rispetto all’ordine "normale" di consumi e servizi fruiti dal cittadino medio, quanto col ricorso e l'accettazione stessa dell’aiuto, dell’assistenza. Ecco dunque che il circolo vizioso dell’assistenzialismo viene a svelarsi: esso produce politicamente diremmo la categoria di povero, di errante, di straniero, di povero, ma allo stesso modo la sua stessa organizzazione, vincolata alla certificabilità (preferibilmente cartacea), alla stabilità, alla residenzialità del cittadino, rende difficile l'attivarsi delle stesse forme della assistenza perché il povero, lo straniero, l'errante mancano di quelle stesse caratteristiche che permettono la messa in atto delle pratiche assistenziali o ne frenano molto l'efficacia. "La classe dei poveri, particolarmente nella società moderna, costituisce una sintesi sociologica quanto mai singolare. Essa possiede, in base al suo significato e alla sua localizzazione nel corpo della società, una grande omogeneità che però le manca per le qualificazioni individuali dei suoi elementi. Essa è il punto finale comune di destini di specie più diverse, dall’intero ambito delle differenze sociali approdano ad essa persone; nessun mutamento, sviluppo, innalzamento o decadenza della vita sociale avviene senza depositare un residuo nello strato della povertà come in un bacino di raccolta. L’aspetto terribile di questa povertà a differenza del semplice essere povero, con cui ognuno deve fare i conti da solo e che è soltanto una colorazione della sua situazione sotto altri versi individualmente qualificata è che vi sono uomini i quali, per la loro posizione sociale, sono soltanto poveri e nient’altro. Quando a chi riceve elemosine vengono tolti i diritti politici, questa è l’espressione adeguata del fatto che egli socialmente nient’altro che povero. Questa mancanza di qualificazione positivamente propria produce l’effetto sopra accennato che lo strato dei poveri, nonostante l'eguaglianza della loro posizione, non sviluppa da sé e in sé forze sociologicamente unificanti". Quest’ultima citazione congiunta all’osservazione che accomunava poveri, nemici interni della comunità e stranieri, ci aiuta a comprendere la negazione progressiva di cittadinanza di cui sono vittime i migranti attuali, così come tutti quegli individui che pur essendo nati all’interno di un dato territorio nazionale, siano stati spogliati della loro natura di cittadini a causa della loro progressiva sparizione sociale. La radicale diversità del povero lo rende più prossimo infatti all’alterità minacciosa del "clandestino" quando non anche le due componenti si sommano nella figura stessa del migrante che non a quella del cittadino bisognoso di soccorso e costituisce la sua identità negativamente, per privazione rispetto alle caratteristiche modulari del cittadino, dunque essenzialmente per la sua mancata cittadinanza, manifestata nella maniera più eclatante proprio dalla sua irreperibilità fiscale e domiciliare. E' pur vero che per i cittadini residenti sono presenti sul territorio dei singoli comuni i servizi e gli interventi socio-assistenziali. Più recentemente d'altronde, considerata la gravità dei problemi legata alla mobilità territoriale e al mutarsi delle condizioni dei cittadini, i destinatari dei servizi e degli interventi socio-assistenziali possono essere anche i cittadini non residenti. Il domicilio di soccorso infatti è regolato dalla legge come istituto diverso dalla residenza, dal domicilio civile e dalla dimora. Tuttavia per la prova del domicilio di soccorso è richiesta la presentazione dell’estratto di iscrizione nel registro della popolazione del Comune, o di documenti legali che provino la dimora nel Comune per un periodo di almeno di due anni. In mancanza di tali documenti si può provvedere con una dichiarazione sostitutiva di atto notarile. Tale domicilio di soccorso non può essere perso se non per trasferimento in altro comune. Questi tratti della legge in questione sembrerebbero consentire alla maggioranza dei cittadini presenti sul territorio nazionale di beneficiare di quei servizi assistenziali necessari alla salvaguardia dell’individuo anche in condizioni di estrema indigenza e disagio. Tuttavia sarà sufficiente provare a pensare alla difficoltà rappresentata per soggetti da tempo sganciati da ogni riferimento sociale e comunitario, che hanno perso qualsiasi attitudine al rapporto con le istituzioni, dal reperimento di una documentazione pur minima come quella richiesta per l'attribuzione del domicilio di soccorso o dal ricorso al notaio. E’ così che assai più spesso gli interventi socio-assistenziali vengono erogati dalle strutture pubbliche più come prestazione non ricorrente, occasionale, in vista del rientro eventuale del soggetto nella comunità di appartenenza, o presunta tale. Per i residenti senza dimora si ritiene che i servizi socio-assistenziali siano finalizzati al superamento dello stato di bisogno, che li aiuti ad andare oltre la "stagnazione assistenziale" che si presenta solo come spreco di risorse per la comunità e che come faceva notare Simmel concorre alla costruzione di una categoria di soggetto qualificato esclusivamente per la sua povertà e il suo stato di bisogno. "Se infatti la "dimora", anche alla luce della normativa comunitaria, rappresenta il requisito essenziale per la fruizione dei servizi sociali, che, ovviamente, devono essere erogati in riferimento ad un territorio e a soggetti ben individuati, è su tale obiettivo primario che vanno condotti gli interventi e inquadrate le risorse socio-assistenziali". Recuperare la "dimora", ricostituire quel nucleo primario di aggancio al territorio che consente al soggetto di riqualificarsi come cittadino, di reinserirsi, almeno inauguralmente, nel tessuto sociale di nuova o antica appartenenza, permettendogli di tessere nuovamente le reti relazionali, professionali, sociali e politiche di riferimento che costituiscono "normalmente" l’orizzonte esistenziale di ciascun soggetto. La condizione di senza dimora porta con sé tra l’altro almeno altri due elementi da tenere in considerazione: da un lato l’isolamento e dall’altro l’assimilazione alla estraneità, elementi cui faceva riferimento anche l’annotazione di Simmel riportata in precedenza. Il dato dell’isolamento è particolarmente vero per le realtà delle metropoli europee. In altri contesti, come ad esempio quello statunitense e canadese, infatti, si affacciano sempre più spesso alla ribalta sociale e dei mass media gruppi più o meno organizzati di homeless che si vengono a caratterizzare come nuovi agglomerati urbani, con i loro rappresentanti, i loro comunicatori, i loro uomini pubblici, i loro gruppi di avvocati e di associazioni determinati alla difesa dei loro diritti. E' il caso delle "subcities" e delle "contested landscapes" di cui parla Talmadge Wright nel suo testo Out of Place pubblicato nel 1997. La realtà statunitense infatti presenta una realtà di esclusione sociale in cui il dato di isolamento e di estraneità si contrae a favore di una maggiore visibilità dei soggetti senza dimora determinati a rivendicare i loro diritti. Anche Wright, infatti, parla di una esclusione istituzionale, culturale ed economica dei soggetti senza dimora, di una loro progressiva omogeneizzazione culturale e sociale al di là delle diverse origini dei soggetti, dei diversi percorsi di accesso alla condizione di estrema indigenza, all’opera di contenimento e repressione come costante amministrativa e politica di rapporto con la marginalità sociale estrema, ma a differenza di quanto siamo abituati a notare nelle città europee, ci testimonia di una mobilitazione maggiore dei gruppi di senza dimora, probabilmente proprio a causa di una loro maggiore visibilità e coesione. La realtà nordamericana infatti, per dimensioni del problema, ma anche per le sue modalità specifiche di declinazione, ha finito per assistere alla costituzione di vere e proprie comunità di homeless: gruppi di sfrattati e occupanti abusivi di immobili destinati alla distruzione, comunità di baraccati o di abitanti della strada riconoscibili per caratteristiche etniche o per modalità di sopravvivenza simili che hanno finito per divenire soggetti collettivi maggiormente visibili dei nostri senza dimora più spesso condannati all’isolamento e ad una sorta di invisibilità sociale che ne impedisce qualsiasi forma di riscatto. Nella realtà nordamericana si è assistito dunque a vere e proprie coalizioni di studenti e homeless, a indagini sistematiche da parte di dipartimenti universitari finalizzate non solo al monitoraggio del problema, ma anche all’indicazione di strategie di risoluzione dello stesso avvocati, sociologi, antropologi impegnati nello studio e nella formulazione di modalità di recupero e reintegrazione dei soggetti vittime di esclusione sociale all’interno delle maglie della società produttiva. La realtà europea al contrario è caratterizzata maggiormente da uno sforzo del volontariato, laico e confessionale, e da alcune importanti quanto limitate operazioni statali di adeguamento della legislazione alle nuove modalità del disagio e della marginalità sociale. Fa parte di questo quadro il disegno di legge per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali nel quale si parla, tra l’altro, del contributo minimo di sussistenza e di altre modalità dell’assistenza alle categorie più disagiate, che sembra andare nell’ottica di un allargamento delle stesse rispetto alla situazione precedente almeno per ciò che concerne le categorie maggiormente a rischio di povertà estrema. Tuttavia ciò non può e non deve rappresentare minimamente una soluzione ultima del problema della marginalità sociale nel nostro paese, che si presenta invece come un coacervo di componenti sociali, culturali e politiche diverse che vanno tutte adeguatamente analizzate al fine di ridurre non solo il presente epifenomeno dell’esclusione sociale in Italia, ma anche l'insorgere di nuove forme estreme di marginalità destinate altrimenti a proliferare nel vuoto informativo e nell’inadeguatezza politica e legale a riguardo, nonché nell’indifferenza dei media. Ciò che sembra risaltare maggiormente da un'analisi attenta della situazione italiana quanto a condizione dei senza dimora è quella "disattenzione civile" di cui parlava Goffman, che rappresenta tra l'altro una tecnica esemplare di riduzione delle possibilità di coinvolgimento relazionale dei soggetti, ma anche quella progressiva strutturazione della moderna metropoli in "arcipelago di fortezze, relativamente "pulite" e sgombre dall’alterità indesiderata, disseminate in un mare liminale sempre più percepite come una discarica di rifiuti". L’aspetto liminale e per lo più invisibile della condizione di povertà, di esclusione sociale all’interno delle nostre città ci riconduce alle questioni con cui si è aperto questo discorso sulle politiche della residenzialità: la condizione di perdita della cittadinanza piena, di reperibilità sociale e politica dell’individuo, la sua fuoriuscita dai circuiti classici dell’assistenza e della rappresentanza giuridica e politica coincide proprio con la perdita di quella centralità rispetto all’ordine costituito che è proprio del soggetto integrato socialmente, del polites, diremmo, riprendendo la metafora classica di Arendt, del cittadino non asservito alla necessità, al bisogno e per questo capace della libertà necessaria per l’esercizio autonomo della propria rappresentanza pubblica, pur nelle permanenti distinzioni causate dall’ineguaglianza economica e giuridica.
Carcere ed esclusione sociale. “Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella”. Papa Francesco affronta il tema dell’emergenza carceri. Prima dell’udienza generale in piazza San Pietro, il Pontefice parla a braccio davanti ai circa 200 partecipanti al Convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane promosso a Sacrofano, nei pressi di Roma, sul tema “Giustizia: pena o riconciliazione. Liberi per liberare”. Anche Dio “è un carcerato – ribadisce Francesco - dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, delle tante ingiustizie che è facile” applicare “per punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque”.
Carcere ed esclusione sociale, scrive Marco Bonfiglioli, Educatore, Casa Circondariale di Bologna. In questi giorni stiamo preparando con un gruppo di detenuti della Dozza il progetto per un nuovo giornale. Non so ancora se riusciremo a realizzare questa idea, ma certamente uno dei titoli possibili che ci è venuto in mente per la testata può essere un buon spunto di riflessione. Abbiamo infatti pensato di chiamare il giornale «La Corte dei Miracoli». Un bel titolo se, come credo, vuole esprimere quello che rappresenta nell'immaginario collettivo di chi ci vive dentro, detenuto od operatore che sia o almeno di una parte di essi. E invece, ed è qui che volevo arrivare, mi chiedo quale sia la rappresentazione del carcere che ha l'uomo della strada, insomma la casalinga di Voghera, il piccolo imprenditore del Nordest, il pensionato con la minima o comunque chi del carcere si è fatto in genere un’idea stando fuori da questa istituzione, magari però filtrata dagli organi di informazione (più spesso dagli organi di "disinformazione") o dall’ultimo film in cui la rappresentazione dell'ambiente carcerario offre spazio agli ennesimi stereotipi. Oggi come ieri, quando senti parlare del carcere i luoghi comuni continuano ad andare per la maggiore. Si è solo determinata una progressiva evoluzione di questi luoghi comuni. Attualmente non senti più affermare solo che il carcere è un albergo a quattro stelle dove hai anche la tv in camera (o in cella come mi trovo spesso a precisare nelle discussioni in cui sempre più di rado mi faccio coinvolgere) ma che la pena deve essere certa, e che il cittadino ha bisogno di maggiore sicurezza e così via fino a discutere dei problemi, d’altra parte molto sentiti, della microcriminalità e del suo contenimento anche sul piano dell’esecuzione penale. Credo sia giunto il momento di approfondire l'analisi su ciò che l'opinione pubblica pensa sul carcere. In realtà questa percezione è molto più sfumata di quanto non si creda e condizionata certamente da un sentimento diffuso di insicurezza che sembra aleggiare in genere nelle società occidentali. E continuando ancora a ripercorrere gli interrogativi dominanti in materia di giustizia, da dove viene allora il sentimento di forte insicurezza che sembra pilotare, a destra e sinistra, e non solo in senso geografico, le politiche di tolleranza zero che sembrano andare per la maggiore, e si stanno diffondendo dai paesi anglosassoni al resto delle società occidentali in questa tarda modernità? Ma andiamo per ordine. Il buon senso e l'esperienza quotidiana di chi lavora in carcere portano a dire che il carcere non riabilita e non può neanche assolvere questo compito per come è strutturato. Forse questo significa che il carcere non può riabilitare perché buona parte delle persone che oggi vi sono ristrette, non dovrebbero in realtà starci. Mi spiego. Non voglio dire che i reati non vadano sanzionati penalmente, ma dubito fortemente che ogni forma di violazione penale debba avere come risposta sanzionatoria il carcere. In Italia ci siamo sempre applicati con poca serietà all’esercizio della misurazione dei risultati degli interventi in materia di esecuzione penale. Basterebbe avere finalmente dati reali sulla recidiva per capire che questo sistema non funziona e che di fronte a molte tipologie di reato la risposta penale del carcere non può essere efficace. Se oggi il carcere deve assolvere alla funzione di produrre sicurezza sociale, in realtà compie questo compito in modo inadeguato. È invece evidente come l'esperienza del carcere, anziché funzionare come deterrente, incentivi i fenomeni di esclusione sociale e quindi di produzione della devianza. La persona detenuta in carcere vive quotidianamente delle situazioni di deprivazione, direi un surplus di sofferenza, che non è la "sofferenza legale" determinata dalla privazione della libertà e che inevitabilmente porta alla chiusura in se stessi e a difendersi da tutto ciò che è anche offerto in chiave di aiuto, di recupero di un progetto di vita. Mi è capitato recentemente di entrare in un grande carcere del nord Italia per partecipare ad un convegno sull'affettività. Avendo dovuto lasciare all'ingresso ogni effetto personale, compresi chiavi e portafoglio, ho potuto percepire in quel momento quanto sia deprivante l'esperienza del carcere, quale barriera si sovrapponga tra la persona e tutto ciò che gli appartiene, compresi corpo e affetti. Proviamo a fare a meno, per un momento, ed è solo un piccolo esempio, delle foto dei figli, della compagna e di quegli elementi che costituiscono il nostro universo personale, che ne sono i segni, che ne richiamano il significato, e riusciremo ad avere una prova in più dei limiti dell’esperienza carceraria. Carcere allora come extrema ratio? Le nostre prigioni sono in realtà sempre più affollate da quella categoria di persone che possiamo definire gli "ultimi" e, più laicamente, gli "esclusi". In questi anni di lavoro mi sono fatto l'idea che dentro le carceri italiane ci sia un 70-80% di persone che in carcere non ci dovrebbe stare, perché appunto la penalità non può essere solo espressa dall’istituzione carcere, che è diventata sempre di più un ambiente, come dicevo prima, di esclusi, o meglio di persone la cui esclusione non rimane solo una condizione pro tempore, per il tempo della carcerazione, ma una condizione esistenziale. Dobbiamo dire queste cose con ancor più forza, far capire che siamo arrabbiati per questa situazione. Poi mi diranno che sono dalla parte dei ladri, delle prostitute e dei "tossici", non importa, perché alla fine se in galera ci finiscono soprattutto loro vuol dire che il sistema non funziona. Certo, l’attuale Presidente del Consiglio afferma che non dobbiamo più parlare di microcriminalità ma di criminalità con la "c" maiuscola e così, intanto, si parla sempre meno di criminalità organizzata e degli altri grandi fenomeni delinquenziali. Ieri ho rivisto a Padova la compagna di Horst Fantazzini, un detenuto che ha vissuto gli ultimi anni di carcerazione alla Casa Circondariale di Bologna. L'ho conosciuto dopo che lui si era fatto 30 anni di carcere. Ha ottenuto infine la semilibertà e a dicembre è tornato a fare una rapina in banca in bicicletta. In quel momento fu un colpo duro per me come operatore ma ancora di più lo è stato pensare che è riuscito a morire in carcere. Lo prendevo in giro su questo fatto, chiamandolo "dinosauro della galera" e dicendo che comunque in carcere non ci doveva morire e invece, dopo essere stato riarrestato, la vigilia di Natale, è venuto a mancare improvvisamente. Se fosse qua oggi gli direi che ha ragione la sua compagna quando scrive su un articolo apparso sulla rivista della Casa di Reclusione di Padova, «Ristretti», che il carcere tende a «sopprimere i colori, a fermare il tempo, a restringere gli spazi, ad annullare la personalità, a far regredire le persone ad uno stato di dipendenza assoluta, ad uniformare i comportamenti, ad esprimere regolamenti anche in campo affettivo, a separare gli amanti». Ecco, direi che di questo carcere non abbiamo più bisogno.
L'Italia abbandona i più deboli. Le donne, gli uomini, i bambini invalidi sono vittima dei tagli imposti alla spesa pubblica. Senza sussidi né servizi, restano affidati alle famiglie che spesso non hanno i mezzi per curarli adeguatamente. Ecco le loro storie, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. "Il mio bimbo si chiama Loris, scusi se ho scritto Lollo nell’email, ma era il nome che lui diceva quando gli veniva chiesto come ti chiami», rivela il suo papà: «Sì, il mio bimbo, fino a quel giorno che vorrei cancellare e cioè il 23 aprile 2012, stava benissimo. Era un bimbo sanissimo di due anni e mezzo. Poi un’emorragia al cervelletto e il mondo cambia, la vita diventa difficile e tutti ti chiudono le porte». Ma uno Stato può chiudere le porte e sacrificare i suoi cittadini più deboli? L’Italia, anche quella dei pregiudicati che frodano il fisco e pretendono di continuare a sedersi in Parlamento, la risposta se l’è già data. Chiara e tonda: un sì, netto e drammatico. Non siamo ancora all’eutanasia imposta alla Grecia dall’Unione Europea per non far crollare l’euro. Ma non siamo lontani: anzi, con i recenti tagli alla spesa sociale le persone non autosufficienti sono già state sacrificate. In nome del fiscal compact, il patto di bilancio europeo. Con tutte le sue conseguenze. Basta ascoltare i racconti dei lettori che hanno partecipato a questa inchiesta dell’Espresso. E guardare il nostro Paese dagli occhi di piccoli e adulti che per vivere, studiare, lavorare hanno bisogno di aiuto. Al punto che Lollo, sopravvissuto all’emorragia, adesso non può accedere alla riabilitazione di cui ha bisogno. Mentre a Milano e in altre città ci sono bambini che frequentano la scuola dell’obbligo soltanto per 11 ore la settimana, dopo che il ministero ha ridotto le spese per gli insegnanti di sostegno. E altri ragazzi proprio in questi giorni rischiano di dover rinunciare agli studi perché i Comuni non pagano più il trasporto e i bus di linea sono barriere architettoniche con le ruote. Oppure bisogna osservare l’Italia dalle finestre di donne e uomini invalidi che, prigionieri dei loro appartamenti, sopravvivono a fatica visto che l’Inps a ogni verifica sospende l’assegno anche per diciotto mesi. O immaginarla dai letti di quelle migliaia di anziani non autosufficienti che aspettano la loro ora ingabbiati dentro istituti convenzionati a 700 euro al giorno, ingrassando i bilanci di cliniche e cooperative quando, se bene organizzata in casa, la stessa assistenza costerebbe alle casse pubbliche meno della metà. Sofferenza e affari. Se la crisi è una corrente impetuosa che erode le nostre vite e i doveri di solidarietà sanciti dalla Costituzione, i cittadini disabili e le loro famiglie sono già in caduta libera oltre la soglia della cascata. Al Nord, come al Centro e al Sud. Un paradosso se si considera la presenza così massiccia di cattolici nella politica italiana. Come ha sottolineato Margherita Hack nella prefazione al libro-inchiesta di Roberto Gramiccia e Vittorio Bonanni “La strage degli innocenti. Anatomia di un omicidio sociale” (Ediesse): «Balza agli occhi, da un lato, l’assurda contraddizione fra la difesa della vita a tutti i costi di persone in coma da anni ridotte a vegetali, fra la proibizione di usare le cellule staminali embrionali perché l’embrione si ritiene persona in fieri», ha scritto l’astrofisica scomparsa il 29 giugno, «e, dall’altro, la scarsa e inadeguata assistenza agli anziani, soprattutto ai più deboli, senza sufficienti risorse». Gli economisti di mezzo mondo discutono se i tagli siano conseguenza della crisi in Europa: o viceversa se le misure di austerità non abbiano annientato l’autonomia degli Stati nell’intervento a difesa dei più bisognosi. Non tutti la pensano come il presidente della Bce, Mario Draghi, che in un’intervista al “Wall Street Journal” ha dichiarato che il modello sociale europeo è ormai superato. O come Norbert Walter, l’economista di punta della Deutsche Bank che nel 2008 profetizzava: «In futuro alcuni di noi dovranno adattarsi a guadagnare uno stipendio insufficiente a sopravvivere». Ma ecco, quel futuro è già qui. Savino Ferrara, 42 anni, il papà di Lollo, per assistere il suo piccolo ha dovuto chiudere la sua impresa. «Prima che succedesse la mia fine del mondo», racconta, «ero un artigiano edile». I Ferrara abitano a Seregno, provincia di Monza e Brianza, una ventina di chilometri da Milano, una zona ricca, ma non per tutti. Savino ora fa l’operaio in una ditta di costruzioni. «Ho chiuso perché non avrei più il tempo che avevo da dedicare all’impresa. Mia moglie», aggiunge, «non lavora perché deve accudire il piccolo di giorno e soprattutto la notte. Ho altri due figli, una di 20 anni, uno di 18. La prima ha lasciato le superiori all’ultimo anno perché dopo che Lollo è tornato a casa dal lungo ricovero, il bisogno di un aiuto era più importante dello studio. Attualmente il nostro piccolo con l’assistenza domiciliare integrata della Asl fa tre sedute settimanali della durata di 45 minuti di fisioterapia. Io ne integro privatamente altre due alla settimana. Poi quattro sedute di logopedia per la deglutizione a settimana e io ne integro altre due. Non siamo assistiti da nessun centro neuropsichiatrico infantile. Tutto viene svolto a casa. Perché il Don Gnocchi, il centro privato convenzionato che c’è qui, ci avrebbe dato solo tre sedute di fisioterapia e una di logopedia che sono uguali a niente». Savino racconta che ogni otto mesi può richiedere una seduta intensiva in un altro centro convenzionato dove ci sono medici, neurologi, fisiatri e quant’altro: «Ma ogni otto mesi è davvero troppo poco. Per poterlo rimettere in piedi, un bimbo con tetraparesi spastica avrebbe bisogno di almeno due ore al giorno di fisioterapia e se dobbiamo anche insegnargli a deglutire e a svezzarlo con le pappe, avrebbe bisogno di almeno sei incontri al giorno di logopedia». Poi ci sono le spese: «Mille euro al mese non rimborsabili. Li spendo per colliri e alcuni farmaci che il servizio sanitario non passa e tutto l’occorrente per le medicazioni, la tracheotomia, il sondino per il nutrimento. Ci sentiamo in balia delle onde», confessa il papà di Lollo e spera nell’aiuto economico di qualche associazione privata. Sa che con il suo stipendio da operaio da solo non può farcela. Arriva quel momento che prima o poi tutti i genitori nella sua situazione devono affrontare: la consapevolezza di non riuscire a fare il necessario per salvare il proprio bimbo. Prima dell’avvento del liberismo finanziario e del disastro che sta provocando, era compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che tolgono il sonno a milioni di italiani. Ora rimangono i gesti di buona volontà. Nella regione del senatore Formigoni che in pochi anni si è mangiata 89 milioni in tangenti sulla sanità, i soldi per aiutare Lollo li raccolgono i clienti di un bar. Con spiccioli e mance. Anche M., 7 anni, seconda elementare a Milano, è una bambina sacrificata dallo Stato. Per lei, come per molti altri alunni, l’Ufficio scolastico ministeriale ha concesso 11 ore di insegnante di sostegno su 40 di presenza settimanale a scuola. Nelle altre 29 ore la piccola, che soffre di encefalopatia post natale, aveva due alternative: rimanere parcheggiata in aula o tornare a casa. La piccola M. però può dirsi fortunata. La soluzione l’ha trovata la mamma, 41 anni, impiegata. Paga lei l’educatrice in classe per le ore non coperte: 1.400 euro al mese. «Se ne va tutto il mio stipendio, unica entrata della famiglia», dice: «Ma posso permettermelo grazie all’aiuto dei miei genitori». Per tutti gli altri bambini che non possono contare sui nonni, la scuola dell’obbligo a Milano dura soltanto 11 ore alla settimana. Laura, 16 anni, anche lei milanese, con una grave sindrome autistica, non si è potuta iscrivere alle superiori: «Nei casi più gravi come quello di nostra figlia», spiega la mamma, 49 anni, «gli istituti non sono in grado di accogliere questi ragazzi con le necessarie modalità educative. E in questi ultimi anni le ore di sostegno sono state ridotte all’osso: sei o massimo nove alla settimana. Tanto che quest’anno ci siamo trovati nella condizione di dover rinunciare a iscriverla alla scuola superiore. Dove peraltro abbiamo trovato gentili ma fermi rifiuti alla sua iscrizione per l’inadeguatezza di strutture e la mancanza di personale qualificato. I dirigenti puntano sul fatto che l’obbligo scolastico finisce a 16 anni. Mentre la legge sull’integrazione scolastica prevede un insegnante di sostegno su tutte le ore per ogni studente con il 100 per cento di invalidità, fino alla quinta». In alternativa Laura e altri ragazzi nelle sue condizioni frequentano un centro di riabilitazione privato. Sono 900 euro al mese di retta. Li copre in parte il Comune, dopo una lunga trattativa con i genitori. Il trasporto, 25 euro al giorno, è tutto a carico delle famiglie. Fanno 500 euro al mese: praticamente l’intera indennità mensile di accompagnamento di 499 euro che Laura riceve dall’Inps. E che un invalido dovrebbe far bastare anche per i farmaci che il servizio sanitario non passa, gli integratori, le vitamine, le ore in più di riabilitazione e mille altri imprevisti. Tutto questo nella stessa città in cui la Regione spende milioni di euro in buoni scuola. Un modo per aggirare la Costituzione, articolo 33, e finanziare le scuole private. «Non si ha idea dello sconvolgimento, dell’impegno che riguarda tutta la famiglia ad affrontare l’assistenza», commenta Susanna Ligato, 48 anni, impiegata part-time per seguire il figlio autistico, 17 anni, il maggiore di due ragazzi, terza liceo artistico che frequenta a orario ridotto, un mutuo da 550 euro al mese, il centro di riabilitazione da pagare perché non è convenzionato: «Mi aiutano i miei genitori, 77 e 70 anni. L’angoscia più grande è pensare a cosa succederà quando non ci sarò più io». Chi può permettersi l’avvocato fa ricorso al Tar per ottenere più ore di sostegno. E di solito vince. Ma la scuola non aggiunge mai insegnanti. Per rispettare la sentenza, l’ufficio scolastico regionale si limita a togliere ore ad altri bambini o ragazzi disabili dello stesso istituto. Così i genitori che hanno vinto il ricorso finiscono con il sentirsi in colpa. Perché alla fine, altri alunni perdono l’insegnante di sostegno. Oppure scoppiano discussioni per accaparrarsi un’ora in più. Nessun preside ha la forza di opporsi alla follia di queste soluzioni. Obbediscono alla cieca. Da quando la loro carica dipende da un contratto triennale, chi protesta mette a repentaglio la sua qualifica. I tagli non risparmiano nemmeno il diritto al lavoro. A Torino il Comune ha diminuito la spesa per i buoni taxi. Un punto di eccellenza che garantiva alle persone con disabilità motoria la possibilità di andare a scuola, in ufficio, a fare visite mediche. La copertura è stata ridotta a un massimo di 4 euro a corsa. Con il traffico delle ore di punta, significa un minimo contributo su un totale di 25 - 30 euro al giorno. «È un balzo indietro di una trentina d’anni», osserva Andrea Ginestri, 47 anni: «La cosa più grave è che alcuni disabili abbiano preso in considerazione l’ipotesi di licenziarsi. Chi ha un impiego part-time, riterrebbe più conveniente licenziarsi perché gran parte del suo compenso verrebbe spesa in taxi». A Torino come nel resto d’Italia le barriere architettoniche sono fuori legge. Ma spesso al taxi non ci sono alternative. Il trasporto è ugualmente un dramma per Concetta Drago, 46 anni, insegnante, che quest’anno scolastico appena cominciato non sa come far arrivare in classe la figlia colpita da osteogenesi imperfetta, 16 anni, terza liceo linguistico: «Abitiamo in un piccolo paese della Sicilia e», racconta, «la scuola di mia figlia è a 40 chilometri, a Sant’Agata Militello. Ci hanno spiegato che con la prevista abolizione delle province, quella di Messina non ha rifatto il bando per l’appalto del trasporto. Tutti i paesi di qui sono nella stessa situazione. Intanto abbiamo cominciato a portarla noi ogni giorno. Mi sta aiutando mia madre, ma ha settant’anni e non potrà farlo sempre. Mia figlia è ben inserita, completamente dedita allo studio. Si muove su una carrozzina e no, è impossibile servirsi dei pullman di linea. Li dovrebbe vedere». A Cerignola, provincia di Foggia, la cooperativa che trasporta i disabili al centro diurno di Andria, 92 chilometri tra andata e ritorno, vanta un credito di 11 mesi di arretrati da parte del Comune e 14 mesi da parte della Asl. Pochi giorni fa si è trovata una copertura temporanea delle spese e soltanto per questo il servizio non è stato sospeso. «Per le luminarie della festa patronale però il Comune i soldi li ha trovati, per questo ci siamo arrabbiati», protestano i disabili di Cerignola e dintorni. La lista dei paesi italiani nelle stesse condizioni è lunga. Un altro esempio è Catania: il Comune ha ridotto il contributo per il trasporto scolastico degli alunni disabili dai 6,69 euro al giorno del 2006 ai 2,28 del 2012. Il resto della spesa lo devono aggiungere i genitori. Oppure Ginosa Marina, provincia di Taranto, dove Biagio, 27 anni, è bloccato a casa senza poter svolgere alcuna attività: «Utile quanto meno ad avere un lieve miglioramento nel linguaggio e nel fisico. I genitori impegnati ad accudire Biagio 24 ore su 24», racconta una parente: «sono sempre stati troppo poveri per agire privatamente e le strutture sono quasi inesistenti. A scuola non è mai stato seguito seriamente. La struttura per disabili più vicina è a 25 chilometri. Il papà, manovale saltuario, ha chiesto di poter usufruire di un servizio navetta. Ma da quel “le faremo sapere” è trascorso tanto tempo e il telefono non squilla mai». «Come risultato ai tagli», racconta Maria Simona Bellini, 56 anni, di Roma, «si è attivato un meccanismo perverso attraverso il quale ci viene consigliato di rinchiudere i nostri cari in istituto. Cioè per non sostenere i mille euro al mese di assistenza domiciliare, gli enti preferiscono spendere 700 euro al giorno in istituti privati per non autosufficienti. Dietro alla lobby delle cliniche e delle cooperative c’è un forte bacino di interessi e di voti. Il meccanismo delle cooperative è diabolico. Per mia figlia il Comune di Roma spendeva 1.500 euro al mese per 12 ore settimanali di assistenza a casa. Ora che ci occupiamo noi dei contratti, 20 ore a settimana costano al Comune 700 euro al mese. È una forma di assistenza prevista dalla legge. Ma viene concessa solo se si minacciano denunce e ricorsi. Gli uffici preferiscono far passare tutto attraverso i loro appalti con le cooperative. Immaginate voi il perché». Maria Simona ha ottenuto un contratto di telelavoro per stare accanto alla figlia di 25 anni e al marito, 57 anni, invalido dal 2007 dopo un aneurisma. «La vita non smette mai di metterti alla prova», dice lei: «Mio marito è prigioniero in casa. Ha una pensione di invalidità civile, 270 euro con cui dovrebbe vivere. L’hanno fatto rivedibile ogni due anni. A gennaio ha passato la visita. Ma a febbraio, alla scadenza, l’Inps gli ha bloccato l’indennità. Succede a tutti, giovani e anziani. Ogni due anni. Riprendono a erogartela dopo sei, sette mesi. Per qualcuno anche diciotto. Una vessazione. Per fortuna ci aiutano i suoi genitori anziani. Altrimenti non saprei come fare». Parafrasando “Germania anni Dieci”, l’ultimo libro del grande giornalista tedesco Günter Wallraff (L’Orma), sono i più anziani la stampella di questa Italia anni Dieci. Ma quanto può durare?
ESCLUSIONE SOCIALE E RAZZISMO.
Razzismo e social network, la responsabilità delle Onlus. Notizie strumentalizzate ed episodi di cronaca costruiti “ad hoc” per attaccare rifugiati, migranti e richiedenti asilo: quando i social network diventano un’arma a doppio taglio, scrivono Mattia Dell'Era, Andrea Bernardi su non profit. Chiaramente non sono i social network che influenzano l’opinione comune, sono le persone che li utilizzano che dovrebbero avere più responsabilità e coscienza prima di condividere una notizia. Nella sua definizione più semplice, per razzismo si intende l'idea che la specie umana possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro. (wikipedia) Google+, Twitter, ma soprattutto Facebook sono i principali vettori di siti e blog pseudo informativi con l’obiettivo di rilanciare notizie su crimini presunti o reali commessi da immigrati il tutto condito con un pizzico di retorica identitaria, nazionalistica e populismo. «La crisi economica farà aumentare gli episodi di razzismo e xenofobia, e perciò i politici devono stare bene attenti a non usare le fasce più deboli come capri espiatori dei problemi sociali». Questa affermazione arriva dai tre principali organi di difesa dei diritti umani in Europa: la Fra (Agenzia europea per i diritti fondamentali), l′Odihr (Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dell′Osce) ed Ecri (Commissione europea contro il razzismo e l′intolleranza, collegata al Consiglio d′Europa). Uno dei punti forti di internet è sempre stata la sua capacità di diffondere rapidamente e senza blocchi qualsiasi tipo di informazione. In questo contesto, però, la mancanza di un controllo sulle informazioni veicolate tramite i social network ha reso più facile, da parte di malintenzionati, la diffusione di contenuti che – quando non lo sono dichiaratamente – incitano al razzismo. Nonostante spesso si tratti di tentativi maldestri, la scarsa propensione, da parte degli utenti, al controllo e alla verifica dell’attendibilità delle notizie riportate in rete ostacola qualsiasi processo di integrazione del diverso e giustifica comportamenti e dichiarazioni razziste. “Io non sono razzista, ma …” quante volte avete letto questa frase tra i commenti di qualche post su Facebook, o su Twitter ? Il problema, infatti, è che gli effetti negativi di questa tendenza negli ultimi anni sono stati amplificati dalla popolarità dei social network, che non hanno solamente cambiato enormemente il modo di informare, ma sono anche diventati il bacino di raccolta di tutto il malessere e il malcontento della maggioranza della popolazione.
L’unione di queste due tendenze ha favorito questo processo di giustificazione del razzismo, soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione. Questo problema, però, non è risolvibile tramite la sola moderazione dei contenuti online. Infatti, limitarsi a rimuovere e cancellare il commento razzista, è sempre più spesso percepito come un atto di censura da parte di un gruppo di “benpensanti” e non offre alcuna possibilità di educare e ridurre le dimensioni di questo fenomeno. E le Onlus? Qual è il loro ruolo in questo contesto? Potrebbero essere il mezzo per combattere il dilagare del razzismo online? La risposta potrebbe essere affermativa, ma prima sarebbe necessario intervenire e cambiare l’attuale organizzazione delle non profit nei social network. Soprattutto negli ultimi tempi, le associazioni non profit sono diventate oggetto di critiche e (ancor più spesso) di veri e propri attacchi motivati dall'accusa non solo di essere dalla parte degli immigrati, ma anche di aver voltato le spalle ai propri connazionali. Potete verificarlo voi stessi aprendo la pagina di una qualsiasi onlus su Facebook. Spesso anche la foto o l'aggiornamento di status più innocente finisce per dar luogo a commenti che sono il palese risultato di un malessere covato da anni e sempre più difficile da contenere. "Non voglio più ricevere vostri messaggi con richieste di soldi...avete rotto le scatole....altro che sud del mondo la povertà ora c è in italia ..." No no....voi inviate messaggi in posta privata agli account...ouuuuu avete rotto le scatole..NOI SIAMO POVERI e vogliamo pensare alle nostre povertà visto che le associazioni ONLUS se ne fregano degli italiani...e poi non vi bastano i soldi che percepite dallo stato cioè da noi???? già perché onlus non significa volontariato ma abbondantemente pagato dallo stato". PENSATE SOLO AGLI ITALIANI ALMENO PER 10 ANNI,POI AIUTIAMO SE POSSIAMO!!! Prima dobbiamo sfamare il POPOLO ITALIANO ridotto alla fame per la chiusura di migliaia di fabbriche.....LO VOLETE CAPIREEEEEE?????????? Sappiamo bene come sin dalla loro nascita i social network siano diventati un importante strumento per analizzare l'umore generale di qualsiasi fascia della popolazione e post come questo offre la possibilità di riflettere sul rapporto donatori e onlus. Chiediamoci, quindi, come è possibile migliorare questa condizione? Quello che forse il non profit potrebbe rimproverarsi è il fatto che, per quanto irrinunciabili, le necessità di raccolte fondi e campagne marketing hanno un po' minato il rapporto umano e la capacità di dialogo con i sostenitori. Quello che è venuto a mancare è la capacità di dialogare, raccontare e fidelizzare i propri donatori ed è paradossale che questo sia avvenuto proprio negli anni in cui i social network sono entrati nella vita di tutti noi collegandoci a vicenda in una sorta di rete le cui maglie sono in continua espansione. "Fare la differenza", "un piccolo contributo pari al costo di un caffè" e tante altre espressioni simili sono ormai diventate formule che si ritrovano in quasi ogni campagna, ma che a poco a poco stanno perdendo il loro significato e, di conseguenza, la loro efficacia comunicativa. Se ogni intervento trova lo spiraglio per una call-to-action agli utenti, siamo davvero autorizzati a sorprenderci quando le reazioni ottenute non sono "collaborative"? I social network, Facebook e Twitter in primis, potrebbero aiutarci a porvi rimedio coltivando il rapporto con i sostenitori e facendo sì che le associazioni umanitarie riscoprano il loro "lato umano". In futuro sarà sempre più importante investire in una comunicazione che non si basi solo sulle leggi di marketing, ma soprattutto, che sviluppi la capacità di instaurare un sano rapporto e un vero dialogo privi di secondi fini diversi dall'intento di “informare” e"raccontare". Prima di aiutare gli altri, dobbiamo pensare a noi stessi. Questo si legge ovunque, ma la verità è che in un mondo interconnesso in cui le nostre azioni hanno ripercussioni sulle vite di persone a centinaia, migliaia di chilometri di distanza, "noi stessi" SIAMO "gli altri".
Razzismo e dintorni: parla Gianantonio Stella, scrive Corona Perer. Un ministro paragonato ad un orango. Scuse goffe, ma nessuna vera presa di distanza ufficiale dal segretario di un partito verso un proprio iscritto che si rende protagonista di un atto di tale ignoranza. "La verità è che siamo razzisti" afferma Gianantonio Stella. Qualche anno fa aveva preso il toro per le corna in "Negri, Froci,Giudei & Co – L'eterna guerra contro l'altro" (ed. Rizzoli) dove il noto giornalista, firma di punta del Corriere, parlava proprio del razzismo italiano, confezionando un ricchissimo e inquietante quadro d’insieme sul rapporto fra “noi” e gli “altri”. O, per dirla con Claudio Magris "...un potente e ilare prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere". Autore di numerosi libri di successo in cui, con la vena ilare e simpatica di chiara matrice veneta (tipica di chi non le manda a dire), Stella aveva percorso l'Europa xenofoba per ricostruire i percorsi di una miseria culturale che spesso sopravvive in modi di dire e stereotipi. Nato ad Asolo ed originario di Asiago, si considera di fatto un extracomunitario: un asiaghese nato casualmente altrove orgoglioso di essere cimbro. Inviato ed editorialista, penna eccellente in politica, cronaca, cultura e costume, è autore pluripremiato. Persino “Columnistas del mundo” premio vinto in passato anche dal filosofo francese Bernard-Henri Lévy. Di razzismo e di xenofobia (quella sofferta dagli emigrati italiani) aveva già scritto.
Una recente indagine condotta in Europa dimostra che ovunque si teme lo straniero. Come si spiega questo rinascere di piccole patrie e xenofobia?
Attenzione: non confondiamo. Un conto sono le piccole patrie e un conto il razzismo. Si può essere patriottici senza essere razzisti. Io ad esempio sono un cimbro di Asiago che tiene molto alla sua identità e cultura. Ma non sono un razzista.
Chi sono allora i razzisti?
Il vero razzismo viene dall'ignoranza, i razzisti veri fanno fatica a rapportarsi con l'altro perché essendo una nullità hanno bisogno di odiare per essere qualcuno, non sanno nulla dell' altro e perciò lo rifiutano.
Dal libro emerge che ci sono vari tipi di razzismo...
Proprio così, e in più parti d'Europa. Alcuni sono più gravi, altri fisiologici. Nell'est europeo dove e' caduto il comunismo, i più preoccupanti.
Come se lo spiega?
Probabilmente, fallita la feroce illusione comunista dell'uguaglianza, i più deboli fragili e ignoranti si sono aggrappati ad una identità nazionale che li porta ad avversare i rom e le minoranze. Il fenomeno è presente in modo particolare in Ungheria, dove agisce una sorta di guardia magiara di cultura e stile nazista-paramilitare, ma la situazione non è meno grave in Bulgaria o Cecoslovacchia.
Sono razzismi comuni a quelli che soffiano in Italia o Francia?
In realtà c'è una sostanziale differenza rispetto a noi: sono tutti fenomeni di movimenti all'opposizione.
Intende dire che qui da noi invece sono stati al governo?
Io non dico che la Lega sia razzista. Anzi lo sottolineo due volte: non dico che la nostra differenza stia nell’avere razzisti al governo, tuttavia affermo con toni altrettanto chiari che certamente dentro la Lega ci sono spinte razziste ed esponenti razzisti.
Siamo più o meno razzisti di paesi come Francia e Germania o Olanda?
In Francia nessun ministro, neanche Le Pen userebbe mai il termine ’bingo bongo’ per parlare di un negro o darebbe del culattone ad un gay...
Quale è allora la differenza tra noi e i principali paesi europei?
Una e determinante: I tedeschi hanno profondamente riflettuto sul loro passato e sui loro errori, è questo è un antidoto tant'è che la loro nazionale di calcio è la più multietnica d'Europa. Anche la Francia ha riflettuto sul suo colonialismo. Gli unici che continuano a ripetere, come stupidi pappagalli, che gli italiani non sono razzisti sono proprio gli italiani dimentichi di tutto l' antisemitismo e antigiudaismo coltivato anche da Santa Romana Chiesa. Sostenere che gli italiani non sono razzisti non solo è un errore, ma un falso e non aiuta a riflettere.
Ma è davvero in atto una deriva razzista in Europa?
C'è l’ossessione feticista dell’identità. Come dico nel mio libro c'è un dagli all’immigrato, dal Tamigi al Don. Partiti etnici, milizie, giustizieri in nome dei Savoia, del duce e del dio Po, ma gli italiani si autoassolvono: mai stati razzisti.
Lei a un certo punto scrive: "L’ombelico del mondo siamo noi. No, noi". Cosa intende dire?
Che siamo tutti "noi". Ognuno è convinto di essere al centro del mondo. Il guaio è quando te ne convinci. Intendo dire: se la Padania è convinta di essere il centro del mondo questo diventa assai pericoloso, ma anche se accade in Slovacchia.
L’insopportabile puzza dell’altro,
come la chiama lei nel libro, è anche pianificabile?
Ma certo! L’odio si costruisce per esempio andando a riscrivere la storia o
rimuovendola. Sta accadendo ai bulgari come ai turchi, ma nel libro cito
Nicomede di Amantea il quale inneggiava "…noi, in Arcadia, siamo gli unici, i
veri abitanti..."
Anche Corano e Islam non sono da meno allora...
Altroché! Dall’induismo all’islam ci sono caste dichiarate e nascoste con l'effetto collaterale della cancellazione dell’Olocausto e la rinascita dell’antisemitismo. Dalla peste nera alla crisi di Wall Street è sempre colpa degli ebrei.
Disabili, mendicanti, clochard: lei parla di un disprezzo antico e nuovissimo. Perché nuovissimo?
Credo che Umberto Bossi abbia seminato odio, nonostante questo con altrettanta fermezza sono solidale con lui al 100% quando i razzisti di sinistra lo apostrofano con parole come "paralitico di merda". Non posso accettare che accada e qui lo difenderei fino alla morte.
Quindi dal razzismo nessuno è indenne.
Esatto. La cosa fondamentale è capire che ogni razzismo è relativo: ognuno può essere vittima e carnefice. I Boeri ad esempio, furono i primi ad essere rinchiusi in un lager, ma poi furono carnefici dei negri.
Ma c'è anche un razzismo nel linguaggio? Dire ad esempio negri piuttosto che neri o viceversa?
Queste sono stupidaggini. Io ad esempio non sono razzista e i neri li chiamo negri. Vorrei ricordare un bellissimo testo di Orio Vergani che nel 1953 scrisse degli zingari alla fiera dei Gonzaga a Mantova in un articolo pieno di rispetto e di correttezza. Eppure non li chiamò mai rom, ma zingari che oggi sembra suona quasi offensivo. Tuttavia, un conto è dire gay e un altro dire culattoni o froci.
Lei ha compilato anche lo stupidario dei fanatici. Quale le sembra il peggio del peggio?
Guarda, sono talmente tante.... e questo perché il razzismo acceca.
Una domanda: con questo libro siamo a cavallo tra antropologia ed etnologia. Quanto tempo le ha richiesto questa indagine?
Tanto. Dico solo che è il più faticoso che ho fatto. (brani dell'intervista raccolta a Brunico anno 2011)
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
In questo campo, io Antonio Giangrande, mi sono imbattuto quando svolgevo l’attività forense. Professione che fatta da me in modo etico, ha portato gli operatori della giustizia ad adottare atti di ritorsione, che mi impediscono di proseguirla. La mia testimonianza sui casi di malagiustizia da me affrontati, o di cui sono venuto a conoscenza, hanno indotto i magistrati a far chiudere i miei siti web e di processarmi per diffamazione a mezzo stampa. Ad oggi, nonostante che a giudicarmi siano gli stessi magistrati criticati, nessuna sentenza di condanna ha sporcato la mi onorabilità. E quantunque fosse stato il contrario, sarebbe comunque salva la mia dignità. Il tutto ben illustrato nel dossier ingiustizia a parte. Perché il potere ti dice: subisci e taci. La Mafia ti distrugge la vita, lo Stato di uccide la speranza. In Avetrana, una mia cliente, alla morte del padre, quale unica erede, riceve centinaia di milioni di lire. Il fratellastro, che da tempo non aveva rapporti con loro, al fine di impossessarsi dell’eredità, promuove il procedimento d’interdizione per dichiarare incapace d’intendere e volere la stessa sorella. Contestualmente, presenta esposto penale, ritenendola vittima di circonvenzione d’incapace a seguito di condotta di un’altra parente. Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, non nuovo ad abusi giudiziari, in violazione degli artt.257 e 322 c.p.p., sequestra tutti i beni, compresi quelli di sostentamento, senza notifica del decreto per poter opporre richiesta di riesame. Inoltre attiva, d’ufficio, altro procedimento d’interdizione. Nei tre procedimenti, 1 penale e 2 civili d’interdizione, per anni si impedisce il diritto di difesa all'interdicenda, perché non gli viene nominato un difensore d’ufficio, né gli viene nominato il curatore-tutore provvisorio per la nomina del difensore di fiducia. Si abbandona l’interdicenda e la si sente dopo anni, anziché dopo giorni, in procedimento d’interdizione, in udienza pubblica, alla presenza di decine di spettatori divertiti. Il sottoscritto, suo difensore, pur con regolare abilitazione al patrocinio legale, operando nell’interesse dell’assistita nei molteplici mandati extragiudiziari, sol perché è Praticante Avvocato con patrocinio legale, viene indagato per esercizio abusivo della professione e per gli effetti anche di circonvenzione d’incapace, nonostante non fossi io il denunciato dal fratellastro, e lo viene a sapere dal fascicolo del P.M., segretato per le indagini in corso, ma alla mercé pubblica del procedimento d’interdizione. Tutti gli atti richiesti al sottoscritto sono stati consegnati senza sapere di essere indagato e senza la presenza del difensore. Non si indaga in suo favore, per accertare la regolare abilitazione con il patrocinio legale, né viene sentito su fatti e circostanze. Al sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Così come fanno altre Procure per altri accusati. Inoltre per 3 rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro, nemmeno per il diniego. Il PM, ricevendo la prima richiesta, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Il PM, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri, la fa sparire. Il giudice del Tribunale di Manduria, nell’udienza del 4 novembre 2003, rigettando la terza richiesta impone la nomina illegale preventiva dell’avvocato, nominandolo ella stessa, in violazione della legge, che stabilisce la scelta dell’avvocato, da parte dell’imputato, solo ad ammissione avvenuta al gratuito patrocinio. Il giudice viene sostituito per altri motivi ed il successore, nonostante le illegalità e gli abusi, rigetta l’istanza di annullamento e rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è stata impedita la difesa, per una condanna scontata. Al sottoscritto indagato non gli si impedisce di reiterare il presunto reato, perché continua a lavorare per la persona offesa dallo stesso reato, abbandonata da tutti, e continua a lavorare per altri. In violazione dell’art.50 c.p.p. non si indaga sui veri responsabili, oggetto di denuncia. Inoltre, in udienza di interdizione, il Giudice, alla richiesta del sottoscritto di attivarsi, affinché l’interdicenda potesse esercitare il suo diritto di difesa, lo sbatté fuori fisicamente a spintoni, sbattendogli dietro la porta, sfiorandoli la spalla. Questo nonostante fosse stato il Giangrande stesso a portare la donna in udienza, cosa che avrebbe dovuto fare, invece, il fratello o l'autorità giudiziaria. Ad istigare il Giudice era il legale del fratellastro, che nella stessa udienza, derideva il sottoscritto, sua controparte, per essere praticante, fino a farlo cacciare dall’aula, affermando, che i Praticanti possono solo esercitare presso i Giudici di Pace. In sede di udienza preliminare, il GUP, anziché effettuare reale udienza preliminare con contraddittorio delle parti, si limita a ratificare tout cour la richiesta di rinvio a giudizio, senza dare modo di interloquire. In tale sede, pur denunciando la nullità degli atti di indagine, le cause di non procedibilità, ovvero le cause di giustificazione, il GUP, non sente ragioni. L’avvocato nominato d’ufficio per il sottoscritto, non si presenta nemmeno. L’avvocato nominato in udienza in sua sostituzione, non se ne frega niente del suo assistito. Egli è silente e inattivo. L’interdicenda, addirittura, in udienza era assente e non rappresentata per la mancanza di nomina del difensore o del curatore-tutore giudiziale provvisorio. Con questo stato di cose si è impediti, inoltre, ad essere interrogati, a conoscere gli atti del P.M. e a costituirsi nei termini, decadendo dal diritto di chiamare testi e produrre prove a discarico. La stessa cosa è nel proseguo presso il Tribunale di Manduria, dove è disattesa l’ennesima istanza di accesso al Gratuito Patrocinio e dove è impedita la nomina dell’avvocato di fiducia. Lo stesso Presidente della Camera Penale, iscritto nell’elenco degli avvocati del gratuito patrocinio, rifiuta il mandato. L’interdicenda abbandonata da parenti ed Istituzioni, impedito l’aiuto del sottoscritto e ritenuta capace da tutti, improvvisamente, viene allontanata dalla sua casa e ricoverata coattivamente presso un ospedale, presumibilmente, psichiatrico. All’uscita essa entra in uno stato di depressione senza soluzione di continuità. Non si poteva non presentare alla procura di Potenza le denunce penali contro i magistrati. Invece la Procura di Taranto dichiara in udienza che non esistono denuncie presentate presso di loro, né presso altre Procure. Dichiarazioni mendaci confermate dalla Procura di Potenza. La Procura di Potenza si affretta ad archiviare la denuncia del 02/09/03. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, denunciato, per ritorsione alle battaglie di legalità, impedisce l’accesso al gratuito patrocinio al Giangrande per due procedimenti civili. Nel primo procedimento civile era controparte lo stesso Consiglio dell’Ordine, dichiarato contumace, e l’INPS; nel secondo procedimento civile era controparte l’INPS. La seconda causa è stata tenuta da un avvocato, che per 10 anni non ha svolto fedele patrocinio, chiedendo ed ottenendo, sistematicamente, il mero rinvio, rasentando la soccombenza e decadendo dal diritto di chiamare i terzi garanti in causa, i quali erano titolari della esattoria comunale e per questo delegati dall’INPS ad incassare le somme richieste per i contributi previdenziali. Esattori che, sembra, non hanno versato al delegante le somme percepite. In seguito alla doverosa e necessaria estromissione dell’avvocato, avendone le qualità, si è attuata la difesa personale da parte dell’istante, ex art.86 c.p.c., così come è stato fatto per l’altro procedimento, fino a che non è scaduto il patrocinio legale, con conseguente indigenza e mancanza di difesa. COMUNQUE IN DATA 14 LUGLIO 2009 SI E’ PRONUNCIATO IN APPELLO IL NON LUOGO A PROCEDERE PER ANTONIO GIANGRANDE E LA CONDANNA DI CIRCONVENZIONE D’INCAPACE ED ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE E’ DECADUTA.
Questo a Taranto, nel Sud dell’Italia. Ed al Nord?
Che fine ha fatto la professoressa Borgna? Questo si chiede Alessandro Barbaglia della “Tribuna Novarese”. Tutto comincia così con una domanda che la testata torinese “Cronaca Qui” nel gennaio 2009 fa risuonare dalle proprie colonne. Che fine ha fatto? Rapita? Confinata all’ospizio? Fatta interdire da avidi parenti con l’intenzione di spartirsene l’eredità? O forse semplicemente ricoverata in una struttura adatta ad accogliere le esigenze di un’anziana 83enne resa sorda dagli anni o dai ricordi di una vita difficile, molto difficile? Le ipotesi in quel gennaio freddo sulla stampa si fanno roventi. Anche fantasiose. Salta fuori pure una lettera (autentica) firmata dai vicini di casa della professoressa che racconta quanto sia stato anomalo quel ricovero forzato eseguito per far sparire la vecchia professoressa di latino e greco definita “donna lucida e sempre presente e sé stessa, eppure è stata caricata a forza su un’ambulanza, legata e portata via: era evidente che c’era qualcosa di poco chiaro”. Ma chi è la signora Borgna? E perché ricordare oggi questa vicenda torinese e passata? Perché quella domanda, quella che poneva ai lettori “Cronaca Qui”, ha aperto un vortice di strane vicende fatte anche di minacce ed intimidazioni che ha allargato le proprie spire fino a coinvolgere un’assistente sociale novarese che si è interessata del caso, ha proposto una chiave di lettura della vicenda drammaticamente differente da quella che i giudizi ed i tutori legali stavano seguendo ed è stata radiata dall’ordine professionale con gravi accuse: aver rivelato a terzi informazioni sul conto della propria cliente; aver contattato la persona interdetta senza autorizzazione; aver effettuato attività professionale senza aver ricevuto compenso ed incarico. Radiata perché ha fatto il suo lavoro. Inoltre questa storia vede imputata un’altra donna finita in questo ciclone: la badante della professoressa Borgna accusata di circonvenzione d’incapace. Ma cosa è successo? Che storia e cosa si nasconde dietro il mistero della scomparsa professoressa Borgna e della radiazione dell’assistente sociale novarese? Proviamo a ricapitolare la vicenda, proprio con lei, l’assistente sociale Luigia Padalino, specializzata tra l’altro, in psichiatria forense. «Inizia quasi tutto per caso – spiega – Una mattina di oltre un anno fa quando mi sono imbattuta nella lettura di alcuni articoli del giornale “Cronaca Qui”. Si raccontava della sparizione, o del ricovero forzato, di un’anziana professoressa, la signora Borgna e delle accuse rivolte alla badante della donna: circonvenzione d’incapace. In quegli articoli c’era qualcosa che non mi convinceva, le modalità con cui la donna era stata prelevata dalla sua abitazione sembrava una deportazione: polizia, finanzieri ed infermieri che l’hanno addirittura legata. Tutto ciò per una pacifica donna di 82 anni.» in realtà, secondo gli atti, la donna era stata interdetta un anno prima e affidata ad un tutore. «Già, anche questo era un elemento anomalo: il nuovo tutore legale era l’avvocato che accusava la badante di circonvenzione d’incapace: mentre sulle capacità mentali della donna ci sono lettere lucidissime inviate poco prima del sequestro ad un amico di vecchia data. Una persona interdetta non potrebbe scrivere lettere tanto precise». Insomma la questione la incuriosisce e cosa fa? «Mi occupo di malagiustizia e malasanità, anche in forma privata e gratuita: quando ho letto la storia della professoressa ho inviato una mail al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli chiedendogli di non sottovalutare il caso, presentava anomalie, mi ricordava altre vicende simili e drammatiche in cui donne anziane, e molto ricche come la Borgna, erano state fatte internare dai parenti per potersi spartire l’eredità». E lei a Caselli fa presente questa ipotesi? «No, assolutamente no, chiedo solo di prestare attenzione al caso perché poteva presentare anomalie». La mail parte ad inizio gennaio, due giorni dopo l’assistente novarese viene convocata in procura. A Torino. «Mi sono stupita molto, nemmeno credevo l’avrebbero letta quella mail, e invece nel giro di pochi giorni mi convocano, mi interrogano e mi chiedono cosa sapessi di quella storia. Il bello è che io non sapevo nulla, richiamavo l’attenzione della Procura al caso. È a quel punto che ho la conferma che tutta quella situazione è anomala: perché la procura di Torino ha voluto sentirmi? Cosa supponeva potessi sapere? Perché è scattata sull’attenti appena ho nominato il caso della ricca professoressa fatta interdire e poi ricoverare con la forza? Qui inizi il gorgo del mistero. L’assistente sociale incontra la badante della professoressa Borgna, accusata di circonvenzione di incapace ai danni della Borgna, e la versione dei fatti che la donna fornirà sarà sconcertante. «La badante era accusata in sede penale sulla base di un’unica prova: nel suo appartamento era stato ritrovato un testamento a firma della Borgna a lei favorevole. L’avvocato dell’accusa, nonché tutore della Borgna, non ha dubbi: la badante è colpevole. Senza averla mai ascoltata, altrimenti avrebbe appreso dell’altro, di un complotto ordito da persone vicine alla Borgna nei confronti della professoressa: in una lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri, la donna racconta di persone che le si aggiravano in casa e le sottraevano mobili, oggetti preziosi e documenti … E’ per quello che la Borgna aveva chiesto alla badante di conservare il testamento: per evitare che sparisse! La Borgna collezionava mobili antichi, oggi in casa sua non ce ne è più nemmeno uno. Dove sono finiti?» questa è una sua tesi? «Questo è quanto si evince dal racconto della badante e dalla lettura della lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri di Torino e mai considerata quel che succede poi è un “giallo”. Con regolare assunzione d’incarico svolgo tre indagini sociali per conto della badante sollevando interrogativi inquietanti corredandole di documenti e testi che nessuno aveva considerato arrivando però alla sbrigativa conclusione che la badante fosse responsabile di qualcosa. Tre indagini sociali che finiscono negli atti processuali contro la badante, privati degli allegati dei documenti dei testi». E il processo ha preso in considerazione le sue indagini? «Il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per oggi ) ma l’accusa invia le perizie, prive degli allegati fondamentali, all’ordine degli assistenti sociali che mi ha sospeso per un anno sostenendo che, per stenderle, avevo agito in maniera deontologicamente scorretta. Un bavaglio che ha messo a tacere me e tutti quelli che, anche con intimidazioni, come dimostrato dalle mie indagini sociali, tentavano di presentare la vicenda sotto altre vesti, cercavano di sollevare dubbi sulle monolitiche verità che erano state assunte: la colpevolezza della badante, il corretto internamento della Borgna, l’affidamento del suo patrimonio ad altri. Ho cercato di fare il mio lavoro, di cercare la verità, forse ho toccato tasti o interessi che non andavano nemmeno sfiorati…». Mentre il processo sulla colpevolezza della badante è ancora tutto da dibattere, l’assistente sociale, Luigia Padalino, scusate il giro di parole, paladina della giustizia: è radiata dall’Ordine. “NESSUN COMMENTO, MA LA SANZIONE POGGIA SU MOTIVAZIONI SERIE”. La storia di Luigia Padalino è complessa e scivola in temi per cui le colonne del giornale rischiano di essere strette. Dall’ordine degli assistenti sociali di Torino, organo da cui è partita al sospensione annuale nei confronti dell’operatrice novarese, sulla questione c’è un riserbo totale. «E’ impensabile- ci spiega Povero Graziella, segretaria dell’ordine- che si possano fare commenti ad una sospensione che è un atto ufficiale e notificato su cui incide il segreto professionale e la tutela della privacy». Quindi per capire cosa ha spinto l’ordine ad assumere il provvedimento disciplinare contro Padalino, che bisogna fare? «Chiederlo a lei e attenersi agli atti. È chiaro però che se l’ordine ha deciso per la sospensione, non ha agito in maniera sconsiderata: è in possesso di atti e ragioni che lo giustificano e lo motivano chiaramente. Tutti atti e ragioni di cui non si può sapere nulla. All’interessata tutto è stato spiegato e tutte le carte che la riguardano le sono state consegnate. Se la signora dovesse avere qualcosa da ridire è libera di impugnare il provvedimento davanti al consiglio nazionale, ma noi non siamo tenuti a dare ulteriori spiegazioni».
Già! Peccato che il potere non può tacitare una verità inconfessabile e censurata dai media.
Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono. La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano. E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina. Ancora anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro. Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo A.do C.va, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini». Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia». Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente». Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre. E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani). Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli. Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte. Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano. Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti. Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania». Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni. Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani. Questa inchiesta sulla Crosignani e sulla Mariani è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.
ABUSI SUI MINORI: PARLIAMO DEI TRIBUNALI DEI MINORI.
Lo scandalo dei giudici minorili onorari. "Finalmente liberi" calcola che 211 magistrati su 1.083 hanno interessi nelle case-famiglia dove finiscono i bimbi sottratti alle famiglie, scrive il 15 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". L’amministrazione della giustizia italiana convive (serenamente) con uno scandalo che è insieme sommerso e vergognoso: lo scandalo dei giudici minorili onorari. È sommerso, lo scandalo: perché, malgrado ogni giorno venga violata una serie di norme, è tollerato dagli stessi Tribunali dove avviene; e lo stesso Consiglio superiore della magistratura, che pure ha consapevolmente emanato una serie di circolari per evitarlo, fa finta di non vedere e, soprattutto, non fa nulla per reprimerlo. Ed è anche vergognoso, lo scandalo: perché coinvolge la vita di bambini indifesi e si verifica in un settore con un giro d’affari miliardario. Lo scandalo nasce infatti nei 29 Tribunali per i minorenni e nelle Corti d’appello minorili. Dove operano 1.082 magistrati onorari, che affiancano i magistrati di carriera. La legge (una norma del 1934 riformata nel ‘56) prevede possano diventare giudici minorili onorari solo "cittadini benemeriti" appartenenti ad alcune categorie professionali, per esempio esperti di psichiatria, psicologia, pedagogia... A nominarli è il ministero della Giustizia, su indicazione dei Tribunali. Il loro lavoro viene retribuito dallo Stato in base all’attività che svolgono: prevalentemente camere di consiglio e udienze camerali. Al contrario di quando dichiara l’aggettivo “onorario", però, ognuno di questi mille giudici ha esattamente lo stesso peso di quello dei magistrati di carriera. Ed è un peso elevato, che incide profondamente sulle decisioni dei Tribunali per i minorenni, perché i collegi giudicanti sono composti da due giudici togati e due onorari, mentre i collegi delle Corti d’appello sono formati da tre togati e due onorari. Sui giudici onorari ha lungamente indagato "Finalmente liberi onlus", un’organizzazione che si batte per la tutela dei minori, troppo spesso sottratti alle famiglie d’origine con eccessiva facilità. Facendo una scoperta preoccupante: "Abbiamo individuato 156giudici onorari nei Tribunali, più 55 nelle Corti d’appello, che operano in totale e palese conflitto d’interessi" dice Cristina Franceschini, avvocato e presidente di Finalmente liberi. Il conflitto d’interessi è grave e censurabile. Perché questi 211 giudici, che ogni giorno decidono sull’affidamento di bambini a una casa-famiglia o a un centro per la protezione dei minori, hanno contatti professionali con quelle stesse strutture: prestano loro una qualche consulenza, in alcuni casi hanno contribuito a fondarle, oppure ne sono addirittura soci, fanno parte dei consigli d’amministrazione. Sono insomma giudici "di casa", nel senso che inevitabilmente contribuiscono con le loro sentenze e ordinanze a fornire la triste "materia prima" infantile che serve a far funzionare i centri d’affido che hanno creato, o per i quali lavorano. Ed è proprio qui che lo scandalo diventa anche vergogna. Perché, se sono corretti i calcoli di "Finalmente liberi", il 20 per cento dei magistrati minorili italiani ha un qualche interesse, anche economico, a che i bambini finiscano in un centro d’affido: un centro che per quei bambini, dagli enti locali, incassa una retta giornaliera a volte elevata. L’organizzazione ha individuato casi dove la tariffa supera i 400 euro al giorno. Si tratta di un colossale business, perché in Italia i minori allontanati delle famiglie sono tanti e purtroppo gestiti senza particolare trasparenza. Nel 2010 il ministero del Lavoro e delle politiche sociali condusse il primo e unico studio approfondito sulla questione, rivelando che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi sottratti alle famiglie e affidati erano 39.698. Ma la statistica è probabilmente approssimata per difetto: "Finalmente liberi" stima siano almeno il doppio e che alimentino un mercato da 1-2 miliardi di euro l’anno. Ora la onlus denuncia che questo colossale giro d’affari è governato, per una quota rilevante, da giudici non propriamente disinteressati. È evidente che non tutte le strutture dell’affido minorile hanno caratteristiche speculative. Nella grande maggioranza svolgono anzi un ruolo positivo, di reale protezione dei minori finiti in situazioni difficili: criminalizzare la categoria sarebbe quindi sbagliato e profondamente ingiusto. Resta il fatto che tra i giudici onorari i casi di conflitto d’interessi sono davvero troppi. E gettano ombre sull’intero settore. Del resto, l’esistenza di un rischio incompatibilità è ben dimostrata dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, che per scongiurarlo ha emanato più di una circolare. Il Csm ha stabilito non possa diventare giudice onorario minorile il titolare di ogni tipo di carica elettiva (e se si è giudici non ci si può candidare, nemmeno alle elezioni amministrative). Ma il divieto riguarda soprattutto chi amministra o lavora a qualunque titolo nei centri d’affido o in strutture dove l’autorità giudiziaria inserisce i minori, e per i funzionari dei servizi sociali comunali, a meno che non "ne sia assicurata la posizione di terzietà". Le regole del Csm, insomma, sono chiare. Però restano inapplicate. Gli stessi Tribunali dei minori, che dovrebbero controllare il curriculum degli aspiranti giudici onorari, troppo spesso non lo fanno. E il ministero della Giustizia sembra indifferente al problema. Ora Finalmente liberi denuncia casi concreti, fa nomi e cognomi. Nel Tribunale minorile di Roma, per esempio, l’organizzazione ha individuato 15 giudici onorari in qualche modo collegati a centri di affido della provincia. Panorama ha posto il problema a Melita Cavallo, presidente di quel Tribunale: "A me non risulta" ha risposto il magistrato, dicendosi però disponibile a verificare i casi segnalati. A Milano i giudici onorari "incompatibili" sarebbero 16. Ai quali, sostiene Finalmente liberi, si aggiungerebbe perfino un magistrato di carriera, il quale siede anche nel comitato scientifico di una cooperativa milanese che fa assistenza ai minori. Adesso l’organizzazione farà in modo di segnalare ufficialmente i 211 casi che ha individuato a tutti i Tribunali interessati. Aspetterà le risposte, poi trasmetterà il suo dossier al Csm. A quel punto si vedrà se il Consiglio vorrà intervenire. E se il ministero della Giustizia porrà fine allo scandalo.
Lo scandalo dei giudici minorili "onorari". Nei Tribunali dei minori uno su cinque è collegato a un centro d'affido. È un conflitto d'interessi gravissimo. E nessuno fa nulla, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". È lo scandalo giudiziario più sommerso d’Italia, ma è anche quello che (probabilmente) sta creando i disastri peggiori. Nei nostri 29 Tribunali per i minorenni e nelle Corti d’appello minorili operano un migliaio di magistrati "onorari". Tecnicamente vengono definiti "privati": la legge (una norma del 1934 e una riforma del 1956) prevede che siano "cittadini benemeriti", esperti di psichiatria, psicologia, pedagogia, sociologia, biologia. Vengono retribuiti in base all’attività che svolgono: camere di consiglio, udienze camerali…Il ruolo dei giudici onorari, al contrario di quanto avviene nei Tribunali civili, ha esattamente lo stesso peso di quello dei magistrati di carriera. Ed è un peso elevato, perché in ogni Tribunale minorile le corti sono composte da due giudici togati e da due onorari; in Corte d’appello da tre togati e due onorari. Ed è proprio qui che si accende lo scandalo. Perché Finalmente liberi, un'organizzazione che da due anni si batte per la tutela dei minori, spesso sottratti alle famiglie d’origine con eccessiva facilità, ha lungamente indagato sui giudici onorari e ha scoperto che 151 nei Tribunali, più 54 nelle Corti d’appello, operano in totale e palese conflitto d’interessi. È così perché questi 205 giudici, che ogni giorno decidono sull’affidamento di bambini a una casa-famiglia, o a un centro per la protezione dei minori, dipendono da quelle stesse strutture. In molti casi hanno contribuito a fondarle, ne sono azionisti, fanno parte dei loro consigli d’amministrazione. Contribuiscono, insomma, a fornire la tristissima "materia prima" che serve a far funzionare i centri che hanno creato, o per i quali lavorano. È evidente l’incongruità e la gravità della situazione: il 20 per cento circa dei magistrati minorili italiani ha un qualche interesse diretto (ed economico) a che i bambini finiscano in un centro d’affido. Un centro che per quei bambini, dagli enti locali, incassa una retta giornaliera a volte elevata. Finalmente Liberi ha individuato più casi dove la tariffa supera i 400 euro al dì. Il business è davvero notevole. Perché in Italia i minori allontanati delle famiglie sono davvero molti. E sono purtroppo gestiti senza alcuna trasparenza. Nel 2010 il ministero del Lavoro e delle politiche sociali condusse il primo e forse unico studio approfondito sulla questione e scoprì che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle loro famiglie erano 39.698. Ma quella statistica è sicuramente approssimata per difetto: Finalmente liberi stima che siano più di 50 mila. Si può pertanto ipotizzare che alimentino un «mercato» potenziale da 1 o 2 miliardi di euro l’anno. È evidente che non tutte le strutture dell’affido minorile hanno caratteristiche speculative. Al contrario, la maggioranza di loro svolge certamente un ruolo positivo, di reale protezione dei minori in situazioni difficili: criminalizzare l’intera categoria sarebbe sbagliato e profondamente ingiusto. Resta il fatto che tra i giudici onorari i casi di conflitto d’interessi sono davvero troppi, eppure nessuno sembra accorgersene. Il Consiglio superiore della magistratura ha più volte emanato circolari nelle quali indica i criteri di incompatibilità dei giudici. Ma quelle circolari restano inascoltate, come grida manzoniane. Gli stessi Tribunali dei minori dovrebbero sorvegliare, ma in realtà non lo fanno. Ora Finalmente liberi sta per denunciare i casi che ha individuato e certificato. Si vedrà se il Csm avrà il coraggio d’intervenire. Se il Garante dell’infanzia farà qualcosa. E se il ministero della Giustizia metterà fine a questo scandalo.
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Il più osceno business italiano: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna? Sono decine, centinaia?
«Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono.»
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso.»
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali.»
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo.»
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore.»
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.»
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.»
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati».»
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili.»
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla.»
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.»
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato.»
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare.»
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.»
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna.»
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3.»
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica.»
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà.
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.»
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più.»
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti.»
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani.»
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce.»
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti.»
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura.»
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete.»
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
Minori. Lo scandalo dei giudici onorari azionisti delle casa-famiglia, scrive “Articolo 3”. E’ uno degli scandali più sottaciuti d’Italia. Quello dei giudici onorari che operano nei Tribunali per i minorenni, centinaia di magistrati, che vengono definiti “privati”, esperti in pedagogia, psichiatria, sociologia, ossia: non è necessaria nessuna specifica nozione giuridica. Retribuiti a gettone, in base al numero di camere di consiglio e di udienze. Il Tribunale per i minorenni ha corti composte da due giudici togati e da due onorari, esattamente con lo stesso peso e potere decisionale. Un’organizzazione che da anni si batte perla tutela e gli interessi dei minori, Finalmente Liberi, indagando proprio sui giudici onorari, ha scoperto che205 di questi, che operano nei Tribunali e nelle Corti d’Appello per i minorenni, sono nel più totale conflitto di interessi. Decidendo ogni giorno sull’affidamento di bambini a casa- famiglia o strutture similari, dipendendo dalle stesse strutture, essendone azionisti o facendo parte dei consigli di amministrazione. Un interesse economico nel far sì che i bambini finiscano in un centro piuttosto che in un altro e parliamo di rette giornaliere elevate, oltre 400 euro al giorno. Un giro d’affari importante, stante il numero dei minori allontanati dalla loro famiglie, al 31 dicembre 2010 erano 39.698, oggi si stima che siano oltre 50 mila: i conti sono presto fatti, un mercato potenziale di due miliardi di euro l’anno. Va detto che la maggior parte delle strutture di affido svolge un ruolo positivo, non si intende criminalizzare un’intera categoria, ma il conflitto di interessi è evidente, al Csm intervenire e al ministero della Giustizia porre fine a questo scandalo posto in essere sulla pelle dei minori.
Lo scandalo dei minori «affidati». Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila mentre da noi è 5 volte tanto? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. È uno scandalo che meriterebbe l’intervento urgente di qualche magistrato penale. In Italia, secondo gli ultimi dati ufficiali, sono circa 39 mila i bambini tolti alle loro famiglie dai Tribunali dei minori (per presunte violenze, per indigenza dei genitori, e per altre cause): 30 mila di loro sono ospitati in case d’affido e comunità protette, e il fenomeno da anni è in forte crescita. Tutto normale? Per nulla. Le anomalie sono grandi e sospette. Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila e a 7.700. E poiché in Italia comuni e aziende sanitarie locali pagano per ciascun minorenne affidato una retta minima giornaliera di 200 euro (ma spesso si arriva a superare i 400). Per questo c’è chi solleva il terribile sospetto che dietro al fenomeno affidi si nasconda un colossale business della sofferenza minorile, in troppi casi basato su perizie «addomesticate», se non su veri e propri illeciti: a denunciarlo è la Federcontribuenti, che stima in 2 miliardi di euro la spesa pubblica annua destinata a sostenere gli affidamenti di minorenni. «È un’anomalia troppo grave perché possa essere ignorata da politici e magistrati penali» protesta Marco Paccagnella, che della Federcontribuenti è presidente. Per contrastare gli abusi, l’associazione ha appena dato vita a una commissione d’inchiesta intitolata «Finalmente liberi» che denuncerà i comportamenti non trasparenti. «Una delle grandi carenze del sistema italiano è proprio l’opacità» dice Cristina Franceschini, l’avvocato veronese a capo della commissione. «Da noi non è previsto nemmeno un registro degli affidamenti, attivo invece in tutti gli altri paesi, né si sa quante siano le comunità protette». La sede di Finalmente liberi è attualmente a Cerea (Verona). A coordinare il lavoro d’inchiesta, insieme con l’avvocato Franceschini, è Andrea Zorzella. Con loro fanno parte della commissione Paolo Cioni, psichiatra; Elvira Reale, piscologa; Maria Serenella Pignotti, pediatra e medico legale; Francesco Morcavallo, fino a quattro mesi fa giudice minorile a Bologna. Gli ultimi dati governativi sui minorenni sottratti alle famiglie risalgono al 2010: quell’anno ne erano stati calcolati 39.698, collocati dai tribunali dei minor in centri di affido temporaneo o in altre famiglie, il 24 per cento in più rispetto a 10 anni prima. «Abbiamo già scoperto quasi 100 casi» rivela Zorzella «nei quali i giudici minorili onorari, in gran parte psicologi, operano nelle case d’affido o compaiono addirittura tra i loro fondatori». Il conflitto d’interessi è evidente: è ammissibile che a decidere se un bambino debba essere sottratto alla famiglia sia chi ha un ruolo professionale (e retribuito) nella struttura destinata ad accoglierlo? «Stiamo facendo le ultime verifiche» dice Paccagnella. «Le prime denunce sono già pronte. E abbiamo solo cominciato».
E se l’affido fosse tutto un business? Federcontribuenti lancia un’accusa pesantissima, scrive “AIBI”. Scatena violente polemiche l’articolo pubblicato da Panorama, a firma Maurizio Tortorella, dal titolo “Troppi i bambini dati in affido: è un business?” (sul numero in edicola dal 17 ottobre). Le accuse sono pesanti. L’inchiesta parte da un confronto fra i numeri dei bambini tolti alle famiglie in Italia e all’estero. 39mila minori italiani contro 8mila in Germania e 7700 in Francia (“dove – specifica il giornalista – il numero degli abitanti è più elevato”). Di qui il grave dubbio sollevato. Le cause ufficiali per togliere un minore ai genitori sono abusi sessuali, separazioni violente, indigenza. Ma se la “vera” ragione fosse un’altra? E cioè che comuni e aziende sanitarie locali pagano per ciascun minorenne affidato a una comunità educativa una retta minima giornaliera di 200 euro (ma spesso si arriva a superare i 400). E se fosse un colossale business della sofferenza minorile, basato su perizie addomesticate? “La Federcontribuenti – continua Tortorella – stima in 2 miliardi di euro la spesa pubblica annua destinata a sostenere gli affidamenti di minorenni”. Il presidente di Federcontribuenti, Marco Paccagnella, sottolinea che si tratta di un’anomalia troppo grave per non insospettire e che è stata avviata una commissione d’inchiesta che denuncerà i comportamenti non trasparenti. Fin qui l’articolo di Panorama. A poche ore dall’uscita il dibattito fra le associazioni che si occupano di affido si è ovviamente scatenato. Le parole più ricorrenti per definire l’articolo sono state “inesatto, incompetente, ingiurioso, ideologico, falso”. E’ già stato sollecitato un intervento del Garante per l’infanzia e l’adolescenza e c’è preoccupazione per la “mala informazione”.
Fuori dal coro, Marco Griffini, presidente di Ai.Bi., invita a considerare la denuncia, pur nelle sue imprecisioni e confusioni, un’occasione per affrontare il cuore del problema affido: “Questo articolo ha scatenato un putiferio. Certo, è un attacco diretto, ma non fermiamoci allo scandalo dei benpensanti (e ben operanti!). Vediamone anche l’utilità. Serve ad innescare un dibattito importante sulla facilità con cui si mettono i minori in Comunità Educativa. Occorre – noi di Amici dei Bambini lo diciamo da anni – una riforma radicale dell’affido e occorre dire con chiarezza che le famiglie affidatarie e le case famiglia sono una forma di accoglienza totalmente diversa dalle Comunità educative”. Sono dunque indispensabili alcune precisazioni e chiarimenti. In Italia sono quasi 30mila i minori fuori famiglia, e fra questi, poco meno di 15mila vivono in comunità educative (tra loro 1626 sono bambini al di sotto dei sei anni). Quindi oltre la metà dei minori finisce nelle comunità educative, strutture che non differiscono molto dagli istituti chiusi per legge a partire dal 2006. L’unica variante è il numero: le comunità educative possono ospitare non più di 12 bambini per volta, ma questi vengono comunque affidati alle cure di figure professionali, gli educatori. Molto diverso è invece garantire al minore l’inserimento temporaneo in una famiglia affidataria o in una Casa Famiglia, gestita da una coppia sposata, che può accogliere fino al massimo di sei bambini e che offre un affetto, un accudimento e due figure di riferimento genitoriali. I bambini, infatti, hanno bisogno di accoglienza, non di assistenza. Di qui l’obiettivo promosso da Ai.Bi. di fissare la chiusura entro il 31 dicembre del 2017 di tutte le comunità educative. Questo consentirebbe anche un significativo risparmio per lo Stato, visto che il costo di un minore in affido è circa 6 volte inferiore rispetto alla soluzione della Comunità. Stando ai dati del ministero delle Politiche sociali (che differiscono da quelli dati dalla Federcontribuenti e riportati da Panorama), i minori ospitati nelle comunità costano circa sei volte di più di quelli in affido familiare: 79 euro al giorno contro 13 euro. Chiudere le comunità, con una politica di forte incentivazione dell’affido, rappresenterebbe dunque un risparmio di soldi pubblici. Oltre che un radicale miglioramento delle condizioni di accoglienza dei bambini. E’ questo uno dei punti cardine del Manifesto per una nuova Accoglienza Familiare Temporanea che punta ad arrivare ad una riforma della legge 149/2001 sull’affido. Se oggi l’affido familiare è in crisi o forse non è mai decollato, è sicuramente colpa di una cultura negativa, della gestione pubblica che ne viene fatta e dell’eccessiva solitudine delle famiglie, abbandonate a se stesse.
L'esigenza dell'affido: se non c'è si crea. E poi capitano queste cose...
Dal Corriere della Sera, maggio 2008: Sottratti ai genitori per un disegno. La decisione del Tribunale che però riconosce «rilevanti perplessità». Raffigurati rapporti tra la bimba e il fratello. Lei: lo scherzo di un'amica. Il padre: famiglia distrutta. La maestra porge il foglio alla donna. «Guardi cosa ha fatto sua figlia». Il disegno ritrae una bimba accovacciata su un ragazzino. Sopra, la scritta: «Giorgia tutte le domeniche fa sesso con suo fratello, per 10 euro. A lei piace». La mamma osserva, poi dice tranquilla: «Non è la grafia di Giorgia». La piccola, 9 anni, conferma: «Macché, quello l'ha fatto la mia compagna per farmi dispetto, perché ho i dentoni e sono povera». Pochi giorni dopo, i servizi sociali di Basiglio, ricchissimo Comune a sud di Milano, prelevano i fratellini dalla casa dei genitori e li sistemano in due comunità protette. È il 14 marzo. Giovanni, il più grande, in quel momento sta festeggiando il suo tredicesimo compleanno. È da 40 giorni che Giorgia e Giovanni (nomi di fantasia) non tornano a casa. Una famiglia spezzata. «Siamo distrutti, sconvolti», dice il padre. «Ce li hanno portati via senza dire niente, senza una spiegazione». Il giudice del Tribunale per i minorenni ha deciso così. Anche se, scrive, «esistono rilevanti elementi di perplessità». Perché fin da subito è stato chiaro che in questa storia, ambientata nel Comune con il più alto reddito pro-capite d'Italia, sono in gioco tanti fattori. «A partire da una buona dose di pregiudizio e di classismo». A spiegarlo è Antonello Martinez, l'avvocato che da oltre un mese sta combattendo per restituire i fratellini ai genitori: «I figli di due persone umili non sono visti di buon occhio. Anche la scuola si è schierata contro di loro. È bastato un sospetto». Un sospetto tante volte smentito dai protagonisti della vicenda. Il ragazzino, piangendo: «Io non ho fatto niente a mia sorella, non me lo permetterei mai». I genitori: «Il sabato e la domenica non li lasciamo soli un attimo». La piccola: «Io quel disegno non l'ho fatto». Anche la scrittura di Giorgia, confrontata con quella del foglio incriminato, confermerebbe la sua estraneità ai fatti. È lo stesso giudice a spiegarlo: «Non si può escludere che i disegni siano stati fatti solo in parte dalla bambina o addirittura che non ne abbia fatti». Tanti tasselli che vanno in un'unica direzione: Giorgia sarebbe solo vittima di un crudele atto di bullismo. «Eppure li tengono ancora lì», scuote la testa l'avvocato Martinez, che a Basiglio ci abita e non accetta la decisione del Comune. «L'articolo 403 del codice civile fa riferimento a minori allevati da persone che "per negligenza, immoralità, ignoranza" siano "incapaci di provvedere alla loro educazione". Non ci sono gli estremi per un intervento del genere». Colloqui individuali, perizie, lacrime. E una famiglia divisa. Da oltre un mese. Lo scorso venerdì il Tribunale per i minorenni di Milano ha confermato l'allontanamento cautelare dei bambini. La relazione del giudice: «Il maschio non ha mai dato problemi, ma ha importanti carenze in ambito scolastico, a conferma di una scarsa capacità dei genitori di seguirlo». Ed è a questo punto che Martinez sbotta: «E allora tutti i ragazzini che vanno male a scuola sono da chiudere in una casa protetta?». Niente da fare. Non torneranno. Non subito. Il decreto dice che è per il loro bene: «Se si tratta di falsa denuncia, il reinserirli senza spiegazioni con un dubbio così grave non risolto, potrebbe avere effetti traumatici». L'attacco dell'avvocato: «E invece tenerli lontani dai loro genitori li fa star bene?. È un'ingiustizia, un'assurda beffa». Entro pochi giorni Martinez presenterà un reclamo contro il provvedimento del Tribunale. «Mi sembra di combattere contro i mulini a vento», dice. A Basiglio, l'altro giorno, alcune mamme commentavano il fatto così: «Finalmente abbiamo bonificato la scuola dalle piattole». Il giudice «Non si può escludere che i disegni siano stati fatti solo in parte dalla bambina o che non ne abbia fatti» Annachiara Sacchi.
Don Mazzi: «Giudicano solo con le scartoffie Nessuno risarcirà quei piccoli». «I tempi della giustizia non c'entrano nulla con quelli dei bambini. Mettiamo che i fratellini di Basiglio tornino a casa domani: nessuno potrà risarcirli del male subìto». Don Antonio Mazzi riflette sul caso dei piccoli tolti alla famiglia e portati in comunità per colpa di un disegno osé trovato in classe. E punta il dito verso psicologi e assistenti sociali. Il loro lavoro è delicatissimo e di enorme responsabilità. «Nessuno lo nega. Ma i fatti dimostrano come questa gente sia troppo spesso lontana dal mondo. Giudica basandosi sulle scartoffie. Senza sporcarsi le mani con la realtà». E' la giustizia minorile a metterli in queste condizioni. «Questo è vero. La giustizia minorile impone valutazioni su criteri vecchi. E' poi è lentissima. Si parla di mesi di attesa come nulla fosse, quando un mese speso male nella vita di un bambino può comportare danni irreparabili. La verità è che psicologi e assistenti sociali andrebbero affiancati da gente con un maggior contatto con la realtà». Che riflessioni le suscita il caso di Basiglio? «Due valutazioni. La prima: non capisco perché togliere i fratellini alla famiglia sulle basi di un disegno. Avrebbe avuto più senso inviare un assistente sociale in famiglia per un certo periodo. In modo da capire la situazione. Ma la cosa non mi stupisce». Perché? «I casi come questo sono più frequenti di quanto si possa immaginare. Cercare di fare qualcosa è difficilissimo: il tribunale dei minori è un fortino blindato con meccanismi che non si arrestano nemmeno davanti all' evidenza dei fatti». E la seconda valutazione? «E' la seguente: i figli andrebbero separati dai genitori solo di fronte a fatti e motivazioni di gravità estrema. E' vero, molti bambini devono accontentarsi di genitori per molti versi scarsamente all' altezza. Ma il ruolo di padri e madri resta difficile da sostituire». Il suo giudizio è durissimo. «Non credo di esagerare. La giustizia in generale nel nostro Paese è al collasso. Per quello che riguarda i minori, la situazione, se possibile, è ancora peggiore. Bisogna intervenire al più presto per cambiare le regole. O i casi come quello di Basiglio continueranno a moltiplicarsi». Querzè Rita.
Sit-in di solidarietà per la famiglia di Basiglio. Tribunale, la perizia scagiona i fratellini: «Il disegno osé non l'ha fatto la ragazzina». I bambini sono in comunità da 54 giorni. Gli striscioni, a decine: «Senza di te la II A è vuota». I compagni della squadra di calcio: «Cosa dobbiamo fare per rivedervi?». I cori: «Resistete!». E gli applausi, scroscianti. Basiglio si raduna in piazza. Con un sit-in che mai nessuno aveva visto da queste parti. Mamme, papà e bambini a chiedere che i due fratellini — quelli del disegno osé — tornino a casa. Giorgia e Giovanni sono in comunità da 54 giorni. Eppure tanti elementi inducono a pensare che i due bimbi, 9 e 13 anni, non c'entrino nulla con questa storia. L'ultimo è arrivato ieri: anche per il consulente del Tribunale dei Minori la vignetta da cui è nato il «caso Basiglio» non è stato fatta dalla piccola Giorgia. Un tassello in più che proverrebbe l'«innocenza» dei due fratelli. Lo riferisce Antonello Martinez, legale della famiglia, riportando le parole che il grafologo nominato dal giudice ha riferito al consulente della famiglia dopo l'incontro di ieri, con le due esperte a studiare la «mano» della bimba. «Per quel che mi riguarda — riferisce l'esperta di parte — Giorgia non è autrice né dei disegni (sono 7 quelli esaminati) né della scritta hard. Non ho trovato nessun elemento che dimostri il contrario e non credo che neanche la collega lo farà». Nuove tappe per la storia che sta tenendo Basiglio con il fiato sospeso. Ieri mattina il Tribunale per i minorenni ha conferito l'incarico allo psicologo. Anche la famiglia ne ha nominato uno. «Mi pare che il giudice stia dando una accelerazione - continua l'avvocato - e confido che la vicenda si risolva al più presto. Comunque stiamo predisponendo una denuncia contro ignoti affinché la magistratura faccia chiarezza su fatti accaduti che definire inquietanti è limitativo». Una battaglia durissima. Accuse, testimonianze choc, mamme segnalate alla polizia perché appendevano volantini (per invitare al sit- in). E la manifestazione di ieri sera: gioiosa, rumorosa, carica di affetto. Con le donne di Basiglio pronte a firmare una petizione per chiedere alla preside «che Giovanni non perda l'anno scolastico». Con gli abbracci ai genitori dei due bimbi per dire «dai, ancora un po' di pazienza». Con i canti dei più piccoli pronti a gridare «I bimbi vanno ascoltati e non traumatizzati» e «Liberateci dagli incubi degli adulti». Gli assenti: il sindaco, Marco Cirillo, le maestre, il parroco. Battere di mani e voci sempre più forti. Fino alle 21 in punto, quando i carabinieri avvertono i manifestanti: «Dovete lasciare la piazza. Avevate a disposizione un'ora sola di protesta». Annachiara Sacchi.
Una Guantanamo per bambini di Chiara Rizzo su "Tempi". Le pressioni degli assistenti sociali, l’isolamento in comunità, la solitudine. La sconvolgente vicenda dei fratellini di Basiglio raccontata dai loro medici. «Lo so che tornerò a casa: mi hanno detto che se dico quello che hanno scritto, se confermo le accuse, potrò tornare da mamma e papà». «Quando te l’hanno detto, Giovanni?». «Un giorno che mi hanno accompagnato in macchina fin sotto casa. E quando mi hanno portato via, mi hanno detto di non preoccuparmi, perché mi avevano già trovato una nuova mamma e un nuovo papà. Non ho fatto niente! Voglio tornare a casa». Un gradino dopo l’altro, la discesa agli inferi di un ragazzo di 13 anni. Così Giovanni – uno dei due fratellini di Basiglio, ingiustamente accusato di abusare della sorellina Giorgia, 9 anni, poi “scagionato” dal Tribunale dei minori di Milano – ricostruisce le pressioni subìte per un assurdo errore giudiziario. Un viaggio dall’innocenza al male, in cui è stato catapultato lo scorso 14 marzo, il giorno del suo compleanno. Dopo la denuncia presentata al mattino da due maestre e dalla preside dell’Istituto comprensivo di Basiglio (oggi tutte indagate per falsa testimonianza), i servizi sociali – lo psicologo Luca Motta, l’assistente sociale Federica Micali, il responsabile dei Servizi alla persona del comune di Basiglio, Raffaele Fortunato – ottenuto il nulla osta al collocamento dei bambini in due diverse comunità protette, hanno caricato sulle auto dei vigili urbani Giorgia e Giovanni e li hanno portati via. È passato un mese e mezzo prima che i genitori avessero loro notizie. Il primo a far visita a Giovanni, è stato il pediatra Mauro Benozzi, contattato dall’avvocato della famiglia, Antonello Martinez. «Era maggio, faceva caldo – ricostruisce Benozzi con Tempi. L’indirizzo che mi avevano dato (nascosto ai genitori, su richiesta dei servizi sociali, ndr) era quello di una villetta a Lavanderie di Segrate, un piccolo comune a est di Milano. Una comunità protetta come tante altre. Mi sono presentato alle tre del pomeriggio. Mi ha aperto la porta Gianluca, uno degli educatori. C’erano circa 8 ragazzi, tra i 10 e i 15 anni. Ricordo, mentre l’educatore mi accompagnava da Giovanni, di averne visti tre sdraiati su un divano davanti alla tv. “Non guardi troppo in giro”, mi disse Gianluca. La stanza di Giovanni era al primo piano: una cameretta di 10 metri quadri, con un letto, una finestra, una libreria. Appena mi ha visto, il ragazzo con gli occhi lucidi mi ha chiesto “Sei venuto a prendermi?”». Poi è scoppiato a piangere. «Era molto dimagrito. Aveva perso 10 chili e presentava gravi segni di stress e depressione. Tic agli occhi, singhiozzo, tosse nervosa, diarrea. Per tutta la durata della visita – sarò rimasto con lui un’ora e mezza – Giovanni ha pianto. Tanto forti erano i singhiozzi, che non riuscivo nemmeno ad auscultare». Il medico ricorda anche altri particolari. «Ripeteva “Non ho fatto niente. Voglio bene a mia sorella”. Per rincuorarlo gli assicurai che presto sarebbe tornato dai suoi. E allora lui, che è un tipo molto fermo di carattere, mi ha risposto con quella frase. “Sì lo so! Mi hanno detto che se confermo quello che hanno scritto di me, mi fanno tornare. Ma non voglio dire una bugia”». Il dottore si allarma. «Gli chiesi quando era successo. Mi raccontò che una volta lo psicologo e l’assistente sociale l’avevano prelevato dalla comunità e portato sotto casa. Ricordo perfettamente le sue parole». Ma ancora. «Mi disse anche che in auto, mentre lo portavano via da casa, lo psicologo, vedendolo piangere gli ha detto: “Tranquillo, ti abbiamo trovato una nuova mamma e un nuovo papà”». Le pressioni psicologiche subìte da Giovanni sono confermate anche da testimoni, adulti, presenti in entrambi i casi. Benozzi ricorda di aver avuto una buona impressione dell’educatore, che tentava di confortare Giovanni in tutti i modi. Ma non della piccola comunità di ragazzi: «C’era un italiano, l’unico con cui aveva fatto amicizia. Gli altri erano magrebini, albanesi, rumeni. Ad un certo punto, Giovanni mi indicò un magrebino, di circa 15 anni. “Quello è il capo, fa il bello e cattivo tempo”, mi disse, raccontandomi che appena era arrivato, gli aveva rubato la playstation che aveva con sé. “Ci dobbiamo difendere dagli altri che sono arrivati prima”, mi disse Giovanni. Mi sembrò un ambiente da favelas». Le pressioni psicologiche, l’ambiente difficile e le accuse, sono calate su Giovanni come un cappuccio opprimente, che lo ha disorientato. È per questo che Marco Casonato, professore di Psicologia dinamica all’Università di Milano Bicocca, esperto di psicologia infantile, oggi terapeuta di Giorgia e Giovanni, parla di «una Guantanamo per bambini». «Hanno fatto sentire Giovanni il cattivo della storia» racconta Casonato. «Traumatizzato, ha vissuto in totale isolamento per 47 giorni, in un posto sconosciuto, senza contatti neanche con il proprio avvocato. Ai coniugi di Erba questo diritto è stato garantito. A lui no, perché è un minore. Purtroppo questa è la prassi normale che si segue per “tutelare” i minori. Non le ricorda Guantanamo? E poi quella frase sui nuovi genitori, una crudeltà gratuita, di persone incompetenti che finiscono per risultare sadici». Oggi Giovanni è in terapia con la sorella. La diagnosi del professore è “stato dissociativo” per la bimba. Depressione per Giovanni: «Quando vede un auto dei vigili si nasconde. Prima amava giocare a calcio, adesso preferisce rimanere chiuso a casa. Ha perso l’innocenza». Gli ha confidato altre angherie subìte. «Un giorno per un battibecco, un albanese lo ha minacciato con un coltellino». A Casonato, Giovanni ha consegnato anche un diario scritto durante i 70 giorni lontano da casa, oggi all’esame degli inquirenti: lettere da un inferno in cui non si spegne la speranza di giustizia. Quello stesso barlume che Giovanni ha ritrovato anche allora. «Trasferito in una nuova scuola, credendo su insistenza dei servizi sociali di essere stato abbandonato dai genitori, un giorno è stato avvicinato da una compagna di classe. Che aveva sentito parlare in tv di Basiglio e lo aveva riconosciuto: è stata lei la prima a rincuorarlo, a dirgli che alcune persone, madre e padre in testa, lottavano per lui». Dopo il ritorno a casa dei bimbi, l’avvocato Martinez ha presentato una denuncia penale, e a novembre sono arrivati i primi avvisi di garanzia. «Proseguo la mia battaglia – dice Martinez. Aspetto di capire perché preside e maestre sono ancora al loro posto. E mi fido, davvero, del pm che indaga e sta lavorando molto bene». Per l’affaire Basiglio, è stata presentata anche un’articolata denuncia contro i servizi sociali dove sono evidenziati probabili violenze psicologiche.
Un'ordinaria follia, continua Chiara Rizzo. «Sono piombati a casa nostra e li hanno portati via». Alla fine dell’incubo parla il papà dei “fratellini di Basiglio”, tolti alla famiglia per la sciatteria di maestre e servizi sociali. «Non auguro a nessuno questo incubo». Così definisce la sua vicenda, durata oltre 2 mesi, il papà di Giorgia e Giovanni, i due bimbi di Basiglio allontanati dalla famiglia dal 14 marzo. L’uomo parla per la prima volta e a Tempi, sotto la tutela dell’ anonimato chiesta per proteggere i bambini, dell’incubo kafkiano iniziato quel 14 marzo, quando i suoi figli sono stati prelevati dai servizi sociali e condotti in due diverse comunità protette. Il motivo? Giorgia sarebbe stata l’autrice di un disegno scandaloso, che ritraeva due bimbi che facevano sesso orale. I contorni di questa assurda vicenda giudiziaria sono lì, in quel disegno di bambina dalle linee dritte e decise. E in cinque firme, che hanno materialmente portato all’allontanamento dei bambini dalla famiglia. Le firme sono quelle della dirigente del comprensorio scolastico di Basiglio, Graziella Bonello, che denuncia il racconto di una maestra, la quale a sua volta riporta le parole di altre mamme della scuola. Dell’assistente sociale del comune Federica Micali, dello psicologo Luca Motta, del responsabile dei Servizi alla persona del comune di Basiglio, Raffaele Fortunato, che da quella denuncia richiedono l’allontanamento dei bambini dalla famiglia. E del pm Maria Luisa Mazzola che, infine, «esprime il nulla osta». Cinque persone hanno firmato senza verificare i fatti, incontrare la famiglia, o almeno i bambini. Solo il 16 maggio, Giorgia, ritenuta completamente estranea alla vicenda – così come il fratello – è tornata a casa. Giovanni dovrebbe raggiungerla oggi. Il ritardo è stato causato dal traffico: il bimbo è arrivato con dieci minuti di ritardo al colloquio con lo psicologo, che doveva firmare il permesso per il rientro. L’ultima ed ennesima assurdità burocratica. Sospira il papà: «Spero che la mia vicenda serva ad altri come esempio, perché delle cose così orribili non accadano più».
Come avete vissuto questi 63 giorni, lei e sua moglie?
«Ci sono sembrati secoli. Avevamo un’amarezza, un dolore, inimmaginabili. Quando tutto è cominciato, era il giorno del compleanno di mio figlio. Pensi cosa significa per un padre e una madre vedersi strappare i figli, all’improvviso, in un momento di festa».
Cos’ è successo quel 14 marzo?
«Quel pomeriggio mio figlio era all’oratorio, festeggiava appunto con i suoi amici. Giorgia era a casa con la mamma. Io ero al lavoro, quando ho ricevuto una telefonata di mia moglie: «Ci portano via i bambini». Ero incredulo. I servizi sociali sono piombati a casa nostra all’improvviso, accompagnati dai vigili urbani. Hanno detto a mia moglie di preparare due valigie, le hanno dato giusto il tempo di mettere dentro quattro cose. Io non ho potuto nemmeno salutarli, i miei figli, prima che li portassero in comunità».
Fino a quel momento non avevate ricevuto nessun segnale allarmante?
«Assolutamente no. Una maestra di Giorgia aveva parlato con mia moglie, durante l’incontro con tutti i genitori per la consegna delle pagelle. In quell’occasione, le mostrò anche il disegno. Mia moglie le rispose subito che era certa non fosse di Giorgia. La maestra, con tono incredulo, le chiese: «E come fa ad esserne sicura?». Mia moglie rispose: «Perché non è la sua scrittura». Pensava che la cosa fosse chiusa lì. Infatti io non ne seppi niente, fino a quel venerdì».
È vero che le maestre hanno mostrato il disegno ad altre mamme della classe di Giorgia, e che una di loro, fin dall’inizio ha ammesso che il disegno era di sua figlia? Perché allora è stata accusata Giorgia?
«Sì, è vero. Bisogna fare chiarezza su questa storia. Credo che all’origine di tutta questa storia ci possano essere i pettegolezzi di alcune mamme. Io sono di origini meridionali, forse c’è stata della discriminazione nei nostri confronti. Il mio avvocato ha avviato ulteriori accertamenti. Ma abbiamo già scoperto che mia figlia era vittima di alcune compagne di classe, che la insultavano per i “denti da coniglio” e perché sarebbe “povera”. Credo che le maestre sapessero bene quello che succedeva in classe, ma mi risulta che, anziché le sue compagne, hanno più volte rimproverato Giorgia, senza motivo».
I servizi sociali non le hanno dato spiegazioni?
«Solo a tarda sera, dopo che i miei figli erano già stati portati via. Mi chiamarono alle dieci e mi dissero che purtroppo c’era questo disegno, dovevano intervenire. Una cosa assurda! Mia figlia era tranquilla, serena. E l’hanno costretta a vivere un’esperienza del genere, uno strappo disumano. Ricordo la prima volta che ci ha rivisti, me e mia moglie: ci è saltata al collo, piangeva. È stato un incubo, un incubo, un incubo».
Dopo quanto tempo avete avuto i primi contatti con i vostri figli? E cosa vi dicevano Giorgia e Giovanni?
«La prima telefonata c’è stata quarantasette giorni dopo quel 14 marzo. Più di un mese e mezzo. Giovanni è stato male. Continuava a ripetermi: «Papà, ma cos’ho fatto?». In tutti questi giorni, ha smesso di mangiare. Vomitava in continuazione. Mio figlio, quello che andava sempre a giocare a calcetto....»
Perché è accaduto tutto questo, secondo lei? Che idea si è fatto?
«Una spiegazione non so darmela nemmeno io. L’avvocato ha iniziato a verificare le responsabilità di questa vicenda e io, per il momento, chiedo solo che non accada ad altri. Non so come sia stato possibile fare un errore del genere. Come ho detto, mio figlio è un ragazzo normalissimo. Ama fare sport... Come si può accusarlo di cose così gravi?»
Come si è comportata la comunità di Basiglio nei vostri confronti, durante questi giorni? Ci sono state anche delle mamme che hanno manifestato a vostro favore…
«Sì, è vero: il comitato delle mamme di Basiglio, che ci hanno espresso la loro solidarietà. Ho notato che erano iscritte tutte le mamme della classe di Giovanni, a differenza di tutte quelle della classe di Giorgia. Il comitato, insieme al nostro avvocato è stato un grandissimo sostegno per noi. Nell’avvocato Antonello Martinez, che ha lavorato gratuitamente per noi, ho trovato davvero un fratello. Vorrei ringraziare tutte queste persone, anche i media».
Come sta Giorgia?
«Quando siamo andati a prenderla, ci è corsa incontro e ci ha abbracciati. Poi mi ha detto: «Papà, facciamo finta che sono tornata da una vacanza. Pregavo tutte le sere di rivedervi». E così abbiamo fatto. Adesso è felice, gioca, va a passeggio. Mi ha persino detto che ha voglia di rivedere presto le sue compagne di classe».
Ci sono tante altre famiglie che come la sua sono state vittime di errori giudiziari. Per la sua esperienza, chi crede abbia atteggiamenti di eccessiva leggerezza, nei casi che riguardano i minori?
«Ci hanno chiamato in centinaia di genitori, per esprimerci solidarietà, e vorrei ringraziare anche loro. Io non so di chi sia la colpa: posso dire che ho sempre avuto rispetto e fiducia nell’operato della magistratura. Non spetta a me giudicare nessuno. Sono stati i servizi sociali, la scuola, altre famiglie? Indagheremo per scoprirlo».
Cosa vi lascia quest’esperienza?
«Mi devo ancora risvegliare da questo lungo incubo. Non credo che nessuno ci potrà ripagare per quello che abbiamo passato. Chiedo solo una cosa, chi sa qualcosa, parli: se qualcuno ammettesse le sue responsabilità, se potessimo avere questa giustizia, io e mia moglie daremmo il nostro perdono. Non portiamo alcun rancore, davvero».
La legge del più isterico, continua Chiara Rizzo. Bimbi tolti ai genitori per accuse infondate, perizie approssimative. Il caso di Basiglio è solo l’ultimo di una serie di orrori giudiziari. Miriam (la chiameremo così), ha solo tre anni quando la sua folle avventura inizia. Miriam è paffutella, allegra, vivace. Abita in un appartamento nel centro di Milano, dove la mamma lavora come portinaia, mentre il papà, Marino V., fa il tassista. Ha un fratellino più grande, che ha un grave handicap, è tetraplegico: perciò i suoi genitori sono sempre molto protettivi nei suoi confronti. Sarà perché è una tipetta vispa, sarà per richiamare l’attenzione di mamma e papà, Miriam inizia a dire parolacce. Un turpiloquio da camionista più che altro buffo sulla bocca di una bimbetta. Però la mamma si preoccupa un po’, vorrebbe non trascurare quel segnale che la figlia le invia, decide di chiedere aiuto a una psicologa di un centro di aiuto ai bambini maltrattati, convenzionato col comune e vicino casa. La psicologa ascolta la storia della donna (Miriam a quel primo incontro non partecipa), poi dà il suo verdetto. Ricorda la mamma: «Mi disse: “Signora, le parolacce di sua figlia sono causate da abusi sessuali subiti dal padre. O denuncia subito lei suo marito, o lo faccio io”». Sembra una storiella tragicomica. Invece è solo l’incipit di un caso giudiziario, cominciato nel 1996 e conclusosi sei anni dopo, che ha sconvolto l’opinione pubblica. Una vicenda agli atti di un tribunale. Esattamente nei termini in cui l’abbiamo ricostruita fino ad ora. Spiega a Tempi l’avvocato Luigi Vanni, difensore del papà di Miriam, Marino V.: «La mamma della bimba si spaventò. Non sapeva cosa fare, ma su pressione della psicologa, pur non credendo alle sue accuse, denunciò il marito. I servizi sociali e il Tribunale dei minori immediatamente tolsero la custodia della piccola non solo al papà, ma anche a lei». Miriam viene portata in una comunità protetta. Per mesi nessuno della famiglia può vederla. Intanto il Tribunale dispone la perizia medica: il verdetto è inequivocabile. «“Compatibile con una violenza carnale”» ricorda a memoria ancora oggi Luigi Vanni. Marino V. è senza appello il mostro: non potrà rivedere più la figlia. Per permettere che Miriam torni almeno a vivere con la madre, i due genitori, pur amandosi ancora, sono costretti a separarsi. Marino V. si autoesilia a Bergamo. La difesa si batte per una contro-perizia, per tre lunghi anni, inutilmente. Alla fine il Tribunale accoglie l’istanza. Il ginecologo che visita Miriam non ha dubbi. La bambina non ha subito alcuna violenza, senza ombra di dubbio: la visita specialistica mostra che ha solo una piccola malformazione congenita. E il primo medico allora? «Controllammo il suo operato» ricorda Vanni. «Emerse un particolare incredibile. Aveva fatto 359 perizie per il Tribunale. Tutte identiche. Tutte con quella medesima formula: “Compatibile con la violenza carnale”». Come se un meccanismo di indagine si fosse inceppato. Non il solo, in realtà. Man mano, emergono dubbi anche sulle accuse della prima psicologa. Infine la sentenza definitiva. Nel dicembre 2000 il pm Tiziana Siciliano proscioglie da tutte le accuse Marino V. e denunzia il «meccanismo infernale» dell’indagine, fondato su «assistenti sociali, periti e poliziotti» di «un’incompetenza che rasenta lo scandalo». Qualche mese dopo il tassista può finalmente tornare insieme alla moglie. La bimba rientrerà definitivamente a casa con i genitori solo nel maggio del 2002. Sei anni dopo la separazione Miriam, a 9 anni, porta sulla sua pelle le cicatrici della malagiustizia. «Per anni ha creduto fosse per colpa sua se non poteva più stare con la sua mamma e il suo papà», prosegue l’avvocato Vanni. «La giustizia minorile si mostrò minorata – prosegue Vanni – e minorata mi sembra ancora oggi, con la vicenda di Basiglio». A Basiglio, da 54 giorni, Giorgia e Giovanni, 9 e 12 anni, sono stati separati dai genitori. Messi in una comunità protetta per un disegno “osé” attribuito a Giorgia: le maestre della bimba e i servizi sociali hanno richiesto procedure d’urgenza, per togliere i minori dalla potestà dei genitori. Senza neanche avvertirli delle accuse che muovevano nei loro confronti. Intanto da Basiglio emergono particolari inquietanti. Dopo i pettegolezzi. «Una mamma», spiega l’avvocato Antonello Martinez, che difende i genitori di Giorgia e Giovanni, «ha riferito di aver parlato con le maestre, prima che queste denunciassero il caso di Giorgia agli assistenti sociali. E aveva detto a chiare lettere che il disegno lo aveva sicuramente fatto sua figlia. Ma, non si capisce bene perché, né le insegnanti, né i servizi sociali del comune le hanno dato retta. Uno scandalo». Uno scandalo che ricorda la vicenda di Marino V., il cui avvocato, Luigi Vanni, nutre nuovi e pesanti dubbi sull’operato del Tribunale dei minori. «La vicenda di Basiglio mi pare inverosimile. Quando ci sono di mezzo i bambini sembra che magistrati e psicologi perdano completamente la testa. In questi procedimenti saltano completamente tutti i paletti che normalmente regolano la giustizia. Il punto è che poi ci vogliono anni prima che il Tribunale dei minori ammetta di aver sbagliato. Ad oggi è sempre più un luogo dove la giustizia sembra esclusa». Sono numerosi i casi in cui quest’istituzione interviene ogni anno sulla potestà dei genitori. Nel 2000 se ne contavano 10.903. Nel 2005, sempre in tutt’Italia, si parla di 14.114 casi, secondo i dati più recenti raccolti da Istat-ministero della Giustizia. Impossibile, ovviamente, stabilire quante di queste vicende siano basate su fatti reali, e quante siano il triste ripetersi dei meccanismi di indagine poco chiari della storia di Basiglio o del tassista milanese. Certo è che le segnalazioni di vicende iniziate con accuse mostruose, poi sgonfiatesi come bolle di sapone, non mancano. Dalla Lombardia al Friuli, al Lazio, alla Sicilia: la malagiustizia è un nervo scoperto che attraversa tutta la Penisola. Siamo nel 1994, a Pordenone. Qui abitano i coniugi G., Anna e Jim (i nomi sono ancora una volta di fantasia) e i loro due figli. La famiglia non è abbiente, vive nelle case popolari, a volte il lavoro manca. La signora G., in seguito ad una depressione, chiede aiuto ai vicini. Questi denunciano il caso ai servizi sociali. «I figli vennero sottratti ai genitori. L’accusa era che il maggiore era obeso, quindi voleva dire che non era abbastanza curato» ricorda Annalisa Del Col, avvocato dei G., che subito fanno ricorso al Tribunale. «Erano una famiglia con problemi economici, che non nascondeva le proprie difficoltà. Ma non c’erano storie di violenze, abusi o abbandono. Si potevano sostenere i G., anziché strappare loro i bambini», prosegue Del Col. La tesi dell’avvocato convince il Tribunale dei minori. A tutto svantaggio dei figli. I bambini tornano a casa, ma solo quattro anni dopo. Ovviamente l’inserimento in famiglia non è semplice. Di conseguenza, i servizi sociali li tolgono una seconda volta ai genitori e nel 2000 li danno in affido ad una coppia di Trieste. Nel 2004, appena diventato maggiorenne, il più grande dei fratelli ritorna a casa. Il fratellino, andato via dalla casa naturale per la prima volta all’età di due anni, non capisce più chi sia la sua vera mamma. Prosegue Del Col: «Il Tribunale dei minori è un tribunale speciale, agisce per sua natura con sistemi poco democratici. Manca il rito del contraddittorio, il diritto alla difesa. Nei procedimenti è previsto che si ascoltino i genitori, prima di prendere iniziativa. Ma questa norma, con la scusa di provvedimenti speciali, non viene mai applicata. Da avvocato che segue sempre casi del genere, dico che si lavora male. La cosa più difficile è far cambiare idea ai giudici. Passano mesi, prima che vengano revocati provvedimenti. C’è un attaccamento pregiudiziale alle proprie tesi, incredibile. Tutto ai danni dei bambini: alla famiglia non viene dato alcun aiuto, spesso». In sostegno a genitori che vivono casi del genere è nata Gesef, l’associazione dei Genitori separati dai figli, composta esclusivamente da volontari. Ha spesso lavorato a fianco di genitori, ottenendo alcune vittorie importanti. «Eclatante il caso di un bimbo romano, che chiamerò Andrea» ricorda il presidente di Gesef, Vincenzo Spavone. «Venne tolto ai genitori, che affrontavano delle oggettive difficoltà. Il papà era in carcere, la mamma spaventata di non riuscire a mantenere il piccolo. Poco dopo che Andrea venne portato in una comunità protetta, suo papà venne liberato per buona condotta. Per mesi i genitori si impegnarono: non mancavano una visita al figlio, rimisero in piedi le proprie attività economiche. Ma i servizi sociali scrissero al giudice che Andrea si rifiutava di vederli. Siamo dovuti andare a riprendere quegli incontri con una telecamera. Il bambino, appena vedeva la mamma e il papà, si divincolava dalle braccia degli assistenti sociali per correre incontro ai genitori». Il giudice ne ha preso atto. Nella sentenza del 2002 – quattro anni dopo l’inizio della vicenda – con cui si stabiliva il ritorno di Andrea a casa, il Presidente del Tribunale dei minori di Roma, Magda Brienza, segnala che «certamente non vi fu sostegno nei confronti della coppia genitoriale, ma solo atteggiamenti oppositivi». Inoltre il giudice, scrive a proposito dei problemi di Andrea a incontrare la famiglia, segnalati dai servizi sociali: “Appare di difficile lettura quanto riferito (...), considerato anche il non facile contesto di svolgimento degli incontri”. «Credo – denuncia Spavone – che dietro certe leggerezze commesse dai servizi sociali e avallate dal Tribunale dei minori, ci sia il terrore di reali abusi, ma è finita che lo Stato si è completamente sostituito alla famiglia. E gli assistenti sociali sono diventati una sorta di poliziotti di quartiere». Il tempo non si restituisce. Di questo stato di terrore che vive da anni la famiglia italiana è esemplare un recente caso di cronaca, che, pur non avendo nulla a che fare con abusi e violenze familiari, fa comprendere la mentalità delle istituzioni che dovrebbero avere cura dei minori. Lo scorso aprile, a Messina, la mamma di una sedicenne che frequenta l’istituto Tecnico Jaci della città, si è rivolta al preside della scuola, per chiedere aiuto. La figlia si rifiutava di andare a lezione, perché vittima di episodi di bullismo. Il preside, per tutta risposta, sconvolto dal vociare della mamma, si è limitato a denunciarla per interruzione di pubblico servizio. In seguito alla vicenda di Miriam, sul tavolo della Procura di Milano, arrivarono nel 2000 diverse lettere, di genitori che avevano subito ingiuste accuse. Una su tutte. «Caro signor procuratore, mi chiamo Corrado L. Sono stato ingiustamente accusato di abusi verso le mie figlie. Le allego la sentenza di assoluzione del Tribunale. Non dimentico ancora i cinque rambo in divisa che hanno perquisito la mia casa e interrogato le mie figlie. Perché infierire per quattro anni su un padre e su due bambine, per poi archiviare tutto? Chi ci rimborserà dei danni, delle spese legali, del tempo rubato, delle notti insonni, delle sofferenze inflitteci?». All’epoca quelle denunce fecero scalpore, poi sul Tribunale dei minori è caduto il silenzio. Fino alla vicenda di Basiglio.
Ora che i fratellini di Basiglio sono a casa mancano solo le scuse di chi ha sbagliato, scrive Federica Mormando. Oggi ci si scarica la coscienza monetizzando tutto, e delegando il conto ai giudici. Oggi, giovedì 22 maggio, dopo che per oltre due mesi è stato sottratto alla famiglia da solerti funzionari dello Stato, il “fratellino di Basiglio” torna a casa. Salvo problemi di traffico. Infatti, mentre la sorellina era rientrata venerdì scorso, la “riconsegna” del fratellino ai genitori è slittata di una settimana perché l’educatore incaricato di portarlo dalla psicologa per un ultimo colloquio si era perso nel traffico di Milano. Da oggi, dunque, l’ansia della famiglia può diminuire o aumentare. Chi s’è visto portar via non sarà più sicuro di poter essere sicuro. Comincia oggi la spiegazione, il racconto, il dipanarsi o incancrenirsi dei grovigli di emozioni e sentimenti. Proprio nella scuola dove è nata, si dovrebbe parlare di tutta questa storia. I fratellini e i loro compagni, con la guida dell’insegnante, dovrebbero ripercorrere l’accaduto, chiarirsi reciprocamente. E la bambina che ha fatto il disegno deve chiedere scusa. È l’unica possibilità non soltanto per la vittima di veder riconosciuto un suo diritto, ma anche per la colpevole di sopportare la propria colpa. Il dovere di tutti quelli che hanno sbagliato, che sono stati incauti e frettolosi è quello di riparare. Subito: chiedendo scusa. Oggi ci si scarica la coscienza monetizzando tutto, e delegando il conto ai giudici. Ma c’è un risarcimento che ogni vittima merita: le scuse di chi ha sbagliato. C’è una pena che non tocca le tasche ma alleggerisce l’animo: riconoscere i propri torti. Che vadano uno per uno, i protagonisti della vicenda, compreso l’educatore in ritardo; vadano dai due bimbi, spieghino e chiedano scusa. Chiedere scusa è un assegno in bianco, un deposito incorruttibile nell’infinito della piccolezza e della grandezza umana. E fa bene, a chi lo fa e a chi lo riceve, insieme sul sentiero malsegnalato che va verso la pace. Federica Mormando psichiatra.
“Mostri” a Basiglio. La strana consuetudine giudiziaria di accusare qualcuno prima di verificare i fatti. «Credo che all'origine di questa storia ci possano essere i pettegolezzi di alcune mamme. Credo che le maestre sapessero bene quello che succedeva, ma mi risulta che hanno più volte rimproverato Giorgia, senza motivo». Così confidava a Tempi (leggi l'articolo) lo scorso maggio il papà dei due fratellini di Basiglio, strappati alla famiglia per 63 giorni per colpa di un disegno scandaloso trovato dalle maestre della bimba. Il vero scandalo sono rimaste le accuse delle insegnanti, basate sul nulla, e le mancate verifiche dei servizi sociali che denunciarono presunti abusi al Tribunale dei minori. Sei mesi dopo, la preside e le maestre di Basiglio hanno ricevuto un avviso di garanzia per falsa testimonianza, ma la vicenda non è affatto conclusa. Non solo perché l’avvocato della famiglia, Antonello Martinez, intende continuare la sua battaglia anche contro i servizi sociali. Soprattutto per quello che drammaticamente insegna questa vicenda. «È un problema di natura educativa» diceva l’avvocato a Tempi, durante quei 63 giorni: «L’istituzione sociale non può arrogarsi il diritto di educare. Pensate se di punto in bianco i servizi venissero a casa vostra e vi togliessero la custodia dei figli». È successo a Basiglio, e in decine di altri casi, conclusi con un niente di fatto. Perché capita in Italia che prima si agisca per via giudiziaria, e solo poi si verifichino i fatti.
Senza giudizio, scrive Rodolfo Casadei. Il costituzionalista Simoncini e l’impasse di un sistema che «ha perso cordialità con la realtà». «I sistemi giuridici richiedono una premessa morale pregiuridica condivisa, un certo accordo sociale. Quando ciò viene meno, la domanda sul rapporto fra diritto e giustizia è estromessa financo dalle università, e la crisi si aggrava». Andrea Simoncini è ordinario di Diritto costituzionale all’università di Firenze e coautore di un denso libro a tre voci, La lotta tra diritto e giustizia. Lì per 272 pagine, insieme al sacerdote e teologo don Francesco Ventorino e al filosofo del diritto Pietro Barcellona, Simoncini si interroga sul fondamento del diritto. Un dibattito alto fra posizioni diverse che è di grande aiuto a comprendere il momento storico che stiamo vivendo: l’attualità politica e la cronaca quotidiana ci rimandano a una duplice crisi del diritto e del suo rapporto con la giustizia. Da una parte vicende come quella di Basiglio, dove il tribunale dei minori smembra una famiglia sulla base di vaghi sospetti, veicolati dagli assistenti sociali e dagli insegnanti di una bambina; dall’altra il persistente appeal politico del giustizialismo, come si evince dai successi elettorali del partito di Antonio Di Pietro e dall’affollamento delle piazze convocate da Beppe Grillo per affilare le armi in vista dei suoi referendum antitutto. Chiediamo a Simoncini di aiutarci a capire l’origine di queste patologie che ci spaventano. «Quando il fondamento delle regole della convivenza diventa incerto, riprende quota inevitabilmente il ruolo del sapiente, del giudice, del capo: il principio che il diritto coincida con la volontà di uno (il sapiente, il potente, l’inviato di Dio) prevale». Perché una famiglia può essere fatta a pezzi impunemente? «Perché oggi la famiglia non è più una realtà che preesiste al diritto; oggi il diritto interviene con la pretesa di ridurre la relazione familiare a un rapporto obbligatorio di natura giuridica. È una conseguenza del fatto che un ultimo aggancio del diritto a un criterio di giustizia si sta perdendo». Lo stesso vale per il giustizialismo: «Il successo elettorale delle posizioni giustizialiste fa leva da un lato su una condizione di illegalità molto diffusa, dall’altro sull’idea di avere finalmente un “capo” che decide al posto nostro, a cui delegare la decisione. È una deriva pericolosissima per l’idea stessa di diritto, perché il parametro su cui si misura la dignità non è più oggettivo, ma soggettivo». «Certamente la famiglia può essere luogo di delitti, ma il problema è che il diritto non trova più gli strumenti adeguati per intervenire in questi casi. In una realtà come la famiglia non si può entrare con gli stessi strumenti con cui ci si occupa delle associazioni criminali dedite all’estorsione o al narcotraffico. Fa ribrezzo l’idea che esistano strumenti giuridici universali che vanno bene per tutti i fenomeni sociali, dalla famiglia all’associazione criminale. Noi dobbiamo differenziare i modi con cui si attua il principio di giustizia a seconda delle condizioni in cui ci troviamo. Oggi, poiché non ci sono strumenti per affrontare quel mondo così delicato che è la relazione interpersonale, si innescano due fenomeni: o lo scaricabarile, cioè nessuno vuole avere l’ultima responsabilità (come a Basiglio); oppure si vuole che ci sia un capo che decide tutto, anche qual è il rapporto morale dentro a una famiglia. Oggi la legislazione sulla giustizia in Italia su questi temi è una delle più arretrate nel mondo. Non abbiamo più una sensibilità cordiale nei confronti dei fenomeni sociali, prevale la pretesa illuministica di stabilire con una lama chi ha ragione e chi ha torto davanti a un giudice».
Una pura spaventosa formalità, scrive Chiara Rizzo. Il tribunale dei minori e i servizi sociali di Basiglio hanno tolto i piccoli Giorgia e Giovanni ai genitori. Per un disegno hard. Basiglio è un piccolo centro a sud di Milano, con una popolazione di circa 8.500 persone. Un comune molto ricco, che comprende nel suo territorio il quartiere residenziale Milano 3. Un centro, a sua volta, super residenziale: parchi, laghetti, case ampie, luminose, curate. Un angolo di Svizzera. Che però dallo scorso 14 marzo è nell’occhio di un ciclone infernale. Quel giorno due bambini di 9 e 12 anni, che chiameremo coi nomi di fantasia con cui sono balzati all’onore delle cronache, Giorgia e Giovanni, sono stati allontanati dai genitori,per essere trasferiti in due diverse comunità protette. Il motivo è un disegno trovato sotto il banco della bimba dalla maestra della scuola elementare di Basiglio. Vi è ritratta una bambina accovacciata accanto a un bambino. A stampatello, una scritta cruda: “Giorgia fa sesso orale con suo fratello tutte le domeniche per 10 euro”. Da quando della vicenda ha parlato il Corriere della Sera, Basiglio è sotto l’assedio dei giornalisti. Ma quello che più ha sconvolto gli abitanti di questo tranquillo centro non è l’attenzione mediatica. Basta farsi un giro se non su quella reale, sulla piazza virtuale, il forum del quartiere Milano 3, dove vive la famiglia di Giorgia: «Non ci sono prove, non c’è stata nessuna sentenza, ma i bambini sono stati portati via dai loro genitori. Pazzesco, può succedere a chiunque, siamo proprio nel Burundi», si legge in un commento. E gli altri sono dello stesso tenore. A entrare nei meccanismi di questa vicenda, si comprende lo stupore e il dramma non solo di chi abita in queste zone, ma della stessa famiglia protagonista. Entrambi i genitori lavorano, e fino a metà marzo la famiglia conduceva un’esistenza dignitosa, tranquilla. Persone normali, di cui tutti hanno sempre parlato bene: persone come tante, come molti di noi, nel resto del paese. Dal ritrovamento del disegno a quel fatidico 14 marzo erano passate già alcune settimane. A fine febbraio (ma la data non è mai stata verificata) la maestra di Giorgia, III elementare, rimane incuriosita quando vede la bambina e un’amichetta concentrate su un quadernetto. Lo controlla, tra le pagine trova quel disegno e anche un altro, ugualmente raggelante. L’amichetta di Giorgia, proprietaria del quaderno, nega. Da una chiacchierata con le bambine, vista anche la reazione intimidita di Giorgia, la maestra deduce che sia quest’ultima l’autrice del disegno, in una sorta di terribile denuncia. Dopo di che, sulla vicenda cade il silenzio. A fine febbraio, gli insegnanti incontrano i genitori per la consegna delle pagelle. È in quella occasione che per la prima volta la maestra di Giorgia parla con la mamma della bimba: le mostra il disegno. La mamma non ha dubbi: «Non l’ha fatto mia figlia, lei non disegna così. Anche la scritta: non è la sua grafia». Per una seconda volta, cade di nuovo il silenzio. Fino a quel venerdì di metà marzo, due settimane dopo. Quel giorno, Graziella Bonello, la direttrice del comprensorio scolastico di Basiglio, la scuola di Giorgia, invia un fax ai servizi sociali del Comune. Denuncia gravi abusi ai danni della bimba, riportando le accuse della maestra. L’assistente sociale, lo psicologo e il responsabile dei Servizi alla persona del Comune, quel giorno stesso, forse solo a poche ore dal primo fax, inviano una segnalazione (preceduta da una telefonata) alla procura del tribunale dei minori. Chiedono l’allontanamento dei bimbi dalla famiglia. Poco dopo, ricevono il nulla osta firmato dal pubblico ministero. Nel giro di poche ore è già tutto risolto: davvero un’efficienza elvetica. A parte il fatto, certo, che dal primo fax al nulla osta i bambini non sono mai stati sentiti da alcun esperto, nemmeno dallo psicologo che firma la richiesta. Non viene mai contattata la famiglia, nemmeno per un chiarimento, o per dare un’occhiata ai famosi disegni. Ci risulta che lo dichiarino a chiare lettere gli stessi servizi sociali nella richiesta al pm, spiegando di non ritenere possibile un colloquio tranquillo. E che lo abbiano ribadito una seconda volta, anche tre giorni dopo, in un nuovo documento inviato al pm: si premurano di specificare, inoltre, di non aver mai ricevuto segnalazioni che evidenziassero situazioni di disagio sociale o di aver saputo, dalla scuola, di situazioni problematiche della famiglia. Intanto quel 14 marzo Giorgia, Giovanni e i loro genitori, con una scusa, sono convocati al comune di Basiglio. Lì ci sono già le forze dell’ordine, che prelevano i bambini. Quando agli inizi di aprile Giorgia ricostruisce quella giornata davanti al giudice del tribunale dei minori, ricorderà di aver visto la mamma disperata e di averla sentita minacciare di buttarsi dal balcone. Per quarantuno lunghi giorni, non saprà di avere ancora una mamma: l’ha rivista per la prima volta lo scorso 24 aprile, quando finalmente ha potuto consegnare ai genitori due disegni che aveva preparato. Raffigurano un orsetto, con le ciglia e la boccuccia aperta, circondato da cuoricini. Con una scritta: “Ti voglio bene mamma. Ti voglio bene papà”. Niente di più lontano dai due disegni al centro della vicenda. Il giudice e le «rilevanti perplessità». Sempre davanti al giudice, la bimba nega a chiare lettere di essere l’autrice. Anzi, dà, con le sue parole semplici e ingenue, una prospettiva diversa da quella iniziale. Giorgia spiega di averlo detto subito, sia alla maestra che alla mamma, che il disegno l’hanno fatto due compagne di classe: «Mi prendono sempre in giro perché ho i dentoni». La insultano perché la mamma lavora come donna delle pulizie, e perché ha una macchina vecchia e rotta. Si tratta di una Golf, non propriamente una carretta, che forse sfigura davanti a qualche Suv. Sono, anche questi, particolari che aiutano a definire meglio i contorni di questa storia. Torniamo alla vicenda giudiziaria. Dopo aver firmato il nulla osta, lo scorso 19 marzo il tribunale dei minori apre formalmente un processo per confermare il trasferimento in comunità. È in questo ambito che sono ascoltati i bambini (anche il fratello di Giorgia, Giovanni, che nega ripetutamente e con tutte le sue forze di aver mai fatto qualcosa del genere alla sorella, lui che non ha nemmeno mai visto un film o sfogliato una rivista porno, e che passa il suo tempo giocando a calcio e alla playstation) e la preside da cui è partita la denuncia. La quale, davanti al pm, spiega che nemmeno lei ha mai contattato direttamente la mamma di Giorgia, prima di fare la denuncia: si è limitata ad ascoltare quello che raccontavano altre mamme della scuola. Rispetto ai disegni, il giudice ha espresso «rilevanti elementi di perplessità» e ha ammesso che «non si può escludere che i disegni siano stati fatti solo in parte dalla bambina, o addirittura che non ne abbia fatti». I periti del tribunale che dovranno riesaminare i disegni sono stati nominati il 28 aprile, quarantacinque giorni dopo l’inizio di tutto. Le perizie della difesa. Al momento quei disegni sono già stati esaminati dai due consulenti della difesa. Laura Guizzardi, grafologa e perito calligrafo iscritto all’albo delle consulenze del tribunale di Milano, non ha il minimo dubbio. «Lavoro principalmente sulle grafie. Bene: la scrittura non è della bambina. Si capisce da numerosi dettagli. Ad esempio: la grafia di Giorgia scorre verso destra, è morbida, si espande. Quella vicino ai disegni è assolutamente diversa: è rigida. Sembra di paragonare una pera a una mela». Marco Casonato, professore di Psicologia dinamica all’Università di Milano Bicocca, esperto di psicologia infantile, ha dato il suo parere sui disegni: «Escludo che siano di Giorgia. Da alcuni tratti, anzi, ipotizzo che quei disegni li abbiano fatti piuttosto dei maschietti. Mi si obietterà: ma com’è possibile che un bimbo di otto anni possa inventarsi delle cose così morbose? Guardi: basterebbe che qualcuno in classe avesse visto una delle ultime puntate del Grande Fratello, dove si parlava diffusamente di sesso e preliminari. Avrebbe imparato tutto quello che c’era da sapere. Si è messo in moto un meccanismo che fa rabbrividire. Poniamo, per assurdo, che quei disegni fossero stati di Giorgia. Dal punto di vista psicologico sarebbe stato meglio consentire ai genitori di intervenire nell’educazione dei figli. Si dovevano informare i genitori: erano loro a dover intervenire per primi. Invece il tribunale si è arrogato il diritto di fare lui da genitore. Ma soprattutto sono i servizi sociali ad aver sbagliato: hanno agito con mano pesante per ignoranza. Mera ignoranza. È un problema di mentalità. Sono abituati a comportarsi così». «Siamo davanti a un caso dell’assurdo», secondo l’avvocato della difesa Antonello Martinez. «Anzitutto i disegni: si vede a occhio che non sono quelli soliti di Giorgia, non occorre essere periti. Si riesce a distinguere una mela da un cavolfiore anche senza una laurea in agraria. Lo stesso giudice è perplesso. Ma il punto è che questo è un problema di natura educativa. L’istituzione sociale non può arrogarsi il diritto di educare. Ci troviamo di fronte a una famiglia come tante. Pensate se di punto in bianco i servizi venissero a casa vostra e vi togliessero la custodia dei figli. Senza avervi nemmeno spiegato qual è il problema». La preside, che Tempi ha cercato per un commento, si trincera dietro un comunicato stampa: «Il consiglio d’istituto respinge con sdegno le diffamanti affermazioni» pubblicate in generale sulla stampa. Per conto dei servizi sociali del suo Comune parla il sindaco di Basiglio, Marco Flavio Cirillo, che gioca allo scaricabarile. «È un fatto grave. Io conosco la famiglia, sono persone degnissime. Ma come si può anche solo pensare che i servizi sociali siano i cattivi, che vengono a togliere i figli in modo irruento a un padre e a una madre? È stato deciso tutto dal tribunale dei minori, i servizi hanno seguito solo delle direttive. Quindi mi chiedo: perché il ministro Roberto Castelli voleva eliminare con una riforma il tribunale dei minori? È questa la domanda che dobbiamo porci». L’avvocato Martinez smentisce: «Il sindaco può pensare quello che vuole. Ma verba volant, scripta manent. Lo dicono gli atti. La richiesta di allontanare i figli dai genitori è partita proprio dai servizi sociali, che non hanno voluto fare nemmeno una verifica». Al momento in cui scriviamo, l’avvocato della difesa ha appena messo agli atti la deposizione di un genitore della scuola. Dichiara di aver ricevuto a sua volta la confessione della mamma di una compagna di classe di Giorgia: sarebbe sua figlia l’autrice del disegno. Dopo 45 giorni Giorgia e Giovanni sono ancora in comunità diverse. Il maggiore, anzi, ne ha già cambiate due. Passerà ancora del tempo prima che si concludano le varie perizie, appena commissionate. Ancora di più prima di giungere a una sentenza definitiva. Intanto i fratellini hanno incontrato i loro genitori solo una volta. Questa storia, iniziata con un disegno e un’accusa inappellabile, non può chiudersi che con una domanda. Chi pagherà per tutto il dolore dato a due bambini, alla loro mamma e al papà?
E poi, durante l'affidamento, cosa succede?
PER ESEMPIO. PARLIAMO DE "IL FORTETO".
Il Forteto, un lager protetto da magistratura e sinistra, scrive Luigi Santambrogio su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Di solito succede il contrario. Di solito, le denunce di violenze su minori e bambini producono sentenze sommarie e condanne infernali, salvo poi, qualche anno dopo decretare il liberi tutti e senza neanche troppe scuse ai mostri presunti e innocenti di ritorno. Magari post mortem, come è successo a Modena, dove un’intera famiglia è stata decimata dai giudici con l’accusa infamante di pedofilia e satanismo per poi scoprire che non era vero niente. Ecco, di solito accade così, ma non questa volta. Succede a Firenze, dove si sta concludendo il processo a Rodolfo Fiesoli e alla sua banda, accusati di aver per decenni violentato e tenuti come schiavi i ragazzini affidati alla comunità il Forteto. Abusi e maltrattamenti «di eccezionale gravità », li ha definiti il pm Ornella Galeotti che proprio per questo ha chiesto condanne severe (quasi 200 anni) per 21 dei 23 imputati: in testa (chiesti 21 anni di reclusione) il "Profeta" Rodolfo Fiesoli, accusato «per la sua capacità di condizionare e plagiare la vita delle persone», di maltrattamenti «praticati come regola di vita» e di abusi sessuali anche su minori. Nella requisitoria del pubblico ministero, ci sono anche sorprendenti passaggi a svelare la fortissima trama di connivenze istituzionali, giudiziarie e complicità politiche (tutte a sinistra) che hanno protetto il Forteto, dove i maltrattamenti agli ospiti della comunità erano «regole di vita». Durissimo l’attacco del pm anche alla magistratura e ai servizi sociali. «Per alcuni decenni in Toscana si è verificato un fenomeno rispetto al quale le leggi dello Stato hanno subìto una sospensione», ha accusato Galeotti. Lo scandalo, infatti, sarebbe potuto scoppiare già nel 1978 quando Gabriele Chelazzi, magistrato rigoroso, accusò e fece arrestare Fiesoli e il suo vice Luigi Gofredi, una specie di ideologo criminale, per atti di libidine: nell'85 i due furono condannati in via definitiva per alcune delle accuse. Nonostante ciò e sebbene i due si fossero spacciati per psicologi plurilaureati in Svizzera (Fiesoli ha la terza media e Goffredi non è laureato), una parte rilevante dell'opinione pubblica infamò il processo come «un complotto di cattolici integralisti». Per una sorta di «allucinazione collettiva» (sono sempre parole del pm), il Forteto ha continuato a riscuotere «fiducia incondizionata », a essere definito «una eccellenza educativa». In questi anni, le istituzioni, come i Comuni e il Tribunale dei Minori, non hanno mai cessato di affidare alla cooperativa minori in difficoltà, ignorando anche la sentenza del 2000 della Corte europea dei diritti dell'uomo che segnalava gravi anomalie dentro la comunità di Vicchio. «Questa falsificazione della realtà», ha ricordato il pm, «è costata molte sofferenze». Al Forteto c’era l'ossessione del sesso. Fiesoli, celebrato guru di teorie educative fondate sulla pedofilia e l’esercizio imposto dell’omosessualità, è stato il “Profeta”, il re, il capo, il simbolo del Forteto, ma non avrebbe mai potuto regnare sulla comunità, né attuare quello che l'accusa definisce il suo programma criminoso senza il concorso degli altri collaboratori imputati, «anime belle che credevano che avesse strane facoltà», come ha definiti il pm. Che hanno costruito un inferno popolato di ossessioni sessuali, e da ragazzini ridotti in schiavitù, obbligati a sottostare a rapporti omosessuali e pestaggi. Il momento peggiore, ha raccontato agli investigatori una delle vittime, era l’essere spediti al “forno”, cioè la stanza delle punizioni, da dove spesso, provenivano le urla delle vittime. Nessuno degli altri ospiti poteva provare a difendere il malcapitato, altrimenti, sarebbe stato sicuramente il prossimo. La sveglia per i ragazzi suonava alle quattro del mattino, ogni telefonata degli stessi veniva trasmessa da un altoparlante così che potesse essere ascoltata da tutti. Insomma, un lager. Nulla a che vedere con quel paradiso tra le colline toscane come ancora oggi la struttura del Forteto appare nelle foto. Ora toccherà agli avvocati degli imputati difendere l’indifendibile e poi il processo si potrà finalmente chiudere. E tuttavia ancora mancherà qualcosa alla piena verità e giustizia. Violenze e abusi sui ragazzini, irregolarità nella gestione, intimidazioni ai soci e operazioni finanziarie spericolate: al Forteto tutto questo è andato avanti per trent’anni in serena e imperturbabile tranquillità grazie alle coperture politiche della sinistra e al padrinaggio affaristico della potente Lega delle Cooperative. Per loro la comunità di Vicchio rappresentava una sorta di santuario dei miracoli dove il “Profeta” esercitava le sue teorie di liberazione sessuale. Big e leader di Botteghe Oscure, presidenti di Provincia, sindaci e assessori di sinistra facevano a gara ad arrivare al Mugello per baciargli la pantofola e, pur consapevoli delle condanne a carico dei gestori, hanno continuato a frequentare e a sponsorizzare la struttura. Rosy Bindi, Susanna Camusso, Livia Turco, Antonio Di Pietro, Piero Fassino, tra gli altri, son passati da qui senza mai aver nulla da ridire. Nel gruppone dei supporter c’era anche l’attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: è stato difensore del Fiesoli nel processo conclusosi con una condanna per pedofilia e alla fine degli anni '90 entrava nel comitato scientifico della fondazione Il Forteto. Antonio di Pietro, invece, si distingue per aver scritto la prefazione al libro Il Forteto nel 1998 descrivendo la struttura come un vero paradiso terrestre. Ecco, una volta punito Fiesoli e la sua banda, si dovrà pure chiedere chiarimenti anche a questi complici che paiono aver dimenticato l’imbarazzante amico e “Profeta”.
La storia degli abusi del Forteto e dei cattivi scolari di don Milani. Come è stato possibile che per 35 anni un guru violento, odiatore della famiglia, sia stato difeso dalla sinistra, scrive Nicoletta Tiliacos su ”Il Foglio”. Molti elementi, alcuni incredibili, rendono unica la storia degli abusi consumati per decenni nella comunità e cooperativa agricola del Forteto di Vicchio, nel Mugello. Luogo che dal 1977 accoglie bambini e adulti in difficoltà e che si è rivelato una sorta di inferno dei vivi, come ora risulta anche dalla relazione – votata all’unanimità nello scorso gennaio – della commissione d’inchiesta istituita dalla Regione Toscana, oltre che dal nuovo processo tuttora in corso a carico del suo responsabile, il settantunenne Rodolfo Fiesoli, di Prato (in carcere dal 2011) e di ventidue suoi collaboratori. Unica e incredibile è la cecità di chi doveva garantire l’affidabilità del Forteto. Stiamo parlando di giudici del tribunale dei minori, di assistenti sociali, di Asl, di amministrazioni locali, regione compresa, che in trentacinque anni hanno elargito fondi alla comunità di Fiesoli, dello stesso mondo delle coop. Ma anche di politici, giornalisti, sociologi, educatori e circoli cattolici progressisti che hanno avallato il mito del Forteto. Santificato in una messe di pubblicazioni, tra cui alcuni saggi editi dal Mulino. Nel 2003 c’era stato “La strada stretta: storia del Forteto”, del ricercatore Nicola Casanova, con prefazione dello storico Franco Cardini, mentre nel 2008 è uscito “La contraddizione virtuosa. Il problema educativo, Don Milani e il Forteto”, sempre a cura di Casanova e di Giuseppe Fornari. Nella pagina di presentazione della Fondazione del Forteto, si dice che il volume traccia “un parallelismo tra l’esperienza educativa di don Lorenzo Milani e l’esperienza di solidarietà e accoglienza della comunità del Forteto: in entrambi i casi l’attenzione per i dimenticati, per gli ultimi, si è rivelata la più grande forza in grado di conferire dignità e significato all’essere umano”. Parole che spiegano perché il Forteto abbia goduto, per tanto tempo e nonostante tutto, di un’illimitata apertura di credito presso l’intellighenzia progressista italiana, laica e cattolica. Molto si deve proprio alla sua aura di depositario dell’eredità educativa e antiautoritaria di don Lorenzo Milani, cioè dell’animatore della scuola di Barbiana (siamo sempre nel Mugello) e celebrato autore di “Lettera a una professoressa”. Quell’apertura di credito, in modo ingiustificabile, non ha vacillato nemmeno dopo che Fiesoli, nel 1979, subì una condanna a due anni di carcere per atti di libidine violenta, corruzione di minorenne e maltrattamenti (sentenza passata in giudicato nel 1985). Il giudizio faceva seguito al lavoro di indagine dell’allora magistrato inquirente Carlo Casini – futuro fondatore del Movimento per la vita – e del suo collega Gabriele Chelazzi, poi sostituto procuratore all’Antimafia, morto nel 2003. Nel 1978, i due magistrati avevano acquisito le testimonianze di persone passate per il Forteto che avevano subìto abusi e avevano assistito a violenze su bambini e adulti. Era l’iniziazione alla quale Fiesoli sottoponeva i suoi ospiti, teorizzandone il valore “liberatorio”. Il guru del Forteto, che all’epoca negò tutto, uscì dal carcere nel giugno del 1979. “E proprio in quelle stesse ore – ha scritto lo scorso 20 ottobre il quotidiano la Nazione – il tribunale dei minorenni allora guidato da Giampaolo Meucci gli affida un bambino down, un segnale chiarissimo di quale parte avrebbe tenuto quell’istituzione in quel momento e negli anni successivi”. Meucci, ricorda il vaticanista Sandro Magister sul suo blog Settimo Cielo, era “grande amico di don Milani” e continuava a ritenere il Forteto una comunità “accogliente e idonea” (alla vicenda Magister ha dedicato diversi articoli, tra cui l’utile cronologia: “Cattivi scolari di don Milani. La catastrofe del Forteto”). Ma accanto a Fiesoli si sarebbe schierata anche la rivista cattolica progressista Testimonianze, fondata dal sacerdote fiorentino Ernesto Balducci. Solo due settimane fa, è tornato alla luce, dopo una lunga e misteriosa sparizione, il fascicolo processuale del 1978 con le testimonianze raccolte da Casini e Chelazzi. La Nazione cita, tra le altre, quella di una coppia di Prato: “E’ successo due o tre volte che nel corso delle riunioni egli (Fiesoli, ndr) si sia tirato giù i pantaloni e le mutande, prendendosi in mano il membro e mostrandolo, secondo lui doveva essere un gesto disinibitorio”. E’ l’inizio, prosegue il quotidiano, “di un racconto choc fatto di divieti ad avere rapporti sessuali fra coniugi, di richieste di rapporti omosessuali, di riunioni collettive per guardarsi reciprocamente i genitali, di parolacce, di insulti, di inviti a picchiare i propri genitori. E qui torna anche l’altro lato emerso nell’inchiesta di oggi: ‘Tra le cose che secondo il Fiesoli bisognava fare c’era rompere con la famiglia. A me disse che non sarei stata libera da mia madre finché non l’avessi picchiata’”. Per capire che cosa siano quelle che al Forteto erano dette “famiglie funzionali”, leggiamo anche ciò che scrive Armando Ermini sul blog fiorentino Il Covile, diretto da Stefano Borselli, che negli anni ha sempre seguito con attenzione la vicenda: “Se c’è una cosa chiara fin da subito, è l’odio totale per la famiglia nutrito dai leader della comunità del Forteto. Si faceva in modo che i ragazzi affidati non avessero più alcun contatto con la famiglia d’origine, si faceva loro credere di essere stati abbandonati nel più completo disinteresse, si incentivava in loro ogni tipo di rancore e di rivalsa affinché ogni ponte col passato fosse tagliato… le coppie affidatarie erano in realtà composte da estranei privi di legami affettivi fra di loro. E anche quando nella comunità ne nasceva uno, vi era l’assoluto divieto di costruire qualsiasi simulacro di vita di coppia. I rapporti eterosessuali erano osteggiati in ogni modo, e fra maschi e femmine esisteva una separazione assoluta. La così detta famiglia funzionale, geniale invenzione di Rodolfo Fiesoli, poteva significare qualsiasi cosa ma non aveva nulla a che fare con la famiglia naturale e nemmeno con un suo qualsiasi surrogato”. Ma allora, si chiede Ermini, “perché i giudici deliberavano di affidare i bambini alle non coppie del Forteto? Perché i servizi sociali indicavano come affidabili queste non coppie? Perché per giornalisti, scrittori, sindacalisti, politici, preti, il sistema Forteto era additato come esempio? Perché la Regione Toscana lo favoriva in ogni modo? La risposta, credo, può essere una sola… quantomeno era condivisa la concezione secondo la quale la famiglia naturale era il problema, un luogo di oppressione destinato ad essere soppiantato da altre forme di aggregazione fra individui, o comunque un istituto da modificare in profondità nel suo significato tradizionale”. Senza l’ideologia che l’ha originata, nutrita e protetta – quella della famiglia nemica, da disintegrare e neutralizzare – la vicenda del Forteto non si capirebbe (in Francia quell’ideologia nel frattempo è diventata, con il ministro Peillon, la missione della scuola). Il suo presupposto, leggiamo nella relazione della Regione Toscana sul Forteto, è che “la coppia e la famiglia comunemente intese rappresentano luogo di egoismo e ipocrisia inadeguato all’educazione dei giovani ai valori di uguaglianza, altruismo e solidarietà. Solo disaggregando l’unità familiare, secondo quanto asserito da Fiesoli… ci può essere il perseguimento di tali valori”.
Scandalo Forteto, dove si stupravano i bambini: le protezioni in Parlamento e nella Magistratura, si legge sul sito di Magdi Cristiano Allam. Dice don Stefano – ex amico del “profeta”, che Fiesoli «è un uomo affascinante e potente, consapevole del proprio carisma», capace «di percepire nelle persone i loro punti deboli», un uomo che gode di «rapporti con personaggi politici». Gli atti dell’inchiesta raccontano scene di sesso (estorto con la forza fisica o con la crudeltà psicologica), punizioni corporali, «stupri psicologici» di fronte agli altri (negli anni Novanta si ricorda il figlio di un magistrato che fu fatto mangiare a 4 zampe da una ciotola come fosse un cane: così raccontano due vittime). E parlano di controlli inesistenti dei servizi sociali. Perché questo? Per gli stretti legami che univano il Forteto alla gang politica al potere in Toscana. Un’informativa della polizia, datata marzo 2011, conferma l’esistenza di questi intrecci politici con chi doveva controllare e non ha controllato: «Fiesoli creava le famiglie a suo piacimento. I nuovi arrivati vengono affidati legalmente dal Tribunale a una coppia di genitori ma non è detto che siano poi cresciuti ed educati dalle persone a cui sono stati legalmente affidati. I servizi sociali, negli ultimi anni, si sono fidati dei soci del Forteto e anche se ogni tanto si presentavano in loco a fare delle visite non effettuavano dei veri e propri controlli. C’era spesso Fiesoli ad accoglierli e trascorreva tutto il tempo con loro». L’11 febbraio scorso è però un assistente sociale (il cui nominativo, a differenza di altri, non risulta nell’agendina telefonica sequestrata al Fiesoli) ad avvisare i carabinieri di Vicchio: «Un minore mi ha parlato di rapporti omosessuali». Nel medesimo giorno i carabinieri vengono contattati dall’avvocato Coffari che sostiene di aver presentato i primi esposti contro Fiesoli. C’è poi la storia di una famiglia che osò denunciare Fiesoli e la sua banda, e che mette in luce un inquietante sistema di connivenze e intrecci tra politica, magistratura e inquirenti: agli atti risulta l’esposto che i genitori fanno nel 2002 contro l’ex comandante della stazione di Vicchio accusato di non fare indagini sul Forteto e la coppia si ritrova indagata per calunnia dalla procura allora diretta da Ubaldo Nannucci. La cosa incredibile è che, perquisendo la sede del forteto, è stata trovata la copia dell’esposto che la coppia di coniugi aveva scritto contro Fiesoli e che era indirizzato al Comune di Santa Maria a Monte (Pisa), al prefetto di Pisa e al Tribunale dei Minori. Chi ha fornito – cosa gravissima – copia dell’esposto all’accusato? Il Prefetto? Improbabile. Il tribunale dei minori? Forse ( e poi capirete perché). Qualche politico del Comune di Santa Maria a Monte (Pisa)? Forse. E non finisce qui, nella casa del Fiesoli è stata trovata anche la copia del verbale di una denuncia che una minorenne fece all’Ufficio Minori della Questura di Firenze l’11 gennaio 1997. Nella «Fondazione Il Forteto» siedono diverse personalità. Nell’atto si legge che il comitato scientifico è stato nominato dal Cda della Fondazione Il Forteto il 9 settembre 1998 ed era allora composto tra l’altro dall’ex presidente del tribunale dei minori Gianfranco Casciano, dall’ex giudice minorile Antonio Di Matteo, dall’onorevole del Pd Eduardo Bruno, dal professore Giuliano Pisapia (oggi sindaco di Milano,che poi curerà il processo della Cassazione che condannò Fiesoli nel 1985), dall’ex pm Andrea Sodi, da Mariella Primiceri, allora a capo dell’Ufficio Minori della questura di Firenze. Nell’elenco figura anche Tina Anselmi. I nominativi appena elencati risultano nell’agendina di Fiesoli, che è stata sequestrata dai carabinieri. Di magistrati, tra cui Sodi, parlano alcune vittime nei verbali anche se l’ex pm ha spiegato di non aver mai dato informazioni a Fiesoli. Ci si domanda perché tali personalità non siano sotto indagine. Perché Pisapia facendo parte del Comitato scientifico dell’associazione, non è indagato come corresponsabile di quello che avveniva al Forteto? Cosa sapeva e ha taciuto? Scrive il Corriere Fiorentino che un riferimento all’onorevole Bruno viene trovato nelle carte sequestrate nella casa di Fiesoli: si tratta di una copia della lettera dell’ex onorevole indirizzata all’onorevole Scozzari (probabilmente Giuseppe Scozzari, eletto nell’allora Ppi). Bruno sollecita il collega a non dare credito a un’interrogazione parlamentare del 1999 contro il Forteto perché è «un compendio di falsità e di accuse infamanti nei confronti della Magistratura e della cooperativa il Forteto». Sempre in un verbale di una delle vittime si trova il nome di Di Pietro: il numero di telefono del fondatore dell’Idv risulta nell’agendina del Fiesoli e l’ex pm, che in quel momento sta correndo per vincere le elezioni nel Mugello contro Giuliano Ferrara, ha firmato la prefazione al libro «Il Forteto» scritto da Lucio Caselli. Nella richiesta di arresto la Procura parla di due realtà: quella «interna», dettagliata nei racconti delle presunte vittime, e quella «esterna» e pubblica. Una specie di doppio binario che, argomentano gli inquirenti, ha permesso di trovare credibilità istituzionale tanto che Fiesoli ha partecipato a Palazzo Vecchio all’evento TEDx lo scorso anno, e il suo intervento — registrazione compresa — è finito agli atti dell’inchiesta. Il giorno dopo l’arresto di Fiesoli, il 22 dicembre scorso, la polizia scrive «di essere stata contattata telefonicamente da (omissis, ndr) che riferiva che il presidente della cooperativa aveva contattato la Cgil invitando a riferire agli attuali lavoratori del Forteto che avevano presentato denuncia, che sarebbero stati licenziati». Agendine, numeri di politici, protezioni politiche e interventi di sindacalisti e cooperanti. Un intreccio mafioso di potere. Se Fiesoli è sotto processo, perché non lo sono i suoi protettori? Una cooperativa agricola o una setta di maniaci? Perché i politici appoggiano il Forteto? La struttura toscana è stata scenario di abusi sessuali su minori per ben trent’anni. Che cos’ha fatto il governo? Niente, anzi no, molti politici hanno reso visita al Forteto e supportato le attività del Fiesoli, capo della struttura. A far paura non sono solo le violenze subite dai bambini affidati al Forteto, ma anche il silenzio e l’appoggio del governo.
Le ultime notizie non consolano per nulla: dopo 14 mesi di ispezioni, il ministero dello Sviluppo Economico ha deciso di non commissariare la struttura. Renzi dovrebbe essere molto ben informato della vicenda che ha luogo nelle sue terre toscane. Chissà se il premier, oltre che cambiare l’Europa, prenderà dei provvedimenti anche nel caso Forteto … le vittime della cooperativa, che gli hanno spedito una lettera, lo sperano molto. Tatiana Santi de “La Voce della Russia” si è rivolta per un commento sulla triste vicenda ad Alessandro Fiore, membro del direttivo dell’associazione ProVita, che ha lanciato una petizione a sostegno delle vittime del Forteto.
Che interessi ci sono dietro al Forteto? Perché i politici a suo avviso non hanno preso provvedimenti nonostante le testimonianze delle vittime?
«Questa è la domanda centrale che ci da la chiave di tutto. In effetti, com’è possibile che dagli anni ’70 fino ad oggi siano andati avanti abusi di ogni tipo, addirittura con atti clementi da parte del tribunale dei minori e dei servizi sociali? Rodolfo Fiesoli, il cosiddetto “profeta”, era molto abile a cercare contatti anche tra persone molto potenti, parliamo di politici, magistrati e personaggi dello spettacolo. Nelle testimonianze si punta su questo problema, cioè che molti politici andavano lì, appoggiavano il Fiesoli, cantavano le lodi del Forteto, scrivevano insieme a lui dei libri. In cambio di cosa? Io direi non solo dei formaggi della cooperativa agricola, ma purtroppo anche per prestazioni di altro tipo che si possono ben immaginare».
Qual è lo stato attuale della vicenda? Sembra che la cooperativa non sarà commissariata. Il Forteto quindi è tuttora aperto?
«Il Forteto non è mai stato chiuso. Dopo che sono stati presentati all’opinione pubblica i fatti, anche grazie a diverse trasmissioni televisive, negli ultimi tempi pare non ci siano stati affidamenti di minori. La struttura però è rimasta aperta e noi sappiamo da varie fonti che all’interno ci sono ancora almeno due bambini, tra cui un disabile. Ventitre persone, tra cui Rodolfo Fiesoli, sono sotto processo per maltrattamenti, abusi, violenza sessuale di gruppo. Desta grande sorpresa che il governo non abbia voluto commissionare la struttura, quando gli ispettori stessi del governo avevano chiesto questa misura».
Quindi anche il capo del Forteto il “profeta” è ai domiciliari, non in galera?
«Era stato arrestato nel 2011, poi però messo agli arresti domiciliari».
Ora il "profeta" del Forteto fa cacciare il suo giudice. Incredibile decisione al processo contro Fiesoli per le violenze sui minori nella comunità del Mugello. Il presidente ricusato per avere usato "un tono incalzante" durante le udienze, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Qual è il segreto della comunità del Forteto, delle sue protezioni, della sua abilità nell'evitare i guai? Il fondatore, il «profeta» Rodolfo Fiesoli, fu condannato negli anni 80 per atti di libidine e maltrattamenti su minori affidatigli, eppure ha continuato indisturbato la sua attività. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato nel 2000 l'Italia per l'affidamento di due bambini con annesso risarcimento da 200 milioni di lire, ma il tribunale dei minori di Firenze ha continuato a inviare ragazzini alla comunità di «accoglienza» sul Mugello. Più di recente, il governo Renzi (in cui siede l'ex presidente di Legacoop) ha negato il commissariamento (richiesto dal precedente governo Letta) della annessa e omonima coop agricola. L'altro giorno il Profeta ha messo a segno un altro colpaccio. Dall'ottobre scorso egli è sotto processo a Firenze con altre 23 persone per reati sessuali e maltrattamenti su minori, e le drammatiche testimonianze rese in questi mesi dalle vittime del Forteto ne stanno compromettendo la posizione: a Vicchio si predicava e si praticava l'omosessualità sui minorenni in affido per «liberarli dal male», e poi violenze, lavaggio del cervello, sfruttamento. Ora Fiesoli ha ottenuto la ricusazione del presidente del collegio giudicante, Marco Bouchard, chiesta da uno dei suoi legali, Lorenzo Zilletti. La decisione è destinata ad allungare i tempi del processo e ad avvicinare pericolosamente i termini della prescrizione, che ha già ghigliottinato alcune denunce. Ma il fatto più sconcertante è che uno dei tre magistrati che ha deciso la ricusazione, Maria Cannizzaro, è stata presidente di quel tribunale dei minori fiorentino che spediva disinvoltamente i bambini al Forteto. Il giudice Cannizzaro è addirittura il consigliere relatore di questa ordinanza. Denuncia Stefano Mugnai, consigliere regionale di Forza Italia presidente della commissione d'inchiesta che ha portato alla luce gli orrori del Forteto: «Dai documenti ricevuti dalle vittime di questa vicenda, scoraggiate e umiliate dalla ricusazione, durante la sua attività presso il tribunale per i minorenni di Firenze il giudice Cannizzaro ha siglato lei stessa provvedimenti che hanno avuto come esito l'affidamento di minori» a Fiesoli e compagni. Mugnai ricorda che «il tribunale di Genova avrebbe aperto un fascicolo sull'operato dei giudici minorili fiorentini che hanno continuato imperterriti ad affidare bambini al Forteto malgrado due sentenze passate in giudicato. Da parte delle istituzioni l'ennesimo tradimento alle vittime e uno schiaffo alla verità processuale. Sono indignato». E qual è stato il grave comportamento che ha svelato la «posizione preconcetta» del giudice Bouchard verso il Forteto? La sua colpa è di avere usato l'indicativo al posto del condizionale nel porre le domande a due imputati. Nella motivazione si eccepisce che Bouchard abbia usato uno «stile colloquiale», un «tono incalzante e assertivo e a tratti insofferente» e che «le contestazioni non sono espresse in forma dubitativa». «La ricusazione è un fatto mai avvenuto prima a Firenze - dice il consigliere regionale Maria Luisa Chincarini (Centro democratico) -. Persino Berlusconi è mai riuscito a ottenerla in uno dei suoi processi. Sembra proprio che si voglia far di tutto per lasciar sole le vittime di abusi che con tanto coraggio hanno avuto la forza di denunciare quanto subito in decenni di sevizie e malversazioni. Sembra l'ennesima dimostrazione che c'è davvero qualcosa di grosso dietro la vicenda del Forteto». Di segnale «gravissimo e preoccupante» parla anche il consigliere regionale Pd Paolo Bambagioni: «Vedo la precisa volontà di proteggere in qualche modo il sistema Forteto e non andare al cuore delle responsabilità dei crimini perpetrati per anni ai danni di innocenti bambini».
Forteto, gli strani legami del giudice che ha tolto il processo al suo collega. Ecco la firma sul documento che ha ricusato il magistrati Bouchard. È della toga che affidava i minori al Profeta a giudizio per abusi, scrive ancora Stefano Filippi su “Il Giornale”. Sergio Pietracito, presidente dell'associazione vittime del Forteto, è allibito. Con un gruppo di fuorusciti dalla comunità delle violenze sul Mugello, non ha perso nemmeno una delle 50 udienze che finora si sono svolte del processo di Firenze al fondatore Rodolfo Fiesoli. Ha raccontato gli orrori visti e subiti, ne ha ascoltati molti altri. Sperava che la verità sul Forteto finalmente venisse a galla, più forte delle coperture e degli appoggi di cui gode il Profeta. Oggi si ritrova un collegio giudicante decapitato, privo del presidente ricusato dalla corte d'Appello di Firenze su istanza dei difensori di Fiesoli. Una ricusazione decisa, tra gli altri, dal giudice relatore Maria Cannizzaro, ex magistrato di quello stesso tribunale dei Minori che mandava ragazzini al Forteto. «E lei, non si doveva astenere?», si stupisce Pietracito. Porta la data del 22 aprile 2010 l'ordinanza con la quale il tribunale dei Minori di Firenze (presidente Gianfranco Casciano, giudice relatore ancora Maria Cannizzaro) tolse due ragazzini alla comunità Ceis di Pistoia incaricando i servizi sociali di Prato di collocarli altrove. Tre settimane dopo, l'11 maggio, i servizi sociali della Usl 4 notificarono al tribunale «l'accompagnamento presso la comunità Il Forteto». Nessuno ebbe nulla da eccepire. «È mancata una regia nella gestione degli affidi, i bambini non venivano affidati ma semplicemente consegnati al Forteto», ammise l'attuale presidente del tribunale dei minori, Laura Laera, quando ne prese la guida nel 2012. Negli archivi non esistevano dossier sulle famiglie, i minori e le loro destinazioni. Non contava che il Profeta fosse stato condannato nel 1985 per reati gravissimi (atti di libidine violenti continuati, lesioni aggravate continuate, corruzione di minorenne) con il suo principale collaboratore, Luigi Goffredi. Non contava che nel 2000 la Corte europea dei diritti dell'uomo avesse condannato l'Italia a risarcire 200 milioni di lire per il trattamento riservato dal Forteto ad alcuni minori ospiti. Un anno e mezzo dopo quell'affidamento, nel dicembre 2011, Fiesoli fu nuovamente arrestato con l'accusa di reati sessuali dei quali deve rispondere con altre 22 persone nel processo in corso a Firenze. Le vittime del Profeta e dei suoi accoliti sono sgomenti. «Stiamo assistendo a un dibattimento durissimo - dice una di loro, Marika Corso - non sappiamo come fare a ripetere tutti quei racconti in aula per la seconda volta». Pietracito difende il presidente della corte ricusato, Marco Bouchard: «Non si può estrapolare da un contesto più ampio poche battute per inficiare l'integrità di una persona di così alto livello. Tutto ciò è semplicemente vergognoso». A Bouchard è stato addebitato un «tono incalzante e assertivo, a tratti insofferente, con scoppi e sovrapposizione della voce», nel porre domande «non espresse in forma dubitativa». Nonostante violenze, denunce e condanne definitive, il Forteto è sempre stato considerato una comunità modello in Toscana. Tribunale dei Minori e servizi sociali hanno continuato per decenni ad affidarvi bambini in difficoltà. Il Profeta è un intoccabile, con tante amicizie giuste negli ambienti giudiziari, culturali e politici di Firenze. I big del Pci-Pds-Ds vi chiudevano le campagne elettorali. Intellettuali, magistrati e amministratori locali l'hanno sempre difeso: sette giorni prima dell'ultimo arresto Fiesoli partecipava a Palazzo Vecchio a un convegno sull'accoglienza cui era presente anche l'allora sindaco Matteo Renzi. Soltanto un mese fa la cooperativa agricola annessa alla comunità ha evitato il commissariamento chiesto dal governo Letta. La coop Il Forteto aderisce alla Legacoop di cui il ministro Giuliano Poletti è stato a lungo presidente. Con il governo Renzi-Poletti il Forteto la sfanga: è soltanto una coincidenza? E ora ecco la ricusazione del presidente del collegio giudicante che potrebbe portare ad azzerare tutto. Si allungheranno i tempi del processo e si estenderà l'ombra della prescrizione, visto che per alcuni episodi oggetto del dibattimento i termini scadono nel 2015. I deputati Massimo Parisi (Forza Italia) e Giorgia Meloni (Fratelli d'Italia) hanno presentato interrogazioni al ministro Orlando sulla regolarità delle procedure seguite nel palazzo di giustizia di Firenze. Stefano Mugnai, presidente della commissione d'inchiesta regionale che ha smascherato gli orrori del Forteto, ha chiesto al governatore Enrico Rossi di ricorrere contro la ricusazione: la Regione è parte civile nel processo.
Il governo imbosca il caso Forteto con l'aiuto del ministro ex coop, continua Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un anno fa, il 2013, nel pieno dello scandalo del Forteto, il governo Letta mandò un'ispezione nella cooperativa agricola del Mugello. Molti minori abusati dal fondatore della comunità, Rodolfo Fiesoli (oggi sotto processo con altre 22 persone per reati sessuali e maltrattamenti sui minori), vi avevano lavorato illegalmente: c'era una promiscuità sospetta tra la comunità degli orrori e la coop, entrambe fondate dal «profeta». I quattro mesi di controlli si erano chiusi con la richiesta di commissariamento. Oggi è cambiato il governo. Il posto di Enrico Letta è stato preso da Matteo Renzi, che da sindaco di Firenze il 12 novembre 2011 ospitò il «profeta» a un convegno nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio: Fiesoli sarebbe stato arrestato pochi giorni dopo. E nell'esecutivo è entrato Giuliano Poletti, ex vicepresidente nazionale di Legacoop, la centrale delle coop rosse che si è sempre opposta al provvedimento: il Forteto ne è socio. Morale: niente commissariamento per la coop agricola che era tappa immancabile per i leader del partito che salivano al Mugello. La decisione del ministero dello Sviluppo economico, cui compete la vigilanza sulle coop, ha il sapore di una beffa clamorosa. Una vergogna. Gli ispettori avevano evidenziato gravi irregolarità nelle buste paga (niente straordinari né festivi), negli stipendi (tutti inquadrati con lo stesso contratto pur svolgendo mansioni diverse), soci costretti a «sottoscrivere inconsapevolmente strumenti finanziari», e poi «un atteggiamento discriminatorio verso i soci usciti dalla coop» dopo l'emergere degli scandali. La coop ha la «tendenza a confondere le regole e i principi della comunità con il rapporto lavorativo e societario». Il commissariamento era necessario. Nulla era cambiato nemmeno dopo un supplemento di ispezione: nel secondo rapporto si legge che «permangono le irregolarità» relative a una serie di violazioni dello statuto e del regolamento interno. «La situazione non appare al momento sostanzialmente mutata», è scritto. Ma per il governo di Renzi e Poletti è tutto in regola, in poche settimane ogni irregolarità è stata miracolosamente sanata. La decisione è grave anche per l'andamento del processo in corso contro Fiesoli e i suoi sodali. Nella comunità del Forteto sono stati commessi abusi e violenze per decenni in un silenzio complice. Il «profeta» è stato condannato negli Anni '80 per reati analoghi e una sanzione è giunta all'Italia dalla Corte di giustizia europea. Ciononostante i tribunali dei minori non hanno smesso di mandare bambini alla comunità, e la coop ha continuato a operare in questa ambiguità. Alcuni dipendenti della coop dovranno deporre al processo, ma senza un cambio del gruppo dirigente saranno sotto pressione. «E coloro che hanno denunciato vivranno in condizioni lavorative inaccettabili», accusano i consiglieri regionali toscani Stefano Mugnai (Forza Italia), Giovanni Donzelli (Fratelli d'Italia) e Maria Luisa Chincarini (Centro democratico). Mugnai è il presidente della commissione d'inchiesta regionale che portò alla luce gli orrori del Forteto: «Cala un'altra coltre di silenzio rosso», dice. Sdegno anche dal Comitato delle vittime. «Il governo Renzi si è preso una responsabilità gravissima nell'assecondare le pressioni ricevute dal Partito democratico locale, sindacati e centrali delle cooperative a difesa del Forteto - denunciano i tre consiglieri -. Gli ispettori dopo aver scelto il commissariamento sono stati nuovamente inviati al Forteto e hanno trasformato la richiesta di commissariamento in diffida non perché avevano sbagliato la prima analisi, ma solo per un cambio di atteggiamento e per la scelta del Consiglio di amministrazione del Forteto di modificare lo statuto e redigere un codice etico». Già: al governo Renzi basta un po' di autoregolamentazione per ripulire chi è sotto processo per abusi e violenze sui minori dopo essere già stato condannato per gli stessi gravissimi reati.
Lo studioso Dal Bosco: “Collegamenti tra delitti del Mostro di Firenze e Forteto”, scrive Domenico Rosa su “Imola Oggi”. Il giovane studioso Roberto Dal Bosco sarà a Firenze il prossimo martedì 20 maggio 2014 alle ore 17 all’Auditorium della Regione in via Cavour, 4 per la presentazione del libro “Il Forteto: destino e catastrofe del cattocomunismo” (Settecolori) di Stefano Borselli con la prefazione di Stefano Mugnai e i contributi di Armando Ermini e Piero Vassallo. Interverranno: Stefano Borselli, curatore del volume; Giovanni Donzelli, Capo Gruppo di FdI alla Regione Toscana; Stefano Mugnai, Presidente della Commissione regionale d’inchiesta su “Il Forteto”; Sergio Pietracito, una delle vittime de “Il Forteto”; Caterina Coralli, Capo gruppo uscente di FdI al Comune di Vicchio e il giornalista Pucci Cipriani Direttore di “Controrivoluzione”. Presiederà e modereà l’incontro l’Avv. Ascanio Ruschi, Presidente della Comunione Tradizionale. A Roberto Dal Bosco, scrittore e studioso vicentino, autore tra l’altro, dell’opera “Incubo a cinque stelle: Grillo , Casaleggio e la cultura della Morte” (Fede e Cultura), rivolgiamo alcune domande:
Dunque il Forteto è la catastrofe del cattocomunismo e del donmilanmeuccismo?
«Il caso Forteto non è solo la catastrofe del catto-comunismo. E’ un buco nero che sconvolge la realtà italiana in profondità…In questi decenni abbiamo visto a quali abiezioni si sia arrivati al Forteto. Stupri pedofili, pseudo – incesti, pratiche zoofile, l’ordine dell’omofilia obbligatoria e il divieto della procreazione: tutto questo emerge dai verbali. Penso alle povere vittime, il dolore che viene da questo “abisso” è un danno immane. Eppure questa non è la fine dell’incubo».
In che senso?
«La vera domanda è: perché nessuno ha fatto nulla? Perché anzi, tutti quei politici, magistrati, amministratori si sono mostrati con il guru Fiesoli dopo le condanne? Come è possibile che Fiesoli avesse tutte quelle coperture? Come è possibile che si inviti una persona sotto processo per pedofilia presentare il TEDx a Palazzo Vecchio?… C’è qualcosa che non si spiega… L’idea – mi rendo conto, tutta da provare – è che il Forteto possa essere stato qualcosa in più di una semplice comunità di recupero. Molti misteri di fatto sono finiti per incrociarsi lì. Nell’aprile del 2006 “La Nazione” titolava: “Un detenuto racconta di una super Loggia massonica e pedofila che avrebbe ordinato di compiere gli omicidi di Firenze”. Si dava conto che le indagini per i delitti del Mostro stavano lambendo una comunità, ma il nome del Forteto esce raramente.»
Un collegamento tra il Forteto e i delitti del “Mostro”…ho capito bene?
«Ripeto. l’idea è tutta da provare. Comunque il p.m. Giuliano Mignini parlò di un documento secretato per il quale al Forteto avvenivano orge sataniche, con ampia affluenza di VIP …mi rendo conto che pare fiction horror di basso livello , ma potrebbe esservi una logica politica in fondo a questa storia. La stessa che alimenta i sospetti su Marc Dutroux…»
Sta parlando del “mostro di Marcinelle”?
«Precisamente. Marc Dutroux, quello che lei chiama il “mostro di Marcinelle”, era il noto pedofilo assassino che sconvolse il mondo quando vennero ritrovati nel suo giardino alcuni cadaveri di bambini. Come Fiesoli, Dutroux agì indisturbato per anni, anche quando era già finito nel radar delle forze dell’ordine: riuscì anche a fuggire da un furgone-cellulare quando era agli arresti. Quel che si dice è che l’impunità di Dutroux fosse dovuta al suo ruolo di procacciatore di “carne fresca” per alcuni potentati che gravitano intorno alla UE in quella che con Firenze è detta essere la città più massonica d’Europa, Bruxelles. Oltre all’aspetto rituale che può avere l’abominio dello stupro pedofilo – siamo in piena gnosi , nell’”antinomismo”, nel tantrismo demoniaco – c’è anche una logica meramente politica: se hai partecipato a questi festini, sarai ricattabile per sempre, quindi membro affidabile di quell’élite sino alla morte. E’ un’iniziazione e al contempo un sistema di ricatto: la pedofilia come strumento politico. Il caso del “Mostro di Marcinelle” ha toccato anche il premier belga, l’omosessuale dichiaratamente massone Elio De Rupo, a cui qualcuno chiede talvolta di chiarire i suoi rapporti con Dutroux. C’è il Mostro di Marcinelle, c’è il Mostro del Forteto, nell’attesa di capire se vi sia qui anche il Mostro di Firenze. La Massoneria pare entrare in ognuno di questi casi. Piero Vassallo che reputo il più grande filosofo cattolico vivente, ha delineato perfettamente, nel libro di Borselli, la radice gnostica del caso Forteto. Va delineato inoltre che si tratta di una ulteriore insorgenza di uno spirito oscuro sui colli fiorentini in questi due ultimi secoli. Nell’Ottocento l’antropologo americano Leland scrisse: “Aradia il Vangelo delle Streghe” a Firenze. Si tratta di uno scritto dettatogli da una strega che lo rese partecipe di quella che lei chiamava la “vecchia religione”, e cioè la stregoneria. Il libro divenne strumentale nella costruzione della neo-stregoneria odierna chiamata WICCA, ora diffusissima negli Stati Uniti e perfino in Europa…»
Insomma tutto partì da Firenze…
«La terra più bella d’Italia, che mostra un lato ferale e oscuro. E’ quello che, forse, percepì De Sade, quando entrò a Firenze, eccitato dall’idea che quella fosse stata un tempo una terra vulcanica. E’ un assioma noto: il demonio si accanisce sempre sulle cose baciate da Dio…»
Allora possiamo considerare il Forteto come una vera e propria “setta”?
«Tutto da studiare. Secondo una tipologia creata dallo psichiatra americano Robert Jay Lifton, puoi definire un culto come apocalittico quando è presente una triade di caratteri. Il primo: il guru diventa oggetto di adorazione maggiore rispetto ai princìpi religiosi, che egli puo’ trasgredire senza dare scandalo. Secondo vi debbono essere elementi di Thought reform, cioè “riforma del pensiero”, di indottrinamento continuo, rituali programmati di autocritica con la confessione dei propri errori. Terzo, sfruttamento dei seguaci da parte del leader. Al Forteto abbiamo tutta la triade soddisfatta. Fiesoli fa ciò che vuole, vi sono estenuanti rituali, confessione pubblica. Lo sfruttamento è tale che vengono fatti lavorare indefessamente anche bambini più piccoli. Tutto questo sotto lo sguardo dei sindacati, del Partito ex comunista, della magistratura, degli assistenti sociali, dei sacerdoti, di intellettuali rinomati di cui ancora parleremo…»
Ed ancora....
Abusi su minori: arrestato ex giudice onorario Tribunale di Roma, scrive Luca Cirimbilla su “L’Ultima Ribattuta”. Bufera sulla Giustizia italiana. Tra le persone arrestate ieri a Santa Marinella dalla polizia, c’è il responsabile della struttura ‘Il monello mare’ Fabio Tofi che risulta aver ricoperto in passato il ruolo di Giudice Onorario presso il Tribunale per i minori di Roma. Le accuse sono pesantissime e vanno dagli abusi sessuali e violenze fisiche sui minori, alla somministrazione di farmaci e tranquillanti scaduti, fino al cibo avariato distribuito ai piccoli. A capo della struttura chiusa ieri c’era, appunto, Fabio Tofi, indagato per maltrattamenti aggravati, lesioni aggravate e violenza sessuale aggravata. Tofi, 55enne, sul sito de “Il Monello Mare” viene definito “Responsabile della comunità educativo-terapeutica per adolescenti dal 1999. Si occupa di problematiche relativa al ” crollo” di adolescenti e della famiglia”. Sul suo profilo Facebook, poi, sono leggibile alcune frasi inquietanti scritte dallo stesso Fabio Tofi: sulla didascalia della sua immagine di copertina si legge “mi sento come una foglia assetata in cerca di acqua limpida…”. Il riferimento alle giovani vittime non può che apparire immediato. Nel gruppo de “Il Monello Mare”, invece, Tofi si lascia andare con un “ilmonello mare è la mia vita”. Sempre sul sito della struttura, almeno fino a ieri, era possibile consultare il Curriculum Vitae di Fabio Tofi, ora agli arresti domiciliari: tra i vari incarichi ricoperti (“Responsabile della comunità educativo-terapeutica per adolescenti “Il Monello Mare” dal 1999 a tutt’oggi; Coordinatore del progetto adolescenti 285/97 Distretto RMF1 “vorreichiedertiqualcosa…” dal mese di dicembre 2006 al mese di gennaio 2009”) ce n’è uno che desta particolare angoscia. Tofi, infatti, risulta esser stato Giudice Onorario dal 1997 al dicembre 2009 presso il Tribunale per i minorenni di Roma con una serie di incarichi all’interno di collegi e gruppi che vanno dall’infanzia, all’adolescenza fino all’ambito scolastico. Se le accuse nei confronti di Tofi dovessero essere confermate si tratta di un’onta gravissima per la Giustizia dei minori: bambini e adolescenti – vittime di contesti sociali degradanti e ignobili – rischiano in molti casi di essere catapultati in situazioni che li dovrebbero riabilitare e invece li rendono ancora più martiri. Oltre a Fabio Tofi, sono state iscritte nel registro degli indagati le quattro collaboratrici per maltrattamenti aggravati, sottoposte alla misura cautelare del divieto di dimora nella struttura.
Parla l’Avvocato Dionisi ,il legale dei cinque indagati della casa famiglia Io Monello Mare, scrive "Tele Santa Marinella". Passa al contrattacco, l’avvocato Dionisi, legale dei cinque indagati della casa famiglia Io Monello Mare, che accusa apertamente chi ha fatto la denuncia per violenze sessuali e maltrattamenti, di aver ordito una vendetta nei confronti di chi gestiva la struttura. L’avvocato infatti, dopo che le ragazze allontanate dalla comunità di Santa Marinella, avevano riconfermato le accuse nelle audizioni di gennaio e di febbraio, intende chiarire alcuni fatti importanti a discolpa dei suoi assistiti dimostrando, con prove, che le giovani si incontravano spesso e parlavano attraverso facebook. “Dopo gli interrogatori a cui si sono sottoposti davanti al gip Chiara Gallo il dottor Fabio Tofi e i suoi collaboratori – dice l’avvocato Dionisi – sono emersi ulteriori elementi, anche documentali, i quali rafforzano la tesi della congiura e della vendetta perpetrate nei loro confronti. Infatti, nell’ordinanza emessa per la misura cautelare, contenente i fatti dei reati contestati e le motivazioni, si legge che “le dichiarazioni del gennaio e del febbraio 2015 sono state rese dopo che le due ragazze non erano più in contatto da tempo”. “Emerge però di contro una opposta verità – precisa il legale – intanto c’è da premettere che le ragazze erano state allontanate dalla comunità Monello Mare entro i primi sei mesi del 2014 e mandate, una in comunità a Manziana e l’altra a Roma. Quanto contenuto nell’ordinanza, dove si dichiara che le due giovani dal momento in cui sono state allontanata dal Monello Mare (primi 6 mesi del 2014) fino al momento in cui hanno rilasciato le dichiarazioni (gennaio e febbraio 2015) non avevano avuto più contatti tra loro, non corrisponde al vero e ampiamente smentito dai contatti attraverso i loro profili facebook dove risultano messaggi tra le stesse. Il 28 settembre 2014 una delle due cambia la sua immagine del profilo, mentre l’altra il 4 ottobre 2014 invia alle 10.15 un messaggio alla sua amica in cui dice “ma quanto pò esse bella mi sorella”. La prima quindi ringrazia del messaggio alle 10.20 dello stesso giorno l’amica con il disegno di un cuoricino. Ma c’è di più – incalza l’avvocato Dionisi – il 10 dicembre del 2014 sul profilo facebook di una delle due ragazze, appare una foto che le ritrae insieme sorridenti. Ricordo che le due giovani erano ospiti di due comunità distanti tra loro. Allora mi chiedo come è possibile che il 10 dicembre erano insieme e come hanno fatto ad allontanarsi dalle comunità dove risiedevano? – si domanda il legale – i responsabili delle due comunità erano a conoscenza che le due erano in contatto tra loro e che si frequentavano? Inoltre si nota anche un’altra immagine che mostra una delle due amiche che sta a Santa Marinella. Cosa faceva in quel posto quando invece doveva essere in comunità? Perché è venuta a Santa Marinella?. Perché gli operatori delle comunità hanno consentito alle ragazze di allontanarsi senza vigilare? Le ragazze quindi si sono sempre incontrate tacendo agli inquirenti questi particolari. E se i responsabili lo avessero taciuto per non rendersi responsabili di omessa vigilanza? “Dagli elementi che stanno emergendo – conclude l’avvocato Dionisi – traspare con forza l’ipotesi di un preordinato disegno destinato a ledere gli indagati. Comunque se confermare gli arresti domiciliari al dottor Tofi serve per avere più tranquillità per il proseguimento delle indagini a noi va bene lo stesso”.
Lazio, chiusa casa famiglia. Ecco chi fa affari con la finta solidarietà, scrive Paolo Lami su “Il Secolo D’Italia”. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica. E’ quanto avrebbero subito alcuni ospiti della casa famiglia “Il monello mare” di Santa Marinella chiusa dalla polizia che ha arrestato il direttore, finito ai domiciliari, e 4 collaboratrici sottoposte a divieto di dimora nella struttura fra cui la moglie del direttore. Si riaccendono così i riflettori sul business, importante e redditizio, che c’è dietro la gestione delle case famiglia, strutture “riconosciute” dal ministero di Giustizia che incassano finanziamenti e fondi a pioggia. Un grumo di interessi per nulla trasparenti sui quali, «nonostante le resistenze del Pd, e dopo oltre un anno di attesa – assicurano soddisfatti i parlamentari del Movimento Cinque Stelle – finalmente è partita in Commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza l’indagine conoscitiva». Perché il Pd abbia opposto resistenza ad un’indagine legittima e auspicabile che vuole sollevare il velo sulle case famiglia e sul business che c’è dietro non è molto chiaro. A meno che non vi sia l’interesse di tutelare le molte associazioni di sinistra che si sono gettate sul business dei minori con situazioni personali o familiari difficili o disagiate. Proprio quei minori di cui si occupava fino ad oggi il centro “Il monello mare” di Santa Marinella, il cui direttore, un 55enne, è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di maltrattamenti aggravati, lesioni aggravate e violenza sessuale aggravata. Cinque provvedimenti cautelari per la Casa famiglia “Il monello mare”. L’uomo, secondo l’accusa, sarebbe anche responsabile delle lesioni procurate a una delle minori ospiti del centro. Le sue 4 collaboratrici, indagate per maltrattamenti aggravati, sono state sottoposte alla misura cautelare del divieto di dimora nella struttura. Le indagini, condotte dalla Squadra mobile di Roma, sono partite in seguito alla segnalazione di un’assistente sociale e di una tutrice minorile, che avevano raccolto le confidenze di una delle minorenni ospitate. A supporto delle accuse ci sarebbe anche un video, girato da una ragazza con il cellulare, delle violenze che avvenivano all’interno della casa famiglia. Nel filmato si vedrebbe un altro giovane ospite picchiato dagli operatori della struttura, gestita dall’associazione riconosciuta dai ministeri come una onlus. Le indagini della Squadra Mobile sono partite circa un anno fa dopo la denuncia di una assistente sociale che ha raccolto lo sfogo di una ragazza del centro, che ospitava ragazzi tra i 14 e i 17 anni, con situazioni personali e familiari problematiche. dimora nella struttura. Alle accuse di investigatori e inquirenti replicano i vertici della Casa famiglia: «Accuse infondate che saranno smentite». «Comunichiamo nella massima serenità, anche relativamente all’operato svolto – assicura il legale avvocato Vincenzo Dionisi – l’infondatezza delle accuse rivolte, dichiarando fin da ora che procederemo a fornire agli inquirenti tutti gli elementi anche documentali atti a smentire l’ipotesi accusatoria a nostro carico». Contributi dalla Provincia per la casa famiglia di Santa Marinella. L’Associazione “Il monello mare” che, fra l’altro, avrebbe ricevuto contributi, secondo quanto scrive sul suo sito, dalla Provincia di Roma, guidata dall’esponente di Centrosinistra Enrico Gasbarra e dalla Regione Lazio quando era presidente Piero Marrazzo, lavorava «in convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia» e, «dopo molti anni di esperienza con la congregazione religiosa dei “Giuseppini del Murialdo“» ha deciso «in accordo con altri professionisti del settore» di costituirsi come Associazione Onlus. Secondo il sito dell’Associazione lo staff sarebbe composto da vari professionisti fra i quali uno psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza, un Giudice Onorario psicologo-psicoterapeuta, un assistente sociale, due educatori professionali, due operatori, due volontarie del servizio civile, un mediatore culturale, un regista cinematografico, uno scenografo, un fotografo, una cantante e un educatore di strada. Registi, cantanti, giudici: ecco chi c’è dietro le case famiglia. Fra i collaboratori l’Associazione segnala sul proprio sito il 55enne Fabio Tofi, descritto come il Responsabile della Comunità educativo-terapeutica per adolescenti “Il Monello Mare” dal 1999. Tofi si occupa di «problematiche relativa al “crollo” di adolescenti e della famiglia» e, secondo il curriculum pubblicato sul sito dell’associazione, dal 1997 al 2009, è stato giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Roma e psicologo presso i Servizi sociali del Comune di Santa Marinella dal 1993 al 1996 nonché autore e sceneggiatore per Raitre e del cortometraggio “Pollo, pollo, pollo” presentato alla 54a Mostra del Cinema di Venezia e di cui è stato regista Ricky Tognazzi. Lungo l’elenco dei collaboratori dell’Associazione fra cui l’educatrice Annalisa Tofi che vanta, fra le sue esperienze, il progetto “Vivere e saper vivere” finanziato dalla Provincia di Roma quando la guidava il campione del Centrosinistra Enrico Gasbarra. Sempre fra i suoi collaboratori l’Associazione “Il monello Mare” vanta sul suo sito l’esperienza della dottoressa Emanuela Monti, psicoterapeuta e coordinatrice dell’associazione, dell’operatrice Melinda Edit Nagy «che si occupa del maternage dei ragazzi», dell’assistente sociale Ernesta Lombardi, anch’essa giudice onorario presso i Tribunale dei Minori di Roma, l’educatrice Silvia Malfatti che «con competenza sostiene la significazione della convivenza» e, infine, Giovanna Guidone che «oltre ad essere una cantante di talento, sa sintonizzarsi – assicurano dall’Associazione – con i bisogni dei ragazzi comunicando vitalità e speranza».
Ed ancora....
Morto il padre di Carmela, violentata dagli uomini e uccisa dalla Stato, che per 7 lunghi anni si era battuto con le compagne del mfpr di Taranto per una giustizia mai arrivata, scrive "Penna Tagliente. Ieri (16 maggio 2015) mattina è morto Alfonso Frassanito, presidente dell’Associazione “Iosòcarmela”, padre di Carmela, la ragazzina di 13 anni che nel 2007 si suicidò, in seguito agli stupri subiti da 5 uomini, rinchiusa in una casa famiglia, non creduta, trattata come una pazza, imbottita di psicofarmaci. VIOLENTATA DAGLI UOMINI E UCCISA DALLO STATO. Con queste parole, fatte proprie anche da Alfonso, noi donne del Movimento femminista proletario rivoluzionario siamo state al fianco del padre di Carmela per 7 lunghi anni presenti ad ogni udienza sostenendolo nella dura lotta per avere giustizia per Carmela: piccola donna che ha dovuto provare sulla sua pelle cosa vuol dire essere donna in una società maschilista sessista e fascista, colpevolizzata per ciò che aveva subito trattata alla stregua di una prostituta. ALFONSO FRASSANITO si è battuto con forza e con coraggio in tutti questi anni perchè la vita e la morte della figlia servissero a tante ragazze, bambine come lei, aveva per questo fondato a Napoli un’associazione, il cui titolo, “iosò carmela”, riproduceva la frase che diceva sempre Carmela, Alfonso si è battuto dal 2007 fino a pochi mesi fa contro l’ipocrisia e contro coloro che voleva trasformare i processi in accuse, offese verso Carmela e lo stesso padre. VERGOGNATEVI! Diceva Alfonso. E per questa giustissima parola aveva subito denunce e, se non fosse morto, mercoledì prossimo doveva presentarsi al Tribunale perchè accusato, lui, insieme ad una compagna del Mfpr di aver detto questa verità ad uno degli avvocati di uno stupratore, l’avv. Besio, il quale asseriva che il suo assistito si sentiva “minacciato” dai presidi del Mfpr e nelle penultima udienza aveva chiesto che un nostro volantino fosse messo agli atti del processo. In quella occasione il padre di Carmela gli disse che si “doveva vergognare”. Alfonso Frassanito, era un uomo provato dalle estenuanti lotte e dal dolore delle ingiustizie che doveva sopportare, diceva che ogni udienza era come un coltello nella piaga che si girava ogni volta. La morte del padre di Carmela certamente è legata a filo doppio a tutto questo, a queste sofferenze, al dolore della figlia stuprata e “uccisa”, alle vessazioni di processo infiniti, alle “pugnalate” di sentenze vergognose che, come la prima verso tre minorenni, si era conclusa con il “perdono” verso gli stupratori, alle bugie e infamie che doveva sentire nelle aule del Tribunale; ma anche al silenzio in questa città che ha accompagnato questa grave violenza – come diceva Alfonso: solo le compagne del Movimento femminista proletario rivoluzionario sono sempre presenti, con presidi, iniziative, denunce, ecc.Anche questa morte va sul conto di questo sistema borghese che non può dare giustizia perchè esso stesso è l’istituzione della INGIUSTIZIA. Concludiamo con alcune sue frasi prese dal suo libro “Io sò Carmela”, in cui racconta tutta la vita della figlia: “Non voglio che mia figlia sia ricordata come una vittima. Spero possa diventare il simbolo della ribellione contro questi abusi indegni, di una umanità che si definisce civile e rispettosa dei diritti della persona”. Le compagne del movimento femminista proletario rivoluzionario TARANTO.
Il 13 giugno dell’anno 2014 il tribunale di Taranto aveva condannato a 10 anni di carcere Salvatore Costanzo e a nove anni e sei mesi Filippo Landro, entrambi di Acireale (Catania), rispettivamente di 30 e 31 anni, entrambi venditori ambulanti di Acireale, accusati di abusi sessuali ai danni della tredicenne. un altro imputato, Massimo Carnevale, era stato assolto. In precedenza un altro processo, celebrato al Tribunale per i minorenni, si era concluso con la messa alla prova di due minori che, a loro volta, avrebbero compiuto abusi sessuali sulla ragazzina. Il processo si è chiuso fra le polemiche.
TARANTO VILE DIMENTICA I SUOI FIGLI. DALLA PARTE DEI MAGISTRATI E NON DALLA PARTE DI CARMELA FRASSANITO E DI TUTTE LE VITTIME DELLA MALAGIUSTIZIA.
Coloro che santificano i magistrati dovrebbero ricordarsi del male prodotto da un certo modus operandi di amministrare la giustizia. Il male ha tante forme. E nella storia di Carmela sembra che prenda il volto della lentezza burocratica. Dell’indifferenza delle istituzioni. Di quelle forze dell’ordine che non sono riuscite a proteggerla, dei magistrati che non le hanno creduto e che hanno sottovalutato la situazione. Prima le molestie di un pedofilo poi lo stupro del branco. Carmela Frassanito si è uccisa a 13 anni dopo aver subito più volte violenza ed essere stata allontanata da casa, obbligata a vivere in un centro per minori. Lei rinchiusa e i suoi aguzzini liberi. Il 15 aprile 2007 si è gettata dal settimo piano di casa sua a Taranto. E così, con quel gesto, ha messo fine alle sue sofferenze. Carmela era «una bambina come tante, che però resterà tale per sempre». La sua storia è diventata un fumetto scritto e pensato da Alessia Di Giovanni e Monica Barengo, edito da Beccogiallo, 160 pag . Io so’ Carmela è basato sul suo diario ritrovato dopo la morte. E’ un grido di aiuto, di rabbia e di speranza. E «per trovare così la forza e il coraggio di dire basta a queste atrocità tutti insieme, con un unico obiettivo comune, che è quello della tutela del bene più prezioso per l’intera umanità: i bambini», scrive il padre Alfonso nella prefazione. Lui non vuole che sua figlia «sia ricordata come una vittima». Anzi, spera «possa diventare il simbolo della ribellione contro questi abusi indegni di una umanità che si definisce civile e rispettosa dei diritti della persona». Carmela Frassanito: uno stupro e un suicidio senza giustizia, scrive Stefania Carboni su “Giornalettismo”. Al 15 aprile 2013 se per Sarah Scazzi dopo quasi un anno e mezzo si arriva alla sentenza di primo grado nello stesso giorno, dopo sei anni il padre di Carmela aspetta ancora il giudizio di primo grado per tre uomini che abusarono di sua figlia. Mentre lui viene invece trascinato in aula per diffamazione. Solo perché chiede giustizia. Lui così come tanti altri. Carmela Frassanito aveva solo tredici anni. Quella dannata domenica del 15 aprile 2007, disse che andava in bagno. E invece volò dal settimo piano di un edificio. Farla finita così, col dolore che portava dentro, segnato da frasi non credute e da umiliazione. Troppo pesanti per una bambina vittima di violenza sessuale. Suo patrigno Alfonso Frassanito lotta per la sua giustizia da anni. Noi la sua storia la raccontiamo attraverso le parole di Floriana Rullo scritte su “Giornalettismo”. Ma anche se il tempo vola, le cose però sembrano non cambiare.
Carmela Frassanito: morire di stupro a 13 anni. Intervista con il padre della ragazzina suicida: "Dopo quell'abuso non e' stata più la stessa". Alfonso Frassanito è un uomo che ha imparato a convivere col dolore, ma soprattutto è un padre che non si rassegna alla morte senza senso della figlia Carmela. Per questo nonostante siano ormai passati 6 anni dal suo suicidio, lui continua a lottare e a chiedere giustizia. Giustizia che puntualmente lo beffa. Perché quando si han 13 anni si è troppo piccoli per morire. Anzi, la morte non si sa nemmeno che faccia abbia, nascosta come dovrebbe da una sottile linea d’ombra tra la spensieratezza e i giochi. Ma per Carmela non é stato così. Nonostante lei fosse una giovane segnata sin da piccola dal dolore, aveva perso il papà quando aveva appena un anno, poi la mamma Luisa Maiello si era sposata con Alfonso, venditore al mercato, che a Carmelina aveva voluto sempre bene come fosse figlia sua. Per lei la sua adolescenza è finita troppo in fretta rubata da un adulto che le ha fatto del male abusando di lei ma soprattutto privandola di ogni sogno. “Perché da dopo quell’abuso Carmela non è stata più la stessa” racconta il padre. ” Era cambiata. Spaventata. Irriconoscibile. Chiedeva aiuto per quello che le era stato fatto, ma nessuno l’ascoltò”. Carmela era stata maltrattata, di lei avevano abusato, e lei aveva denunciato gli sciacalli che l’avevano braccata e umiliata. Si era allontanata da casa sua e aveva vagato per quattro giorni in giro per Taranto, dal centro storico ai sobborghi, anche di notte. Fino a quando i suoi genitori non erano riusciti a ritrovarla nelle condizioni in cui può essere ritrovato un agnello che sia uscito in compagnia dei lupi. Drogata con anfetamine e violentata. In diverse occasioni e in luoghi diversi, di lei, come poi denuncerà al pm Vincenzo Petrocelli, abusano in otto. Sette minorenni, che hanno poco meno di 18 anni, tutti identificati e indagati per violenza sessuale, e un maggiorenne di cui ancora non si conosce il nome. Quattro giorni d’inferno che segneranno per sempre la piccola già vittima in precedenza di abusi. «Tutto era iniziato qualche mese prima quando Carmela ricevette le eccessive attenzioni di un marinaio - racconta Alfonso. - Ce lo aveva raccontato lei ma nei suoi confronti la polizia non ha trovato riscontri per avviare un procedimento penale. Anche se lui aveva ammesso di aver incontrato la bambina diverse volte - continua Frassanito - salvo poi ritrattare in sede di interrogatorio. Eppure lo vedevamo davanti alla scuola media Frascolla, sempre accanto a ragazzini. Continuava a passare sotto casa nostra, per noi era una provocazione. In città era conosciuto come “il pedofilo di San Vito”. Eppure in quel momento nessuno volle credere a quella ragazzina che invece stava raccontando la verità. Anzi - continua il padre con la voce gonfia di rabbia - tutti la pensavano strana, l’apostrofarono come la spostata di testa». Le perizie all’epoca dissero che la bambina soffriva di disturbi mentali e che la storia dello stupro era inventata. Così venne allontanata dalla famiglia e mandata in due diverse case famiglia. Solo dopo mesi ottenne di tornare dai genitori. «Carmela aveva denunciato i suoi aggressori, alcuni minorenni e un maggiorenne - continua Alfonso. - Eppure nessuno credette alle sue parole. Anzi, Contro la volontà mia e di sua madre, era subito partita la procedura per affidarla al centro “L’Aurora” di Lecce. Ci dissero di fidarci, che la bambina sarebbe stata in buone mani. Notammo dopo un po’ di tempo che qualcosa non andava. Carmela in quel posto non ci voleva stare, avrebbe preferito stare a casa con noi, ma non era solo questo. I medici ci assicuravano che tutto era sotto controllo. Solo dopo avremmo scoperto che in realtà la bambina era stata sottoposta a una cura di psicofarmaci. Che da quel posto era scappata due volte. Poi dopo circa tre mesi Carmela viene trasferita al centro “Il Sipario” di Gravina di Puglia. Qui sembrava – continua Alfonso - che le cose andassero meglio. I medici ci avevano però confermato, dopo l’arrivo delle cartelle di Carmela da Lecce, che la bambina era stata sottoposta a una cura di psicofarmaci e che non si poteva smettere d’un colpo. Che avrebbero dovuto diminuire le dosi poco a poco. Nel fine settimana andavamo a prenderla e la portavamo a casa. Ero io stesso a darle i farmaci: En e Haldol. Ma Carmela non stava bene, anzi. Si sentiva disperata, umiliata, vilipesa, martoriata, derisa dagli inquirenti. Così alla sua tenerissima età decise di farla finita con questo mondo di vigliacchi. E la domenica del 15 aprile 2007, disse che andava in bagno. E invece volò dal settimo piano di casa: Si è sempre detto che è stato un suicidio - dice Frassanito - il corpo in strada era lontano dal palazzo, il che non sarebbe accaduto se si fosse trattato di una caduta. Ma noi non escludiamo che possa anche essere cascata giù, era sempre così stordita dai farmaci che prendeva. E poi una delle sue scarpe fu ritrovata al quarto piano del palazzo. Il che fa pensare che il suo corpo possa aver urtato durante la caduta». Una morte senza un motivo per cui la mamma e il papà di Carmela non si rassegnano e per cui continuano a chiedere giustizia: «Ma le istituzioni ci hanno abbandonato – dicono - il nostro Paese ha uno strano concetto di giustizia e dopo tutto questo tempo mi ritrovo ancora qui con un pugno di mosche in mano e con le beffe che la giustizia italiana impone alle vittime, come se non bastasse il danno subito». Un calvario iniziato sei anni fa e che ancora non sembra vedere la fine. «La mia odissea, fino ad oggi, é durata sei anni. Anni di attesa senza alcun riscontro di giustizia, quella vera, da parte delle istituzioni, dello Stato, nonostante i miei innumerevoli appelli». E mentre venerdì prossimo è prevista un’altra udienza del processo che vede imputati i tre maggiorenni accusati di aver violentato la ragazzina, lui continua a puntare il dito contro chi quel suicidio poteva evitarlo. «Magistrati e medici dovrebbero sentirsi in colpa – spiega - Senza contare che il processo dopo tutto questo tempo è ancora nella fase del primo grado. Perché anche Carmela - conclude Frassanito facendo un parallelo con l’attenzione riservata dagli organi di informazione all’omicidio della 15enne Sarah Scazzi - é stata una figlia. Non solo Sarah. Tutti i bambini hanno diritto alla loro vita, ad avere giustizia, sempre e comunque, non solo quando la città si trasforma in una piccola Hollywood per via del circo mediatico, ma soprattutto macabro, che si attiva solo quando si possono sfruttare gli aspetti morbosi di vicende a sfondo sessuale o da thriller». Perché tragedie come queste dovrebbero essere evitate. Sempre.
CARMELA FRASSANITO: IL CASO – Tutto iniziò da un marinaio in servizio a Taranto che manifestò attenzioni pericolose verso la piccola. L’uomo è stato colto in flagrante dal padre di Carmela Frassanito, con tanto di testimoni sul posto. In quell’occasione avrebbe confessato, salvo poi ritrattare in sede di interrogatorio. L’episodio si conclude con un nulla di fatto, nonostante il personaggio sia conosciuto dai ragazzini del borgo come il “pedofilo di San Vito”. Il peggio però avviene poco tempo dopo. Carmela va via di casa alle 4 del pomeriggio. Il padre si mette alla sua ricerca immediatamente, nel giro di poche ore presenta la denuncia di scomparsa. Per quattro giorni, la bimba vaga in giro per la città, anche di notte. La ragazzina verrà ritrovata dai genitori stessi: drogata con anfetamine e violentata svariate volte e in luoghi diversi. Ad abusare di lei 5 aguzzini, di cui due minorenni. Tutti gli episodi vengono denunciati al pm Enzo Petrocelli. A trascinarla nell’incubo un ragazzino, minorenne come lei, di cui la vittima sembrava fidarsi ciecamente. Carmela Frassanito ha denunciato i suoi sciacalli. Indicando nomi, volti e luoghi. «In un garage – racconta il padre – poi forzato dagli agenti, l’ambiente era rimasto intatto così come lei lo aveva descritto. Non c’era più un tavolino di cristallo scheggiato, che Carmela aveva descritto, rimosso in quei giorni dalla proprietaria dell’immobile». Ma da quell’inferno la ragazzina non si è più ripresa. Nessuno sembrava credergli, le indagini furono lente. Da anni la famiglia denuncia la superficialità da parte degli inquirenti, che provarono perfino a riconsegnare alla famiglia gli indumenti di Carmela senza che fossero state periziate le tracce biologiche. Intanto dopo quei 4 giorni la bimba non è più la stessa. Tanto che le perizie evidenziano alcuni “disturbi mentali”. La giovane viene così allontanata dalla famiglia e mandata in due diverse case famiglia. Senza il consenso dei suoi. Viene portata prima al centro Aurora di Lecce dove viene sottoposta a una cura pesante di psicofarmaci. Poi, dopo circa tre mesi, viene trasferita al centro “Il Sipario” di Gravina di Puglia: «Qui sembrava – prosegue il padre- che le cose andassero meglio. I medici ci avevano però confermato, che la bambina era stata sottoposta a una cura così massiccia non poteva smettere d’un colpo. Che avrebbero dovuto diminuire le dosi poco a poco». Le cose sembrava andassero per il meglio la coppia va a trovare la piccola ogni fine settimana. «La bambina voleva rientrare a casa – racconta Alfonso – noi la rassicuravamo. Il lunedì (il giorno dopo la tragedia) avevamo organizzato un incontro a scuola con i suoi amici a cui lei teneva tanto. Credo che questo trasferimento sia stata la molla finale. Si sarà sentita tradita anche da noi. Come se nessuno la credesse più». La morte della piccola è archiviata come caso di suicidio. «Conoscendo Carmela – racconta Alfonso – non se ne sarebbe andata via in silenzio. Ci avrebbe lasciato una lettera, un saluto. Anche se il suo gesto fosse stato volontario, è comunque una bimba che aveva subito episodi di stupro e psicofarmaci. Noi abbiamo presentato un esposto affinché vengano alla luce la dovute responsabilità». Come è andata a finire? I due più giovani hanno ricevuto l’applicazione della messa alla prova (perché all’epoca dei fatti risultavano minorenni). Un periodo di soli 15 mesi che il padre racconta: «Neppure scontato realmente in quanto la Caritas revocò la disponibilità per mancanza di disponibilità». A settembre 2013, dopo sei anni, gli altre tre maggiorenni si presenteranno in aula per una sentenza, che sarà ancora di primo grado. Paradossalmente se la giustizia è lenta da una parte, si velocizza dall’altra. Alfonso Frassanito è stato rinviato a giudizio. A trascinarlo in tribunale il 3 aprile 2013 uno degli avvocati dei minori coinvolti nella vicenda. L’accusa è diffamazione. «Io vengo portato in aula per aver osato delinearmi in un confronto tv dove ho solo espresso la mia indignazione nei confronti di un legale». La puntata in questione è quella della trasmissione “Il graffio” su TeleNorba il 19 Gennaio 2009. In quel salotto gli animi si sono scaldati. D’altronde nella testa del padre di Carmela rimbombano ancora le frasi in aula del difensore degli accusati, dove, secondo l’uomo, la bimba viene definita con parole che la delineano come una “prostituta”. In quell’occasione Alfonso si è alzato ed è andato via sbattendo la porta. Parole pesanti che nei verbali non sembrano risultare. I genitori della piccola hanno però richiesto la registrazione audio integrale della seduta. Inoltre il signor Frassanito ha presentato un esposto anche all’ordine degli avvocati, affinché vengano presi dei provvedimenti disciplinari nei confronti del legale che, secondo quanto riporta il padre, ha mostrato in studio carte “sensibili” relative ad un processo (all’epoca) ancora in corso. Adesso si dovrà presentare a quell’aula che dirà? «Che sono sdegnato che si spendano soldi pubblici in processi quando mia figlia sta ancora aspettando giustizia. Se ascoltate quella trasmissione tv io non ho detto nulla di male. L’audio dell’udienza sarà dalla mia parte – aggiunge - Forse è un tentativo per farmi abbandonare. Ma io non mollo. Ho perso mia figlia. Andrò avanti fino in fondo. Qualunque genitore lo farebbe». La vicenda di Carmela va avanti da troppi anni, talmente tanti che i genitori hanno creato una associazione per la tutela dei diritti umani e civili dei minori e della famiglia. Si chiama “Io sò Carmela”, la stessa frase che la piccola pronunciava ogni volta che cercava di attirare l’attenzione o per farsi coraggio. Lo stesso spirito che lei gettava sull’inchiostro del suo diario. Una gola profonda che racconta tutti i mostri che lei ha dovuto affrontare. Righe per ricordare a chiunque l’avrebbe letto dopo. Era solo una ragazzina che voleva esser ascoltata.
Ed a proposito dei minori in carcere...
«Mi dimetto: tenere minori in cella non ha senso», scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Il carcere minorile non ha più senso di esistere, per questo si dimette. Un fortissimo gesto simbolico quello di don Ettore Cannavera, il cappellano del carcere minorile di Cagliari. Dopo ben 23 anni di attività ha deciso di non essere più complice di un sistema che non condivide. Una decisione sofferta e a lungo ponderata, ma ormai inevitabile, dopo il declino dell’Istituto sardo negli ultimi due anni. Ma anche un gesto simbolico, per sottolineare l’inadeguatezza del sistema penitenziario minorile italiano: «Impostato solo sulla custodia dei ragazzi e non su una visione realmente pedagogica e rieducativa», ha così spiegato il cappellano. Dimissioni che saranno, si spera, destinate a far discutere. Storico esponente del mondo del sociale e da oltre quarant’anni uno dei punti di riferimento in Italia sui temi della giustizia minorile, Cannavera è anche il fondatore della comunità “La collina di Serdiana”, in provincia di Cagliari, che permette il reinserimento dei minori che hanno avuto problemi con la legge. Le dimissioni da cappellano, sono state presentate il 12 maggio ma don Ettore continuerà il suo servizio fino a fine mese, quando sarà nominato il suo successore. «Non è stato facile per me, dopo ventitré anni, prendere questa decisione, ma ho dovuto farlo – ha spiegato -. Innanzitutto per lo stato di abbandono in cui versa l’istituto di Quartucciu da due anni, da quando, cioè, è stato allontanato il direttore Giuseppe Zoccheddu – continua – . Da allora ho deciso di diradare gradualmente la mia presenza perché non riuscivo più a riconoscervi un luogo dove si svolga quell’opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena. Nel nostro carcere minorile si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere». La struttura di Quartucciu, nata ai tempi della stagione del terrorismo in Italia, è secondo Cannavera «inadeguata per i minori perché troppo grande e pensata per gli adulti, ma anche perché ormai è mal gestita – continua -. Non c’è più una direzione locale, periodicamente viene un dirigente da Roma a controllare ma niente di più. Ai ragazzi non viene offerta una reale risposta educativa, sono parcheggiati lì per qualche giorno in attesa di essere affidati a una comunità». Anche i trasferimenti da un istituto all’altro derivano da « motivi disciplinari o di sovraffollamento e non da un progetto educativo – denuncia il cappellano -. I ragazzi sono trattati come pacchi da destinare a una collocazione più contenitiva, e si trascura di instaurare con loro una relazione educativa che sia di cura». Prima di arrivare alle dimissioni Cannavera aveva inviato, il 7 maggio scorso, una lettera-appello alle istituzioni: dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, alla direttrice del Dipartimento di Giustizia minorile, Annamaria Palma Guarnier fino alla presidente della Camera Laura Boldrini e alcuni senatori della Repubblica, tra cui Luigi Manconi. «Il carcere minorile in Italia è un’istituzione che non ha più senso di esistere – ha affermato don Ettore -. In molte nazioni non c’è perché si è compreso che sono altre le risposte che si devono dare ai ragazzi che hanno commesso un reato. Mentre il nostro ordinamento minorile è identico a quello degli adulti, e per questo inefficace – spiega -. Ma oltre a non servire è anche molto costoso: un minore in carcere costa 1000 euro al giorno, un minore in comunità 600 euro al mese». Secondo don Ettore dunque gli istituti minorili andrebbero chiusi. Mentre il sistema di rieducazione dovrebbe basarsi sulle comunità di accoglienza, in cui portare avanti percorsi di reinserimento sociale pensati per i ragazzi. « Solo così si potrebbe abbattere davvero la recidiva – ha aggiunto -. Sono cose che ho detto e ripetuto continuamente, ma non ho ricevuto risposta. Ho deciso di fare questo gesto simbolico, quindi, anche per chiedere un intervento delle istituzioni, innanzitutto del ministro Orlando. Sono anni che si parla di impostare in maniera diversa il sistema ma niente si muove, con la conseguenza di uno spreco di risorse finanziarie e umane». Il clamoroso gesto simbolico del cappellano si va ad aggiungere alle ultime affermazioni di Papa Bergoglio durante un udienza con i bambini delle scuole primarie. Ha evocato l’inutilità delle carceri minorili perché – secondo lui- è solamente una soluzione facile. Ma che cos’è il carcere minorile? È un luogo di detenzione dei minori condannati per un reato commesso – oppure in attesa di giudizio – ed è separato dal carcere dei maggiorenni. La struttura è resa necessaria dal fatto che soltanto il minore di quattordici anni non è penalmente punibile, mentre il tribunale per i minorenni può infliggere, a chi ha compiuto i quattordici anni e non ha ancora raggiunto la maggiore età, anche pene detentive. Con la riforma del processo minorile del 1989 si è cercato di tenere i giovani il più possibile lontani dal carcere, sostituendolo con misure alternative (affidamento a servizi sociali, istituti di semilibertà, comunità). A causa dei tagli nei confronti dei servizi sociali, comunità terapeutiche e il mancato automatismo per le pene alternative visto che sono sempre a discrezione dei magistrati di sorveglianza, la riforma non ha purtroppo raggiunto i suoi obiettivi di rieducazione che mira al completo superamento della detenzione minorile. Un ruolo fondamentale per far intraprendere una adeguata riforma l’ha giocato la convenzione europea sui diritti umani, la quale recita :«Un modello di giustizia minorile agile e veloce pensato per un contesto istituzionale di forte presenza di servizi educativi del territorio a cui fare ricorso in alternativa al giudizio. Un modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima». Un dato positivo – da quando è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale per minorenni – però c’è stato: si è passati dagli oltre 7.000 ingressi annui del passato a una presenza media attuale di 452. Accanto a questo dato però vi sono dati sconfortanti: c’è un’accentuata discriminazione nei confronti dei ragazzi del Mezzogiorno e gli immigrati. Nel sud Italia vi è un certo numero di ragazzi e ragazze italiane con sentenza definitiva tenuti nelle carceri minorili fino al 21° anno di età per essere poi trasferiti nelle carceri per adulti. Per queste persone la giustizia minorile non prevede tentativi di ”recupero”, bensì accentua la funzione di criminalizzazione svolta dal carcere preparando un’esistenza fatta di continui ingressi nelle patrie galere. Poi c’è la carcerazione dei minori immigrati. A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità-alloggio o in famiglia. Il carcere minorile ha lo stesso identico problema di quello per gli adulti, e non solo per quanto riguarda la discriminazione e l’aumento della percentuale dei baby-detenuti di provenienza straniera: secondo un rapporto di Antigone, come per gli adulti, anche i detenuti minorenni reclusi, in gran parte, stanno dentro non a scontare la pena, ma in attesa di giudizio. Il 61,6% del totale è in carcerazione preventiva. Anche per i minori vale il detto giustizialista: «Meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà». Un altro motivo in più per contemplare la sua completa abolizione.
E poi ci sono loro: gli innocenti in carcere...
Lo scandalo dei bebè in cella: una delle più grandi vergogne italiane, scrive Errico Novi su "Il Garantista". Basta poco. Almeno in apparenza. Quel tanto che consentirebbe di trasformare le nostre carceri da un labirinto pieno di angoli bui a un sistema rispettoso della dignità. Un esempio, tra i più chiari e più urgenti da risolvere, è la condizione dei minori, anzi dei neonati detenuti. E sì, ce ne sono «Almeno una quarantina», segnala Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama. Proprio il senatore si è fatto promotore di un intenso “pressing” nei confronti del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, con un obiettivo: fare in modo che ai bimbi con meno di 3 anni non capiti mai, e mai più, di trascorrere i primi mesi di vita dentro una cella. Il “basta poco”, la filosofia con cui Manconi si spende per questa specifica e particolare causa – al pari delle molte altre che, va detto, difende dentro e fuori il sistema carcerario – è in fondo anche lo spirito buono che aleggia sugli “Stati generali dell’esecuzione penale”, il « percorso semestrale di riflessione e approfondimento sulle tematiche legate al carcere per arrivare nel prossimo autunno all’elaborazione di un articolato progetto di riforma», come si legge nella nota di Via Arenula. L’iniziativa voluta dal guardasigilli e dal capo del Dap Santi Consolo sarà presentata questa mattina alle 10, al presso la Casa di reclusione di Milano Bollate. Nelle molte sessioni che da qui in poi verranno organizzate si affronteranno tutti i temi forti richiamati appunto da una possibile riforma di sistema. Certo è che un caso molto particolare come quello dei neonati in cella non avrebbe neppure bisogno di vedersi intestato un dibattito. «La necessità di risolverlo è chiarissima tanto più che non si tratta di introdurre nuove previsioni normative: quelle già ci sono», spiega Manconi, «è già previsto dalla legge che debbano esserci case famiglia protette per madri e figli minori. Ma ritardi amministrativi, intoppi burocratici, indifferenza istituzionale hanno impedito finora la cancellazione di una iniquità più oltraggiosa di tutte le altre iniquità che rivela il nostro sistema penitenziario». Il ministro della Giustizia ha oggettivamente impresso una svolta alla propria politica sulle carceri: lo dimostra la stessa convocazione degli “Stati generali”, come pure la tenacia con cui Orlando insiste sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari nonostante la resistenza delle Regioni. Non ha potuto sottrarsi dunque all’appello del senatore Manconi: «Il guardasigilli si è impegnato a fare della drammatica questione una priorità del suo programma», ricorda ancora il presidente della commissioni Diritti umani, «i primi segnali positivi già si manifestano: a Roma, grazie all’opera instancabile dell’assessore ai Servizi sociali Francesca Danese, un accordo tra tribunale, Comune e Dap permetterà di accogliere le detenute con figli in una casa famiglia protetta, ricavata da due palazzine dell’Eur sottratte alla criminalità organizzata. Un buon inizio». Sarà questa la strada da far seguire in tutta Italia: «In media, ogni anno, e da tre lustri, una quarantina di minori con meno di 3 anni si trovano detenuti con le proprie madri: la gran parte nelle celle e nei reparti ordinari dei nostri istituti penitenziari, con quali rovinosi effetti sullo sviluppo psicologico di quei bambini, non è difficile immaginare». Si supererà anche questo. Forse non ci sarà bisogno di convocare una serie di incontri all’interno degli “Stati generali”, appunto. Ma magari, evocare la questione qua e là nel corso dei lavori, tanto per ricordare che a volte basta poco per rendere le carceri più umane, servirà come segnale di speranza.
PAS ED AFFIDO: IL MONOPOLIO DELLE MADRI FEMMINISTE.
La proposta di legge sull'affido della Hunziker e della Bongiorno scatena la furia delle femministe, scrive “Libero Quotidiano”. Questa volta l'avvocato Giulia Bongiorno e la showgirl Michelle Hunziker hanno fatto infuriare tutti. Da tempo le due sono impegnate fianco a fianco nella battaglia per tutelare i diritti delle donne vittime di violenze e abusi. E a sorpresa questa volta ad attaccarle sono proprio le avvocatesse e le responsabili dei centri antiviolenza. Tutto è nato quando la Hunziker, durante una puntata del programma di Fabio Fazio Che tempo che fa, ha spiegato la sua proposta di legge elaborata con la Bongiorno per punire i genitori che impediscono al coniuge di vedere i figli dopo la separazione. Il punto contestato di questa proposta, che con la raccolta firme potrebbe diventare una legge di iniziativa popolare, è quello che introdurrebbe la Sindrome di alienazione parentale (Pas) nel sistema giuridico italiano. Secondo la Hunziker, del Pas soffrirebbero i bambini a cui viene inculcato il disprezzo verso uno dei due genitori, spesso il padre; a causa di questa manipolazione i figli si rifiuterebbero si passare del tempo con il genitore incriminato, condizionando la propria crescita psicologica. Peccato però che questa sindrome non abbia nessuna valenza scientifica e che non sia mai stata confermata. Così dopo la puntata le avvocatesse dei centri anti violenza hanno inviato una lettera alla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, per protestare della visibilità che ha avuto la proposta della Bongiorno. Da anni questi centri ribadiscono che questa “sindrome inesistente” sia stata inventata proprio dai mariti violenti per riuscire a strappare i figli alle madri durante le battaglie giudiziarie. I cori di protesta sono stati così forti da spingere la Hunziker e la Bongiorno a rispondere con una lettera: “Questa proposta non ha alcuna pretesa di normativizzare la “PAS” intesa come malattia. Non si tratta, quindi, di superare i dubbi scientifici con una proposta di legge, ma di tener conto di un allarmante fenomeno sociale che richiede attenzione da parte del legislatore”.
Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno scatenano un putiferio. Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno scatenano un putiferio con la proposta di legge che vorrebbe in carcere il genitore che denigra l'ex davanti ai figli, scrive Mariangela Campo. Proteste, manifestazioni, appelli, polemiche: ecco quello che si è scatenato sul web e fuori dal web a causa delle parole di Michelle Hunziker intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa venerdì 10 maggio 2015. La Hunziker ha parlato della proposta di legge presentata dall’avvocato Giulia Bongiorno – con la quale ha ideato Doppia Difesa, fondazione che ha l’obiettivo di aiutare le vittime di abusi, violenze e discriminazioni ad uscire dal silenzio – che vorrebbe punire con il carcere il genitore che si macchia della colpa di denigrare l’ex davanti ai figli. In sostanza, secondo la Hunziker e la Bongiorno, se un genitore mette i figli contro l’altro, parlandone male e facendoglielo odiare, nei figli si scatena la temutissima PAS: la sindrome di alienazione parentale per cui il bambino non vorrà più vederlo. Il genitore che fa una cosa del genere, secondo le due donne fondatrici di Doppia Difesa, dovrebbe finire in carcere. Ed è a questo punto che è scoppiata la polemica, multimediale e non: alcuni professionisti hanno gridato alla “bufala”, dichiarando che la PAS non esiste, che non è una sindrome. C’è chi sostiene che – mettendo da parte la PAS – anche se uno dei due genitori effettivamente denigra l’altro, sarebbe una cosa orribile che finisse in prigione: immaginate una madre (o un padre) che parlano male dell’altro al proprio figlio. Questa madre (o questo padre) finisce in galera per questo. Il bambino finirà in una comunità, perché molto probabilmente lui e la madre (o il padre) erano stati abbandonati: così, con la mamma in carcere e il padre non rintracciabile (o viceversa), la vita del bambino sarebbe migliore? Dopo la puntata di Che tempo che fa e le polemiche che ne sono seguite, la Bongiorno ha cercato di mettersi al riparo: «Vorremmo che fosse chiaro dal punto di vista giuridico quel reato che oggi non ha un nome e che sta nella terra di nessuno fra la diffamazione e i maltrattamenti. Mi spiego: se un genitore prende il proprio figlio e scappa, il reato è sottrazione di minore; se usa la violenza fisica o psicologica parliamo di maltrattamenti. E se invece influisce sul bambino continuando ad autopromuoversi e a denigrare senza ritegno l’altro genitore? E se per dieci volte di fila trova una scusa per non far vedere il figlio all’altro? Come li chiamiamo questi atteggiamenti? Come facciamo a punire tutto questo ammesso che si riesca a dimostrarlo? Ecco, questo per noi è un abuso di relazione familiare o di affido. E credo che se fosse un reato, con la sua punibilità sarebbe anche un deterrente per i tanti, troppi genitori che lo commettono. Chi si occupa di questioni familiari, come me, lo sa bene che le cose vanno così spessissimo. Poi, certo, tutto è perfettibile. Ma io dico: parliamone, sediamoci attorno a un tavolo e discutiamo di ogni virgola. La sola cosa sulla quale non si può discutere è la violenza: per me non esistono forme di violenza private. La violenza riguarda tutti, anche se è una violenza psicologica di un padre o di una madre nei confronti del proprio figlio. E parlo di padre e madre non a caso, qui non è questione di genere. Non ho l’ansia da reato, semmai quella di punire condotte che non sono punite. Anche con la legge sullo stalking mi dicevano: sono fatti privati, come facciamo a metterci il naso? Mi criticarono ferocemente anche allora, dissero che volevo perseguitare i fidanzati, che ce l’avevo con il corteggiatore che mandava le rose… Si è visto com’è finita».
Affido, i danni del monopolio delle madri, scrive Eretica Whitebread su “Il Garantista". Da qualche giorno Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno, fondatrici della associazione Doppia Difesa, sono diventate il bersaglio di alcune donne che non approvano la presentazione di una proposta di legge di questo tipo: «È punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, nell’ambito delle relazioni familiari o di affido, compiendo sul minore infraquattordicenne ripetute attività denigratorie ai danni del genitore ovvero limitandone con altri artifizi i regolari contatti con il medesimo minore, intenzionalmente impedisce l’esercizio della potestà genitoriale». E ancora: «Se il fatto è commesso con violenza o minaccia reiterata, si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni. Se dal fatto deriva una rilevante modificazione dell’equilibrio psichico del minore, le pene sono aumentate». Michelle Hunziker, in una puntata della trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa”, riferendosi alla proposta di legge, parla espressamente di Pas, sindrome di alienazione genitoriale, che viene considerata “scienza spazzatura” ed è tema di grandi conflitti volti a consolidarne o annullarne la validità scientifica. Negli ultimi anni, psicologi e altre professionalità che si occupano di separazioni e affido dei minori, parlano però solo di ”alienazione parentale” che verrebbe intesa non come sindrome ma piuttosto come violenza psicologica e maltrattamento nei confronti dei minori. C’è da dire che chi si oppone alla Pas, fin dai tempi della approvazione della legge 54/2006 sull’affido condiviso, non accetta neppure che si parli di bigenitorialità. Che, per qualcuno, sarebbe una maniera “per alimentare la violenza sulle donne”. Ogni proposta che riguarda l’affido condiviso viene avversata e considerata un attentato al sacro legame madre/figlio. La Pas diventa così un pretesto per mettere in cattiva luce un punto di vista a partire dal quale si ritiene che padri e madri genitori abbiano eguali diritti e doveri. La discussione sulla Pas, formula autoritaria tanto quanto l’istituzione di un reato contro alcuni comportamenti, è però molto poco chiara e quel che viene diffuso da chi vi si oppone è puro terrorismo psicologico. Per spiegare quel che è la Pas, si delegittima il creatore, Gardner, che la utilizzò nei tribunali, per aggirare il rifiuto del bambino quando si trovava di fronte a un genitore accusato di abusi. Da lì in poi la Pas diventa una difesa per i pedofili: chi ne parla difende i pedofili, i padri che la oppongono come strategia processuale per ottenere l’affido condiviso sono pedofili. Partendo da questo tipo di ragionamenti, che annullano la complessità e precludono ogni tipo di approfondimento, capirete con quali argomentazioni procede la discussione in questi giorni. Quel che non si spiega è che, sebbene la Pas sia da bocciare, esiste un problema che riguarda gli affidi e i nuovi modelli maschili di genitorialità. I padri non sono più quelli di una volta e chiedono di potersi occupare dei figli tanto quanto le madri. Chi si oppone all’affido condiviso punta sull’esaltazione del ruolo materno, sulla inscindibile relazione madre/figlio, su una innata propensione alla cura che non può essere ripagata con la sottrazione di doveri e responsabilità da assegnare pari merito al padre. In questa faccenda si incrociano perciò persone con pregiudizi tipici di chi crede nella sacralità della famiglia, e non approva le unioni gay e tantomeno le adozioni per i gay, perché i figli devono stare solo con le madri. L’altro contesto alleato è quello di femministe che combattono contro la violenza sulle donne. Ci sono stati uomini che hanno usato l’affido condiviso per restare in contatto con l’ex moglie maltrattata. È capitato che l’obbligo di visita da parte del padre abbia portato all’omicidio del figlio conteso. Ma è capitato, anche, che quel figlio conteso l’abbia ammazzato la madre. Da lì a generalizzare e a immaginare un complotto mondiale di uomini violenti contro le madri il passo è breve. Il pensiero ricorrente è infatti questo: se un padre è violento sono tutti violenti. Se una madre è violenta lo è solo per reazione a grandi livelli di oppressione sistemica e patriarcale. I padri sono stronzi e le madri sante. La separazione non può che risolversi con l’affido prevalente alla madre e i padri possono sbattersi quanto vogliono, ma giammai otterranno quel privilegio genitoriale che le madri hanno conquistato con il sangue. E se vogliamo aggiungere altre zone epiche a quelle già narrate bisogna dire soprattutto che le persone che si oppongono alla proposta di Hunziker/Bongiorno sono le stesse che immaginano di poter sottrarre tutti i diritti civili ai padri che dovranno essere banditi dalla vita dei figli non appena la ex moglie produrrà un’accusa. Le persone contrarie all’affido condiviso sono garantiste quando si parla di attribuzione di reati che potrebbero riguardare le donne, e diventano improvvisamente forcaiole quando si tratta di mettere in galera un uomo che non è stato neppure processato. A questo punto la retorica pro/madri si muove in una zona che attraversa stereotipi e pregiudizi sessisti. Perché un uomo accusato non dovrebbe poter vedere ancora il figlio? Perché un uomo è colpevole a prescindere e il solo fatto che una donna lo dichiari lo dimostra. Perché un uomo che, per esempio, è stato processato e assolto non dovrebbe poter vedere il figlio? Perché anche se è stato assolto sicuramente il giudice ha sbagliato. In quel caso potrete vedere una madre che indossa l’abito da martire mentre pensa di compiere una sacra crociata in difesa del bambino. Negli anni, mentre questo dibattito riempiva molte pagine del web, di cose sbagliate ce ne sono state tante. Alcuni uomini, sessisti, hanno usato la causa dei padri per sputare fango contro le donne. Alcune persone hanno perciò offerto alle madri un pretesto per poter produrre una generalizzazione a tutti i costi. I padri che chiedono l’affido condiviso dunque sono violenti, e se in compagnia di nuove compagne a costoro sono dedicati epiteti altrettanto gentili: sterili, zoccole, ladre dei figli altrui, zitelle che si sono accontentate degli scarti delle sante donne, e via di questo passo. Potete immaginare quale sia oggi il livello della discussione su Hunziker e Bongiorno. Accanto a chi esprime un parere argomentato, c’è chi insulta. Hanno insultato me che ho dedicato tempo a discutere con i padri andando oltre le demonizzazioni, e insultano chiunque non sia allineat@. Le polimiche sono andate avanti, nonostante la diffusione di un comunicato nel quale Hunziker e Bongiorno scrivono che «in particolare, ci ha colpito il dibattito, del tutto fuorviante, che si è aperto sulla Pas. Questa proposta non ha alcuna pretesa di normativizzare la “PAS” intesa come malattia. Non si tratta, quindi, di superare i dubbi scientifici con una proposta di legge, ma di tener conto di un allarmante fenomeno sociale che richiede attenzione da parte del legislatore». L’avvocato e l’attrice sottolineano che «il reato che chiediamo di introdurre sanzionerebbe cioè azioni ben modellate (ripetute attività denigratorie ai danni del genitore; indebita limitazione dei regolari contatti con il genitore mediante altri artifici), sempre che sia intenzionalmente impedita la piena espressione della responsabilità genitoriale. È lampante come oggi simili comportamenti rischierebbero di sfuggire alla repressione penale: non ricadono infatti all’interno dei maltrattamenti in famiglia né all’interno della sottrazione di minori». Il tono del “confronto” si può così sintetizzare. Della Bongiorno si scrive che avrebbe difeso persone discutibili. Alla Hunziker si dice che sarebbe: da “denunciare” (detto da chi avversa la proposta di reato per l’AP ma non disdegna di considerare un reato l’opinione della Hunziker); una che deve tornare a fare la show girl; una che «si qualifica da sé per la pubblicità degli slip Roberta». Alla divisione tra le opinioniste perbene e quelle per male si oppongono madri che cercano di spiegare che la storia del condizionamento e dell’istigazione all’odio da parte di un genitore che mette il figlio contro l’altra, riguarda anche le donne. Allora le anti/pas le mettono a tacere tacciandole di maschilismo. Come la giri e la giri, insomma, hanno sempre ragione loro. Da parte mia la più totale solidarietà a Giulia Bongiorno e a Michelle Hunziker per la gogna perenne che stanno subendo.
Sul reato di alienazione genitoriale e la proposta Hunziker-Bongiorno, scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. “Vedrai che non ti faccio più vedere il figlio!”. Molte delle separazioni che segnano la fine di una relazione sentimentale, si concludono così. Molte e da molto tempo. Insegnano ai convegni gli studiosi del fenomeno, sin dalle origini, che l’alienazione del rapporto genitore-figlio e dunque del figlio al genitore e specularmente del genitore al figlio, sino a qualche decennio fa, venisse spesso realizzata dagli uomini in danno delle donne. Poi il fenomeno si è ribaltato ed oramai è di dominio pressoché delle donne-madri. In passato forse gli uomini tendevano ad esercitare un potere, intendendo affermare un arcaico maschilismo. Da decenni invece le donne hanno invertito il trend, implicitamente rivendicando rigurgiti di parità. Allora quanto oggi l’alienazione di un figlio in danno di uno dei genitori è non sbagliata e grave. Grave perché va ad incrinare, spesso demolire, almeno due diritti fondamentali quali quelli della bigenitorialità e della genitorialità (entrambi coperti costituzionalmente dagli artt. 2, 29, 30 Cost.). L’alienazione annulla, disintegra, svuota, disorienta, eviscera un essere umano. E ne scrivo non per sentito dire ma perché anni fa l’ho personalmente vissuta e da tempo seguo casi di alienazione. La proposta Hunziker-Bongiorno è chiara, chiedendo l’introduzione nel Codice Penale dell’art. 572 bis ((Abuso delle relazioni familiari o di affido): “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, nell’ambito delle relazioni familiari o di affido, compiendo sul minore infraquattordicenne ripetute attività denigratorie ai danni del genitore ovvero limitandone con altri artifizi i regolari contatti con il medesimo minore, intenzionalmente impedisce l’esercizio della potestà genitoriale. Se il fatto è commesso con violenza o minaccia reiterata, si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni. Se dal fatto deriva una rilevante modificazione dell’equilibrio psichico del minore, le pene sono aumentate. Le pene sono aumentate da un terzo alla metà, se il fatto di cui ai commi precedenti riguarda un minore di anni dieci o con disabilità ai sensi dell ’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.” La proposta ha scatenato subito una guerra santa tra negazionisti e non. C’è chi ha richiamato a sproposito la Cassazione e Richard Gardner, studioso della PAS, legittimando il proprio sdegno col richiamo tombale del manuale sui disturbi comportamentali DSM che non darebbe piena valenza alla PAS. S’impone chiarezza scientifica su un dibattito che è di straordinaria importanza poiché può coinvolgere milioni di italiani (il 45% delle coppie si separa e ciò interessa ogni volta almeno 3/7 soggetti tra genitori, figli e nonni). Il riconoscimento scientifico della PAS è solo parte del problema poiché l’alienazione non sempre si manifesta in una vera e propria sindrome patologica. Possono contrastare l’insorgenza della PAS sia la resilienza del minore, sia la durata dell’alienazione, che altri fattori. Tuttavia l’alienazione se reiterata e durevole può risultare devastante, tanto per il minore quanto per il genitore (si pensi a un genitore che non riesca a vedere il figlio o ad avare rapporti equilibrati e continuativi con lo stesso per mesi). Nel manuale DSM-5 l’alienazione è comunque oggetto di attenzione poichè quanto ai “Problemi correlati all’allevamento dei figli” [V61.20 (Z62.820) Problema relazionale genitore-bambino] è scritto che “Tipicamente, il problema relazionale genitore-bambino viene associato a una compromissione del funzionamento in ambito comportamentale, cognitivo o affettivo. Esempi di problemi comportamentali comprendono inadeguato controllo genitoriale, supervisione e coinvolgimento del bambino; iperprotezione genitoriale; eccessiva pressione genitoriale; discussioni che possono sfociare in minacce di violenza fisica ed evitamento senza soluzione di problemi. Problemi cognitivi possono comprendere attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri o rendere gli altri capro espiatorio, e sentimenti non giustificati di alienazione. Problemi affettivi possono comprendere sensazioni di tristezza, apatia o rabbia verso gli altri individui nelle relazioni. I clinici dovrebbero tenere in considerazione le necessità di sviluppo del bambino e il contesto culturale”. Non è vero che la giurisprudenza abbia stroncato l’alienazione genitoriale. Infatti prestano attenzione alle gravissime conseguenze tanto quella di merito (Trib. Alessandria, sent. n. 318/1999 in un caso di alienazione realizzata dall’uomo-padre; Trib. Matera 11.2.10 in un caso di alienazione realizzata dalla donna-madre) che quella di legittimità (Cass. n. 5847/2013). E’ invece critica sempre la Cassazione (Cass. n. 7041/2013) laddove debba dare ingresso alla Pas in assenza di chiarezza del manuale DSM-4. Il Papa, unica autorità morale mondiale, si è così di recente speso: “È ancora più difficile per i genitori separati che sono appesantiti da questa condizione; poverini hanno avuto difficoltà, si sono separati e tante volte il figlio è preso come ostaggio: il papà gli parla male della mamma e la mamma gli parla male del papà, e si fa tanto male. Dirò a voi che vivete matrimoni separati: mai, mai, mai, prendere il figlio come ostaggio, voi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma che i figli non siano quelli che portano il peso di questa separazione. Che i figli non siano usati come ostaggi contro l’altro coniuge, che i figli crescano sentendo che la mamma parla bene del papà anche se non sono più insieme, e che papà parla bene della mamma; questo è molto importante e molto difficile, ma potete farcela”. L’alienazione parentale riassume in sé un nodo cruciale del diritto di famiglia: non affrontarlo significa legittimare (e armare) chi usa un fallimento sentimentale per compiere gravi illeciti, contando sulla impunità. E’ invece necessario disarmare entrambi i contendenti e ristabilire equilibrio e tutela di diritti fondamentali. Per il bene di tutti. Soprattutto dei minori.
PARLIAMO DI CONFLITTI GENITORIALI.
Quell'esercito di padri separati che non paga il mantenimento. Boom di cause contro gli ex inadempienti. Da gennaio il fondo di Stato in aiuto dei figli, scrive Maria Novella De Luca il 29 dicembre 2015 “Repubblica”. "Da sei mesi mio marito non ci versa più l'assegno di mantenimento. E i miei figli, Giada e Pietro, sono diventati bambini poveri. Cosa vuol dire povero? Vuol dire che abbiamo tagliato la piscina, il calcetto, la mensa a scuola, eliminato i vestiti nuovi, i libri sono un lusso già da un pezzo, e ad ogni festa di compleanno non so come comprare il regalo... Mi vergogno, ma riesco a garantire soltanto la sopravvivenza. Il mio ex scappa, fugge, dice che non ha soldi, ma intanto si è costruito una nuova famiglia...". Adachiara, maestra d'infanzia e giovane mamma separata di Udine dice che non appena il nuovo "Fondo di solidarietà per il coniuge in stato di bisogno" diventerà effettivo, sarà tra le prime a presentare la domanda. Perché d'ora in poi, come prevede la legge di Stabilità, sarà lo Stato a versare i soldi dell'assegno di mantenimento a famiglie come quella di Adachiara, rivalendosi poi sul padre inadempiente. Un passo di civiltà, spiegano gli avvocati matrimonialisti, ma anche la testimonianza di un'emergenza non più legata alla crisi ma diventata endemica, la povertà cioè che segue la fine di un amore, e dunque le separazioni e i divorzi. I dati sono impressionanti: secondo le stime dell'Ami, Associazione matrimonialisti italiani, i processi penali per il "mancato pagamento dell'assegno ai figli" sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni, trecento in sei mesi i casi solo al tribunale di Trento. Lasciarsi, ormai è assodato, è sempre più un lusso per coppie con doppio reddito, o per chi ha soldi, per tutti gli altri la rottura di un matrimonio può diventare l'anticamera della povertà. Eppure in Italia le nozze durano sempre meno, dal 1995 a oggi sono triplicati gli addii dopo dieci anni vita in comune, e le separazioni cresciute del 70 per cento. Ma nello stesso tempo il 12 per cento degli "utenti" delle mense della Caritas sono proprio i separati e i divorziati, anzi le divorziate, visto che l'8,5 per cento sono donne con figli minori a carico. Spiega Gian Ettore Gassani, fondatore dell'Ami e grande sostenitore del Fondo varato dal Governo: "Sono anni che lo chiedevamo, anni in cui abbiamo visto la tragedia di famiglie ridotte sul lastrico dopo una separazione, e quasi sempre a pagarne il prezzo più alto sono le donne e i bambini. Nella maggioranza dei casi infatti a non pagare l'assegno di mantenimento sono i padri, in parte perché non possono, in parte perché ne approfittano. Ma il dato sociale è durissimo. Si può fare addirittura un calcolo matematico: in una coppia con due figli, un mutuo e due redditi da 1500 euro, dopo la separazione uno dei due coniugi diventerà povero...". Racconta Adachiara: "Ci siamo separati perché lui aveva un'altra storia, ma abbiamo entrambi sofferto per la fine di un matrimonio in cui avevamo creduto. All'inizio è stato presente, affettuoso con i bambini, puntuale nei pagamenti. Poi la sua "altra" famiglia è diventata più importante, ha iniziato a trascurarci, e da quando è diventato padre di nuovo è come se ci avesse dimenticati. Il mio ex è un libero professionista, io guadagno meno di mille euro al mese. Eravamo una famiglia normale, oggi i miei bambini sono poveri, ed esposti ad una doppia sofferenza, il suo abbandono e le privazioni". Aggiunge Gassani, che di tutto ciò parla nel suo libro "Vi dichiaro divorziati": "Il Fondo servirà in situazioni come queste, ma ci vuole una stretta vigilanza: temo infatti che i padri inadempienti possano approfittarne per abdicare ancora di più dalla proprie responsabilità". Mitiga Tiberio Timperi, giornalista e esponente dei padri separati, protagonista di una lunga vicenda giudiziaria con la ex moglie. "È una misura giusta, ma è anche una toppa sulle inefficienze della giustizia, dove ancora troppo spesso i giudici privilegiano d'ufficio il collocamento dei figli con le madri, e impongono ai padri assegni di mantenimento impossibili da onorare, fino a ridurli im miseria. Oltre ai soldi serve un cambio culturale nei tribunali". Per Alessandro Sartori, presidente dell'Aiaf, associazione italiana avvocati della famiglia, il vero problema è però l'impunità: "I processi aumentano, ma la realtà è che quasi mai gli "inadempienti" finiscono in carcere. E per le vittime l'unica strada è quella della battaglia legale...".
Padre accusato di abusi sessuali. I figli 15 anni dopo: «Tutto inventato». L’uomo venne condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere. «Menzogne dettate da nostra madre che si stava separando», scrive “L’Ansa” su “Il Corriere della Sera”). «Quello che io e mio fratello avevamo detto su mio padre erano invenzioni dettate da mia madre che lo voleva allontanare»: è una ritrattazione a distanza di anni quella di due ragazzi di 21 e 24 anni, Michele e Gabriele, figli di un 46enne sardo, condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere per abusi sessuali proprio sui due figli. Si tratta di una vicenda consumatasi tra la Sardegna, terra d’origine della famiglia, e Brescia, dove padre, madre e i due figli si erano trasferiti, dove hanno abitato per anni e dove sono state depositate le prime denunce nei confronti del genitore. Fatti avvenuti «nell’ambito di una separazione coniugale e in particolare segnati da un’accesa conflittualità tra genitori e un’aspra battaglia per l’affidamento dei figli», scrivono i giudici del tribunale di Oristano che hanno condannato il padre 46enne, oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Michele e Gabriele all’epoca dei fatti avevano 9 e 12 anni. «Le indagini mediche non potevano dare certezza sull’abuso», hanno scritto tre periti nominati nel tempo dai tribunali di Brescia e Oristano. Nel primo processo gli imputati erano sette; il padre dei due giovani e sei parenti paterni. Questi ultimi assolti per non aver commesso il fatto. «Agli atti ci sono solo le dichiarazioni di due bambini e nessun’altra prova contro mio padre. Nessuno ci ha mai chiesto di raccontare la nostra verità», racconta oggi il figlio più grande, Gabriele, che, come il fratello, ha alle spalle diversi anni passati in alcune comunità del Bresciano. Proprio uscendo da una comunità nel 2009 lasciò agli educatori un memoriale della sua vita dove spiegò che le accuse mosse nei confronti del padre erano state invenzioni. «Per togliere di mezzo papà, mia madre ha cominciato a imbottirci di menzogne, cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai» è uno dei passaggi delle 42 pagine di memoriale. In quell’anno era in corso il processo in appello del genitore, ma nessun educatore portò all’attenzione il diario di Gabriele, che ora è stato invece allegato alla richiesta di revisione del processo presentata alla Corte d’appello di Roma dal legale del padre condannato, l’avvocato Massimiliano Battagliola. «La clamorosa ritrattazione a distanza di anni equivale a una nuova prova e anche il memoriale che abbiamo ritrovato è un elemento assolutamente nuovo», spiega l’avvocato bresciano, che mercoledì incontrerà nel carcere di Sassari l’uomo condannato per abusi sui figli e che ora spera di poter riscrivere la sua storia giudiziaria.
L’avvocato del "padre orco": “Dura stare in carcere da innocenti”, scrive Francesca Mulas su “Sardinia Post”. Una famiglia distrutta, un padre accusato di abusi sessuali dai figli, due bambini oggi diventati adulti che si portano dietro un’esperienza terribile: la vicenda di Saverio, oggi 46 anni, richiuso nel carcere di Bancali con la condanna a nove anni di reclusione, è stata segnata dalle accuse dei figli Gabriele e Michele, all’epoca 9 e 12 anni. A distanza di dodici anni dai fatti, e a sei dal processo, la verità decisa dai giudici potrebbe essere riscritta: secondo nuove rivelazioni quelle accuse erano completamente false e i due ragazzini avrebbero inventato tutto, spinti alla falsa testimonianza dalla mamma all’interno di una situazione familiare tesa e conflittuale. A dare la clamorosa notizia oggi è Massimiliano Battagliola, avvocato di Brescia che chiederà alla Corte d’Appello di Roma di rivedere il processo: cosa accadde veramente in quella casa di Brescia dove Saverio, emigrato sardo, viveva nel 2003 insieme alla moglie e ai due figli Michele e Gabriele, sta scritto nelle pagine di un diario che Michele consegnò qualche anno fa agli educatori della comunità dove ha vissuto fino alla maggiore età. Il memoriale non fu mai preso in considerazione mentre il processo era ancora in corso, eppure le parole di Michele, oggi 24 anni, avrebbero potuto scagionare completamente il padre: “Per togliere di mezzo papà mia madre ha cominciato ad imbottirci di menzogne – ha scritto il ragazzo – cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai”. Una verità diversa che ora i giudici romani dovranno appurare: l’avvocato Battagliola sta preparando il dossier per la revisione del processo, sarà consegnato tra una decina di giorni. “Stiamo lavorando con grande attenzione a un copiosissimo ricorso – sottolinea l’avvocato dell’uomo – la parte integrante del fascicolo è il memoriale che Michele ha consegnato sei anni fa ai suoi educatori e mai messo agli atti del processo, ma ci saranno anche nuove indagini difensive e nuove testimonianze, in primis quelle dei ragazzi che da accusatori sono diventati testimoni. A quell’epoca ci furono indagini molto accurate, con 75 testimoni interrogati, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, ma alla fine furono le accuse dei figli che convinsero i giudici a condannare il padre, accuse che pure tra tante perplessità vennero interpretate come vere. Oggi invece i ragazzi riferiscono che erano stati spinti dalla mamma a dire cose mai accadute”. In quel processo ci furono sette imputati: tutti assolti i sei parenti di Saverio, unica condanna la sua, undici anni in primo grado e nove stabiliti dalla Corte d’Appello di Cagliari. Oggi Saverio, 46 anni, si trova rinchiuso nel carcere sassarese di Bancali: “Lo vedrò mercoledì – prosegue Battagliola – è un uomo di grande coraggio perché affrontare tutto questo sapendo di essere innocente non è facile. È fiducioso sulla eventualità di una revisione della condanna. I figli? Gli stanno vicino: da tempo, da quando cioè hanno compiuto 18 anni, sono corsi da lui per stargli accanto, per lui è una grande consolazione. Le vittime di questa storia sono tre: Saverio e i suoi due figli, spinti a mentire dalla madre. Oggi per fortuna la verità è venuta alla luce, non sarà facile ma speriamo di riuscire a dimostrarlo davanti a un tribunale. Se la revisione sarà accettata forse sarà davvero la fine di un incubo”.
Lo psicoterapeuta: “Il potere enorme delle madri sulla mente dei bambini”, continua Francesca Mulas. È normale che una madre riesca a condizionare due ragazzini al punto da convincerli di cose terribili, tanto terribili da mandare in galera il padre con una condanna per abusi sessuali? È quello che è successo a Gabriele e Michele, da bambini accusarono il genitore Saverio di violenza su di loro, ora che sono maggiorenni la verità che raccontano è ben diversa. Quelle accuse, dicono oggi, erano solo menzogne, instillate da una madre che cercava di metterli contro il padre. Marcello Dessena, psicoterapeuta cagliaritano, non si stupisce: è difficile trovarsi davanti a casi così gravi ma la manipolazione dei genitori verso i figli può arrivare al punto di far davvero vedere altre realtà: “Un adulto, che ci piaccia o no, ha un potere enorme sui figli, e l’adulto madre ne ha ancora di più. E non è forse attraverso la madre che i figli vedono il padre? Con lei, soprattutto durante l’infanzia, c’è un legame profondissimo, mentre nella maggior parte dei casi il padre è quasi uno sconosciuto, ed è la madre che spiega ai bambini chi è il loro padre; è attraverso lei che si costruisce la figura paterna. In questa situazione, con due genitori in pesante conflitto, i due bambini hanno ricevuto dentro di sé emozioni contrastanti: la verità che conoscevano e quella mostrata dalla madre, una condizione difficilissima da reggere cognitivamente e affettivamente”. La vicenda che ha portato in carcere Saverio, principali accusatori i suoi bambini di 9 e 12 anni, ne sarebbe la prova: da un lato un padre come tutti, dall’altra l”orco’ capace di azioni terribili nei loro confronti: “La mamma ha avuto questo potere di metterli contro l’altro genitore, facendo violenza sulla visione che i figli avevano di lui, ma alla fine la verità mostrata dalla mamma ha avuto il sopravvento: non è successo in un attimo ma in un periodo di tempo lungo, con sguardi, accenni, parole e mezze parole che hanno portato a costruire un ritratto del padre diverso da quello che era in realtà”. Difficile tornare alla vita normale, ora: Massimiliano Battagliola, legale di Saverio, 46 anni, rinchiuso nel carcere di Bancali per scontare nove anni di pena, sta preparando un ricorso per chiedere la revisione del processo che tenga conto delle nuove verità raccontate da Michele e Gabriele. Se anche la richiesta verrà accolta e se alla fine di tutto l’uomo verrà riconosciuto innocente, i due ragazzi porteranno per sempre con sé un grande senso di colpa. “A livello razionale sanno di essere stati manipolati, ma a livello emozionale è difficile accettarlo e farsene una ragione. Sono convinto che il padre e i figli potranno recuperare il rapporto, ma ci vorrà probabilmente un aiuto psicologico per i ragazzi perché da qualche parte sentiranno il senso di colpa per quello che è successo”.
Per il diritto dei bambini a non essere coinvolti in conflitti fra genitori e false accuse.
Padri separati, i genitori "invisibili". I padri, in Italia, non esistono. Non sono raccontati dalla tv e dal cinema. La loro presenza non è contemplata nemmeno dalle istituzioni. E solo 4 italiani su 100 ottengono il congedo di paternità, scrive Giovanni Molaschi su “Panorama”. Tra l’Italia e l’Europa esiste una separazione. Il continente investe sulla famiglia non contemplata dal bel paese. Il 25% dei padri, in Germania, richiede il congedo parentale e posticipa il ritorno al lavoro per accudire la propria prole. In Italia, invece, il patrimonio delle famiglie è amministrato soprattutto dalle donne di casa. Secondo una recente inchiesta condotta da Pianeta Mamma, solo 4 italiani su 100 possono provare ad essere padri a tempo pieno. Gli uomini, nel nostro paese, non hanno le possibilità. Non esiste nemmeno un immaginario. In tv nessuna fiction racconta le storie dei figli e del loro futuro gestito da un genitore maschio. Anche al cinema i padri sono centellinati. Dall’uscita di Anche libero va bene, film che raccontava la storia di una famiglia senza madre, sono passati sette anni. I padri, in Italia, non possono mettersi alla prova. La loro presenza non è prevista. «Il telefono dell’associazione Padri Separati - evidenzia la presidente Tiziana Franchi - suona nei week end, durante i festivi o in estate. Sono stata eletta nel 2010. Da vent’anni faccio parte di questa associazione fondata da quattro padri. Sono figlia di separati e ho divorziato da mio marito. Capisco i problemi delle persone che iniziano una separazione». L’associazione Padri Separati ha aiutato Paolo. “Il mio matrimonio è durato 16 anni. È stata mia moglie a chiedere la separazione. Non mi amava più. Non mi aveva mai amato”. La donna, a Paolo, ha chiesto tutto: la casa, i figli, il mantenimento. “Credeva, come molti ex mogli, di potersi permettere certe richieste. Il giudice, donna, ha previsto per me un assegno. Questo denaro serve ai miei figli (15 e 17 anni) che vivono con me. I ragazzi sono stati ascoltati da una psicoterapeuta”. La paternità di Paolo è stata promossa da possibili madri. “Anche l’avvocato che ha seguito la mia causa è una donna”. Il percorso dell’uomo è un’eccezione. “Nei tribunali, sottolinea Franchi, si pensa ancora che un figlio possa essere affidato solo alla madre. La famiglia, negli ultimi anni, è cambiata. I padri si dedicano di più ai figli. Durante la separazione, però, la storia maturata prima della rottura scompare. Improvvisamente un uomo smette di essere il buon genitore che è sempre stato”. I problemi non nascono dall’educazione. Le difficoltà vere sono prodotte dall’economia. “Si passa, racconta Paolo, da due stipendi a uno”.“Secondo alcuni padri di Aps, nota Franchi, il mantenimento previsto dal giudice non gli permette di essere dei buoni genitori. Non riescono più a fare i regali extra richiesti dalle ex mogli. La crisi, inoltre, ha complicato tutto. I risparmi dei nonni, oggi, servono per il sostentamento del singolo. Prima, invece, potevano essere utilizzati per migliorare l’alloggio dei padri. Una casa non adeguata compromette il diritto di visita”.
Il dramma della separazione dai figli: di questo parla il libro "Il Delirio e la speranza. Storie di padri separati", edito da Erga di Genova, la prima raccolta pubblicata in Italia di racconti costruiti traendo spunto dalle vive esperienze di padri vittime di separazioni conflittuali. Secondo un'indagine condotta da Gesef (Associazione genitori separati dai figli) su 26.800 soggetti, il 75% degli uomini in fase di separazione subisce mobbing giudiziario e l'89% subisce la minaccia dalla coniuge di non poter vedere i figli. Il libro nasce dall'incontro tra le associazioni Mater matuta e Voltar pagina, e prende forma con il patrocinio ed il fattivo appoggio dell'Associazione Papà separati. Le testimonianze dei padri sono state rielaborate in chiave letteraria, facendo di ogni racconto un caso esemplare. "Il Delirio e la speranza" comprende 11 racconti in 252 pagine.
Per Sos Stalking si tratta di una vera e propria piaga sociale questa, che rappresenta uno dei cavalli di battaglia delle associazioni a tutela dei padri separati che ancora oggi si battono per rivendicare la presunta disparità di trattamento di alcuni magistrati che tenderebbero ad agevolare quasi sempre la donna arrivando perfino a chiudere un occhio davanti a storie palesemente artefatte. Il teorema è semplice: "Se non mi concedi quello che chiedo, ti denuncio". Un meccanismo così collaudato è comprovato, peraltro, dall'elevato numero di mogli che, ottenuto il proprio scopo processuale, ritira la denuncia con la più assoluta noncuranza delle risorse spese dagli organi di polizia (e di conseguenza dalla collettività) per indagare su reati inesistenti. "Certo, ci si aspetta che, ricevute le rassicurazioni da una presunta vittima circa l'intervenuta riappacificazione, un pubblico ministero sia portato a chiedere l'archiviazione, ma la certezza matematica non esiste e in astratto potrebbe accadere che lo sfortunato marito venga condannato ugualmente senza alcuna colpa", conclude Puglisi su “Libero Quotidiano”.
«I padri separati sono vittime di mogli e giudici di parte», scrive Fabrizio Graffione su “Il Giornale”. «Mi hanno separato dal figlio. Mi hanno tolto la casa. Ogni mese tolgono soldi sempre e solo a me». Ogni storia di violenza sull'uomo e padre, è pressoché uguale, come si legge anche su www.papaseparatiliguria.it, il portale dei «disperati», vittime di mogli e anche di magistrati, che hanno manifestato davanti al «palazzaccio» genovese. Accuse infondate, le più abbiette. Lungaggini giuridiche. Udienze senza esito. Muri di gomma. Assistenti sociali o giudici quasi sempre di parte o negligenti. «Tutti ne parlano, ma nessuno interviene. È un male trasversale» spiegano le autrici e gli autori delle associazioni genovesi Voltar Pagina e Mater Matura, che hanno pubblicato, edito da Erga, il volume da oggi in libreria «Il delirio e la speranza», undici racconti di padri separati: 252 pagine che si leggono d'un fiato, indignano e fanno venire brividi di paura. Secondo un'indagine Gesef, il 75 per cento dei papà in fase di separazione subisce mobbing giudiziario, l'80 per cento delle denunce di maltrattamenti da subito palesemente false e strumentali, dopo anni di lotta a colpi di carte bollate risulta giuridicamente falso, il 90 per cento dei genitori maschi subisce la minaccia di non poter più vedere i figli. «È la prima, drammatica raccolta di esperienze di padri ingiustamente allontanati dai figli - spiegano alla Erga edizioni -. Nel dramma dei figli è l'uomo a giocare il ruolo del reietto allontanato da casa, costretto a versare prebende spesso insostenibili a donne garantite da una legislazione farraginosa e vetusta». C'è pure chi da anni arresta criminali e difende i genovesi, come il maresciallo dei carabinieri Fabrizio Adornato, che ieri è arrivato pure a fare lo sciopero della fame davanti al Tribunale. «Negli ultimi due anni e mezzo - racconta - ho potuto vedere mia figlia soltanto una mezza dozzina di volte. Ho denunciato i magistrati. Nessuno mi ha controquerelato. In una denuncia, l'ex moglie si lamentava che, testualmente, avevo consegnato mia figlia a mia madre. Nessun genitore dovrebbe riferire della prole come se fosse un pacco postale. La mia bambina è un essere umano che ha bisogno di amore, cure, attenzione e non è una cosa o una merce di scambio». Accanto a lui, ieri ci sono stati altri «Papà separati della Liguria». «A Genova siamo migliaia. La mia ex moglie mi ha accusato per maltrattamenti - spiega Ambrogio Barbiero, 61 anni - facevo il saldatore, ma ora sono disoccupato. Cacciato di casa come un delinquente e costretto a versare 250 euro al mese appena faccio un lavoretto. Mia sorella pensionata mi accoglie e mi dà da mangiare, altrimenti sarei stato costretto a rubare. Da taluni magistrati non ho ricevuto nessuna pietà». Ormai la tecnica usata dalle mogli è quasi sempre la stessa: denunciare l'uomo per maltrattamenti, chiedere la separazione, ottenere dal Tribunale il riconoscimento e un vantaggio economico. È la Genova dei cornuti e mazziati.
Le streghe son tornate e vanno a caccia degli ex papà separati, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Riprende la discussione, in Senato, della legge che mira a migliorare l'"affidamento condiviso" dei minori nelle separazioni. Femministe, avvocati e giudici cerca di affossare le novità. La relatrice Gallone: "Ce la faremo". Chi ha ancora paura del maschio? Chi crede ancora al lupo cattivo? Era da tempo che la parte della sinistra più trinariciuta non riusciva a mettere in campo un'alleanza così anacronistica: attempate femministe in servizio permanente effettivo, avvocati sedicenti «democratici», giornalisti ridotti a supini megafoni di una disinformazione degna dello stalinismo applicato al diritto di famiglia. A raggruppare questo coacervo di interessi più che sospetti è una legge in discussione al Senato. Legge che pur essendo una battaglia di civiltà, viene avversata, all'unisono, dalla potente lobby degli avvocati che temono di perdere la loro gallina dalle uova d'oro, da giudici che vivono arroccati nell'eremo intangibile della propria discrezionalità assoluta, da associazioni di donne che rifiutano la realtà e sembrano inalberare il grido che le rese tristemente celebri (tremate, tremate, le streghe son tornate!). Son tornate. E con perfetta tempestività, alla ripresa della discussione sulla legge che tenta di migliorare le norme sull'«affido condiviso», si sono manifestate in due incredibili articoli ricchi di bugie, in contemporanea sui siti di Repubblica e Manifesto. Ma che cosa c'è di tanto terribilmente maschilista, nel ddl 957 che viene dibattuto (ormai da tre anni) nella commissione giustizia di Palazzo Madama? La relatrice, Alessandra Gallone (Pdl), non demorde e non si stanca di spiegare - persino di fronte alla disonestà intellettuale dei detrattori - che si tratta di una «battaglia di civiltà»: garantire il diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, anche in caso di separazione. Si tratta, cioé, di migliorare l'applicazione della legge 54 che nel 2006, anche in Italia, ha introdotto il cosiddetto «affidamento condiviso». Negli ultimi anni, in commissione, i senatori hanno cercato di approfondire il tema attraverso un'indagine conoscitiva tra le più minuziose. Sono stati convocati e ascoltati presidenti e operatori dei tribunali per i minorenni, rappresentati della magistratura e dell'avvocatura, docenti universitari e psicologi, associazioni di genitori separati e persino di nonni bistrattati. Mai fu fatto tanto, con dispendio di risorse, prudenza e accuratezza (nonché qualche bastone fra le ruote da parte di senatori espressione delle suddette lobbies). Ma la Gallone non vuole fare dietrologie, e si spiega le resistenze con il candore di Biancaneve: «Credo che sia perché l'argomento è molto sentito a livello sociale... La legge 54 del 2006, quella dell'affido condiviso, fu approvata in tempi brevi e in maniera trasversale per adeguare il nostro ordinamento a quello europeo. Così che ha lasciato qualche imperfezione nella sua applicazione. Ed è su questo, che lavoriamo. Altro che voler reintrodurre la patria potestà, come ha scritto qualche malinformato sfidando il senso del ridicolo...». Più che malinformato, malintenzionato, diremmo: nel senso di nutrire la cattiva intenzione di boicottare la legge a ogni costo, non esitando a usare strumentalmente il tema della violenza sulle donne, che nulla ha a che vedere con l'applicabilità dell'affidamento condiviso. Le questioni in ballo sono molteplici e complesse: sintetizzando, la legge del 2006 ha superato i limiti dell'affido condiviso a un solo genitore (di solito la mamma), in base al principio ormai riconosciuto in sede giuridica, psicologica e sociale, che lo sviluppo equilibrato di un minore possa e debba essere perseguito con l'apporto di entrambi gli ex coniugi. Una «bigenitorialità» che, trattandosi spesso di parti in conflitto, finisce per essere disattesa: tanto dai giudici, quanto dai coniugi affidatari (ancora oggi, per oltre il 95 per cento, le mamme). Che cos'è che non va, nell'applicazione della legge numero 54? «I punti critici - dice la Gallone - riguardano il concetto di pariteticità del tempo che i figli trascorrono con l'una o con l'altro genitore, la possibilità di introdurre il sistema del doppio domicilio, l'introduzione del mantenimento diretto dei figli, per garantire l'effettiva partecipazione di entrambi i genitori alla vita dei figli». Già, perché se in teoria è facile dire che i diritti sono pari, nella vita quotidiana un genitore (l'affidatario) mantiene il mano il pallino (dispone del denaro, stabilisce i tempi, grazie al mantenimento della casa conta su una situazione di vantaggio oggettivo). L'altro, di solito l'ex papà, ormai in miseria (come da ultimo rilevato con dati drammatici anche dall'Istat), deve riuscire a conciliare il lavoro e le difficoltà di vita con quanto stabilito dalla ex moglie. Senza poter contare neppure sulla possibilità di gestire una quantità minima di denaro, mettiamo per fare un regalino-extra, che aiuti a costruire il rapporto con il bambino. La legge del Senato, però, va ancora oltre, essendo - una volta tanto - in sintonia con i tempi. Dunque, vorrebbe tener conto anche dell'affettività dei nonni (di solito paterni), spesso tagliati totalmente fuori dalla vita del bambino per difficoltà pratiche e tempi risicati. Ancora: vorrebbe introdurre l'obbligatorietà della mediazione familiare, uno strumento utile per prevenire e sanare le tante controversie minime, che finiscono per vedere una parte soccombere soltanto per la difficoltà a farsi valere in sede legale. Infine, punto sul quale le femministe hanno perso la trebisonda, il ddl timidamente vorrebbe riconoscere quella «sindrome di alienazione parentale» (in medicina: Pas), che spesso i padri e le loro nuove compagne hanno imparato a riconoscere. Una sindrome che vede il minore diventare man mano diffidente, taciturno, prevenuto, irritabile, incapace di costruire un rapporto con uno dei due genitori, perché l'altro persegue subdolamente una persistente e velenosa opera di denigrazione. Come si vede, nulla di trascendentale. Difesa del minore dalle subornazioni degli adulti. Nulla che possa minare quella sorta di supremazia naturale delle mamme nelle separazioni. Ma perché tanto terrore? Che cosa temono i paladini del diritto materno a senso unico? Stiamo esagerando? No. Basti l'attacco dell'articolo uscito su Repubblica.it per capire il carico da novanta messo in canna: «Donne trattate come bestie dai compagni. Bambini maltrattati dai loro padri... Due disegni di legge, in discussione oggi alla Commissione Giustizia del Senato, rendono obbligatorio il ricorso alla mediazione familiare anche in casi di padri/mariti o partner violenti... La Fondazione Pangea onlus mette sotto accusa questi due ddl, spiegando che "ricordano la patria potestà"...». Balle spaziali. Argomenti strumentali buttati lì a mazzo. E l'articolo prosegue, sull'introduzione della Pas: «L'associazione ricorda che questa "sindrome" viene spesso erroneamente utilizzata nei tribunali e dai servizi sociali in Italia per decretare il diritto dell'abusante, in casi di separazione per violenza agita dal partner sulla madre e sui figli, ad ottenere una mediazione forzata e poi l'affido condiviso dei figli". "È bene sottolineare che i bambini e le bambine che hanno un padre violento stanno bene in sua assenza: solo così possono ricostruire un futuro sereno assieme alla madre", scrive l'associazione...». Come si vede, una miscela incredibile di acredine e falsità, basata sul (falso) presupposto che le separazioni verrebbero poste in atto per violenze e maltrattamenti dei mariti nei confronti delle mogli. E che i padri violenti avrebbero accesso alla mediazione familiare. Ma quando? Ma dove? In che mondo vivono, questi giapponesi nella giungla del femminismo? La guerra però è finita. Che esista ancora il fenomeno della violenza sulle donne, c'è qualcuno che lo mette in dubbio? E che c'azzecca con la normativa che regola le separazioni (il più delle volte determinate da ben altri motivi)? Più interessante rilevare, allora, i nessi tra queste prese di posizione e, per esempio, l'interesse della lobby degli avvocati: con l'obbligatorietà della mediazione, addio cospicui assegni per le infinite beghe tra coniugi. E addio anche al dispotismo dei giudici, capaci di decidere con leggerezza e pregiudizio sulla vita di minori e papà (o mamme che siano). Senza mai pagare per le famiglie distrutte: più da loro, che da una triste separazione tra coniugi.
Le femministe per la “parità genitoriale” dalla parte dei padri separati. Intervista di Sergio Rizza su “Metronews” ad Adriana Tisselli del Movimento Femminile. Mi consenta a...Adriana Tisselli, presidente e fondatrice del Movimento Femminile per la Parità Genitoriale (donnecontro.info).
Dopo il caso del piccolo Lorenzo conteso a Padova, lei ha biasimato la disapplicazione dell'affido condiviso e le “percentuali bulgare” con cui la madre è indicata come genitore collocatario prevalente, rinunciando così a vita e lavoro. Al padre, poi, si chiede l'assegno di mantenimento anziché l'obbligo di accudire i figli... Padri deresponsabilizzati e madri sovraccariche, è così?
«Non proprio. La legge sull'affido è letta come una violazione dello status quo, quello del vecchio affido esclusivo. In tribunale si applica un'altra legge, la prassi. Quanti discorsi sui diritti dei bimbi: in realtà sono violati, se un genitore è ridotto a visitatore del weekend.»
Non sembra un derby tra padri separati e madri separate?
«Peggio, è un derby tra donne. Da un lato ci sono le ex mogli che aspirano a rifarsi una vita ma restano ingabbiate nella vecchia immagine della donna del focolare, mentre l'uomo è il cacciatore nella giungla; e dall'altro ci sono donne "per male" che si accontentano dell'assegno...»
Tifate per i padri separati...
«Li sosteniamo. Il femminismo predica l'indipendenza della donna. Chiuderla in casa con l'assegno è una finta tutela. Si arriva al giudice che chiede i redditi della nuova compagna dell'ex marito. Alla quale così tocca mantenere il nuovo compagno e la sua ex moglie!»
Quale modello per l’Italia? Il femminismo buono di Vezzetti ed il femminismo cattivo di Faldocci, scrive .
Il pediatra e scrittore Vittorio Vezzetti ha descritto in un libro di successo ed in audizioni al Senato l’esperienza scandinava in materia di affido condiviso: tutelando il diritto dei bambini a venire accuditi direttamente da entrambi i genitori (e quindi doppia residenza e mantenimento diretto) si è abbattuta la conflittualità fra gli ex coniugi, con soddisfazione non solo dei papà e delle mamme che possono emanciparsi costruendo una propria carriera lavorativa. Ma soprattutto dei bambini, come dimostra lo studio in merito pubblicato su una delle più importanti riviste pediatriche mondiali, finalizzato a verificare se il coinvolgimento paterno (concettualizzato come tempo di coabitazione,impegno e responsabilità) abbia influenze positive sullo sviluppo della prole. Gli studiosi hanno analizzato retrospettivamente 24 studi svolti in 4 continenti diversi e con durate dai 10 ai 15 anni. La conclusione è che, dopo aver depurato i dati da variabili socioeconomiche, in 22 studi su 24 si è avuta l’evidenza degli effetti benefici derivanti dal coinvolgimento di ambedue le figure genitoriali. In particolare si è visto che il coinvolgimento del padre migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, diminuisce lo svantaggio economico e la delinquenza giovanile, riduce lo svantaggio economico nei ragazzi. Tale affermazione è stata scientificamente validata con intervallo di confidenza statistica del 99.5%. Un vero affido condiviso è inoltre un importante fattore di prevenzione dell’Alienazione Genitoriale, nella quale il genitore prevalente fa il lavaggio del cervello al figlio fino a fargli odiare l’altro genitore, compiendo un vero e proprio stupro psichico.
Purtroppo per i bambini italiani, in Italia ha preso campo il femminismo metaforicamente simboleggiato dall’avvocata d’assalto Vajassa Faldocci, la quale prosaicamente sostiene che la donna preferisce intascare mantenimenti e farsi assegnare case per sé e per i figli piuttosto che lavorare, rendendo florida la sua attività professionale di “divorzista nel campo delle false accuse di violenza domestica”. Con questo femminismo dell’odio di genere, dal 1975 ad oggi in Italia l’affido aprioristico alla madre è salito fino al 92%, mentre la percentuale di donne nelle professioni e nella vita pubblica è rimasta bassa. Ma soprattutto, tale pratica ha devastato generazioni di bambini: su un milione di bambini italiani coinvolti in separazioni, 200mila risultano affetti da disturbi psicologici o psichiatrici: una incidenza del 130% maggiore che nei bambini non coinvolti in separazioni. Che la colpa sia non della separazione, ma del sistema che la gestisce, è confermato dal fatto che tale incremento non si verifica nei paesi a noi vicini, che avendo introdotto il divorzio fin dal 1792 hanno imparato a tutelare i bambini: basta passare dalla Sardegna alla Corsica ed i bambini affetti da tali problemi si dimezzano. Dove il femminismo cattivo varca il confine della criminalità è con il sistema delle false accuse, ovvero delle calunnie pedo-femministe. Le cifre sono allucinanti: ogni 100 accuse di pedofilia contro padri separati, 92 sono false, ed causano ai bambini una devastazione pari a quella degli abusi realmente esperiti, come rivelato nello studio scientifico “Disturbi psicopatologici e fattori di stress in procedimenti penali relativi all’abuso sessuale”. È naturale osservare che un sistema che per proteggere 8 bambini ne devasta 92 arricchendo avvocati e sedicenti esperti abusologi fa più danni della pedofilia. Mentre 32mila bambini italiani sono oggi detenuti in case famiglia, mentre 25mila bambini ogni anno perdono i contatti con il loro papà, mentre la depravazione umana si spinge fino a cercare di negare che l’Alienazione Genitoriale è un abuso sull’infanzia, grande successo ha avuto la manifestazione organizzata dal Movimento Femminile per la Parità Genitoriale per dire basta a tutto ciò, grande popolarità sta riscuotendo l’impegno della deputata Rita Bernardini per il femminismo buono e quindi per una riforma verso un vero affido condiviso.
GENITORI IN GUERRA, FIGLI CONTESI ED AFFIDAMENTO FORZOSO. RAPIMENTO DI STATO.
Basta costringere il genitore inadempiente a rispettare la decisione del giudice, a scanso di conseguenze penali ex art. 388 c.p.. Ma tant'è ognuno in Italia fa quello che vuole ed a pagarne le conseguenze sono sempre i più deboli: in questo caso il bambino.
Un "comportamento che non è sembrato adeguato rispetto a un contesto ambientale ostile e difficile che doveva suggerire altre condotte". Così il sottosegretario all'Interno Carlo De Stefano definisce quello tenuto dagli agenti in occasione dell'esecuzione del provvedimento del giudice minorile nei confronti del bambino di Cittadella. Mercoledì sera 10 ottobre 2012 nella trasmissione Chi l'ha visto? è andato in onda un video nel quale si vedeva un ragazzino preso dagli agenti di polizia, tenuto per le mani e le gambe mentre cerca di divincolarsi. Renato Schifani ha chiesto chiarimenti al capo delle forze dell'ordine, Antonio Manganelli, che ha espresso "profondo rammarico" e scuse ai familiari, e disposto un'inchiesta interna. "Le immagini hanno creato sgomento in tutti noi italiani. l video, trasmesso all'autorità giudiziaria, è stato girato dalla zia. Dieci anni. Il bimbo di 10 anni è stato prelevato davanti alla scuola elementare di Cittadella, nel padovano, in esecuzione di un'ordinanza della sezione Minori della Corte d'Appello di Venezia. Lui ha opposto resistenza, perché voleva restare con la madre. Il piccolo è al centro di un'aspra contesa fra i genitori separati. Dopo anni di liti e conflitti, il giudice ha deciso di affidarlo a una struttura protetta. Gli agenti sono andati alla scuola - come è stato precisato - perché i tentativi fatti in passato presso la casa materna e dei nonni, erano falliti.
Tre minuti di impotenza. Scrive “La Repubblica”. Un bambino preso dagli agenti di polizia, tenuto per le mani e le gambe mentre cerca di divincolarsi. Il video, andato in onda ieri sera nella trasmissione Chi l'ha visto? su Raitre, ha indignato l'Italia. E oggi Renato Schifani ha chiesto chiarimenti al capo delle forze dell'ordine, Antonio Manganelli, che ha espresso "profondo rammarico" e scuse ai familiari, e disposto un'inchiesta interna. "Le immagini hanno creato sgomento in tutti noi italiani. I bambini hanno diritto a essere ascoltati e rispettati - ha detto il presidente del Senato - e ogni provvedimento che li riguardi deve essere posto in essere con la prudenza e l'accortezza imposti dalla loro particolare situazione minorile. Comportamenti come quello al quale abbiamo tutti assistito, meritano immediati chiarimenti ed eventuali provvedimenti". Anche il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha chiesto al governo di riferire al più presto, dopo le richieste di informativa e delle interrogazioni parlamentari presentate da deputati di vari gruppi. Il video, ora trasmesso all'autorità giudiziaria, è stato girato dalla zia, che urla di lasciare stare il bimbo, di ascoltarlo. Dieci anni. Una piccola tuta celeste tra le mani degli agenti che lo portano a braccia verso un'auto, prelevandolo davanti alla scuola elementare di Cittadella, nel padovano, in esecuzione di un'ordinanza della sezione Minori della Corte d'Appello di Venezia. Lui ha opposto resistenza. Voleva restare con la madre. Il piccolo è al centro di un'aspra contesa fra i genitori separati. Anni di lotta, dissapori e il giudice ha deciso di affidarlo a una struttura protetta. Gli agenti sono andati alla scuola - come è stato precisato - perché i tentativi fatti in passato presso la casa materna e dei nonni, erano falliti. Ad agosto e settembre per non essere portato via dalla madre, il bimbo si era nascosto sotto al letto. Secondo la spiegazione ufficiale, dopo il rigetto della Corte d'Appello sul ricorso presentato dalla madre per sospendere il provvedimento di affidamento al padre, la polizia "ha individuato il plesso scolastico e deciso fosse il solo luogo idoneo all'esecuzione del provvedimento". La scuola, si legge nella nota diffusa dalla questura, è stata considerata anche su indicazione di un consulente della stessa Corte d'Appello, un posto "neutro e, quindi, idoneo all'esecuzione". Durante il prelevamento del bimbo il padre era presente. Ma l'unica difesa della zia che urla ai poliziotti di lasciarlo stare, resta il telefonino. Le immagini che lei riprende mentre urla. Tre minuti in cui il piccolo è strattonato, infilato nell'auto di servizio, piegato, tenuto con la forza. Mentre dice: "Non respiro, zia, aiutami". Tre minuti in cui tenta di divincolarsi dalla stretta di un uomo che lo tiene per le spalle e di un altro che gli stringe le caviglie. Infine la zia rivolge domande a un'altra donna, che le risponde di essere un ispettore e di non essere tenuta a darle spiegazioni: "Sono un ispettore di polizia. Lei non è nessuno". La questura di Padova in una conferenza stampa ha chiarito: "L'ispettrice si riferiva al fatto che secondo quanto previsto dalla legge il provvedimento sul minore può essere comunicato solo al padre e alla madre", inoltre "il bambino ieri è stato visitato dal pediatra, ora è sereno, gioca e sta bene". La madre è andata a trovarlo subito, ieri sera, nella casa famiglia dove è stato portato il bambino: "Mio figlio - ha spiegato Ombretta Giglione - è in comunità perché la Corte d'Appello di Venezia ha emesso un decreto sulla base del fatto che al bambino era stata diagnosticata la Pas, sindrome da alienazione parentale. Secondo la Pas, se il bambino non viene prelevato dalla famiglia materna e resettato in un luogo neutro, come una sorta di depurazione, non potrà mai riallacciare il rapporto con il padre. Tutto questo in base a una scienza spazzatura che arriva dall'America". "In Italia - ha proseguito - ci sono modi più civili per far riallacciare i rapporti tra padre e figlio. Leonardo vedeva suo padre in incontri protetti una volta alla settimana, ogni settimana". "Ieri sera sono andata nella casa famiglia nella quale è stato portato mio figlio, ma mi hanno impedito di vederlo. Ero con il pediatra e ho chiesto che il bambino venisse visitato perché, visto il modo barbaro con il quale è stato trascinato via da scuola, aveva sicuramente riportato qualche trauma, ma, soprattutto, volevo accertarmi del suo stato psicologico. Ma non mi è stato permesso", ha concluso. Insieme ai nonni e altre mamme, questa mattina Ombretta Giglione ha organizzato una protesta con dei cartelli davanti alla scuola: "I bambini non sono né bestie né criminali, liberatelo". E ancora "i bambini vanno ascoltati". Una protesta in pochi, ma le reazioni in Italia si sussegono da ore. "E' incivile che il nostro bambino sia stato portato via in questo modo", ha detto piangendo la madre mentre i nonni hanno spiegato: "Da sei anni mia figlia vive un incubo e noi con lei", ha spiegato Alfonso Giglione, 62 anni. "Mia figlia ha ricevuto 23 querele dal suo ex marito, tutte archiviate. Il bambino vive con lei e non vuole vedere il padre che è percepito dal piccolo come troppo autoritario. Quello che è successo ieri è incredibile". Secondo gli accordi della separazione, il padre poteva vederlo una volta alla settimana in colloqui protetti e trascorreva con lui due fine settimana al mese. Ma ha ottenuto recentemente dal tribunale dei minorenni un'ordinanza che stabilisce la necessità dell'allontanamento dalla casa materna del bimbo. Secondo quanto stabilito dal giudice della Corte d'Appello della sezione Minori di Venezia, il rapporto con il padre è da recuperare e per questo gli agenti ieri, con il consulente tecnico del pubblico ministero e ai tecnici dei servizi sociali, lo hanno prelevato da scuola. "Anch'io sono rimasta sconvolta e turbata da quanto ho visto ieri - ha spiegato la dirigente scolastica Marina Zanon -. Abbiamo fatto uscire dalla classe i suoi compagni solo dopo quando il bimbo è stato portato in auto. Ho visto le immagini. La situazione in cui si trova il piccolo è drammatica". "Mio figlio ora sta bene, è sereno. L'importante è questo. Ho pranzato, giocato alla playstation e poi cenato con lui e l'ho messo a letto. Era anni che non lo facevo ed è stata una bella emozione", ha raccontato spiegandoo che suo figlio è "inserito provvisoriamente in una comunità adatta al suo recupero, prima di essere affidato a me". Ha sottolineato poi che la corte d'Appello di Venezia "ha emesso un provvedimento grave che ha portato alla decisione di far decadere la patria potestà della madre e il motivo di ciò è consistito nell'aver attuato un'ostruzionismo strenuo che ha impedito la frequentazione tra me e io mio figlio. Per cui, di fatto, - ha osservato - il bambino non l'ho più visto. Anche perché il comportamento della madre e dei suoi familiari ha cagionato al bambino una psicopatologia secondo la quale mio figlio è esposto a un rischio altissimo di patire dei disturbi mentali nel corso dell'evoluzione". Il padre, avvocato, evidentemente provato, ha raccontato che prima di arrivare a questa "sofferta decisione" ci sono stati altri quattro provvedimenti giudiziari e le decisioni prese sono state "ponderate e approfondite ed avanzate tutte le possibilità per convincere la madre del piccolo a cambiare atteggiamento, di seguire dei percorsi meno incisivi di quello finale ma sono andati sempre falliti". "Il bambino - ha ribadito - necessità di un sostegni di psicoterapeuti qualificati e finora non è stato possibile". "Ho salvato mio figlio. - ha ripetuto - e inevitabilmente i momenti difficili sono stati tantissimi. Io per primo avverto una pesantezza però ho la consapevolezza di fare il bene di mio figlio. Penso come padre di aver diritto a frequentarlo come mio figlio, ancor prima, ha diritto di frequentare me e quindi di avere un padre. Io e la mia famiglia - ha ricordato - siamo stati totalmente eliminati dalla vita di mio figlio per periodi lunghissimi. E' una situazione drammatica che non auguro a nessuno". Il padre ha dichiarato che dopo il periodo in comunità non eviterà alla madre di vedere suo figlio ricordando infine che "se i genitori si comportassero bene non ci sarebbe alcun bisogno della legge".
Tutta la verità sul bambino di Padova. Le immagini non possono non indignare, ma l'uso della forza arriva dopo mesi di inutili trattative. A 10 anni non puoi lottare contro due adulti. Sono più forti di te, anche se ti dimeni, se ti aggrappi a loro, se gridi e cerchi aiuto. Chiunque abbia visto le immagini di quanto accaduto a Cittadella, provincia di Padova, con questo ragazzino di 10 anni preso a scuola dalla Polizia e portato in una comunità in rispetto di un'ordinanza del Tribunale dei Minori di Venezia, non può stabilire d'istinto chi sia il buono (il bambino, la madre e la zia che ha ripreso la terribile scena?) ed il cattivo (il padre e la Polizia?). Questo si chiede “Panorama”. Ma poi bisogna saper andare oltre, capire perché si è arrivati a tanto, facendo alcune debite premesse:
- C'era una precisa sentenza del Tribunale dei Minori da rispettare
- Per 4 volte in passato la Polizia avrebbe bussato alla porta di casa della madre del bambino ma non gli sarebbe stata data la possibilità di eseguire l'ordinanza
- I giudici avrebbero sospeso la patria potestà della madre per motivi gravissimi
- Non è pratica abituale della Polizia usare la forza verso dei minori, in pubblico
- Quanto accaduto a scuola è solo un frammento di una vicenda complessa che va avanti da anni.
Premesso questo ecco cosa sarebbe successo da quando il Tribunale dei Minori di Venezia ha disposto l'affidamento del bambino al padre. Dal 25 Agosto al 10 ottobre per 4 volte gli agenti si erano recati a casa della mamma per eseguire il provvedimento. La prima volta si era rifugiato nella sua cameretta, rimanendo aggrappato alla rete del letto per ore. Anche le altre volte aveva opposto una resistenza così energica, disperata, da far sospendere l’esecuzione. Così si è pensato che a scuola ci sarebbe stata una situazione più favorevole. Il dirigente scolastico non ha consentito agli agenti di entrare in classe. Ha chiesto al maestro di far uscire il piccolo e di portarlo in aula magna. Ma lui ha capito che erano venuti a prenderlo. Il bambino così avrebbe cominciato ad urlare, ingigantendo gli effetti dell’intervento, trasformandolo in un evento pubblico. Visto il rifiuto ad uscire di classe, il direttore didattico ha preferito far allontanare gli altri compagni della quinta elementare.
Aggrappato al suo banco è rimasto solo il bimbo, il cui comportamento scolastico viene considerato irreprensibile. Ad entrare sono stati gli assistenti sociali, il medico e il padre. Ma la reazione è stata molto violenta, l’alunno ha cominciato a piangere e ha cercato in tutti i modi di opporsi. Si è così arrivati all'uso della forza (me esisterà poi, in casi come questi, un metodo più delicato?). Il bimbo è stato letteralmente portato via da due agenti, visto che cercava di divincolarsi con altrettanto vigore dettato dalla disperazione. È a quel punto che intervengono anche un paio di agenti dell’Ufficio Minorenni della Questura. Due persone lo tengono per le gambe. Un altro lo afferra per le spalle, mentre lui tira calci. Cade a terra. Viene trascinato. Si dispera. Tutto inutile. Alla fine viene caricato su un’auto che si allontana. Il tutto quando ormai fuori dalla scuola si trovavano (un caso?) la madre e tutti i parenti di lei, avvisati forse da qualcuno dell'Istituto o che già avevano capito cosa sarebbe successo. A Cittadella sarebbero in molti addirittura a pensare che il video (la cui drammaticità resta) sia stato creato e girato "ad arte" ...Ed allora? Cosa resta? Resta l'indignazione per l'accaduto, perchè, in una maniera o nell'altra la situazione andava risolta in maniera diversa, meno traumatica (se possibile), di sicuro non nel cortile di una scuola.
"Il bambino non va mai diviso - sostiene il Prof. Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro - soprattutto perché lui per primo, per natura, ama entrambi i genitori e non vuole e non può scegliere tra uno e l'altro".
Ma lei condivide l'uso della forza?
"No, ma va anche detto che è difficile gestire una situazione come questa. Il bambino si trovava già da tempo in una situazione di conflitto, altrettanto grave. Perché interrompe, infastidisce, a volte compromette il suo normale processo di sviluppo e crescita. Anche perché lui è solo e si trova in mezzo ad una guerra che non è solo tra la mamma ed il papà ma tra due interi nuclei familiari".
Cosa fare per far superare l'accaduto al bambino?
"Innanzitutto deve trovare o nella comunità o in casa, una persona con la quale parlare, deve ritrovare l'equilibrio perduto. E c'è un'unica via per fare questo; far si che i genitori per primi trovino un loro punto di contatto e non di contrapposizione. Solo a quel punto comincerà ad uscire da quest'incubo, a ritrovare la sua tranquillità".
In Italia non si parla d'altro che del video riguardante il bambino che, in provincia di Padova, viene prelevato con la forza da scuola per essere consegnato al padre cui il tribunale lo aveva affidato; il ragazzo a dispetto di questa delibera, continuava a stare con la madre e da ciò ne deriva un'ordinanza del Tribunale di Venezia. Ad intervenire è la polizia (in maniera tutt’altro che garbata) che lo porta via dalla madre stessa avendo i giudici stabilito che la patria potestà debba andare unicamente al padre del ragazzo. – scrive Gianfranco Battaglia su “La Vera Cronaca”. Immagini di un dramma familiare che si produce in modo violento su una vittima innocente e che hanno fatto il giro dei media suscitando lo sdegno generale portando ancora una volta alla ribalta le molteplici complessità di un fenomeno ricorrente. Quello dell’affidamento dei figli, ovvero la potestà genitoriale sui figli minorenni in situazioni di non convivenza dei genitori. In base alle norme recenti modificate dalla legge n. 54 dell’8 Febbraio 2006, nel nostro ordinamento è stato introdotto il cosiddetto concetto di affidamento condiviso in base al quale, in caso di separazione o divorzio, è sempre il giudice a scegliere il coniuge a cui affidare i figli facendo esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di questi ultimi ma “Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. In sostanza si garantisce comunque un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e per fare ciò la norma ha stabilito che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute siano assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di un assegno periodico.
Questo per quanto riguarda l’affidamento congiunto: il giudice infatti ha anche facoltà di valutare la possibilità di affidare i figli ad uno solo dei genitori determinando i tempi e le modalità della loro presenza fissandone misura e modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento. In questo caso pur rimanendo immutati i doveri verso i figli e la titolarità della potestà genitoriale, il suo esercizio compete soltanto al genitore che ne ottiene l’affidamento. È questo il caso dell’affido esclusivo, nello stabilire il quale il giudice dovrebbe sempre fare esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei figli. Anche nel caso di affido esclusivo, le decisioni di maggiore interesse sono adottate da entrambi i genitori di comune accordo e, nella pratica, anche il genitore non affidatario ha il diritto e il dovere di partecipare e vigilare sull'educazione e istruzione del figlio, partecipando alle decisioni importanti che riguardano quest'ultimo. Il coniuge al quale sono affidati i figli ha diritto a percepire un contributo economico, da parte del coniuge non affidatario, per il loro mantenimento.
L’affido esclusivo era la regola prima della modifica avvenuta con la suddetta legge n. 54 dell’8 Febbraio 2006, che ha introdotto l’affido condiviso. Fin qui la parte regolamentativa: nella realtà dei fatti, come sempre, le cose prendono spesso un’altra piega. Caratterizzata da litigi, minacce, ritorsioni e figli usati come strumenti di ricatto nei confronti dell’altro coniuge; oltre che da un dato di fatto: salvo rare eccezioni, quando a prevalere non è l'affido congiunto i figli vengano quasi sempre affidati alla madre come avevamo denunciato in passato delle pagine del nostro giornale (La realtà sommersa dei padri separati senza diritti). Realtà, quest’ultima, molto diffusa ne nostro Paese al punto che la Corte Europea, in passato, aveva richiamato le istituzioni italiane per la violazione dei diritti umani perpetrata a danno dei padri separati. Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, l’assegnazione dei figli (e della casa) va alla madre, con tutte le conseguenze che ciò implica. Il caso di cronaca del bambino di Padova da cui siamo partiti è un esempio esplicativo del dramma realtivo alla problematica dell'affidamento dei figli minori; si parla di un bambino conteso tra genitori, di battaglie a colpi di istanze, ricorsi, delibere, di un affidamento combattuto. E, soprattutto, di un esito che ha visto (e potrebbe continuare a vedere) il bambino stesso quale maggiore vittima di una folle storia e di una legge come sempre poco efficace.
Come il piccolo Leonardo: in 2 anni 30 bambini tolti di peso alle famiglie. Altro che eccezione, sempre più spesso viene diagnosticata l'alienazione parentale scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'auto della polizia che sgomma allontanandosi a sirene spiegate. All'interno una bimba di 4 anni. La piccola è stata appena tolta alla madre. Davanti al commissariato di Ischia la gente urla indignata: «Così si trascinano via i boss, non i bambini», «Dovete vergognarvi»; una parente accusa: «Hanno preso la bambina afferrandola per i capelli».
Divampano le polemiche per il modo in cui è stata sottratta, scrive Gennaro Savio.
ISCHIA, PER ORDINE DELLA MAGISTRATURA SOTTRATTA FIGLIA ALLA MADRE ED ESPLODE LA DURA PROTESTA DEI FAMILIARI. Sta facendo il giro di tutte le Redazioni giornalistiche italiane, la notizia dei forti momenti di tensione e di esasperazione che si sono vissuti tra i parenti di una bambina di appena 5 anni e le Forze dell'Ordine che questa mattina martedì 28 dicembre 2010 hanno eseguito l'ordine della Procura della Repubblica di Napoli, di sottrazione della piccola alla madre. Ad eseguire la sentenza, si sono recati a casa della piccola che sin dalla nascita ha vissuto con la mamma, gli agenti della Polizia Municipale di Napoli, coadiuvati dalla Polizia di Stato che hanno provveduto a trasferire la bambina in Commissariato. Secondo la ricostruzione dei parenti della bambina, la sottrazione sarebbe avvenuta con modi bruschi che avrebbero traumatizzato la piccola, di qui la rabbia esplosa proprio all'esterno del Commissariato di Polizia assediato da amici e parenti della famiglia. "Si deve sapere quello che è successo, gridavano in coro, hanno picchiato persino le donne. Hanno strappato la bambina dal proprio letto. Hanno violato i diritti umani, civili dei minori". Intorno alle ore 13,30 si è giunti all'epilogo della triste mattinata. Gli agenti della Polizia Municipale di Napoli, accompagnati dagli uomini della Polizia di Stato di Ischia, hanno lasciato il Commissariato di via delle Terme tra le urla e le proteste dei parenti della piccola che è stata trasferita a Napoli e che sicuramente ricorderà questo Natale, che per i bambini dovrebbe essere magico e gioioso, come il giorno più brutto della sua vita e che di sicuro l'ha costretta a crescere troppo in fretta. Quello che ci ha stupito e non poco, è stato vedere le macchine delle Forze dell'Ordine allontanarsi con la bambina verso il porto d'Ischia a sirene spiegate. Dopo una lunga mattinata di forti tensioni e in cui ci è stato riferito che la bambina continuava a chiedere della madre con cui è cresciuta e durante la quale all'esterno del Commissariato c'è stato anche chi è svenuto, almeno quest'ennesimo trauma dell'assordante suono delle sirene le poteva essere risparmiato.
Abbiamo letto negli occhi della madre e dei parenti della piccola, la sofferenza, la tristezza, lo strazio e la disperazione tipica di chi effettivamente ama qualcuno che ti viene sottratto. Noi non entriamo nel merito della sentenza emessa dai Giudici anche perché non abbiamo gli elementi per farlo ma anche questa mattina, così come abbiamo potuto testimoniare durante i tragici abbattimenti delle prime case di necessità della povera gente, abbiamo dovuto constatare la sofferenza di persone semplici e affettuose verso la bimba portata via e per questo ci auguriamo di cuore che sulle labbra della piccola, di sua madre e dei loro parenti possa ritornare a splendere presto il sorriso. La piccola portata via a sirene spiegate.
Il filmato è su Youtube, risale al 28 dicembre 2010, e, per certi versi, ricorda quello del «rapimento» di Leonardo davanti alla scuola di Cittadella. Un caso umano - quello di Leonardo (e dei suoi genitori) - subito diventato un tormentone mediatico, con tutte le distorsioni che ciò comporta. Merito o colpa (dipende dai punti di vista) di quel video che documenta la scena e che ha rapidamente monopolizzato i programmi della «tv del dolore», oltre ad essere cliccato in rete da milioni di persone. Ma per un dramma videodocumentato, ce ne sono decine che - orfani del traino emotivo delle immagini choc - si consumano nell'indifferenza dei media. Cos'è più grave: il troppo clamore o il troppo silenzio? Sono le due facce di un'informazione sempre più spesso «malata».
Riflettori spenti sul resto d'Italia. Leonardo e i suoi «fratelli». Almeno una trentina negli ultimi anni. Piccolissimi, più grandicelli, a volte adolescenti. E questi ultimi, forse, sono i meno sfortunati: per loro infatti il traguardo della maggiore età e più vicino; e con esso la libertà di scegliere in prima persona se stare con mamma o papà, o se mandarli al diavolo entrambi. Su tutti il trauma di allontanamenti dalle modalità a volte violente e il velo nebuloso di una patologia-fantasma: PAS, misteriosa sigla che sta per «sindrome da alienazione genitoriale». Tradotto: quando un genitore fa in mondo che il figlio odi l'altro genitore. La scienza, sull'argomento, è divisa. C'è chi dice che sia una malattia «inventata» di cui non c'è traccia in letteratura scientifica, altri sostengo che il rischio è concreto.
Tanto concreto che, da un po' di tempo a questa parte, sono sempre di più i piccoli tolti alla mamma o al padre perché considerate vittime potenziali di questa specie di lavaggio del cervello.
PAS, una sindrome che divide la scienza. Leonardo, il ragazzino di 10 anni suo malgrado protagonista del «video della vergogna», è diventato il simbolo del cortocircuito tra istituzioni e famiglia. Un braccio di ferro assurdo, con i provvedimenti del giudice sempre disattesi da una madre cui, alla fine, è stata tolta anche la potestà genitoriale. E un padre che trascina per le gambe il figlio e poi giura: «L'ho salvato dai suoi rapitori». In mezzo le urla strazianti di Leonardo e quelle inquietanti di una zia e di un nonno trasformati in guardie del corpo del nipote. Ma prima di Leonardo hanno vissuto disavventure analoghe (anche se ogni caso è una storia a sé) decine di altri bambini, soprattutto nel Nord e Sud Italia. Scorrendo i dati del sito www.alienazione.genitoriale.com si rimane senza parole: caso di Modena, caso di Thiene (Vicenza), caso di Potenza, caso in Sicilia, caso di Treviso, caso di Ivrea, caso di Pontremoli (Massa Carrara), caso di Roma, Caso di Castelfranco Emilia (Modena), caso in Veneto, caso di Torino, caso di Belluno, caso di Trieste, caso di Santa Maria al Bagno (Lecce, caso di Sezze (Latina), caso di Trento, caso in provincia di Padova, caso di Cremona, caso di Nichelino (Torino). Poi un ulteriore elenco in cui la parola PAS non viene citata espressamente, anche se i consulenti psichiati rimandano più o meno esplicitamente alle caratteristiche della Parental Alienation Syndrome: ci riferiamo ai casi di Cologno Monzese, al caso di Simona Pletto, alla sentenza della Corte d'Appello di Napoli e al caso di Ischia. Capitolo a parte per i «casi di sottrazione internazionale» nei quali la PAS viene evocata, anche se non rappresenta l'elemento determinante per la sottrazione del minore a uno dei due genitori. Numerosi gli esempi: dal caso di Marinella Colombo a quello di Alessia Ravarotto; dal caso della piccola Elise al caso Guareschi: dal caso Liam McCarty al caso Coffari; dal caso Ruben Bianchi al caso Ogliaro; per finire col caso Maoloni.
Intanto zia e nonno sono stati denunciati, così riporta ADN Kronos.
Tre in tutto le persone denunciate per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale: tra queste un genitore di uno dei compagni del ragazzo. Il sottosegretario all'Interno De Stefano riferendo nell'Aula della Camera sulla vicenda: "Comportamento Polizia non adeguato". E aggiunge: "Quanto accaduto richiede che vengano espresse le scuse del governo". Continuano le polemiche per il caso del bimbo di 10 anni di Padova portato via con la forza dalla polizia dalla sua scuola a Cittadella, in Provincia di Padova. La questione è finita oggi alla Camera con il sottosegretario all'Interno Carlo De Stefano che, come fatto ieri dal capo della polizia Antonio Manganelli, ha chiesto scusa a nome del Governo per "la scena del trascinamento del fanciullo". Riferendo in Aula sulla vicenda, De Stefano ha aggiunto che "è stata già disposta un'inchiesta interna" sull'intervento della Polizia, "volta a verificare, con puntualità ed obiettività, le cause di un comportamento che, senza voler anticipare alcun giudizio, non è sembrato adeguato rispetto a un contesto ambientale piuttosto difficile ed ostile, che avrebbe potuto suggerire diverse modalità operative". "Del resto - ha sottolineato - la crudezza di quelle immagini offusca e rischia di far dimenticare tutte le volte che le forze di polizia, con pacatezza, sono intervenute e si sono schierate a tutela delle persone più fragili e indifese". Intanto in queste ore scatterà la denuncia per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale a carico di tre persone che hanno tentato di impedire il trasferimento del ragazzino. La segnalazione è stata fatta al Tribunale di Padova a carico della zia del ragazzino, che ha anche girato il filmato di denuncia, del nonno e di un genitore di uno dei compagni del ragazzo. Nel frattempo è stato inviato alla Procura un video, girato dalla polizia Scientifica, con le immagini del bimbo di Cittadella, prelevato a forza da scuola dal padre a cui è stata data potestà assoluta con l'aiuto di alcuni agenti. Sarà la Procura a valutare se ci sono condotte che possono integrare la resistenza e l'oltraggio a pubblico ufficiale. Insieme al video la polizia ha inviato all'autorità giudiziaria una comunicazione scritta in cui sono segnalate tutte le condotte presenti. Il sottosegretario De Stefano ha ricostruito l'episodio, a partire dalla comunicazione, inviata la mattina del 10 ottobre dal padre del bambino all'ufficio Minori della Questura di Padova, per informarlo del rigetto da parte della Corte di Appello di Padova, del ricorso con il quale la madre aveva chiesto la sospensione del provvedimento di allontanamento dall'ambiente familiare materno. Il responsabile dell'ufficio Minori ha quindi contattato i Servizi sociali del Comune, incaricati di eseguire il provvedimento, che hanno deciso di intervenire immediatamente, per evitare che la madre del minore, come già accaduto due volte in passato, rendesse impossibile dar seguito alla decisione del giudice. Si è quindi stabilito di recarsi nella scuola, ritenendo l'area antistante l'istituto "il luogo più idoneo per l'intervento", in quanto "ambiente neutro rispetto alla casa familiare, dove i precedenti tentativi erano stati vanificati dalla resistenza del bambino, fortemente supportato dai componenti la famiglia materna, in particolare la zia ed il nonno". Il personale della Polizia, dei Servizi sociali e il padre del bambino si sono quindi recati nella scuola, decidendo, dopo un contatto con la direttrice, di far uscire il minore dall'aula "per prepararlo all'accompagnamento". Questi si è però rifiutato di uscire, per cui sono stati allontanati gli altri alunni. Lo psichiatra e lo psicologo, viste le resistenze del minore, hanno chiesto l'intervento del padre, perché conducesse il figlio all'autovettura dei Servizi sociali, con la quale sarebbe stato accompagnato alla comunità di accoglienza. Nel corridoio, ha riferito ancora De Stefano, "la reazione del minore è diventata ancora più energica, sfociando in manifestazioni a carattere violento anche nei confronti del genitore e degli operatori intervenuti". Uscito dall'ingresso secondario dell'edificio scolastico, ha invocato "con urla l'intervento dei familiari della madre", giunti "muniti di telecamere". A questo punto due agenti della Polizia hanno tentato "di fronteggiare i familiari", mentre un terzo operatore ha cercato "di aiutare il padre a condurre il figlio nell'autovettura". Nonostante la resistenza "sempre più accesa dei familiari", gli agenti sono quindi riusciti "ad allontanarli dal veicolo, consentendone la partenza". Di fronte alla protesta dei familiari nei confronti della Polizia, chiedendo "l'esibizione di provvedimento di diniego della sospensiva, un ispettore capo ha replicato, con espressioni assolutamente non professionali, che il grado di parentela con il minore non giustificava la richiesta". Sul caso è arrivato anche il commento del ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri che, parlando da Palermo, ha sottolineato come ''la vicenda del bambino di Padova ha molto colpito l'emotività. Il capo della polizia ha aperto un'inchiesta per conoscere bene i fatti e prima di parlare bisognerebbe sapere bene tutto e sapere come si sono sviluppati i fatti. L'unica cosa che so è che la vera vittima è il bambino''. Per quanto riguarda i servizi sociali e il ruolo svolto dalle forze dell'ordine in casi come questi, il ministro voluto ribadire la professionalità della Polizia femminile che da sempre si occupa dei minori. "Io voglio i fatti. Per giudicare bisogna conoscere. E noi non conosciamo abbastanza per sapere. C'è un video, è vero. Ma non c'è il pregresso e il contesto, è un video parziale. Lasciamo che la magistratura faccia la sua parte e la polizia faccia la sua inchiesta''.
"Prima di esprimere giudizi, che hanno l'effetto di un vero e proprio linciaggio nei confronti degli agenti e di rimando nei confronti della Polizia - ha detto il segretario nazionale dell'Associazione funzionari di polizia (Anf) Enzo Marco Letizia -, si attenda l'esito delle indagini condotte sia dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza che dalla Magistratura, volte ad accertare la coerenza dei comportamenti con le disposizioni di legge sul caso del bimbo conteso a Cittadella". "Difendere i diritti dei bambini - ammonisce Letizia - deve rappresentare sempre e comunque un dovere e una priorità per tutti gli operatori impegnati nella tutela dei minori. Difendere i diritti dei bambini significa anche salvaguardare il loro futuro, custodendo i valori della legalità, il rispetto delle leggi, la ricerca della verità", ammonisce.
Bambini contesi. Scenata pianificata? Ascolta l'audio che imbarazza la madre di Padova. L'avvocato della signora, nel 2011, spiegava a un bimbo conteso dai genitori di "fare i capricci" in presenza della polizia, così riporta “Libero Quotidiano”. Il caso del bambino di Padova "rapito" della polizia continua ad essere al centro di dibattiti e discussioni. Smorzato l'impatto emotivo delle immagini, che sono state per quanto possibile metabolizzate, iniziano a farsi strada anche delle domande, più o meno scomode.
Il tema, quello delle separazioni con bimbi contesi, è delicatissimo. Risulta naturale, ora, interrogarsi sul perché madre e zia, nel momento dell'esecuzione del provvedimento giudiziario, fossero lì. Risulta naturale interrogarsi sul perché siano state prontissime nell'immortalare tutto con un telefonino. Certo, la scarsa umanità dei poliziotti ha colpito; hanno fatto il loro dovere, ma andando oltre quel "minimo di violenza" necessaria per raggiungere l'obiettivo. Altrettanto certo, madre e zia non volevano rispettare il provvedimento di un giudice, e hanno fatto di tutto per ostacolare i poliziotti e, di conseguenza, hanno fatto di tutto per sottoporre il loro bimbo a uno choc terrificante. Le due donne hanno sfidato le istituzioni, e i poliziotti hanno dovuto ricorrere alla violenza.
Il ruolo degli avvocati - Un'altra domanda che inizia a fare capolino è quella relativa al ruolo che possono avere gli avvocati in vicende come questa. Che fanno, i legali? Fanno da pacieri o, piuttosto, esasperano le situazioni? Ma entrando nello specifico della vicenda del bimbo di Padova si scopre che l'avvocato Andrea Coffari, che assiste la signora Ombretta, madre del bimbo, ha una storia piuttosto particolare. In giovane età accusava di pedofilia il padre, che poi fu giudicato per ben due volte innocente da un tribunale. L'avvocato Coffari ha poi subìto una pesante sconfitta nella veste di difensore delle parti civili al processo di appello per il caso dell'asilo Sorelli di Brescia: il caso fu riconosciuto del tutto insussistente (al pari della più nota vicenda di Rignano Flaminio, dove la principale accusatrice degli insegnanti era Barbara Lerici, che con Coffari ha combattuto e combatte molte battaglie sull'abuso dei minori).
Quando "imbeccava" i bambini - Inoltre, semplicemente "googlando" il nome Andrea Coffari, il motore di ricerca ci consegna molte informazioni su come l'avvocato sia stato coinvolto in diversi processi che, con sentenze definitive, hanno stabilito che i suoi assistiti avevano presentato false denunce di casi di pedofilia e maltrattamenti fisici e psicologici ai danni di minori. Certo, questo non significa nulla, però può aiutare a far luce sul contesto nel quale si è arrivati alla tragedia psicologica filmata da madre e zia. Ben più significativo, al contrario, un audio trasmesso a La Fine del Mondo, la trasmissione radio condotta da Selvaggia Lucarelli su M2o. Nella registrazione, Coffari, al teatro comunale di Sant'Orense, il 12 marzo 2011, getta una luce inquietante sulle modalità con le quali difende i suoi assistiti: il legale "imbecca" i minori contesi, li "indirizza" nei comportamenti, spiega loro che cosa fare per "dimostrare" la volontà di voler stare con un genitore piuttosto che con l'altro. Per inciso, esiste una norma deontologica che vieta agli avvocati di avere contatti con i bimbi, ed è prassi di tutti i tribunali ascoltare le testimonianze dei minori senza i legali preventi. Eppure Coffari narra la vicenda di un bambino, Matteo, una vicenda per molti versi simile a quella di Padova, e di quello che suggerì al piccolo di dire in presenza dei poliziotti che si sarebbero presentati per affidarlo al padre, come aveva stabilito un provvedimento giudiziario: "Se tu hai detto che non ci vuoi andare, devi farglielo capire. Fai i capricci, come li fai per le figurine". E i capricci li fece, "con forza, con violenza. Minacciò di buttarsi giù dalle scale. E nessuno venne a prendere questo bambino".
Su Dagospia alcune considerazioni:
1- TIBERIO TIMPERI METTE IL DITO NELLA PIAGA DI TANTI PADRI CUI VIENE NEGATO IL FIGLIO- 2- “DICIAMOCELA FUORI DAI DENTI: LA SOCIETA’ METTE LA DONNA, LA MADRE, SEMPRE, OVUNQUE E COMUNQUE, AL CENTRO DELLA FAMIGLIA. COME SE TUTTE LE MAMME FOSSERO BUONE A PRESCINDERE E I PADRI CATTIVI... CHIEDIAMOCI PIUTTOSTO, SE UN GENITORE CHE OSTACOLA I RAPPORTI CON L'ALTRO, SIA UN BUON GENITORE. CHIEDIAMOCI PERCHÉ IN ITALIA CI VOGLIANO CINQUE ANNI, COME IN QUESTO CASO, PER ATTIVARE LA SENTENZA”- 3- “E PENSIAMO A QUANTE MANIPOLAZIONI POSSANO ESSER STATE FATTE IN QUESTI CINQUE ANNI, SU UN MINORE. BISOGNA PREVEDERE IL CARCERE PER QUEI GENITORI CHE DISATTENDONO I PROVVEDIMENTI DEI GIUDICI. RISPETTARE I PADRI CHE VOGLIONO FARE I PADRI, IN NOME DELL'ARTICOLO 3 DELLA COSTITUZIONE E DELLE PARI DIGNITÀ SOCIALI”-
1- TRAGEDIA COMMEDIANTE, SINDROME MAMMISMO scrive Tiberio Timperi. La vicenda di Padova, è una vicenda dolorosa. Complessa. Vasta. Non ho volutamente visto le immagini di quanto accaduto. Pornografia vera. Scioccante. Dei sentimenti. Ancora più alti e sacri perché di un bambino. Ma non ho voglia di discutere sull'opportunità e la liceità di mandare in onda quelle immagini. I fatti: una madre decaduta dalla patria potestà da cinque anni. Ed altrettanti, inutili, tentativi di eseguire una sentenza. Un padre che lotta contro l'ostruzionismo della madre. Non sappiamo i motivi che hanno portato la Corte d'Appello ad esprimere questa sentenza. Non ci interessano. Ma li rispettiamo. Come e più del solito. Perché vanno contro l'orientamento culturale dominante. Ma sopratutto perché relativi ad un bambino. Che, secondo le parole del padre e del questore di Padova, soffrirebbe di sindrome da alienazione parentale. Anzi, diciamocela fuori dai denti: sindrome della madre malevola. Negata ed osteggiata da un certo mainstreaming che mette la donna, la madre, sempre, ovunque e comunque, al centro della famiglia. Come se tutte le mamme fossero buone a prescindere e i padri cattivi... Ma non è la lotta di genere che mi interessa. Torniamo a Padova. Andiamo oltre l'impatto emotivo delle immagini, riprese ad arte, per costruire il caso. Chiediamoci piuttosto, se un genitore che ostacola i rapporti con l'altro, sia un buon genitore. Chiediamoci perché in Italia ci vogliano cinque anni, come in questo caso, per attivare la sentenza. E pensiamo a quante manipolazioni possano esser state fatte in questi cinque anni, su un minore. Bisogna costruire alternative coraggiose. Introdurre patti prematrimoniali e divorzio immediato. Prevedere il carcere per quei genitori che disattendono i provvedimenti dei giudici. Rispettare i padri che vogliono fare i padri, in nome dell'articolo 3 della Costituzione e delle pari dignità sociali. Certi giudici, certi avvocati e certi consulenti hanno un orientamento culturale vecchio e superato che sta generando mostri. Un atteggiamento da rottamare. Adesso.
2- TIMPERI: "IN QUEI MOMENTI SI PERDE LA TESTA", scrive Francesco Maesano. In Italia c'è questo orientamento culturale. Favorisce le madri mentre i padri scompaiono", denuncia Tiberio Timperi, giornalista, da anni impegnato nella lotta per veder riconosciuti i suoi diritti da genitore.
Ha visto le immagini del bambino trascinato sul selciato dagli agenti?
Sì, e le dico: la colpa non è dei padri o delle madri ma della giustizia che arriva sempre quando è tardi.
Tardi per cosa?
Si tratta di un caso di sindrome da alienazione parentale: alla madre è decaduta la patria potestà da 5 anni. Un bambino che ha queste reazioni mostra i segni di una evidente manipolazione. Perchè la giustizia non è intervenuta prima? Sono passati cinque anni dopo aver disposto l'allontanamento. Queste cose vanno fatte subito.
E perchè non si fanno?
C'è troppa gente che mangia su queste cose. La filiera è troppo lunga. C'è un giro da un miliardo di euro. Pensi solo ai consulenti incaricati dai giudici. Dovrebbero essere super partes ma a volte si conoscono tra loro.
Qualche esempio?
Senza fare nomi. Due consulenti romani, molto bravi, molto conosciuti. Lavorano insieme da anni. Accade che uno dei due sia chiamato dal giudice come consulente della Corte e che l'altro venga assunto da una delle due parti. C'è un conflitto di interessi o sbaglio? Sono la mafietta di un ambiente che non si può toccare.
Che propone?
Per iniziare basterebbe introdurre patti prematrimoniali e velocizzare il divorzio. Poi ci vogliono leggi draconiane per il genitore che delinque che ora confida nella lentezza della giustizia. Voglio la galera per il genitore che non rispetta la legge.
Così non si rischia di esacerbare la conflittualità?
Questa è una emergenza sociale. Il problema non sono i padri o le madri, è il paese a essere impreparato. Esiste un problema giustizia e di realizzazione dell'articolo 3 della Costituzione. Quando il giudice dà il bambino al padre fa notizia. Guarda caso quelle immagini le ha diffuse la zia materna.
A prescindere da chi le
ha diffuse e dai diritti dei genitori, non crede che portare via un bambino di
peso sia in ogni caso eccessivo?
Ho capito! Ma cosa deve fare un genitore? O va fuori di testa e passa alla
violenza fisica, che è sempre esecrabile, o non sa che fare.
3- "CHE ERRORE MANDARE GLI AGENTI MA A VOLTE UN GIUDICE È COSTRETTO", scrive Elsa Vinci. La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per "salvare" un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l'allontanamento con la forza possa avere un buon effetto. Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l'assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l'evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l'intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d'appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino ».
Il trauma dell'allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un'équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più.
Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall'influenza dell'altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà mai».
PARLIAMO DI BIGENITORIALITA’ ED AFFIDO CONDIVISO.
SULL’AFFIDO CONDIVISO E’ GUERRA DI GENERE.
Il Matrimonio (di Paola Maffei)
Ho, ma che bel traguardo
è a quello che la giovane tende lo sguardo,
il matrimonio con l’amato
e il sogno di una vita coronato.
Con il matrimonio ci si giura eterno amore,
nella gioia e nel dolore,
di quello che nulla può separare
e ancor più bello è quando lo si dice sull’altare.
Passa il tempo, arrivano i figli
Genitori e zii, elargiscono consigli
Si stringono tutti intorno alla famiglia
Per dare un grosso aiuto al figlio o alla figlia.
Quello che si vive è magia ed incanto
Anche se poi non si sa perché, a volte viene infranto,
all’amore eterno subentrano questioni di denaro ed interesse
il matrimonio si incrina e con esso anche tutte le sue promesse.
Le motivazioni sono sempre i soliti argomenti:
i suoceri, i soldi, le proprietà, i tradimenti…
Che dispiacere per amici e parenti
Vedere che quell’amore eterno attraversa patimenti.
C’è chi si dispera per la loro separazione,
chi piange e chi prega per la loro unione.
C’è anche chi accende le questioni
Con accanimento per far conti e divisioni.
In tutta questa nuova situazione,
a chi meno si rivolge l’attenzione
è ai figli che nel silenzio o in un capriccio
nascondono le vere sofferenze di questo bisticcio.
E’ a loro che voglio dire apertamente:
voi non c’entrate in questo “incidente”.
Se si è scelto di mutilare questa famiglia
L’incoerenza non è in voi, ma in chi è immaturo da tenerne le briglia.
Paola Maffei 6 novembre 2018 ore 14.40
Lei: Voglio il divorzio e l’affidamento esclusivo del bambino!
Lui: Esclusivo, ma è anche mio!
Lei: Tuo? Io l’ho partorito, non tu! I bambini sono delle madri, li facciamo noi e solo noi, sono nostri! E voglio il mantenimento!
Lui: Ma come, è tuo ma vuoi crescerlo coi soldi miei?
Lei: E’ anche tuo, mica l’ho fatto da sola…
La sinistra politica e mediatica e le associazioni di genere sono contro ogni legge egualitaria ed equitaria.
Il ddl Pillon, spiegato bene, scrive sabato 10 novembre 2018 "Il Post". Vuole cambiare le leggi su separazione, divorzio e affido condiviso dei minori: è molto contestato da più fronti, con gli stessi argomenti. Lo scorso agosto è stato assegnato alla commissione Giustizia del Senato il disegno di legge 735, meglio conosciuto come “ddl Pillon”, che introduce una serie di modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori. Il disegno di legge prende il nome dal senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day, uno dei portavoce delle principali battaglie dell’integralismo cattolico e il promotore del gruppo parlamentare Vita famiglia e libertà. È un progetto molto contestato da avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori, dai centri antiviolenza e dai movimenti femministi che il 10 novembre manifesteranno in tutta Italia, ma anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne che lo scorso 22 ottobre hanno inviato una lettera al governo italiano.
Il contratto di governo e l’obiettivo della riforma. Nel “contratto di governo” a cui spesso gli esponenti dell’attuale maggioranza si richiamano, cioè il documento con il quale Lega e M5S hanno definito i progetti della loro alleanza, è presente il contenuto generale del disegno di legge Pillon: equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; mantenimento in forma diretta senza automatismi; contrasto della cosiddetta alienazione genitoriale. Non è citata esplicitamente, invece, la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni. Pillon ha spiegato l’obiettivo della sua legge: una «progressiva de-giurisdizionalizzazione» (il conflitto familiare non deve cioè arrivare di norma in tribunale) e la volontà di rimettere «al centro la famiglia e i genitori» lasciando al giudice il «ruolo residuale di decidere nel caso di mancato accordo». Pillon ha citato anche Arturo Carlo Jemolo, giurista e storico cattolico: «Come soleva dire Arturo Carlo Jemolo, la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire, essendo organismo normalmente capace di equilibri e bilanciamenti che la norma giuridica deve saper rispettare quanto più possibile». Negli ultimi anni le questioni relative all’affidamento dei figli e delle figlie minori nei casi di separazione dei genitori sono state riformate in modo significativo, soprattutto con la legge 8 febbraio 2006, n. 54. Prima del 2006, nonostante fosse comunque previsto l’affidamento congiunto o alternato, il tribunale aveva il compito di stabilire a quale genitore i figli dovessero essere affidati in via esclusiva. Nel 2006 è stato invece messo a regime il principio dell’affido condiviso in caso di separazione, salvo i casi in cui questo potesse essere dannoso per i-le minori. I dati ISTAT mostrano che la legge ha funzionato, e che nelle separazioni e nei divorzi l’affidamento condiviso ha ora percentuali decisamente prevalenti: «Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi». A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della legge numero 54, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta. Il sorpasso vero e proprio è avvenuto nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Pillon sostiene però che i dati non mostrino la realtà: che ci sia una «violazione di fatto della legge 54/2006 sull’affido condiviso», che sarebbe rimasta «solo un nome sulla carta». Dice che nel 90 per cento dei casi «non è cambiato nulla» e che «ci si ritrova di fronte a un affido che nei fatti è ancora esclusivo». Pillon fa probabilmente riferimento ad alcuni dati, che riguardano però soprattutto questioni economiche assimilando, di fatto, l’affido esclusivo a quello condiviso con residenza prevalente presso la madre: come scrive Valigia Blu, «per quanto riguarda l’assegnazione della casa coniugale è vero che nel 69 per cento dei casi quando c’è un figlio minore va all’ex moglie e che il 94 per cento delle separazioni con assegno di mantenimento sia corrisposto dal padre».
Il ddl Pillon. Il disegno di legge 735 si compone di ventiquattro articoli e prevede che le disposizioni introdotte, una volta entrate in vigore, si applichino anche ai procedimenti pendenti. Le riforme al diritto di famiglia che il ddl introduce sono principalmente quattro:
1 – mediazione obbligatoria e a pagamento. Il ddl Pillon, per evitare che il conflitto familiare arrivi in tribunale, introduce alcune procedure di ADR, un acronimo che vuol dire Alternative Dispute Resolution: sono metodi stragiudiziali di risoluzione alternativa delle controversie, e ne fanno parte sia la mediazione che la coordinazione genitoriale. Il ddl prevede in particolare di introdurre la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni «a pena di improcedibilità», dicendo esplicitamente che l’obiettivo del mediatore è «salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia». Il ddl (all’articolo 1) istituisce quindi l’albo professionale dei mediatori familiari e precisa chi può esercitare quella professione: tra loro «anche agli avvocati iscritti all’ordine professionale da almeno cinque anni e che abbiano trattato almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minori per ogni anno». Il mediatore familiare (articolo 2) è tenuto al segreto professionale e nessuno degli atti o dei documenti che fanno parte del procedimento di mediazione familiare «può essere prodotto dalle parti nei procedimenti giudiziali», a eccezione dell’accordo finale raggiunto. L’articolo 3 spiega come si svolge questa mediazione. Può durare al massimo sei mesi, i rispettivi legali, dopo il primo incontro, possono essere esclusi negli incontri successivi dal mediatore, e l’accordo raggiunto durante la mediazione (chiamato “piano genitoriale”) deve essere «omologato» dal tribunale entro 15 giorni. Si precisa, infine, che «la partecipazione al procedimento di mediazione familiare è volontariamente scelta», ma più avanti, all’articolo 7, si dice che per le coppie con figli minorenni la mediazione è «obbligatoria». L’articolo 4 aggiunge che è gratuito solo il primo incontro di mediazione, mentre gli altri sono a carico delle due persone che si stanno separando. Se nell’esecuzione del piano genitoriale nascono dei problemi, il ddl prevede l’introduzione di un’ulteriore procedura di ADR, affidata al coordinatore genitoriale: sempre a pagamento. Nel piano genitoriale devono essere presenti, tra le altre cose, una serie di indicazioni molto precise: luoghi abitualmente frequentati dai figli; scuola e percorso educativo del minore; eventuali attività extra-scolastiche, sportive, culturali e formative; frequentazioni parentali e amicali del minore; vacanze.
2 – equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari. Nel ddl si dice (articolo 11) che «indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori» il minore ha diritto a mantenere «un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e la madre, a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali e a trascorrere con ciascuno dei genitori tempi adeguati, paritetici ed equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale». I figli dovranno dunque trascorrere almeno dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, con ciascun genitore, a meno che non ci sia un «motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica» dei figli stessi. Non solo: i figli avranno il doppio domicilio «ai fini delle comunicazioni scolastiche, amministrative e relative alla salute».
3 – mantenimento in forma diretta senza automatismi. Oltre che il tempo, si prevede che anche il mantenimento sia ripartito tra i due genitori. Il mantenimento diventa dunque diretto (ciascun genitore contribuirà per il tempo in cui il figlio gli è affidato) e il piano genitoriale dovrà contenere la ripartizione per ciascun capitolo di spesa, sia delle spese ordinarie che di quelle straordinarie. Si precisa che andranno considerate sempre «le esigenze del minore, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore». Fermo il doppio domicilio dei minori presso ciascuno dei genitori, si aggiunge che il giudice può stabilire che i figli mantengano la residenza nella casa familiare, indicando in caso di disaccordo quale dei due genitori può continuare a risiedervi. Se la casa è cointestata, il genitore a cui sarà assegnata la dovrà versare all’altro «un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato». Non può invece «continuare a risedere nella casa familiare il genitore che non ne sia proprietario o titolare di specifico diritto di usufrutto, uso, abitazione, comodato o locazione e che non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio».
4 – alienazione genitoriale. Il ddl vuole contrastare la cosiddetta “alienazione parentale” o “alienazione genitoriale”, intesa come la condotta attivata da uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) per allontanare il figlio dall’altro genitore (definito “genitore alienato”). Nella scheda di presentazione del ddl al Senato si dice che «nelle situazioni di crisi familiare il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato con la concreta esclusione di uno dei genitori (il più delle volte il padre) dalla vita dei figli e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore». Gli articoli 17 e 18 del ddl dicono dunque che se il figlio minore manifesta «comunque» rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori» stessi, il giudice può prendere dei provvedimenti d’urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore e anche il «collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata». Di alienazione genitoriale si parla anche all’articolo 9, quando si dice che il giudice può punire con la decadenza della responsabilità genitoriale o con il pagamento di un risarcimento danni le «manipolazioni psichiche» o gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento». E si parla di «ogni caso ove (il giudice, ndr) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori». In commissione Giustizia del Senato al ddl 735 sono associati altri due atti: il 45 e il 768. Nel primo, presentato da Paola Binetti, tra le altre cose si prevede la sospensione della potestà genitoriale «in caso di calunnia da parte di un genitore o di un soggetto esercente la stessa a danno dell’altro». Modifica poi l’articolo 572 del codice penale, la norma che punisce la violenza domestica: prevede che i maltrattamenti debbano essere sistematici e rivolti «nei confronti di una persona della famiglia o di un minore».
Le critiche al ddl Pillon. Il ddl presentato dal senatore Pillon (che è anche un avvocato e un mediatore familiare) è stato molto criticato e considerato non emendabile, cioè da rifiutare completamente, da diverse associazioni di avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori; da giuristi, anche cattolici, da giudici minorili, dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi e anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, che lo scorso 22 ottobre hanno scritto una lettera preoccupata al governo italiano. Nella lettera dell’ONU si dice che le modifiche introdotte dal ddl porteranno a «una grave regressione che alimenterebbe la disuguaglianza di genere» e che non tutelano le donne e i bambini che subiscono violenza in famiglia. Le critiche dell’ONU riprendono punto per punto quelle già avanzate in Italia da vari fronti, che sono tutti compatti e concordi nel dire che cosa nel ddl non funziona.
1 – ostacola il divorzio. Il ddl vuole rendere più complicato e oneroso l’accesso alla separazione e al divorzio, introducendo esplicitamente all’articolo 1 il concetto di “unità familiare” e rendendo di fatto separazione e divorzio procedure complesse e soprattutto accessibili solo a chi se le può permettere dal punto di vista economico. Questo, anche in caso di separazioni consensuali tra persone che hanno un figlio minore. Lo si spiega bene qui: attualmente in una situazione di separazione serena e condivisa «è sufficiente una consulenza legale per presentare istanza al tribunale e definire la pratica con dei tempi abbastanza brevi e dei costi limitati». Se passasse il disegno di legge Pillon, invece, si dovrebbe pagare obbligatoriamente un mediatore; andrebbe steso un piano genitoriale molto dettagliato (anche su amicizie e frequentazioni dei figli); ogni modifica del piano comporterebbe altro tempo e nuove spese (per esempio se il figlio smette di giocare a calcio e decide di giocare a pallavolo). Aumenterebbero, insomma, i costi delle separazioni e questo metterebbe in difficoltà soprattutto le donne, visto che sono il più delle volte la parte economicamente svantaggiata.
2 – logica adultocentrica. A differenza di quanto è stato valido fino a oggi nel diritto di famiglia (la priorità dell’interesse del minore e del genitore più debole), il ddl porta avanti un principio adultocentrico. Il principio di bi-genitorialità – già previsto da molte convenzioni internazionali – prevede che il minore abbia il diritto di avere un rapporto significativo con entrambi i genitori a meno che tale rapporto non sia nocivo per il minore stesso. Il ddl non tutela però l’interesse del minore soprattutto quando entra in gioco il concetto di alienazione parentale, come vedremo. E trasforma la bi-genitorialità in un principio dell’adulto. Non solo: dell’adulto economicamente più forte.
Ancora: il piano genitoriale redatto a pagamento durante la mediazione riduce la libertà di scelta del minore, essendo molto dettagliato e molto rigido nella sua applicazione. Viola, secondo chi lo critica, anche tutte le normative internazionali che chiedono ai legislatori, soprattutto nell’interesse dei e delle minori, di favorire la flessibilità e l’elasticità nelle regolamentazioni. La tutela e il diritto del minore alla massima continuità di vita e di abitudini anche in caso di separazione, viene poi stravolto dalla riforma sull’assegnazione della casa familiare, che mette al centro il principio di proprietà della casa stessa.
3- bi-genitorialità coatta. Sul principio di bi-genitorialità a tutti i costi come principio a favore dell’adulto, l’Unione Camere Minorili ha scritto che il ddl si occupa del minore «come di un “bene” che deve essere diviso esattamente a metà come un oggetto della casa familiare». Il Coordinamento italiano per i servizi maltrattamento all’infanzia (Cismai) ha fatto sapere poi che «la divisione a metà del tempo e la doppia residenza dei figli ledono fortemente il diritto dei minori alla stabilità, alla continuità e alla protezione, per quanto possibile, dalle scissioni e dalle lacerazioni che inevitabilmente le separazioni portano nella vita delle famiglie». Il minore da soggetto, torna ad essere un oggetto del diritto. Il ddl pretende poi un’equiparazione astratta tra genitori, in nome di falsi principi egualitari: ignora cioè le reali condizioni di squilibrio di genere che esistono tra i genitori. Non tiene conto del gap salariale e occupazionale di genere o del fatto che molte donne, come dicono i dati, o lasciano o perdono il lavoro dopo la maternità. Una donna che è anche madre riuscirà difficilmente a dare lo stesso tenore di vita che al figlio era garantito durante la convivenza e che potrà continuare ad essere garantito dal padre, causando enormi squilibri e avendo come conseguenza anche la possibilità di perdere l’affidamento. La bi-genitorialità attraverso la divisione dei tempi e il mantenimento diretto si trasforma dunque, in realtà, in un nuovo principio a vantaggio dell’adulto economicamente più forte. Il genitore che si trova nella situazione più difficile o sceglierà di non separarsi o sarà sottoposto a un ricatto economico dovendo affrontare la separazione al prezzo di una crescente precarietà.
4 – privatizzazione della violenza. Il ddl propone soluzioni standard che non tengono conto della diversità delle situazioni, e che possono essere devastanti: il ddl introduce infatti l’obbligatorietà del ricorso un mediatore privato a pagamento nelle separazioni con figli minori, comprese quelle legate a violenza e abusi. Può svolgere il ruolo di mediatore anche un avvocato iscritto all’ordine da almeno cinque anni che abbia trattato «almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minori per ogni anno». La mediazione è affidata a figure che non possono essere specializzate sul tema della violenza e che dunque non possono affrontare questo tipo di dinamica. Nella lettera delle relatrici delle Nazioni Unite al governo italiano si ricorda che la mediazione familiare può «essere molto dannosa se applicata ai casi di violenza domestica» e che tale imposizione viola la Convenzione di Istanbul che l’Italia ha sottoscritto nel 2003. La mediazione, sostanzialmente, privatizza il conflitto spostandolo in un ambito in cui vale l’obbligo di riservatezza: se durante il percorso di mediazione dovessero verificarsi o emergere degli abusi, questi non risulterebbero. L’obbligo di segretezza, si dice sempre nella lettera, «limita il potere dell’autorità giudiziaria» e istituzionalizza la violenza all’interno della famiglia: sollevando i tribunali dai loro compiti e occultando la violenza per delegata giustizia. Funzionando su soluzioni standard, il ddl “dimentica” infatti i casi in cui le separazioni sono dovute a violenza domestica (psicologica, sessuale, economica o fisica) costringendo la vittima a negoziare con il proprio aggressore. Non definisce poi che cosa sia la «violenza» né la inserisce nell’intero iter giudiziario per la regolamentazione dei rapporti tra genitori. Il testo cita la violenza anche all’articolo 9 quando dice che il giudice può intervenire sull’affidamento in caso di «accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false»: secondo i centri antiviolenza, considerando la violenza come il prodotto di false accuse e sanzionandola, il ddl minaccia apertamente le donne che osano denunciare o anche solo parlare degli abusi che subiscono, ma anche i minori che manifestano paure. Non solo: poiché prevede eccezioni solo nei casi in cui la violenza domestica è “comprovata” costringerà i figli e le figlie, in nome del principio di bi-genitorialità coatta, ad avere rapporti con la figura genitoriale violenta. La giustizia penale non ha infatti gli stessi tempi di quella civile, anzi: e dunque in attesa del giudizio in sede penale i e le minori saranno costretti a frequentare la casa del genitore violento. L’atto numero 45 associato al ddl Pillon sostituisce poi l’abitualità del comportamento violento con la sistematicità affinché il reato sia punibile. Cancella così il tratto distintivo della violenza domestica stessa che si compone di un’alternanza tra abusi e momenti di pentimento e di serenità chiamati “luna di miele”: la violenza domestica, insomma, non è mai continua ma procede tra alti e bassi. Come ha spiegato Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna che fa parte della rete DiRe e che da anni si occupa dell’ufficio delle avvocate penaliste all’interno dei centri antiviolenza, «La giurisprudenza ha stabilito che i periodi di normalità non escludono l’abitualità della violenza perché sono fatti apposta per tenere sottomessa la donna nel maltrattamento all’interno del rapporto (..) Per questo togliere l’abitualità e sostituirla con la sistematicità, significa negare il fenomeno della violenza domestica e molti uomini violenti sarebbero assolti». L’atto 45 restringe dunque il reato. Introduce poi la pena accessoria della sospensione della “potestà genitoriale” se il reato di calunnia è commesso da un genitore a danno dell’altro genitore: la modifica proposta disincentiva, di nuovo, la presentazione di denunce da parte delle donne vittime di violenza domestica.
5 – la presunta alienazione parentale. La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner. Viene descritta come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “influenza” sui figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). Fin da subito, la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association). Nonostante la mancanza di prove scientifiche a supporto, l’alienazione genitoriale – intesa comunque non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS), ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini e le bambine non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione già molto spesso nelle aule dei tribunali e difesa da diverse associazioni. Soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione genitoriale viene infatti utilizzata in maniera strumentale dai padri per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare quei padri perché traumatizzati dai loro comportamenti violenti. Il ricorso all’alienazione parentale finisce dunque per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza) ritenendola responsabile di comportamenti inadeguati. Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato nel 2011 dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite. L’alienazione parentale in nome della bi-genitorialità rischia di far riferimento a un principio di bi-genitorialità a tutti i costi e di genitorialità disgiunta da tutto il resto, o meglio: a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Tende a confondere la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti. Il ddl Pillon va oltre: prevede che quando il minore rifiuti il rapporto con uno dei genitori, il giudice sanzioni l’altro «pur in assenza di prove fattuali o legali», come dice esplicitamente il testo. Le sanzioni sono molto gravi e immediate. Considera cioè automaticamente le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore, e propone una logica punitiva nei confronti dei minori considerati – di nuovo e automaticamente – inattendibili.
In conclusione. In molte e molti hanno affermato che il ddl è una proposta maschilista, punitiva nei confronti delle madri e che porta a un arretramento dei diritti dei e delle minori. I movimenti femministi hanno a loro volta ribadito che la riforma è un grave attacco alle donne e alle conquiste ottenute con fatica negli ultimi decenni nell’ambito del diritto e della giurisprudenza sulla famiglia e sulla violenza domestica. La lettera delle Nazioni Unite si spinge anche oltre affermando che è una misura repressiva e il sintomo di «una tendenza, espressa attraverso le dichiarazioni di alcuni funzionari governativi» e attraverso altri provvedimenti dei partiti di maggioranza «contro i diritti delle donne». In Italia, si dice, è in atto, il «tentativo di ripristinare un ordine sociale basato su stereotipi di genere e relazioni di potere diseguali e contrarie agli obblighi internazionali in materia di diritti umani».
Come hanno risposto alle critiche. Se le critiche al ddl sono molto articolate e precise, non altrettanto lo sono state le risposte che, da parte di chi lo sostiene, tendono a riproporre le premesse generali su cui il ddl stesso è stato scritto. Pillon ha detto che non si tratta di un’iniziativa contro le donne e ha genericamente difeso il principio di bi-genitorialità ribandendo che «non possiamo sacrificare un genitore sull’altare dell’habitat del figlio. Certo, per un figlio è meglio una casa sola con entrambi i genitori. Ma se questo non è possibile, è meno male alternare le case che perdere un genitore, che alla fine è quasi sempre il padre». Pillon ha spiegato che la mediazione aiuta i genitori a trovare un accordo, che in caso di violenza il genitore violento sarà escluso dall’affidamento, che il ddl non interviene sull’assegno per il coniuge ma su quello per il figlio, e che il piano genitoriale tiene conto del tenore di vita cui è abituato il figlio: «Chi ha più mezzi contribuisce di più». Rispondendo a una domanda sulla difficoltà che il ddl introduce per decidere di separarsi o di divorziare, Pillon ha detto: «Certo, a me piacerebbe offrire a chi pensa di divorziare degli incentivi per non farlo. Ma sarà un passaggio ulteriore. Questa legge è per i figli». A difendere il ddl e a rivendicarne i passaggi più significativi sono poi le cosiddette associazioni dei padri separati, con le quali Pillon ha dichiarato di aver scritto la proposta. Queste associazioni portano avanti da tempo due battaglie principali, accolte di fatto dal ddl: quella economica (la possibilità di vedersi portare via la casa con l’assegnazione della stessa al minore, collocato spesso con la madre) e la fine dell’assegno di mantenimento nei confronti del minore e del coniuge più debole. In un’intervista su Avvenire Vittorio Vezzetti, pediatra, fondatore dell’associazione “Figli per sempre”, ha spiegato che «era assolutamente urgente colmare l’attuale disparità tra le figure genitoriali dopo la separazione che relega l’Italia agli ultimi posti fra i Paesi occidentali in tema di bigenitorialità».
L’iter del ddl. Il ddl è attualmente in discussione alla commissione Giustizia del Senato, a cui è stato assegnato in sede redigente: cioè può fare tutto il lavoro sulla legge, emendandola, esaminandola e poi votandola articolo per articolo. All’assemblea spetterà solamente la votazione finale sul provvedimento nel suo complesso. Terminato il lavoro in commissione (comprese le audizioni), un quinto della commissione stessa, un decimo di tutti i senatori o il governo possono però chiedere che si torni a lavorare in sede referente, cioè col metodo più tradizionale che prevede che il grosso del lavoro venga svolto dall’aula. Per quanto riguarda il ddl Pillon le audizioni previste sono più di cento e sono iniziate lo scorso 23 ottobre. Non si è dunque ancora arrivati al punto in cui si può chiedere la sede referente. Finora è successo due volte in questa legislatura che due provvedimenti (legittima difesa e voto di scambio) assegnati in sede redigente alla commissione Giustizia siano stati poi trasferiti in sede referente. In base alle dichiarazioni fatte finora dai membri della commissione, è ragionevole pensare che anche il ddl Pillon possa tornare in sede referente. Il ddl ha il sostegno della Lega e del M5S, ma alcuni e alcune esponenti del M5S si sono dichiarate contrarie o ne hanno preso timidamente le distanze. Nell’ultimo numero del settimanale Elle c’è un’intervista a Luigi Di Maio che, tra le altre cose, ha detto che la legge sulla riforma del diritto di famiglia «non è nei programmi di approvazione dei prossimi mesi perché così non va» e che il suo partito la modificherà. Il ddl non è sostenuto né dal PD né da LeU.
No Pillon, da Milano a Napoli in migliaia in piazza contro la legge sull’affido condiviso: “Viola i diritti. Va ritirata”. Le manifestazioni contro il disegno di legge del senatore leghista hanno coinvolto oltre 60 città italiane. A protestare non solo donne, ma anche moltissimi uomini che considerano "fuori tempo" la proposta, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 novembre 2018. Sono scese in piazza a migliaia, da Milano a Roma, passando per Genova, Venezia, Bologna, per dire “no” al Ddl Pillon. Le manifestanti hanno mostrato cartelli e organizzato flashmob travestite da streghe, invadendo letteralmente oltre 60 città italiane. Obiettivo: bloccare la riforma sull’affido condiviso promossa dal senatore leghista Simone Pillon. Ad organizzare la protesta, pacifica, il neo comitato No Pillon, sostenuto da numerose altre associazioni, tra cui Non Una di Meno e Di.Re, la rete dei centri anti violenza. Accanto a donne, che considerano il Ddl ‘discriminatorio’ nei loro confronti, anche moltissimi uomini, convinti anche loro che la proposta di legge debba essere “ritirata”. Secondo le femministe l’approvazione del decreto “viola i diritti” oltre che essere “fuori tempo“. “Sulle nostre vite nessuna mediazione, ora e sempre agitazione”, si legge nei cartelli sventolati a Venezia. O ancora: “Pillon, quanti schiaffi servono per riconoscere la violenza?”. Il riferimento è ad alcuni punti del disegno di legge, tra cui quello che rende obbligatorio l’uso di un mediatore a spese dei due coniugi per almeno sei mesi dopo la separazione, anche se avviene in maniera consenziente. Durante le manifestazioni non sono mancate anche le voci fuori dal coro. Come a Napoli dove in contemporanea è stata organizzata una raccolta firme a favore del Ddl Pillon da parte del gruppo “Movimento per l’Uguaglianza Genitoriale”.
Ddl Pillon, a Reggio Calabria la raccolta firme a sostegno dell’affido condiviso. A Reggio Calabria la raccolta firme in sostegno del ddl, soddisfatto il coordinatore di Mdm, scrive l'11 novembre 2018 Serena Guzzone su Stretto web. “Ottimi risultati anche da Reggio Calabria nella seconda giornata nazionale di raccolta firme a favore del DDL 735 Pillon!”. “Con grande soddisfazione, racconta Massimo Praticò, coordinatore per Reggio Calabria MDM-abbiamo accolto nel nostro gazebo, allestito a piazza Camagna tutta la giornata di ieri 10 novembre, tanta gente costruendo un dialogo ed un confronto aperto in un ambiente di serenità. L’occasione- prosegue- è stata importante per poter illustrare realmente cosa prevede la riforma sull’ affido condiviso, un’iniziativa che finalmente fa luce su un problema attuale ed un esigenza sociale reale sempre più crescente e che necessita di un confronto civile e democratico non più rinviabile. I toni miti della nostra voce, subordinati alla reale condizione di interpretare un bisogno dei figli, sono stati quanto di più nobile potessimo esprimere in una condizione di impoverimento sociale a contrasto di una “società chiusa”. L’incapacità da parte di gruppi politicamente ideologizzati di ascoltare e confrontarsi, corrompe la concezione della realtà facendo scadere il dibattito su polemiche e presunti scontri fra sessi che non hanno alcuna ragione d’essere. L’iniziativa a favore del ddl Pillon, invece, nasce esclusivamente dall’ amore per i nostri figli, ove nessuna notizia, polemica e problematica potrà essere anteposta al supremo interesse degli stessi. Ringraziamo- conclude Praticò– tutti gli uomini e le donne che sostengono questa iniziativa e questa riforma che ha come interesse non quello di avvantaggiare una parte della coppia o un genere sessuale sull’altro, ma che si concentra solo sull’interesse e sulla tutela del bambino.
Ringraziamo come sempre la forte collaborazione e partecipazione dell’associazione culturale ‘Stanza 101’, che ci supporta ad ogni iniziativa”.
Manifestazioni No PIllon: è davvero così? "Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli", scrive l'11 novembre 2018 ADAMO ASSOCIAZIONE su Basilicata 24. Come ampiamente annunciato, nella giornata odierna in moltissimi centri italiani si sono tenute manifestazioni e iniziative di protesta contro il DDL 735. Gli attori coinvolti, associazioni di tutela dei diritti delle donne, sindacati e numerosi esponenti della sinistra italiana hanno ritenuto opportuno palesare la propria contrarietà argomentando che l’iniziativa del Senatore Pillon intende, tra le altre cose, avallare la violenza genitoriale (dove “genitoriale” sta ovviamente per “paterna”) e ripristinare la più becera cultura maschilista. Se il DDL Pillon intendesse davvero propugnare quanto appena ipotizzato, noi saremmo in prima linea a protestare insieme a tutti coloro che stamane hanno affollato strade e piazze. E lo faremmo con assoluta convinzione e veemenza. Perché nessuno più di noi ha orrore della violenza e nessuno più di noi vuole essere propositivo e partecipe ad un progresso culturale che porti ad una genitorialità consapevole, moderna e sempre in linea con le esigenze dei figli. Purtroppo, spiace notare che, ancora una volta, la mobilitazione generale di oggi risulta assolutamente mal riposta e del tutto immotivata. Viene da chiedersi, senza nessuna velleità polemica e con poca tema di smentite, se gli organizzatori abbiano davvero letto e compreso quali sono gli intenti del disegno di legge. Addirittura, ci sarebbe da interrogarsi su quali scopi strumentali risiedano dietro ad una sollevazione che ha come obiettivo una proposta che mira unicamente a rinnovare e ad allineare le norme per l’affido dei minori, superando finalmente la aberratio legis del genitore collocatario (dove per “genitore collocatario” sta ovviamente per “madre”) e di un assetto standardizzato e volto a sancire una monogenitorialità di fatto, mascherata da un affido congiunto in realtà squisitamente formale. Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli. Al contrario: in maniera estremamente circostanziata e cristallina, stabilisce che eventuali condotte inopportune (non solo violenza fisica o psicologica ma anche trascuratezza e negligenza) comportano in automatico l’allontanamento del genitore che se ne è macchiato. In merito all’altra vexata quaestio relativa all’assetto economico, è assolutamente vero che viene cancellato l’automatismo dell’assegno di mantenimento per i figli (corrisposto nel 97% dai padri) ma solo perché viene sostituito da una forma diretta che obbliga i genitori a corrispondere in maniera non mediata dall’altro coniuge le somme di volta in volta necessarie a soddisfare le esigenze dei minori, dividendole per capitoli di spesa ed in proporzione al reddito di ciascuno. Per quanto riguarda gli allarmi relativi all’assegno perequativo spettante all’ex coniuge, davvero non si capisce quale sia la ragione di tanto clamore: questa norma, infatti, nulla aggiunge e nulla toglie ai vigenti provvedimenti in materia, dato che legifera unicamente sulle modalità di affidamento dei minori. In estrema sintesi, il DDL vuole principalmente garantire il diritto del minore di beneficiare, nel miglior modo possibile, della possibilità di frequentare entrambi i genitori, con tempi quanto più possibile simili a quelli dei figli di coppie non separate. Anzi, paradossalmente, impone a genitori negligenti che intendono in qualche modo ridimensionare il proprio tempo e le proprie risorse nei confronti della prole, di affrontare le proprie responsabilità e di partecipare attivamente all’educazione e al sostegno dei bambini senza mai lasciare da solo l‘altro genitore. È, quindi, una legge moderna, in linea con molti Paesi che comunemente consideriamo come dei laboratori di progresso sociale e civile e soprattutto va incontro a quelle che sono le direttive stabilite dalla CEDU che, proprio per l’inosservanza dell’articolo 8, ha sanzionato numerose volte il nostro Paese in virtù delle infinite sentenze che esautorano le prerogative genitoriali. La mediazione assistita, inoltre, permette di calibrare perfettamente sulle esigenze di ciascuna famiglia il piano genitoriale. Consente un confronto e favorisce il dialogo tra i coniugi guidandoli a scrivere da soli dei provvedimenti che saranno poi ratificati. E si pone come una valida e civile alternativa alle sentenze scritte con il ciclostile che pretendono di adattare a ciascun contesto delle risoluzioni che sono meramente giurisprudenziali e odiosamente standardizzate (casa di proprietà al coniuge collocatario, assegno medio di 500 euro, frequentazione per il non collocatario stabilita in due pomeriggi a settimana e un weekend alternato). Davvero è difficile comprendere le ragioni di un tale e immotivato ostracismo ma rispettiamo le opinioni purtroppo discutibili di chi, probabilmente, interpreta la realtà non con le idee o gli ideali ma con l’ideologia. Ci rammaricano gli attacchi di chi intende dipingere i padri separati come una potente lobby che vuole imporre i propri interessi e sminuire conquiste sociali che, invece, salutiamo con partecipazione e sosteniamo convintamente, ma la lotta per i diritti dei nostri figli ci impone energia ed ottimismo. E quindi, anche in questo frangente, restiamo speranzosi che si riesca a dialogare con serenità e pacatezza e a contribuire all’ulteriore miglioramento di un progetto finalmente dalla parte dei cittadini.
Famiglia, relazioni affettive - Affidamento dei figli naturali - Chi ha paura del ddl Pillon e della bigenitorialità? Scrive Adriano Marcello Mazzola il 21/09/2018 su Persona e Danno.
Lo status quo nel diritto di famiglia. Il disegno di legge 735/2018 a firma del senatore Pillon “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” è giunto una settimana fa in Commissione al Senato ed ha subito aperto il Vaso di Pandora. Si è immediatamente scatenata una opposizione esclusivamente e grettamente ideologica da parte di chi intende mantenere lo status quo, ovvero per chi sia ignaro, quello di una post famiglia (dopo lo scioglimento dell’unione padre/madre) composta dal passaggio della c.d. separazione dei genitori alla c.d. separazione daigenitori, ed ancor più correttamente quanto alla realtà, alla c.d. separazione da uno solo dei genitori. Che è nel 94% dei casi il padre, atteso che viene scelta sempre la madre come “collocataria” (termine e fattispecie inventata dalla giurisprudenza), così avendo vanificato e reso inefficace la l. 54/2006 che ha all’opposto voluto far cessare l’affido esclusivo in favore di quello condiviso. Infatti da molto tempo (almeno da 20/30 anni, ante e post 2006 nulla è cambiato) quello che si realizza di fatto e per decisione dei Tribunali è il seguente consolidato schema:
il padre deve lasciare la casa famiglia (perché?)
nella casa di famiglia rimane la donna-madre con i figli (perché?)
il padre continuerà a pagare l’eventuale quota di mutuo
il padre dovrà reperirsi un alloggio a sue spese
il padre dovrà versare il mantenimento per i figli (assegno perequativo calcolato a spanne)
il padre dovrà versare nel mantenimento per i figli anche le spese straordinarie (che sono tutto tranne che imprevedibili, perché?)
il padre perderà il contatto ed il rapporto con i figli e nell’ipotesi migliore trascorrerà con gli stessi 59 gg/anno, ossia il 16% della vita degli stessi (perché, se prima ne trascorreva il 30/40/50%?)
i genitori (e il ramo parentale) del padre perderanno il contatto ed il rapporto con i nipoti/ etc.
Questo è quello che accade e questo è quello che gli ideologi del (finto) “miglior interesse dei figli” vogliono che continui ad accadere. Una post famiglia composta da una sola regina e da un re dismesso e possibilmente allontanato. La cui regina deve continuare però a mantenere ogni privilegio: la casa ed almeno un assegno, nonchè il potere assoluto sui figli. La post famiglia dunque deve essere esclusivamente matriarcale. Il padre spettatore pagante.
La metafora. Potreste mai definire velista colui che non porta la barca - tra i venti, in mezzo al mare, sentendo l’odore del mare, stupendosi ogni giorno, certo anche nella tempesta -, non issa la vela, non poggia, non cazza, non lisca, non stramba, non regge la barra del timone, non può seguire la rotta, non può salpare l’ancora? Potreste mai definire velista solo l’armatore, ossia colui che paga il viaggio ma non partecipa al viaggio? Ebbene il velista si godrà il viaggio e le emozioni del viaggio, assumendone le decisioni, e portando la truppa dove vorrà.
L’armatore avrà pagato ed al più avrà qualche informazione a riguardo del viaggio.
Il primo veleggia, il secondo no. Il primo vive il mare. Il secondo no.
Questa è la differenza abissale ed incolmabile tra il velista/genitore collocatario ergo genitore (de facto) con affido esclusivo e armatore/genitore non collocatario.
Dunque di quale bigenitorialità vogliamo discutere? Di quella virtuale? Di quella immaginifica? Di quella raccontata fintamente? Di quella travestita da monogenitorialità?
Il diritto di famiglia fondato sulla disuguaglianza. La legge 54/2006 avrebbe dovuto già aver rivoluzionato il diritto di famiglia da tempo. Se solo la si fosse applicata. Infatti il palese ed esplicito intento della legge di 12 anni fa era di abbandonare l’affido esclusivo del minore (monogenitoriale dunque) in favore della salvaguardia della bigenitorialità. Bigenitorialità significa che entrambi i genitori devono continuare (pur dopo il dissolvimento dell’unione) a mantenere rapporti significativi e continuativi con il figlio. E per farlo uno dei due genitori non deve divenire (per volontà del giudice o per volontà dell’altro genitore) un ologramma. E l’ologramma si manifesta divenendo, da genitore presente nella vita di tutti i giorni del figlio anche seguendolo per il 30/50% del tempo, a genitore relegato a “frequentatore”/”visitatore” al 16% (w.e. alternati + 15 gg di vacanza estive) come da prassi consolidata dei tribunali. In questi 12 anni si è così consumata una aberratio legis tipica del nostro costume, ipocrita e gattopardesco: cambiato il nome, ignorata la ratio legis, il “sistema” (giurisprudenziale, fondato su quello perlomeno in parte socio-culturale ovviamente) ha sì donato formalmente l’affido condiviso a tutti o quasi (98%), relegando formalmente l’affido esclusivo solo nei casi di particolare gravità, ma sostanzialmente rimanendo sempre un affido esclusivo! Infatti come altro lo vogliamo chiamare quello in cui un genitore (nel 94% dei casi il padre, perché la mamma è sempre la mamma…) diviene “frequentatore/visitatore”, con diritto di godere del rapporto filiare solo a week end alternati (e solo da poco, anche generosamente un giorno a settimana, ovviamente dopo la scuola e sino alla cena), 15 giorni di vacanza estiva, Pasqua e Natale alternati, e telefonata programmata al pari di un carcerato? Come lo vogliamo chiamare un genitore che d’improvviso passa da una gestione equilibrata (30/40/50%) del tempo con il figlio/figli, obtorto collo al 15% come deciso dal giudice? Vogliamo continuare a chiamarlo affido condiviso solo per prenderci in giro? Questo hanno fatto quasi tutte le nostre corti di giustizia, ponendo su un piedistallo un genitore (quasi sempre la mamma) e un metro sotto (appunto, seppellendolo) l’altro genitore. Con ciò, paradossalmente, demolendo le fondamenta di una famiglia che seppure scioltasi, deve però continuare a garantire saldo il rapporto genitoriale. Per il bene dei minori, per il bene dei genitori che amano i propri figli e non ultimo per il bene della società tutta. Poiché indebolendo la cellula della famiglia si compromettono lo sviluppo emotivo, cognitivo, psicologico delle persone. E si creano soggetti disturbati, disagiati, sofferenti. Con un costo enorme di salute pubblica. Si discute della demolizione, della rimozione, della violazione di diritti inviolabili, fondamentali ex artt. 29 e 30 Cost., e art. 8 Cedu. Non di quisquillie, non di diritti reali. La discussione e la battaglia sulla bigenitorialià, come oramai ripeto da quasi un decennio, è oramai una serissima battaglia sui diritti civili. E’ la contrapposizione tra chi vuole realmente una realtà adultocentrica (con la sola mamma al centro) e chi vuole che entrambi i genitori abbiano eguali diritti e doveri dinanzi ai figli. E per farlo devono essere presenti nella vita dei figli. Chi contrasta questa uguaglianza racconta falsamente ancora oggi di una famiglia composta da un padre lavoratore indefesso che saltuariamente torna a casa e che solo raramente (e in modo rude e grezzo) si occupa dell’educazione e della cura dei figli, e di una madre che svolge l’impegnativo ruolo di casalinga e accuditrice amorevole della nutrita prole. Una cartolina dell’Italia fino agli anni ’50. La narrazione del padre minatore o camionista. Ma la società è fortemente cambiata e la gestione paritaria (amorevole e felice) nei ruoli genitoriali, nonché nell’organizzazione e nel lavoro, sono la realtà.
Il Ddl Pillon e l’Anticristo. Il senatore Pillon è diventato in queste settimane l’Anticristo, ossia il nemico escatologico del Messia, dove il Messia è rappresentato dal dogma che l’attuale assetto del diritto di famiglia italiano sia già semplicemente perfetto. Poco importa che sia invece graniticamente contrario alla bigenitorialità e fondato sull’Ancien Regime della monogenitorialità. Pillon dunque – in un oppositivo crescendo mediatico tale da ricordare l’olio di ricino e gli strumenti della propaganda fascista, quella vera, quella che disprezza con arroganza e violenza ogni altra prospettiva diversa dalla propria, raccontando l’esistenza assoluta di un’unica verità - è stato accusato di essere misogino, adultocentrico, cattolico integralista al pari dei crociati, a favore della violenza sulle donne e della pedofilia, rozzo, in conflitto d’interessi (essendo per formazione culturale anche mediatore) e chi più ne ha ne metta. E’ divenuto in un crescendo rossiniano il responsabile di tutti i mali del mondo, addirittura (pare) meritandosi una feroce satira attraverso l’imitazione di Crozza (il che a ben vedere non potrà che celebrarlo positivamente, attese le conseguenze iconiche del bravo Crozza). I suoi sostenitori sono seguaci da abbattere ed eliminare. Citerò solo l’esempio di un’associazione (MdM) a favore della genitorialità che ad agosto ha ottenuto il patrocinio con entusiasmo (e la sala prestigiosa a Castel dell’Ovo a Napoli) per un convegno/evento che si terrà domani e che ieri ha ricevuto la revoca di detto patrocinio, su istanza di tre presunte associazioni, poiché si è azzardata l’associazione MdM a condividere il Ddl Pillon! Ideologicamente si sono subito levate le critiche feroci da più parti, soprattutto anche da noti avvocati matrimonialisti (Rimini, Bernardini De Pace, Gassani) e da varie associazioni. Scomodando argomentazioni surreali e poco pertinenti, quali “occorre affrontare caso per caso e non decidere con ciclostilati” (che è proprio quello che è avvenuto sino ad oggi! Si pensi infatti come in vari tribunali il provvedimento prestampato dell’ordinanza presidenziale indicava come genitore “collocatario” la mamma del minore). Oppure spendendo argomentazioni assurde ed inverosimili (es. “non dimentichiamoci che la violenza in famiglia è la prima causa di morte”, oggi su CorSera pag. 21), così sprofondando nella farsa: cosa c’entra il Ddl Pillon con la violenza in famiglia, che è peraltro ubiquitaria e certo non la prima causa di morte? Critiche farsesche pseudogiuridiche sono state spese da chi millanta di conoscere la materia, quali: a) esiste un divario reddituale notevole tra donna e uomo (ma che c’entra con il Ddl Pillon che si occupa del mantenimento dei figli, peraltro sempre assicurato nella sua interezza?); 2) il Ddl favorirà la violenza in famiglia, la pedofilia e gli abusi (ma che c’entra?); 3) il Ddl danneggerà le donne e i minori (ma che c’entra?); 4) il Ddl aumenterà la conflittualità (indicando gli strumenti per eliminarla?); 5) i figli non sono pacchi postali (ma il Ddl non prevede corrispondenza ma autentica condivisione); 6) il Ddl è incostituzionale (senza spiegare perché). Critiche incredibili poiché il Ddl non si occupa in alcun modo di tutto ciò. E quanto alla costituzionalità si occupa appunto invece di dare attuazione agli artt. 29 e 30 Cost.! Non è pervenuta al momento una sola critica nel merito sui principi e sugli articoli del Ddl Pillon. Ciò dimostra come il contrasto sia solo di natura ideologica ed anche politica. Una discussione squallida e meschina, occorre dirlo a voce alta. Si discute di una materia incandescente e di straordinaria importanza poiché coinvolge numeri impressionanti: qualche milione di persone, tra “separati” passati, separati attuali e separandi, coinvolgendo genitori, figli minori e non (coinvolti se vogliamo anche sino ai 26 anni quanto agli effetti del mantenimento), nonni e parenti. Un numero impressionante di persone, un problema di salute pubblica, le fondamenta stessa della società civile. Una discussione impostata con le lenti miopi di chi ideologicamente la rifiuta e la avversa nuoce gravemente alla salute di qualche milione di persone. La ammorba, la avvelena. La discussione va impostata nel merito: cosa ti piace e cosa no, spiegandone tecnicamente i perché, ma soprattutto centrando il merito non invocando aspetti che nulla attengono al decreto. Ritengo che il Ddl Pillon non sia affatto perfetto ma che sia fondato su principi assolutamente condivisibili, che devono essere salvaguardati e che per di più sono la stessa proiezione di quelli statuiti già con la l. 54/2006 sull’affidamento condiviso.
Per i pochi che l’hanno letto occorre ricordare i sacrosanti principi su cui è fondato il Ddl Pillon:
1) bigenitorialità autentica (tempi paritetici o quasi, dunque conseguentemente anche mantenimento diretto); 2) gestione immediata e ragionevole della conflittualità al fine di non trascinarla dannosamente per anni (mediazione, piano genitoriale, coordinatore genitoriale);
3) contrasto all’alienazione genitoriale, ossia uno dei fenomeni più gravi, odiosi, dannosi e impuniti.
Il Ddl Pillon vuole semplicemente garantire l’uguaglianza dei genitori dinanzi ai figli e soffocare nel minor tempo possibile la conflittualità tra i genitori.
Chi è contrario a tutto ciò lo fa per vari motivi non meglio esplicitati:
a) è a favore della disuguaglianza tra i genitori dinanzi ai figli, ritenendo un genitore più dotato e meritevole dell’altro;
b) ritiene che questa disuguaglianza sia indispensabile per continuare a garantire privilegi (casa di famiglia e assegno perequativo senza rendicontazione, potere assoluto sui figli);
c) è utile per continuare a raccontare la narrazione della donna-vittima e dell’uomo-aguzzino;
d) intende mantenere molto alta la conflittualità nel diritto di famiglia (cause lunghe, patrocini onerosissimi, consulenze infinite etc.) per motivi grettamente economici.
Occorre dire le cose come stanno, squarciando un obbrobrioso e peloso velo di ipocrisia. Entriamo finalmente nel merito del Ddl Pillon. La relazione introduttiva del Ddl è già assai chiara: “I criteri (…) sono sostanzialmente quattro: a) mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni; b) equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; c) mantenimento in forma diretta senza automatismi; d) contrasto della alienazione genitoriale.”. I principi fondamentali del Ddl devono essere pienamente condivisi, proprio perché finalmente tesi a realizzare l’autentico interesse del minore. La mediazione familiare (art. 3) è volontariamente scelta dalle parti e può essere interrotta in qualsiasi momento. L'esperimento della mediazione familiare è condizione di procedibilità della “causa” e dunque l’obbligo permane solo all’inizio. La mediazione può evitare anni di grave conflittualità tra i genitori, con effetti devastanti. Certo, sappiamo che funziona solo dove non c’è elevata conflittualità ma anche quando i contendenti vengono trattati paritariamente sin dall’inizio. E’ evidente che potrà avere un senso ed una funzione solo se affidata a mediatori straordinariamente preparati, non alla qualunque. La mediazione potrà risolvere solo una parte dei conflitti/contenziosi, ad es. un quarto o un quinto? Ebbene, si avrà un quarto o un quinto di genitori in meno che si massacreranno per anni nelle aule giudiziarie!
Il Ddl prevede che nel caso di separazione consensuale i genitori di figli minori debbano indicare nel ricorso il piano genitoriale concordato (art. 10), il che impone di dettagliare la gestione dei figli, con la misura e la modalità con cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento diretto dei figli, sia per le spese ordinarie sia per quelle straordinarie, anche attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al proprio reddito e ai tempi di permanenza. Il piano genitoriale è il libretto di istruzioni che responsabilizza i genitori, senza farselo dettare dal tribunale. Si può non essere d’accordo? La figura del coordinatore genitoriale (art. 4) è già stata introdotta in alcuni tribunali e consente, su richiesta dei genitori, di gestire in via stragiudiziale le controversie eventualmente sorte tra i genitori relativamente all’esecuzione del piano genitoriale. Ad oggi spesso i genitori “separati” continuano a discutere sino allo sfinimento dopo la separazione, attraverso la triangolazione degli avvocati o mediante istanze defatiganti al Giudice, in una grave spirale di conflittualità. Ben venga il coordinatore genitoriale quale unico filtro laddove i genitori non siano capaci di gestirsi in autonomia. Si garantiscono tempi paritari (art. 11) qualora anche uno solo dei genitori ne faccia richiesta, con la permanenza di non meno di 12 giorni al mese (per evitare ampia discrezionalità del Giudice, allo stato esercitata nella sola formula stereotipata “w.e. alternati, Pasqua e Natale alternati e 15 gg di vacanze estive”, incurante delle diverse situazioni prospettate), compresi i pernottamenti, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio in casi tassativamente individuati. Il che giustifica il mantenimento diretto degli stessi.
Si prescrive al Giudice di intervenire in caso di alienazione genitoriale (artt. 17, 18) (ossia delle gravi condotte ostacolanti e finalizzate ad allontanare e cancellare l’altro genitore, pari a migliaia di casi ogni anno, e non della Pas, ossia della Sindrome da Alienazione Parentale, come molti disonesti o confusi intellettualmente continuano ancora a scrivere), ordinando al genitore che abbia tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; disponendo con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale o l'inversione della residenza abituale del figlio minore presso l'altro genitore ovvero il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata. Finalmente si affronta un grave fenomeno che deve essere contrastato con nettezza e non con l’impunità che ancora oggi alimenta l’alienazione genitoriale!
In conclusione. Il conflitto familiare deve essere prevenuto, immediatamente interrotto e devono essere “disarmati” i contendenti. E con regole paritarie, chiare e nette, questo avviene. Con l’ipocrisia no, con la disonestà intellettuale no, con il paraocchi ideologico no.
Chi vuole realmente l’interesse del minore si preoccupa di mettere sullo stesso piano i genitori, non di fare scivolare uno dei due verso l’abisso.
QUANDO LA VITTIMA E’ L’UOMO.
Nel mondo occidentale il riequilibrio dei ruoli (famiglia e lavoro) tra uomo e donna ha portato non poche volte ad eccessi di segno opposto rispetto al passato. Il caso forse più eclatante in Italia è quello dei padri separati.
Soltanto nel 2006 infatti è stata approvata la Legge 54 denominata "Affido Condiviso" che ha cominciato a cambiare le cose. Fino a quel momento in oltre il 90% dei casi i figli venivano affidati esclusivamente alla madre con grave danno soprattutto per loro. (Bigenitorialità, accordo internazionale di New York del 1989 sui diritti del fanciullo).
Altre difficoltà, oltre quelle degli affetti, per un padre che si separa sono la casa (assegnata per oltre due volte su tre alla donna), e la questione assegni (nel 95% dei casi erogati dagli uomini).
Il disagio psicologico, morale e materiale a cui è sottoposto l'uomo nelle separazioni lo porta a lasciarsi andare molto più spesso di quanto si crede. Il 93% dei suicidi post-separazione sono di padri (fonte FENBI circa 100 l'anno) e la Caritas in un recente comunicato ha informato che decine di migliaia di padri separati si stanno rivolgendo a loro per un posto letto.
I dati riferiti ai suicidi dei padri separati sono contraddittori. Una bara vera con sopra, in varie lingue, la scritta "papà c'era" è stata portata in spalla, da associati de “L'armata dei padri”, che riunisce varie organizzazioni di padri separati che, per ragioni diverse, non riescono ad incontrare i rispettivi figli. La manifestazione si è svolta in piazza di Spagna, a Roma in occasione della Giornata della memoria dei padri in ricordo di un uomo che ad Aosta nel 1996 si diede fuoco davanti al Tribunale Civile, che non gli aveva consentito di vedere la figlia. Secondo i dati diffusi dall'Armata dei padri, solo nel 2006 sono 2 mila i padri che si sono suicidati perché lontani dai figli.
Ma la maggior parte degli uomini abbandonati (il 74% delle separazioni sono chieste da donne, 2006), privati di figli, casa, lavoro, non riesce a reagire, il "sommerso" come si dice in questi casi è molto più vasto di chi invece riesce a reagire, magari entrando in una delle tante associazioni tematiche.
I dati, raccolti sui giornali dall'associazione "Ex", rivelano che negli ultimi 10 anni sono stati uccisi 158 minori (più di 15 ogni anno) per conflitto tra genitori in fase di separazione. Nello stesso periodo i fatti di sangue legati alla fine di una convivenza sono stati 691 con 976 morti. In oltre il 98% dei casi il delitto riguarda una coppia con figli, mentre solo nell'1,7% la coppia non ha figli. Il 34,5% dei fatti si è consumato al Nord, nel 37,7% al Centro e nel 27,8% al Sud e Isole. Nel 76,6% dei casi è un uomo che ha in media tra i 30 e i 40 anni a commettere il delitto, il 50% delle vittime è donna e il 16,1% è minore. Questi dati sono stati allegati a una mozione presentata alla Camera da Carla Mazzuca e Marco Boato, in cui si è chiede al governo maggiore impegno a favore della bigenitorialità.
L'episodio dell'ennesimo padre separato che si è ucciso perchè non poteva vedere il figlio suscita «dolore e amarezza». Lo afferma Maurizio Quilici, presidente dell'Isp, l'Istituto di studi sulla paternità, che rileva come esso sia «la punta di un drammatico iceberg che da molti anni galleggia nell'indifferenza di molti». «Non sono bastate - osserva Quilici in una nota - le battaglie dei movimenti dei padri, la trasformazione della figura paterna così vicina, oggi, ai figli e capaci di accudimento ed empatia; non è bastata una legge - la 54 del 2006 - che impone il condiviso come forma prioritaria di affidamento. I giudici continuano imperterriti a privilegiare le madri, le madri continuano a ostacolare il rapporto dell'ex compagno con i figli, i figli continuano ad essere strumento di battaglia per campioni di egoismo. I padri che si separano continuano a vivere con tremendo dolore la frequente perdita dei figli. E di dolore si può anche morire».
C’è un qualcosa che allude alla dignità, in quel voler morire stringendosi al collo un pezzo di stoffa annodato come fosse una cravatta. Non so dire, però, alla dignità, onorata o disonorata, di chi: se del padre amareggiato, della madre severa, del giudice indolente. Ma, potrebbe anche essere, del padre inadeguato, della madre tutelante, del giudice attento. Per capire bisognerebbe leggere gli atti delle parti e i provvedimenti giudiziari: bisognerebbe sapere se il conflitto si svolgeva sul sentiero della separazione, del divorzio o della modifica di provvedimenti già in vigore. Gli scenari sono diversi, ma i giornalisti si ostinano a utilizzare i termini «separazione» e «divorzio» senza differenziarli, in ogni circostanza; quando almeno potrebbero capire che la separazione è l’inizio della fine della storia coniugale, mentre il divorzio - che si chiede dopo tre anni dalla separazione - è la ratificazione di quella fine. Prima e dopo il divorzio si possono ottenere variazioni ai regolamenti economici e personali vigenti tra le parti.
Quando le agenzie di stampa (nel dare la notizia del suicidio di un padre «disperato perché la madre non gli fa incontrare il figlio più di due giorni alla settimana») specificano «appena separato», altre scrivono «in sede di divorzio», altre ancora dicono «cui la moglie aveva chiesto la separazione», deve apparire chiaro a tutti che quei giornalisti non ci hanno informato bene sui fatti; pertanto, l’argomentare, anche giuridicamente, intorno ai fatti stessi, diventa ipotetico e diversificato.
Infatti, se la madre aveva chiesto la separazione, ma ancora non vi era stata l'udienza presidenziale, e dunque nessuna decisione, seppur provvisoria, di un magistrato, si deve concludere che la madre, nell’abbastanza consueto delirio di onnipotenza materno, abbia deciso con intollerabile arbitrio «il figlio è mio e lo gestisco io»; impedendo così, disumanamente, a padre e figlio lo svolgersi della reciproca affettività. In tal caso il suicidio sarebbe un urlo disperato della fragile dignità di un padre incapace di far valere la solidale potestà genitoriale, che invece garantisce pari dignità giuridica a entrambi i genitori. Se, diversamente, un giudice aveva deciso, nella prima udienza di separazione, che il provvisorio regolamento di visite dovesse essere così ristretto, forse la madre, strumentalmente o per tutelare davvero il figlio, aveva esposto tali negatività del padre, anche psichiche, da richiedere cautela nel calendario di visite. In entrambi i casi, però, il giudice avrebbe omesso di essere accurato nella protezione di una famiglia in crisi, non disponendo che almeno i servizi sociali si occupassero della gestione degli incontri; in tal modo il marito non si sarebbe sentito in balìa dei tempi di visita imposti dalla moglie. Infatti ormai la legge sull’affido condiviso è applicata, senza tante storie, in modo da consentire un equilibrio tra i genitori nel ripartirsi l’affettività e la responsabilità dei figli. Le eccezioni, per comprovati motivi, devono essere oggetto di monitoraggio consapevole da parte delle istituzioni, che non possono entrare a gamba tesa nelle famiglie, dando disposizioni categoriche, per poi lasciarle vittime abbandonate alla loro stessa malattia, causa del disfacimento.
In questo esempio, il suicidio rivendicherebbe la mancanza di una giustizia minimamente dignitosa: di un potere dispositivo, cioè, tale da risolvere le questioni umane in modo, sì deciso, ma non privo dell’attenzione al singolo caso, alla fragilità dei protagonisti, alla peculiarità di storie intrise di dolore, sentimenti e risentimenti difficilmente governabili con la sola ragione.
Se, ancora, invece, questa storia triste si inquadra in un giudizio di divorzio o di modifica delle condizioni in essere, c’è da pensare o a un diritto di visita del padre cambiato all’improvviso dal giudice per gravi fatti sopravvenuti, o a una regolamentazione che dura così da anni, cioè da prima dell’entrata in vigore (2006) della legge sull’affido condiviso. Nel primo caso dovremmo tornare all’esempio della madre tutelante o strumentalizzante. Nel secondo, dovremmo pensare a una madre sorda alle esigenze sia del padre sia del figlio e miope di fronte ai cambiamenti sociali e giuridici. Se così fosse, il suicidio sarebbe da interpretarsi come la convinzione del padre di voler attuare egli stesso ciò che la madre stava già facendo: togliere per sempre il padre a un figlio. Un padre che avrebbe preferito autoescludersi piuttosto che essere emarginato: un tragico fraintendimento dell’amore e della dignità del ruolo.
In tutti i casi però sarebbero i dettagli a dover fornire la giusta chiave di lettura. Senza poter dimenticare che le difficili storie giudiziarie che coinvolgono le famiglie, non possono essere trattate con pomposa burocrazia o frettolosa acriticità. Che l’espropriazione dei figli non deve essere consentita a nessun genitore a danno dell’altro. Che bisogna saper distinguere tra amore genitoriale (capacità di considerare il figlio come soggetto di diritti e non oggetto proprio da rivendicare a ogni costo) e attaccamento patologico (incapacità di vedere e rispettare l’autonomia propria e di ogni altro). Che lo Stato deve saper supportare le famiglie particolarmente colpite dal lutto della separazione, anche per esempio istituendo un numero verde per offrire, a disposizione sempre, servizi sociali umani ed efficienti. Soprattutto si dovrebbe sapere che non esistono separazioni e divorzi fra loro uguali, ma che ogni persona vive il dolore del distacco a modo suo.
Quindi magistrati ed avvocati hanno la serissima responsabilità di non potersi occupare dei protagonisti solamente nei minuti o nelle ore che il ruolo impone di dedicare loro. Qualsiasi gesto giudiziariamente significativo, e che incide sulla vita quotidiana della gente, deve rivelare non solo l’attenta competenza di chi lo compie, ma anche il rispetto della dignità di chi lo riceve. In nome della legge.
Il Cepic, Centro europeo di psicologia investigazione e criminologia, (associazione impegnata nella formazione, ricerca, sostegno e consulenza in ambito criminologico, investigativo e psicologico) ha organizzato il secondo convegno nazionale sulla violenza di genere sul tema "Quando la vittima è lui. La violenza domestica verso l'uomo. Aspetti sociologici, criminologici e legali". Un evento innovativo nel suo genere, nel quale si sono affrontate tematiche spesso ignorate e sottaciute. Questo secondo convegno nazionale sulla violenza di genere, segue il primo, in cui è stata trattata la violenza domestica verso la donna.
Ho scelto di organizzare un secondo convegno incentrato sull'uomo dichiara Chiara Camerani, Psicologa, criminologa, Direttora Cepic - Centro Europeo di psicologia investigazione e criminologia - perché ritengo che il concetto di violenza di genere sia spesso inteso come indissolubilmente legato alla figura femminile, ma non può e non deve essere così. I cambiamenti sociali, i traguardi sul versante della parità hanno creato nuove categorie deboli e nuove forme di violenza. A fronte della violenza cieca, diretta dell'uomo, abbiamo una violenza subdola, vendicativa, tipica della donna, che spinge a distruggere non solo il coniuge, ma il suo ruolo genitoriale, la sua posizione sociale, il suo equilibrio psicologico. Pur coscienti che la donna detiene il triste primato di vittima nell'ambito della violenza coniugale, non possiamo dimenticare gli uomini che subiscono forme di violenza diverse forse, ma altrettanto gravi. Ne sono dimostrazione i numeri allarmanti dei suicidi attuati in Italia da padri separati. Il numero si suicidi commesso da padri separati è aumentato negli ultimi anni, in particolare nel centro e nel nord d'Italia.
Secondo i dati della federazione nazionale bigenitorialità, L'uomo commette più frequentemente suicidio a causa di un disagio generato dalle separazioni e dai figli contesi, più di quanto non accada alle donne; con 102 casi su un totale di 110 (93%).
Alla luce di questo, riteniamo utile una rivalutazione del concetto di soggetto debole, usualmente applicato al genere femminile, in un'ottica che valuti la persona e non il genere o lo status. A tal proposito ed alla luce dei dati emersi, l'uomo risulta essere il soggetto maggiormente sconfitto, nella coppia che si separa. Il decremento di reddito, l'allontanamento dai figli, che spesso diventa affido esclusivo, arma di ricatto e soppressione della figura paterna, mina gravemente la persona spingendo a comportamenti autodistruttivi, dipendenze, atti disperati. Per questo abbiamo scelto di parlare di violenza di genere, nella convinzione che sia necessario ridefinire o quantomeno rendere maggiormente flessibile il concetto di soggetto debole. Perché se è vero che la donna è più frequentemente vittima tra le mura domestiche, in contesti di coppia normale in crisi e in fase di separazione, è l'uomo a detenere il primato di vittima.
Uomo che raramente denuncia, per imbarazzo, per paura di venire privato dei figli, perché spesso gli viene negato lo status di vittima. L'uomo che denuncia è considerato inetto, debole perché non si adegua allo stereotipo maschile di macho, che reagisce o si allontana. Ma anche perché esiste un pregiudizio, quello che Farrel chiama la cortina di pizzo, cioè il pregiudizio della società, del governo e dei sistemi legislativi e sociali, a favore dei due sessi.
Gli stessi mass media contribuiscono ad alimentare questo gap; mentre sappiamo tutto del dramma interiore della donna, raramente leggiamo di quanto un uomo si rattristi per non essere arrivato a casa per tempo per giocare con propri figli, della sofferenza che prova per sentirsi emotivamente lontano dalla moglie oppure di quanto si senta frustrato se non riesce a guadagnare sufficientemente per garantire alla sua famiglia una vita agiata. Si parla delle conseguenze esteriori, dell'irritabilità, della distanza emotiva, mai di ci che le scatena.
Lo stesso accade in considerazione dei diversi standard di valutazione della violenza; quando l'aggressore è uomo ci si preoccupa della vittima femminile, quando è la donna ad essere violenta se ne cercano le cause, o si attribuisce a patologia. Questo è un dato che osserviamo frequentemente, in qualità di centro che si occupa di consulenza psicologica e criminologica.
Secondo l'intervento della dottoressa Onofri, le conflittualità più ricorrenti nelle separazioni/divorzi implicano due aspetti:
Relativi all'aspetto economico implicano problemi sulla corresponsione dell'assegno di mantenimento (Art. 570 c.p. (mancata assistenza al minore) - Art. 709 ter c.p.c (Trib. Modena, ord 29.1.07);
Relativi all'aspetto relazionale invece riguardano conflitti sull'affidamento dei figli/potestà genitoriale (Legge 28 febbraio 2006, n. 52 comportamenti con implicazioni penali Codice penale).
Secondo la consulente Cepic, le conflittualità relative all'aspetto relazionale sono sofferte dal genitore che non vive con i figli, generalmente il padre, e possono realizzarsi a causa di comportamenti mobbizzanti e ripetuti dell'altro genitore che tendono ad escluderne o ad emarginarne il ruolo nei confronti dei figli. Ostacolo alla frequentazione, delegittimizzazione del ruolo paterno, alienazione dei figli verso il padre, false accuse. Ma raramente è possibile dimostrare che comportamenti di tal genere si siano realmente verificati.
Per questo durante il convegno sono stati illustrati i nuovi progetti di legge.
Per quanto sorprendente, esistono uomini maltrattati fisicamente dalle mogli, il numero oscuro a questo riguardo è molto alto, a causa del forte imbarazzo a denunciare. L'Irlanda è il paese che ha raccolto più dati e denunce a riguardo, ed è sorprendente osservare come la violenza domestica verso l'uomo, sia presente già prima della rivoluzione sessuale. Interessante anche notare che la violenza verso il partner avviene anche tra coppie lesbiche.
Il pregiudizio sociale porta ad ignorare la figura maschile nel ruolo di vittima, porta ad identificare l'uomo con il cattivo, con l'aggressore.
Dai casi ascoltati dal Centro europeo di psicologia investigazione e criminologia, risulta che la reazione sociale più frequente di fronte ad un uomo maltrattato quella di addossargli colpe .
Si riscontra spesso:
Incredulità, l'uomo abusato davanti al mondo deve dimostrare di essere una vittima;
Ironia, c'è una diversa valutazione sociale della violenza femminile : - La violenza femminile è giustificata con la patologia (depressione post partum, traumi, autodifesa, provocazione, menopausa) - Una donna violenta nella relazione, non è considerata obbligatoriamente violenta con i figli, quando ci accade all'uomo è automatico che non sia un buon genitore. Gli uomini che restano in famiglia (per proteggere i figli) vengono considerati deboli e inetti.
Le conseguenze sull'uomo comportano depressione, abbuffate compulsive, dipendenze, uso di alcol, violenza, suicidio, suicidio allargato (omicidio/suicidio).
«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri 'tigri' tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli 'plagiati' dalle madri?».
« Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».
I numeri:
200mila: i padri separati in Italia.
90 per cento: la media di applicazione dell’affido condiviso nei principali tribunali d’Italia. Nel 2006, anno in cui è stata introdotta la legge, era del 28% (fonte Istat).
90 per cento: la percentuale delle cause con affidamento alla madre in cui il padre è tenuto a versare un assegno di mantenimento per i figli pari in media a 400 euro.
71 per cento: la percentuale dei casi in cui l’abitazione va all’ex moglie.
62 mila circa: i divorzi annui in Italia.
SULLA PELLE DEI BAMBINI: IL CASO DI LEO RIGAMONTI.
Padre scappa con il figlio da Parma: ricerche in tutta Europa. E' una "guerra" che ha varcato l'Oceano quella fra Maurizio Rigamonti, 43enne imprenditore parmigiano, e sua moglie Laura Carder, 42enne americana con la quale l'uomo si era sposato durante una vacanza della donna in Italia. Dopo quell'amore nato quasi per caso: il matrimonio a Las Vegas, un figlio e la decisione di tornare a vivere a Parma. Solo l'inizio di un dramma senza fine. La coppia, infatti, ben presto salta. E cominciano i guai, soprattutto per il piccolo che oggi ha otto anni. Lei prende il figlio e torna a Los Angeles. Rigamonti, per nulla rassegnato, scrive una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, quindi si precipita negli Stati Uniti dove ingaggia avvocati e dà battaglia. Tra i due ex coniugi volano accuse di ogni tipo. Lui la denuncia per sottrazione di minore. Lei di violenze sul figlio. I giudici americani scagionano l'italiano e decidono per il rimpatrio forzato in Italia. La madre segue i due per restare in contatto con il figlio, ma la situazione non si tranquillizza. L'ultimo colpo basso a dicembre quando - come ricostruito dall'avvocato di Rigamonti, Claudio De Filippi - "la moglie ha presentato l'ennesima denuncia contro l'ex marito". A quel punto lui avrebbe deciso di rispondere alle ingiustizie, come ha scritto al suo legale. E da qualche giorno è sparito con il bimbo di otto anni. Da lunedì scorso, infatti, di Maurizio e di suo figlio si sono perse le tracce. L’uomo avrebbe dovuto riportarlo alla madre dopo le vacanze dell’Epifania, ma nessuno li ha visti. La donna ha presentato denuncia in questura. Il nonno paterno sostiene che i due "stanno trascorrendo una settimana bianca in Trentino", ma la versione non convince la polizia che ha deciso di iniziare le ricerche.
Un bimbo conteso da anni, scrive Francesco Alberti su “Il Corriere della Sera”. Al centro di una guerra senza esclusione di colpi tra padre e madre. Ha otto anni, metà dei quali trascorsi tra Parma e Los Angeles in un’assurda altalena di spostamenti e affidamenti, reciproche denunce e decisioni giudiziarie a dir poco contraddittorie. Ora la situazione è precipitata. Da lunedì scorso, di lui e di suo padre, Maurizio Rigamonti, 43 anni, imprenditore parmigiano nel settore dei salumi, non si sa più nulla. L’uomo avrebbe dovuto riportarlo alla madre, Laura Carder, americana di 42 anni, dopo le vacanze dell’Epifania, ma nessuno li ha visti. La donna ha presentato denuncia in questura. Il nonno paterno sostiene che i due «stanno trascorrendo una settimana bianca in Trentino», ma la versione, visti i burrascosi precedenti tra i due ex coniugi, non convince per niente gli investigatori. Le ricerche da ieri si sono allargate all’intera area Schengen e, a sentire la donna, non è escluso che la fuga dell’uomo sia diretta in Spagna. L’ultima e unica traccia risale a tre giorni fa: il cellulare di Rigamonti è stato agganciato dalla cella che copre il casello dell’A1 di Parma, ma è impossibile sapere se la sua Mercedes ha puntato il muso in direzione di Bologna o di Milano. Un dettaglio importante avvalora l’ipotesi della fuga preparata a tavolino. Un biglietto che Rigamonti ha fatto avere lunedì al suo avvocato Claudio De Filippi. «Il tono - spiega il legale - era quello di un uomo esasperato, che si ritiene vittima di un’ingiustizia. Mi ha scritto che riteneva insopportabile l’idea che la sua ex moglie fosse stata assolta dopo aver rapito il figlio e averlo portato a Los Angeles...». Una storia infinita, come racconta ieri la Gazzetta di Parma . Che nasce romanticamente in Italia, quando lei, durante una vacanza, conosce lui: si sposano a Las Vegas, hanno un figlio e vanno a vivere a Parma. Ben presto la coppia salta. Lei prende il figlio e torna a Los Angeles. Rigamonti, per nulla rassegnato, scrive una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, quindi si precipita negli Stati Uniti, ingaggia avvocati e dà battaglia. Tra i due ex coniugi volano accuse di ogni tipo. Lui la denuncia per sottrazione di minore. Lei di violenze sul figlio. Entrambi vengono scagionati, ma intanto il caso si aggroviglia sempre più. L’incomunicabilità tra i due è totale. Le loro versioni opposte su tutto. Rigamonti ottiene dai giudici americani il rimpatrio forzato del bambino, che avviene nel giugno del 2012, e il suo affidamento. Anche la madre fa ritorno a Parma per poter rimanere in contatto con il figlio. E la guerra tra i due si sposta in Italia. Il tribunale di Parma archivia nei confronti della donna l’accusa di sottrazione di minore, ma il legale di Rigamonti fa ricorso in Cassazione (tuttora pendente). Il piccolo nel frattempo viene dato in affidamento condiviso, ma la situazione è ormai compromessa. I contrasti tra gli ex coniugi sono continui, ogni occasione è buona. «A far precipitare la situazione - afferma l’avvocato De Filippi - è stata l’ennesima denuncia per violenze presentata in dicembre dalla donna contro l’ex marito, ma con questo non voglio giustificarlo: speriamo in un segnale...».
Maurizio Rigamonti, l’imprenditore di Parma che era fuggito con il figlio Leonardo di 8 anni lo scorso 6 gennaio 2014, ha riportato il bambino alla madre, con la quale l’uomo condivide l’affido del minore, conteso da anni. L’ex moglie, Lura Calder, aveva denunciato la scomparsa di entrambi alla polizia nei giorni scorsi e lanciato diversi appelli. Padre e figlio sono arrivati nel primo pomeriggio in auto dalla Francia, dove avevano soggiornato nelle ultime ore tra Montecarlo e Mentone. Maurizio Rigamonti è arrivato intorno alle 17 a bordo di un’auto, assieme al dirigente della Squadra Mobile di Parma Enrico Tassi. Con loro non c’era il figlio trasferito in una località segreta. L’uomo deve rispondere dell’accusa di mancato adempimento dell’ordine del tribunale, oltre all’imputazione di sottrazione di minore. Ieri Rigamonti aveva pubblicato un videomessaggio, diffuso su Youtube, in cui il bambino diceva «non è mio papà che è cattivo, è mia mamma che è cattiva». Si tratta dell’ultimo episodio di una vicenda giudiziaria che va avanti da almeno quattro anni, da quando la coppia viveva negli Stati Uniti. «Sto bene -ha dichiarato Rigamonti- , grazie per l’attenzione che ci avete dato. Non posso parlare, non posso dire altro». Sono queste le uniche parole dette una volta uscito dalla Questura di Parma. L’iscrizione nel registro degli indagati è stata effettuata contestualmente alla denuncia sporta dalla madre il 6 gennaio, quando Rigamonti , invece di consegnare il bambino alla madre, è fuggito con lui in Francia. «Il gesto compiuto dal padre - spiega il capo della squadra mobile di Parma - è illegittimo». Ora Maurizio Rigamonti è formalmente indagato per sottrazione di minori, reato che prevede una pena da 1 a 3 anni e da 1 a 4 anni nella fattispecie di un contesto internazionale, come questo.
Sulla pelle dei bambini: il caso di Leo, scrive Luisa Betti su “Il Manifesto”. Di solito, quando vado dal parrucchiere, mi porto la mia rivista preferita nella borsa perché mi scoccia leggere di gossip e di moda. Stavolta però non ho resistito e dopo aver messo via il mio giornale, ho preso in mano la prima che mi è capitata: “Oggi”. Mentre sfoglio in cerca di pettegolezzi all’italiana, vedo una foto che ritrae il viso preoccupato di una donna che ha come didascalia:” una madre disperata”. Ovviamente – e tutto questo blog testimonia il perché – leggo l’articolo e rimango di sasso: primo perché per la prima volta mi rendo conto che queste riviste possono essere una fonte interessante, e poi perché la storia rientra in una di quelle che riescono a togliermi via anche il sonno. Lura Calder, la donna della foto, è un’americana di 42 anni che durante un viaggio in Italia si è innamorata di un italiano, Maurizio Rigamonti, che ha sposato a Las Vegas e con cui ha fatto un figlio, Leo, che ora ha sei anni. La donna racconta una storia di violenza domestica che l’ha costretta a rivolgersi, in Italia, a un centro antiviolenza e poi a nascondersi e fuggire insieme al figlio. Il dramma però è che Lura è americana – mentre il figlio ha la doppia cittadinanza – e quindi, volendo tornare dai suoi genitori, è tornata in California, a Los Angeles, ottenendo lì un provvedimento di protezione, per lei e il minore, a causa dei trascorsi. Oggi però, anzi esattamente domani sabato 2 giugno 2012, Lura dovrà riportare indietro il figlio in Italia. Il giudice italiano, presidente del Tribunale di Parma, ha ordinato nel 2010 un ordine di protezione per la donna e per il figlio, e l’affido esclusivo alla madre senza l’obbligo di riportare in Italia il bambino — accogliendo anche la richiesta della Corte di Los Angeles a cui la donna si era rivolta — mentre adesso, ancor prima del rientro di Lura e del figlio minore dagli Stati Uniti, ha disposto l’affido condiviso a entrambi i genitori con domiciliazione presso il padre, Maurizio Rigamonti, da cui Lura fuggiva due anni fa. Incuriosita da un ribaltamento così repentino e sapendo che anche la sottrazione internazionale di minore, che fa riferimento alla Convenzione dell’Aja ed esige il rimpatrio anche forzato sotto i 16 anni, ha tra le sue clausole quella dell’articolo 13b — per cui si ha l’eccezione per i bambini che sono stati tolti da abusi e da violenza in famiglia – torno a casa per vederci chiaro e per fare ricerche, e cosa scopro? Che il caso del piccolo Leo Rigamonti è complicato e che in pochi anni, chi più chi meno, si sta facendo a gara per rovinargli l’esistenza. Scopro cioè che ci sono due versioni completamente diverse di questa storia, una del padre e una della madre, e che i procedimenti che si sono svolti, o che sono in svolgimento, sono diversi, e che si è mobilitata anche Hollywood in difesa delle richieste di Lura. Scopro che dopo la fuga della mamma con il bambino, che allora aveva 4 anni, la signora ha ottenuto dalla Corte di Los Angeles la separazione dal marito, un provvedimento di protezione per lei e per il figlio ma anche un allontanamento dell’uomo pur residente in uno Stato diverso. Scopro poi anche che il padre, disperato per la partenza di moglie e figlio, ha smosso mare e monti, scrivendo una lettera accorata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (che riporto qua sotto) e ottenendo che la senatrice del Pd, Albertina Soliani, facesse una interpellanza parlamentare sul caso e sulla sottrazione del figlio di cui è stato vittima. Maurizio Rigamonti, che a Los Angeles ha visto il figlio in incontri protetti alla presenza di una psicoterapeuta come di solito si fa – anche in Italia – non solo in casi di presunti abusi ma anche quando il bambino ha comunque delle difficoltà (e sembra che Leo soffra di “disturbo post traumatico da stress”), si è difeso tenacemente dalle accuse che gli erano state rivolte cercando anche di ottenere la custodia del figlio avviando un procedimento di decadenza della potestà materna presso il Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna in Bologna. In più scopro anche che, oltre alla denuncia penale per sottrazione di minore nei confronti della signora Calder, Rigamonti è andato in appello per la sentenza in primo grado alla Corte di Los Angeles rovesciando il procedimento e ottenendo in secondo grado che gli Stati Uniti accogliessero la richiesta di rimpatrio forzato di Leo. Infine scopro che tutti e due i genitori, che hanno rilasciato interviste anche alla CNN (un servizio su Calder e una intervista a Rigamonti), hanno messo in atto una petizione per “salvare” il figlio dall’altro/a, e che mentre il signor Rigamonti accusa la moglie di “essere un’alcolista”, la signora Calder ha detto che l’ex avrebbe “precedenti penali per reati multipli, compreso il possesso di cocaina e traffico di droga”. Domani, sabato 2 giugno 2012, il piccolo Leo arriverà in Italia all’aeroporto di Fiumicino, e il 4 giuno 2012, alle ore 13, saranno tutti presso il Tribunale di Parma per l’udienza e la comparizione delle parti. Il giudice Piscopo ha ordinato che Leo, appena arriva insieme alla madre all’aeroporto, sia immediatamente dato a suo padre presso il quale rimarrà per due giorni fino all’udienza, mentre domenica 3 giugno, Lura avrà una visita supervisionata con Leo per una o due ore, in quanto uno psicologo nominato dalla Corte valuterà Leo sulle sue interazioni, sia con il padre che la madre in maniera separata, in un periodo di 48 ore. Poi, lunedì 4 giugno, sarà decisa la custodia del bambino basata sulle osservazioni dello psicologo. Ora, al di là dei genitori e della veridicità o meno delle accuse reciproche, mi chiedo: ma qual è qui l’interesse superiore del minore? Com’è possibile che il piccolo Leo sia preso da una situazione A e messo a sei anni in una situazione B diametralmente opposta, senza una gradualità, un tempo necessario per farlo abituare, e messo subito sotto esame per l’arco di 48 ore, per di più in un contesto da cui è rimasto lontano dai 4 ai 6 anni (cruciali nella crescita di un bambino)? Al di là di chi ha ragione o torto, e se anche i giudici che si sono occupati del caso – a questo punto tutti quanti – avessero preso un clamoroso abbaglio iniziale decidendo prima per la custodia di madre e figlio, e poi invece per il rientro in patria e la domiciliazione temporanea presso il padre, come non si può valutare il rischio del trauma per Leo che non saprà se “amare” più il padre o la madre tra sabato e domenica? E che dire del fatto che tutto ciò avviene in una modalità per cui il piccolo rimarrà separato dal genitore che in questi anni è stato il suo riferimento principale? Chiedo umilmente alle Istituzioni, al Tribunale competente, ai genitori, agli avvocati e ai supervisori di ascoltare Leo che forse ha qualcosa da dire. Grazie.
Testimonianze.
Stralci della storia riportata dalla sig.ra Lura Calder. “Mio marito, Maurizio Rigamonti, durante il matrimonio usava violenza psicologica e minacciava di picchiarmi se non facevo quello che lui voleva. Urlava di fronte al nostro bambino nato nel 8 Agosto 2005. Non avevo accesso al budget familiare. Ho chiesto di poter prendere la patente, per guidare la macchina che i miei genitori ci avevano comprato, ma lui si è sempre rifiutato di darmi i soldi per frequentare la scuola guida. Alla fine prima di partire per l’America, sono riuscita a prendere la patente grazie all’aiuto dei miei genitori, ma non sono riuscita a prendere il passaporto Italiano e non mi dava il permesso di andare con il bambino da nessuna parte. Ho cercato di parlare e di chiedergli amichevolmente il divorzio e lui mi ha risposto di no e ha iniziato a minacciarmi di togliermi il bambino e di non farmelo rivedere mai più. Nel 2008 continuamente, anche di fronte al bambino, minacciava di andare fuori casa a sparare alla gente e poi uccidersi perché era arrabbiato con la vita. (…) Frequentava il poligono dove prendeva lezioni, portandosi a casa a fine lezione la sagoma del bersaglio traforata dai suoi colpi per mostrarmi quanto era bravo a sparare. Ha poi iniziato a cercare su internet un modo per comprare una pistola e spendendo larga parte della giornata seduto al computer. In seguito ho scoperto che aveva richiesto il porto d’armi e che non gli era stato concesso ma aveva comunque accesso alle armi di suo padre. Non voleva che io parlassi con nessuno della mia famiglia riguardo i nostri problemi, ma parlava alla mia famiglia della nostra vita sessuale, perché diceva che non ero abbastanza brava. Ha iniziato a usare delle parole cattive e una violenza verbale, dicendo che dovevo essere io a servirlo sessualmente e che dovevo accettare tutto quello che lui voleva riguardo al sesso, e se non accettavo lui iniziava a insultarmi di fronte al bambino. (…) Mi minacciava in continuazione che mi avrebbe picchiata, tolto il bambino e che mi avrebbe fatto soffrire e reso la mia vita miserabile, se non facevo quello che voleva lui. La mia paura era che arrivasse al punto di uccidermi se fossi andata alla polizia, perché mi ripeteva che conosceva gente alla stazione di polizia e che se lo denunciavo lui lo veniva a sapere prima che la denuncia veniva depositata e glielo avrebbero riferito, per questo ho sempre avuto paura di andare a denunciarlo. (…) Due settimane prima che il bambino nascesse lui ha smesso di lavorare. Non ci permetteva di accendere il riscaldamento durante l’inverno e non potevamo fare la doccia tutti i giorni e usava l’orologio a misurare il tempo che ci mettevamo per fare la doccia, mentre la luce si poteva usare solo la sera anche se il nostro appartamento era molto buio. Voleva che pulivo il nostro appartamento con una piccola spugna piegata sulle mie ginocchia e strofinando con con le mie mani. Non potevo accendere il gas senza il suo permesso e aveva rimosso tutte le porte dell’appartamento meno quella del bagno fatta di plastica cosi poteva tenermi sempre sotto controllo. Non ci parlava per giorni, e non usciva da casa e rimaneva a letto al buio fino a tardo pomeriggio, non potevamo fare nessun rumore e non potevamo uscire da casa. Mi criticava continuamente e non solo a me ma anche Leo, ma mi diceva che solo lui mi amava e che nessun altro mi amava, inclusa la mia famiglia isolandomi da tutti. (…) Non voleva che io trovassi lavoro. Diceva che dovevo fidarmi solo di lui e se lo contraddicevo lui iniziava a diventare verbalmente aggressivo. La mia famiglia provvedeva a mandarmi soldi, giocattoli, vestiti per mio figlio e per me, ma lui ha chiamato la mia famiglia dicendogli di mandare solo soldi cash così decideva lui cosa comprare. Quando scoprii che ero incinta, io ero molto felice e volevo questo bambino, e per il bene del bambino avrei fatto di tutto per far funzionare bene il nostro matrimonio. Quando lo comunicai a Maurizio che ero incinta, lui si arrabbiò e cercò di convincermi ad abortire perché non avevamo abbastanza soldi per far crescere il bambino. (…) Dopo che il bambino è nato ha iniziato a criticarmi su tutto quello che facevo con il bambino, su come leggevo le favole prima di andare a dormire, che ero troppo drammatica, che non mi dovevo sedere sul suo letto, che non lo dovevo coccolare e mi urlava che non sapevo essere né madre né moglie, e ripeteva: Tuo marito ha i suoi bisogni, tuo marito viene prima. Prima che io ritornassi negli Stati Uniti, Maurizio cercava di provocarmi a uno scontro fisico, spingeva il suo petto contro il mio alzando il suo pugno e dicendomi: Vuoi litigare? Vuoi colpirmi? DAI, DAI! Dopo questi incidenti, ho preparato una piccola borsa, per Leo e per me, e ho riferito a Maurizio che non potevamo più stare lì in quelle condizioni. Maurizio si mise di fronte alla porta e ci bloccò e mi disse con voce minacciosa che non dovevo lasciare la casa e io ritornai indietro. L’11 Febbraio 2010, sono andata al centro antiviolenza di Parma, perché non ce la facevo più a sopportare gli abusi. Ero devastata, ne parlai con due esperti del centro e mi consigliarono di lasciare Maurizio al più presto e che la situazione non sarebbe migliorata, ma peggiorata. Il 16 febbraio 2010 preparai di nuovo una piccola valigia, scrissi un’email a Maurizio comunicandogli che andavo dalla mia famiglia in California e sono partita: sapevo che se glielo avessi detto non mi avrebbe mai dato il permesso di partire e avrebbe ricominciato con le minacce. Poi, quando sono arrivata a Los Angeles, abbiamo parlato per telefono: lui continuava a minacciarmi, diceva che non ero nessuno senza di lui. (…) A un certo punto gli dissi al telefono che avrei portato Leo da un psicologo, perché si picchiava da solo già da un paio di anni. Maurizio non voleva ma era l’unico modo in cui potevo aiutare mio figlio. Così andai al Tribunale di Los Angeles dove chiesi la separazione e l’affidamento. Il giudice, oltre all’affido esclusivo del bambino a me, emanò anche un ordine di restrizione nei suoi confronti, malgrado lui fosse in un altro paese. (…) Nel Gennaio 2011, è venuto a Los Angeles per chiedere al giudice di vedere Leo senza la supervisione. Diceva che non aveva soldi per pagare il supervisore, e il giudice ha rifiutato, perché Maurizio non ha voluto parlare con la terapista di nostro figlio, per avviare un processo terapuetico di riunificazione. Per questo per due anni non ha visto il figlio, perché non ha accettato un percorso di incontri graduali dopo un passato traumatico. Durante le visite nel 2010 con Leo, lui diceva a Leo che un bimbo deve avere una mamma e anche un papà, e la stessa cosa l’ha ripetuta in una intervista con la CNN, e allora perché adesso vuole togliermi mio figlio? Per vendetta?”
Stralci della lettera del sig. Maurizio Rigamonti al Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano. “Egregio Presidente Napolitano, il mio nome è Maurizio Rigamonti. Le scrivo come cittadino italiano ma soprattutto come padre, ormai disperato ed esausto per le ingiustizie e i soprusi subiti fino ad ora negli USA in una vicenda che sembra non avere fine e che coinvolge vari organi governativi Italiani, come il Ministero della Giustizia, il Ministero degli Affari Esteri e il Consolato Italiano di Los Angeles. Mi auguro che questa lettera serva non solo a far conoscere anche a lei queste realtà ma che con la sua attenzione aiuti e tuteli tutte quelle persone che come me si ritrovano a vivere situazioni di questo tipo e che distruggono la vita di tanti bambini indifesi, utilizzati come armi per distruzione di famiglie. Quello che sto per raccontare con tanta frustrazione, amarezza e che alla fine risulterà anche grottesco è pura realtà vissuta innanzitutto da MIO FIGLIO, da ME PADRE e dalla MIA FAMIGLIA! Cercherò inoltre si essere sintetico e tralasciare la miriade di disgustosi dettagli che fanno diventare ancora più raccapricciante questa vicenda. Questa terribile storia inizia il 16 Febbraio 2010, con il rapimento di mio figlio Leonardo di anni 4 e 5 mesi, CITTADINO ITALIANO, NATO E CRESCIUTO E RESIDENTE IN ITALIA DALLA NASCITA e precisamente a PARMA; l’artefice di questo ignobile, codardo, meschino e incivile gesto è la madre alcolista americana, che per paura di perdere la custodia del figlio in Italia causa il suo problema e la sua frequentazione all’Anonima Alcolisti, decide con la complicità e la premeditazione della famiglia, di scappare a mia insaputa a Los Angeles, invece di portare mio figlio all’asilo. La stessa mattina mi scrive una mail dall’aeroporto di Heathrow, durante l’attesa del volo per Los Angeles, dove dichiara di essere partita senza dirmi nulla per non avere discussioni e mi rassicura dicendo di fare ritorno il 3 marzo, vado dai Carabinieri per denunciarla per sottrazione di minore e mi suggeriscono di aspettare, primo per non traumatizzare il bambino al suo arrivo negli USA, secondo per non attivare dei procedimenti prima del suo previsto ritorno. Durante i 15 giorni della sua permanenza negli USA ci sentiamo telefonicamente e mi scrive delle email scusandosi per quello che ha fatto e affermando continumente la sua intenzione di tornare a Parma il 3 marzo. Il 2 marzo mi chiama dicendomi di avere l’influenza e di dover rimandare la sua partenza di qualche giorno, le rispondo di prendersi cura della sua salute e di farmi sapere la data del suo ritorno sperando che non sia l’ennesima bugia ma proprio il 3 marzo ricevo una chiamata da un avvocato di Los Angeles che mi dice che sono sono stato denunciato per violenze domestiche e devo presentarmi presso la Corte Superiore di Los Angeles il giorno successivo per un’udienza riguardante le violenze, la separazione e la custodia del bambino. Rimango sconvolto da queste parole tanto che rispondo: cosa? Ho sentito mia moglie 2 giorni fa e mi ha detto che avrebbe spostato la data del suo ritorno per problemi di salute. Non faccio in tempo a finire queste parole che la comunicazione viene interrotta bruscamente. Chiamo immediatamente il Consolato Italiano di Los Angeles e prendendo a cuore la mia situazione mi consigliano di fare immediatamente la denuncia attraverso i miei legali in Italia (Claudio Defilippi e Debora Bosi) per rapimento di minore e mi affidano ad un avvocato di fiducia a Los Angeles (Cinzia Catalino). Chiamo la Catalino e mi manda via fax la delega da firmare per potersi presentare in aula visto che io sono impossibilitato a farlo fisicamente per problemi di tempistiche e di ore di volo. Durante questa udienza non essendo io in aula a difendermi con il mio avvocato, viene emesso un ordine di restrizione temporanea nei miei confronti senza una prova e basata solo sulle parole della sua falsa testimonianza, dopo l’udienza mi ritrovo ad essere imputato di qualcosa che non ho mai commesso (nessuna denuncia in Italia o referti ospedalieri) e ad essermi negato qualsiasi contatto o comunicazione con mio figlio fisica, telefonica. L’udienza successiva sarà il 25 marzo. Nei giorni successivi con i miei legali Italiani facciamo richiesta tramite il Ministero della Giustizia del ritorno del minore appellandoci alla Convenzione dell’Aja e partiamo con le varie denunce presso il Tribunale di Parma e quello dei Minori di Bologna. Nello stesso tempo anche i miei legali a Los Angeles inoltrano la documentazione per la Convenzione dell’Aja e viene fissata un’udienza per il 9 Aprile negli USA. Parto per Los Angeles nei giorni successivi e all’udienza del 25 marzo viene deciso che questa sarà spostata a data da destinarsi e che si dovrà procedere con quella della Convenzione dell’Aja per la tutela della bambino. (…) Solo all’udienza del 9 Aprile mi viene concesso di vedere mio figlio, fuori dalla Corte, per un’ora dopo quasi 2 mesi e mi viene data la possibilità di vederlo 2 volte alla settimana, per 3 ore e solo con il monitoraggio di supervisori da me pagati 200 dollari a visita e con il DIVIETO ASSOLUTO DI PARLARE ITALIANO ANCHE SE LEONARDO è UN CITTADINO ITALIANO E PARLA SOPRATTUTTO ITALIANO!!!!! Decido di rimanere a Los Angeles per passare più tempo possibile con Leonardo anche se con costi enormi per me da sostenere e aspettare la data dell’udienza successiva. Alla prima visita monitorata dopo più di una settimana, Leonardo si comporta in modo strano e riluttante, rimango sconvolto dal suo atteggiamento così ostile e diverso dall’ora passata insieme dopo l’udienza, ricca di baci, abbracci e di giochi: povero bambino stava recitando una parte a lui imposta e che reggeva a fatica. In 10 giorni era stato condizionato e manipolato a tal punto contro di me che gli era stato imposto di dare la mano al supervisore e non a suo padre, di non ricevere nulla da suo padre, niente baci, niente abbracci, né acqua né cibo ma dopo 30 minuti l’innocenza e la spontaneità di un bambino prevale e ritorna ad essere più affettuoso e disponibile nei miei confronti anche se non del tutto, e mi dice che mi devo accontentare perchè non vuole forse disobbedire alle promesse fatte. Chiaramente la visita successiva non esiste perchè viene trovata subito la scusa che Leo sta male per cui lo rivedo dopo 15 giorni per altre 2 volte e dove durante anche queste visite dopo i primi minuti di ostilità si lascia andare e mi abbraccia e mi bacia affettuosamente e mi dice quanto mi vuole bene e che sono il papà migliore del mondo! (…) Ormai sono passati due mesi dal mio arrivo a Los Angeles e sono riuscito a vedere Leonardo solo 5 volte e dopo la conferma della data del processo fissata per il 27 luglio decido con il cuore a pezzi di ritornare in Italia per problemi economici, per seguire il mio lavoro e per raccogliere tutte le testimonianze in Italia per il processo. (…) Nel frattempo i NONNI ITALIANI non vedono e non sentono Leonardo da ormai quasi 5 mesi!!! Arriva anche Luglio e io riparto per Los Angeles fiducioso con le testimonianze delle maestre, vicini di casa, persino le amiche della madre di Leonardo, che conoscendo la verità, decidono di schierarsi dalla mia parte. Al mio arrivo sono felice perchè so che finalmente dopo 2 mesi rivedrò Leonardo, ma non è così: i legali della madre, diventati ormai 4 decidono che se voglio vedere mio figlio devo versare un bond da 10.000 dollari come cauzione: Faccio presente che non ho questa possibilità visto che dovrò pagare la psicoterapeuta delegata dalla Corte, tutte le relative spese legali e la mia permanenza a Los Angeles per un altro mese. Per cui niente BOND niente visite!!! Al primo appuntamento con il mio avvocato di Los Angeles spunta addirittura una email scritta dal loro legale in Italia (Emanuela Strina del foro di Milano) al loro legale negli USA (Peter Lauzan) che mi accusa di aver saputo tramite un testimone che VUOLE RIMANERE ANONIMO (e che non testimonierà il fatto in nessun luogo ed occasione) di avere INGAGGIATO UN KILLER IN ITALIA e a LOS ANGELES per un attentato alla vita di mia moglie e per poter fare del male anche a mio figlio!! Questa lettera verrà usata per potermi incastrare attraverso l’FBI e messa agli atti durante il processo! Con i miei legali in Italia decidiamo di sporgere denuncia querela per calunnie e diffamazione e di scrivere all’Ordine degli Avvocati del foro di Milano e chiedere l’espulsione di Emanuela Strina per violazione del Codice Deontologico per le gravi accuse di tentato omicidio. Dopo aver avuto 2 colloqui con Terry Asanovich, la psicoterapeuta delegata dalla Corte per la perizia sugli abusi sessuali su Leonardo, vengo chiaato per un incontro combinato di un’ora con lui e chiaramente dopo quasi 3 mesi senza vedermi e un’altro lavaggio del cervello, come da copione, mi rifiuta e mi dice che io pretendo di essere buono e gentile evitandomi e rifugiandosi dalla terapeuta. Io scoppio a piangere e mi chiedo come può una madre fare una cosa simile al proprio figlio, utilizzando la sua innocenza in questo modo crudele e inumano. Arriva il 27 Luglio e dopo 10 giorni di processo (il più lungo nella storia dei casi di Sottrazione Internazionale di Minore), dopo aver speso 40.000 dollari, dopo aver avuto 28 testimonianze scritte a mio favore, 4 telefoniche dall’Italia a mio favore, 1 da Los Angeles a mio favore, l’investigazione sugli abusi sessuali e le violenze domestiche effettuate dai Servizi Sociali Americani risultata INFONDATA E INCONCLUDENTE, nessuna prova concreta delle accuse fatte nei miei confronti, l’abuso di alcolici della madre confermato anche in Corte, il Giudice Marjorie Steimberg emette la sentenza e dice che sulle basi della perizia fatta da Terry Asanovich IL BAMBINO NON DEVE ESSERE RIMPATRIATO IN ITALIA CON IL PADRE perchè potrebbe subire un danno emotivo e perchè ha dimostrato di avere un comportamento ostile nei confronti del padre!! Ma che potrà tornare in Italia solo con la madre, e solo se il padre toglierà la denuncia fatta per sottrazione di minore, solo se i tribunali Italiani emetteranno una diffida (senza nessuna denuncia) nei confronti del padre che tuteli la madre, solo se il padre pagherà tutte le spese per la madre e il figlio casa compresa e solo se queste ordinanze soddisferanno la Corte di Los Angeles il bambino potrà tornare in Italia. INTANTO I NONNI ITALIANI NON SENTONO LEONARDO DA 8 MESI COME SE ANCHE LORO NON NE ABBIANO IL DIRITTO! MI CHIEDO CHE TIPO DI GIUSTIZIA SIA QUESTA IN UNO STATO CHE SI RITIENE CIVILE E DEMOCRATICO! Possibile che una persona possa scappare con un bambino in un altro Stato e inventarsi tutte le porcherie del mondo senza una prova concreta!!!! E chi sta dall’altra parte deve subire e pagare ingiustamente tutte le conseguenze per fatti ed episodi mai esisti. SE LE PERSONE COINVOLTE IN UNA VICENDA COME QUESTA SONO RESIDENTI IN ITALIA I PROCESSI DEVONO ESSERE SVOLTI NELLO STESSO STATO E NON IN UNO STATO CHE NON HA NESSUNA GIURISDIZIONE PER L’ACCUSATO E CHE CERCA DI PROTEGGERE E TUTELARE SOLO CHI VUOLE! Tutti i fatti elencati in questa lettera sono dimostrabili con documenti e sono a conoscenza del Ministero della Giustizia, il Ministero degli Affari Esteri, il Consolato Italiano di Los Angeles, il Tribunale di Parma e il Tribunale dei Minori di Bologna. Distinti Saluti, Maurizio Rigamonti”.
Filippo Facci: Va bene così. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso.
Leo Rigamonti, bimbo conteso. Un video su Youtube per difendere il padre: "Mamma è cattiva, voglio stare con lui", scrive Marco Franco. Un appello su Youtube rilancia il caso di Leo, bimbo di 8 anni conteso tra i due genitori dopo la scelta del padre Maurizio Rigamonti di non restituirlo alla ex moglie nel giorno seguente all’Epifania. Rivolgendosi agli utenti del portale in lingua inglese, il bambino ha spiegato il suo rapporto con la madre, difendendo dalle accuse il “papà che non è cattivo, al contrario della mamma” e aggiungendo che la madre lo avrebbe "minacciato" per fargli dire “un sacco di cose brutte sul padre”. Laura Calder, cittadina americana residente a Los Angeles, sta cercando il figlio da ormai 10 giorni, con l’ausilio della Polizia che sulla base della denuncia ricevuta ha effettuato ripetuti controlli dentro e fuori dal territorio nazionale, nella speranza di scoprire dove il piccolo è attualmente nascosto insieme a Rigamonti. Durerà ancora a lungo la controversia giudiziaria tra i due coniugi, impegnati in una dura battaglia (a margine del procedimento di separazione in corso) sull’affidamento legale di Leonardo da ormai due anni: entrambi sembrano intenzionati, ognuno con le proprie ragioni, a non mollare di un millimetro rispetto alla controparte, pur di veder riconosciuto il proprio diritto a vivere con Leo. La vicenda del bimbo conteso è tornata prepotentemente alla ribalta in seguito alla decisione del 46enne di Parma, che ha scelto la via della fuga facendo perdere le sue tracce fino appunto alla pubblicazione del videomessaggio sul canale personale di Youtube. Nessuna notizia, dal giorno dopo l’Epifania, era pervenuta all’avvocato Claudio De Filippi, difensore di Maurizio Rigamonti, mentre di un possibile ritrovamento del cellulare dell’uomo in autostrada aveva riferito il sito web saveleo.org, come riportato la settimana scorsa da alcune testate d’informazione.
Maurizio Rigamonti, l’imprenditore di Parma che era fuggito con il figlio Leonardo di 8 anni lo scorso 6 gennaio 2014, ha riportato il bambino alla madre, con la quale l’uomo condivide l’affido del minore, conteso da anni. L’ex moglie, Lura Calder, aveva denunciato la scomparsa di entrambi alla polizia nei giorni scorsi e lanciato diversi appelli. Padre e figlio sono arrivati nel primo pomeriggio in auto dalla Francia, dove avevano soggiornato nelle ultime ore tra Montecarlo e Mentone. Maurizio Rigamonti è arrivato intorno alle 17 a bordo di un’auto, assieme al dirigente della Squadra Mobile di Parma Enrico Tassi. Con loro non c’era il figlio trasferito in una località segreta. L’uomo deve rispondere dell’accusa di mancato adempimento dell’ordine del tribunale, oltre all’imputazione di sottrazione di minore. Ieri Rigamonti aveva pubblicato un videomessaggio, diffuso su Youtube, in cui il bambino diceva «non è mio papà che è cattivo, è mia mamma che è cattiva». Si tratta dell’ultimo episodio di una vicenda giudiziaria che va avanti da almeno quattro anni, da quando la coppia viveva negli Stati Uniti. «Sto bene -ha dichiarato Rigamonti- , grazie per l’attenzione che ci avete dato. Non posso parlare, non posso dire altro». Sono queste le uniche parole dette una volta uscito dalla Questura di Parma. L’iscrizione nel registro degli indagati è stata effettuata contestualmente alla denuncia sporta dalla madre il 6 gennaio, quando Rigamonti , invece di consegnare il bambino alla madre, è fuggito con lui in Francia. «Il gesto compiuto dal padre - spiega il capo della squadra mobile di Parma - è illegittimo». Ora Maurizio Rigamonti è formalmente indagato per sottrazione di minori, reato che prevede una pena da 1 a 3 anni e da 1 a 4 anni nella fattispecie di un contesto internazionale, come questo.
Maurizio Rigamonti, l'imprenditore di Parma che era fuggito con il figlio Leonardo di 8 anni lo scorso 6 gennaio 2014, ha riportato il bambino alla madre. Ma ora racconta la sua verità: «Voglio portare alla luce questa realtà che è la sottrazione internazionale di minori, che viene perpetrato da uno dei due genitori e non viene mai sanzionato. Se ci fossero delle condanne severe per questo tipo di reato io penso che la percentuale diminuirebbe. La donna ora auspica che sulla delicatissima situazione si faccia silenzio, a tutela del bambino. Maurizio Rigamonti, invece, raggiunto telefonicamente, ha dichiarato: "Io sto bene, sto benissimo. Voglio solo che emerga la verità e ora tutti i documenti sono agli atti, acquisiti nel fascicolo per la sottrazione di mio figlio. Chi ha fatto relazioni false pagherà. Io ho la verità nel cuore e non ho niente da nascondere". Il legale difensore dell'uomo, Claudio Defilippi, ribadisce che la fuga del papà col piccolo "è stata sbagliata, ma comprensibile dal punto di vista umano. Maurizio è un uomo sfinito dalla giustizia italiana, che non ha tenuto conto delle sentenze e dalle relazioni dei consulenti tecnici americani che hanno escluso qualsiasi violenza. La sottrazione internazionale della madre era stata giudicata 'contra legem', tanto che i giudici hanno rimandato il bambino in Italia, dove deve restare. Ma qui, una madre che ha portato via il bambino per due anni e mezzo è stata prosciolta. Al padre per dieci giorni daranno l'ergastolo?".
La lettera del padre sparito pubblicata su "Il Mattino di Parma". “La Cnn ha ritratto Rigamonti come un predatore, e la sua ex moglie e il figlio come vittime. Ma noi pensiamo che sia sbagliato che la Cnn abbia offerto solo metà della storia“. Con questa premessa l’Herald de Paris lo scorso 12 giugno 2012 ha deciso di dare spazio a Maurizio Rigamonti, padre di Leonardo, bimbo oggi di 8 anni, conteso e scomparso, per raccontare l’altra metà della vicenda. Ne viene fuori una lunga lettera con cui l’italiano Rigamonti chiarisce l’odissea dopo la rottura con la moglie americana Lura Calder.
Papà vittima di falsa accusa di pedofilia salva il figlio da alienazione. Il papà vittima di false accuse. «Questa storia terribile inizia il 16 febbraio 2010, con il rapimento di mio figlio Leo, un bambino di 4 anni, cittadino italiano, nato e cresciuto in Italia, nella città di Parma. L’autrice di questo atto vile ed incivile è sua madre americana, che per la paura di perdere la custodia di nostro figlio in Italia per ragioni che non discuterò, ha deciso, con la complicità della sua famiglia, di scappare a mia insaputa a Los Angeles, invece di portare mio figlio all’asilo. La mattina stessa mi ha scritto una e-mail da Heathrow Airport Regno Unito, in attesa di un volo per Los Angeles. Mi ha rassicurato dicendo che il suo ritorno sarebbe stato il 3 marzo. Sono andato alla polizia per segnalare la sottrazione di minore e mi hanno suggerito di aspettare, in modo da non traumatizzare il nostro bambino al suo arrivo negli Stati Uniti, e di non attivare procedure prima della data prevista del ritorno. Durante i 15 giorni in cui è stata a Los Angeles abbiamo avuto alcune telefonate e lei mi ha scritto alcune e-mail scusandosi per ciò che aveva fatto, sempre affermando la sua intenzione di tornare a Parma il 3 marzo. Il 2 marzo l’ho chiamata, e lei mi ha detto che le è venuta l’influenza e aveva bisogno di rinviare la partenza di qualche giorno. Le ho detto di prendersi cura della sua salute e di farmi sapere la data del suo ritorno, sperando che non fosse un’altra bugia. Ma proprio il 3 marzo ho ricevuto una telefonata da un avvocato di Los Angeles che mi ha detto che ero stato accusato di violenza domestica, e mi dovevo presentare alla Corte Superiore di Los Angeles il giorno dopo per l’udienza relativa alla denuncia di violenza domestica, la separazione, e la custodia dei figli. Sconvolto da queste parole, ho risposto all’avvocato, “Cosa? Ho sentito da mia moglie 2 giorni fa, e lei mi ha detto che ha dovuto spostare la data del suo ritorno a causa di problemi di salute”. Non ho avuto il tempo di finire queste parole che la comunicazione è stata interrotta bruscamente. [...] Ho inviato la delega per il mio nuovo avvocato a Los Angeles perché non ho potuto essere lì fisicamente a causa di problemi di tempistica. Nel corso di tale udienza non ho avuto la possibilità di essere in tribunale per difendermi. In contumacia, il giudice ha emesso un ordine restrittivo provvisorio contro di me senza un processo, basato solo sulle parole di falsa testimonianza. Dopo l’udienza, mi sono trovato colpevole di crimini che non ho mai commesso, giudicato e condannato da un giudice non ho mai incontrato, che mi ha negato qualsiasi contatto o comunicazione con mio figlio di persona o per telefono. A peggiorare le cose, il giudice ha stabilito che Leo sarebbe rimasto nella custodia temporanea della madre, con l’autorizzazione del tribunale di portarlo ad un terapeuta senza il mio consenso. La prossima udienza è stata fissata per il 25 marzo. Nei giorni seguenti con i miei avvocati, ho fatto la richiesta al Ministero della Giustizia italiano per il ritorno di mio figlio, facendo appello ai tribunali internazionali della Convenzione dell’Aia, e abbiamo iniziato le numerose denunce presso il Tribunale di Parma e al Tribunale per i minorenni di Bologna. [...] All’udienza spostata al 9 aprile, accuse più disgustose e folli vengono fuori – questa volta la mia ex moglie accusava che io avessi abusato sessualmente di mio figlio. Dichiarazioni scioccanti! Ha affermato che ho iniziato a mettere il mio [parola censurata] nella bocca di Leone quando aveva un anno di età, che gli ho chiesto di leccare il mio [parola censurata], e che gli ho chiesto di usare il [parola censurata] sul mio [parola censurata]! Penso che ci siano confini morali che un essere umano non dovrebbe mai passare, neanche se è il tuo avvocato che suggerisce di violarli. Tuttavia, mia moglie ha oltrepassato tutti i confini della decenza! Nonostante queste accuse schifose, dopo l’udienza mi è stato permesso di vedere mio figlio fuori del Tribunale, dopo quasi due mesi, solo per un’ora. Il giudice mi ha concesso di vedere mio figlio due volte a settimana per 3 ore, e solo con il controllo delle autorità di vigilanza a spese mie, $200 per visita. Era assolutamente vietato parlare in italiano a mio figlio Leonardo, che è un cittadino italiano, cresciuto in Italia tutta la sua vita. Decido di rimanere a Los Angeles per trascorrere più tempo con Leo, a costi enormi per me ed aspettare la data della prossima udienza. Alla prima visita osservata dopo più di una settimana, Leonardo si comportava in modo strano e con riluttanza. Sono rimasto scioccato dal suo atteggiamento ostile – totalmente diverso dall’ultima visita in cui era tutto baci, abbracci e giochi. Povero bambino, stava recitando un ruolo orchestrato per lui. Entro 10 giorni era stato influenzato e manipolato così tanto contro di me – era stato costretto a prendere le mani del supervisore e non di suo padre, di non ricevere nulla dal padre, niente baci, niente abbracci, niente acqua o cibo. Ma dopo 30 minuti l’innocenza e la spontaneità del bambino hanno vinto, e Leo tornò a essere più affettuoso con me, anche se non del tutto, e lui mi ha detto che avrei potuto risolvere, perché non vuole disobbedire alle promesse fatte a sua madre. Alla prossima visita, la madre usò la scusa che Leo era malato, così non ho potuto vederlo di nuovo. E il suo avvocato decide di proporre alla madre di Leo di portarlo in un ospedale psichiatrico, sostenendo che Leo vuole uccidersi in modo che farle avere altri documenti per sostenere la sua causa. Questo era davvero troppo. Come si può fare una cosa del genere al proprio figlio, solo per ottenere documenti? Dopo 15 giorni mi è stato permesso di vedere Leo altre 2 volte. Durante queste visite, dopo i primi minuti Leo abbandonò la sua ostilità e iniziò ad abbracciarmi e baciarmi teneramente ed a dirmi quanto mi ama e che io sono il migliore papà del mondo! Due mesi erano passati dal mio arrivo a Los Angeles, e sono stato in grado di vedere Leonardo solo cinque volte. Dopo aver confermato la data della prossima udienza, fissata per il 27 luglio, con il cuore spezzato ho deciso di tornare in Italia per motivi economici, per tornare al mio lavoro e di raccogliere tutte le prove in Italia per il processo. Nel frattempo, i nonni italiani non avevano potuto vederlo o sentirlo per 5 mesi! Luglio è arrivato e sono partito per Los Angeles, fiducioso con la testimonianza di insegnanti, vicini di casa, anche amici della madre di Leonardo che conoscevano la verità. Al mio arrivo, ero felice perché sapevo che finalmente dopo 2 mesi avrei visto Leonardo, ma così non fu. Gli avvocati della madre avevano deciso di chiedere al tribunale che se volevo vedere mio figlio dovevo pagare una cauzione di $ 10.000. Per me non era possibile perché dovevo pagare il terapeuta delegato dalla Corte, tutte le spese legali e il mio soggiorno a Los Angeles per un altro mese. Quindi niente dollari niente visite! Al primo appuntamento con il mio avvocato a Los Angeles, un’altra brutta sorpresa venne fuori. Un testimone che voleva rimanere anonimo mi accusava con un e-mail di aver assunto un killer in Italia ed a Los Angeles per uccidere mia moglie e mio figlio. Questa lettera è stata usata da lei per ottenere l’assistenza dell’FBI per farmi arrestare, e fatta mettere a verbale nel processo. Con i miei avvocati in Italia, abbiamo deciso di sporgere denuncia per diffamazione e calunnia. Dopo aver avuto 2 colloqui, lo psicoterapeuta nominato dal Tribunale per indagare sul presunto abuso sessuale su Leo, mi ha chiesto una riunione congiunta per un’ora con Leo, che dopo quasi 3 mesi senza vedermi subendo un lavaggio del cervello, mi ha rifiutato e mi ha detto che facevo finta di essere buono e gentile, ed iniziava a evitarmi rifugiandosi verso il terapeuta. Sono scoppiato a piangere e mi chiedo come può una madre fare questo al suo bambino, alla sua innocenza, in un modo così crudele e disumano. Dopo 10 giorni di processo (il più lungo nella storia dei casi di rapimento), dopo aver speso 40.000 dollari, dopo che ho avuto 28 dichiarazioni scritte dei testimoni a mio favore, quattro testimoni hanno telefonato in tribunale a mio favore, 1 testimonianza presente in aula in mio favore da Los Angeles, in seguito all’indagine condotta dai Servizi americani le accuse di abusi sessuali e violenza domestica si sono rivelate infondate e inconcludenti. Al contrario, l’abuso di alcool della madre di Leo è stato confermato dalla Corte. Il giudice mi diede l’autorizzazione per vedere Leo sabato 7 agosto – il giorno del mio compleanno, e Leo era superfelice con me! Sono rimasto scioccato perché l’avevo visto la settimana prima allo studio del terapeuta e mi aveva respinto. Dopo un’ora mi ha detto, “Ho già dimenticato la mamma.” Una ragazza ha voluto giocare con noi e lui ha risposto: “Io non voglio dividere il mio papà.” Poi disse: “Non mi piaci. Te lo dico per farlo arrivare al giudice, ma tu sei il migliore papà.” A questo punto è agosto 9 e, infine, il giudice ha stabilito e ha detto che, sulla base di una relazione, il bambino non deve tornare in ITALIA CON IL PADRE perché potrebbe subire un danno emotivo, e perché ha dimostrato di avere un atteggiamento ostile nei confronti del padre, ma che Leo poteva tornare in Italia solo con la madre, e solo se il padre avesse lasciato cadere l’accusa di sequestro di persona contro la madre, e solo se i tribunali italiani avessero emesso un ordine restrittivo contro il padre per proteggere la madre, e solo se il padre pagherà tutte le spese per la madre e il bambino, compresi i loro alloggi. Solo se queste condizioni fossero state soddisfatte, il bambino avrebbe potuto tornare in Italia. A questo punto, i miei genitori non avevano visto Leonardo per 8 mesi. Mi sono chiesto molte volte … che tipo di giustizia è questa! Come è possibile che una persona può fuggire con un bambino di un altro paese e fare accuse senza alcuna prova concreta e ottenere la custodia e la ricompensa dopo un rapimento? Uscii dal tribunale molto deluso e Leo era nel corridoio con il suo falso terapeuta e ho cercato di abbracciarlo. Egli cominciò ad agire di nuovo in un modo ostile facendo segno con le mani, come per dirmi di tornare indietro! Non riuscivo a crederci, l’avevo visto due giorni prima e lui era molto affezionato e dolce e adesso non era più lo stesso bambino. Sono tornato in Italia con il cuore rotto in 1000 pezzi. Nel mese di ottobre sono stato in grado di completare quello che il giudice aveva imposto, pur di vedere Leo tornare in Italia ho dovuto mendicare il giudice in Italia di ottenere questo ordine restrittivo contro di me, perché non ero accusato di niente di male nel mio paese. Così il 21 ottobre 2010, il mio avvocato si presentò in tribunale con tutti i documenti tradotti (ho pagato altri 1000 dollari) e il giudice dopo averli guardati disse: “Mi dispiace, signor Rigamonti ma per me questi sono solo pezzi di carta e se fossi Ms.Calder non tornerei mai in Italia, con il rischio di essere perseguita e arrestata”. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Ho detto al giudice che avevo fatto tutto quello che mi ha chiesto di fare, ma lei ha dichiarato: Leo non sarebbe tornato e lui sarebbe rimasto a Los Angeles con la madre. Sarei stato in grado di vederlo solo a discrezione della madre. Questo era troppo. Nel mese di dicembre 2010, ha deciso di fare ricorso. Uno studio legale mi ha dato assistenza, perché si vergognavano di essere americani per il modo in cui ero stato trattato. Il mio nuovo avvocato ha davvero messo il cuore nel mio caso e solo per 10.000 dollari, ha deciso fare ricorso. Alla fine ha lavorato per 105.000 dollari, ma ha deciso di lavorare per me quasi pro-bono! Nel gennaio del 2011 ho deciso di andare a Los Angeles per incontrare i miei nuovi avvocati e per vedere Leo. Il mio avvocato ha chiesto un’audizione così ho potuto vedere mio figlio. Ma il pseudo-terapeuta si presentò in tribunale per una testimonianza dichiarando che Leo non vuole più vedermi, che vuole suo padre morto e che vuole ucciderlo. Il giudice non ha voluto ammettere come prova l’esito delle visite precedenti e alla fine dell’udienza ha stabilito che il padre non può vedere il figlio perché può essere molto dannoso per il bambino. Il mio avvocato si indignò per quanto stava succedendo e mi promise, “Farò tutto è in mio potere per vostro figlio. Questo è totalmente sbagliato. Hai appena viaggiato fino all’altra parte del mondo per vedere tuo figlio e ti mandano indietro senza darti una possibilità?” La Corte d’Appello accolse la mia richiesta e, nel settembre 2011, sono tornato a Los Angeles per essere presente all’udienza. Dall’atteggiamento dei giudici abbiamo capito che la loro intenzione era quella di mandare finalmente a casa Leo. Hanno finalmente visto quello che sua madre ha fatto, e nel dicembre 2011 hanno stabilito che, “Leo deve tornare nel suo paese di residenza, con o senza la madre, entro un termine ragionevole, ma non superiore a 60 giorni.” Ero fuori di testa per la felicità, ma l’incubo ancora non era finito. La madre di Leo chiese alla Corte d’Appello il riesame del caso, ma il giudice, dopo una settimana respinse la richiesta. Dopo 10 giorni abbiamo ricevuto un documento in cui chiedeva alla Corte Suprema di rivedere il caso, con il supporto di qualche lettera di una fondazione creata da Angelina Jolie… Abbiamo iniziato ad avere paura, ma dopo 20 giorni la Corte Suprema ha stabilito che la sua richiesta è stata respinta. Ma la madre si presentò con ulteriori schifezze per cercare di impedire il ritorno di Leo. Fortunatamente il giudice ha stabilito che lei deve fare quello che la corte d’appello ha detto. Leo è tornato in Italia la prima settimana di giugno. Ma lei ancora non si è arresa, e decide di coinvolgere il popolo americano e le loro emozioni, aprendo siti web e FaceBook dal nome, “Salviamo Leo dal ritorno da un padre violento!” Ha anche avuto uno spazio sulla CNN. Hanno modificato la mia intervista per fare sembrare me un mostro violento e lei come povera vittima. Incredibile. Dopo aver passato tre livelli di giudizio ed aver vinto sono ancora considerato un mostro. Tuttavia neanche il tribunale dell’opinione pubblica ha potuto fermare il ritorno di Leo. Una settimana dopo il ritorno, il bambino che, secondo loro, non sopportava più il padre, giocava con lui abbracciandolo e baciandolo. Due anni di alienazione scomparsi in una settimana con amore paziente e insostituibile che solo un padre può dare ad un bambino. Quindi quello che voglio suggerire a ogni genitori che purtroppo sta vivendo lo stesso incubo è: non mollare mai per il vostro bambino e non smettere mai di LOTTARE PER LUI! - Maurizio Rigamonti, il padre di LEO.» La storia è tradotta dall’Herald de Paris (17 giugno 2012). Occorre che la giustizia capisca che occorre proteggere i bambini da una nuova terribile forma di abuso ammantata di legalità: le false accuse, anche di pedofilia, finalizzate ad impossessarsi di bambini ottenendone l’affido esclusivo ed alienandoli contro il genitore falsamente accusato.
«È mia moglie che ha sottratto Leonardo, voglio vedere se archiviano anche me» Racconta Maurizio Rigamonti in un video di Stefano Cacciani e Marcello Volta - Corriere Tv.
«Innanzi tutto qual è il motivo per il quale lei ha compiuto questo gesto? Ci ha detto che era…è un motivo dimostrativo in un certo senso.»
«Assolutamente sì. Io voglio portare alla luce questa realtà che è il mondo della sottrazione internazionale di minori che viene perpetrato da uno dei due genitori e non viene mai sanzionato. Se ci fossero delle condanne severe per questo tipo di reato io penso che la percentuale diminuirebbe.»
«Perché la sua ricostruzione dei fatti è che suo figlio sia stato portato via da sua moglie in un tempo precedente, negli anni passati, e quindi lei per reagire a questa situazione lo ha portato via con sé in questi 13 giorni.»
«No, assolutamente. Io…era l’unica occasione che avevo con mio figlio per poter stare 11 giorni, che non è mai successo da quando è nato che io potessi stare 11 giorni con mio figlio da solo ed è stata una bellissima esperienza e quello che ho fatto per dimostrare che se è stata archiviata una sottrazione internazionale di contro una sentenza americana che confermavano il fatto che mio figlio è stato sottratto dalla residenza abituale senza il mio consenso legalmente non è un reato e viene archiviato. Nel mio caso voglio vedere se 11 giorni, invece, sono un reato il fatto che io sono stato in vacanza 11 giorni con mio figlio. Mia moglie mi ha denunciato per sottrazione di minore e vediamo se il tribunale decide di condannarmi o di archiviare come hanno fatto con la mia ex moglie.»
«Perché i fatti, secondo la sua lettura, la situazione si ribalta. Ovvero è stata sua moglie a sottrarre suo figlio.»
«Certo ci sono tre sentenze americane. Certo si è espressa in mio favore anche la Corte Suprema della California e voglio dire sono sempre dei giudici che decidono. Più di così non so cosa aggiungere.»
«Dove siete stati in questo periodo passato assieme.»
«Allora, inizialmente ci siamo fermati a Monte Carlo, in quanto mio figlio ama moltissimo l’ultimo film di Madacascar. La prima parte si svolge proprio davanti al Casinò ed all’interno del Casinò. Abbiamo cercato addirittura di entrare, ma con mio figlio non era possibile. Ma il fatto è stata una sorpresa per lui che ci fermassimo a Monte Carlo. E io glielo detto quando eravamo vicini a Monte Carlo. E’ stata una bellissima sorpresa per Leonardo. Dopodichè ci siamo fermati a Cannes per mangiare una pizza e dormito lì e poi ci siamo spostati in Spagna fino a dove ci siam fermati fino al nostro ritorno.»
«Anche secondo quelle che sono state le parole del dirigente della squadra mobile, il dr Tassi, si è parlato quasi come una vacanza rispetto a questo periodo passato assieme.»
«Assolutamente sì, tanto più che Leonardo stava benissimo e non voleva neanche tornare, perché si è trovato benissimo. Eravamo in un posto fantastico. Ed il fatto che eravamo insieme era per lui anche una liberazione, perché non era più condizionato dalle brutte cose su suo padre come avete notato dal video su You tube che ho postato. Mio figlio si esprime chiaramente dicendo che ama suo padre, ecco. Al contrario di quello che era stato detto nelle varie relazioni fornite da psichiatri e psicologi delegati dal tribunale di Parma.»
«Facendo un passo indietro, se vuole, la vicenda comincia, appunto, in America con le denunce che sua moglie ha sporto nei suoi confronti.»
«Sì, assolutamente, sì. Mia moglie andando in America mi ha denunciato per maltrattamenti e violenze domestiche e dopo di che io ho fatto la richiesta del rientro di mio figlio in Italia, mia moglie ha attuato la strategia degli abusi sessuali, che è una strategia che attuano tutti i genitori che decidono di sottrarre un figlio in un altro paese.»
«E’ un’accusa decisamente brutta. Su questo si sente di spendere qualche parola.»
«Assolutamente, sì. Io sono stato, addirittura, accusato di tentato omicidio per aver ingaggiato un killer per uccidere mia moglie e mio figlio. Il tribunale di Los Angeles ha valutato la situazione ed ha pensato che le accuse che mi erano state rivolte erano false ed ha deciso per il rientro di mio figlio. La Corte d’Appello ha deciso per il rientro in Italia nel 2012.»
«Lei cosa spera adesso dopo che questa vicenda che ha avuto un grande risalto anche a livello nazionale. Possa cambiare il destino dell’affidamento di suo figlio.»
«Io penso proprio di no. Io penso di riuscire ad ottenere l’affidamento di mio figlio. Di poter vivere sereno con lui per il resto della nostra vita. Fino adesso Leonardo è stato tormentato da Psicologi e Psichiatri per 4 anni ed è stato investigato anche con domande direi non molto piacevoli inerenti agli abusi che mi erano stati rivolti. Per cui io spero proprio che le cose cambino in modo positivo. Il gesto che ho fatto è stato proprio per questo, per sensibilizzare l’opinione pubblica e per far emergere la verità che è stata nascosta per ormai troppo tempo.»
«E’ una battaglia che comincia adesso ed è destinata a proseguire. Si sa i tempi di legge che la giustizia fa il loro corso.»
«Spero che facci il suo lavoro e che venga fatte le indagini e che le persone responsabili di reati commessi nei confronti di mio figlio ed anche nei miei confronti emergano e la verità emerga e queste persone paghino per le loro responsabilità.»
LA SOLITA TV SPAZZATURA: CONTESI I FIGLI DAI GENITORI; CONTESI I PARENTI DALLE TV. Quest'oggi 15 gennaio 2014 nel corso della diretta di Pomeriggio 5, Barbara D'Urso si è trovata di fronte ad un evento alquanto spiacevole che l'ha lasciata senza parole (o quasi!). La puntata di Pomeriggio 5 era iniziata da poco e la conduttrice credeva di aver messo a segno un ennesimo dei suoi "scoop", con tanto di "esclusiva" in bella vista, avendo in collegamento Annibale Rigamonti, padre dell'uomo in fuga con il proprio figlio di soli 8 anni da diversi giorni. Dopo aver mandato in onda un servizio che riassume un po' quanto è accaduto, la D'Urso era pronta per intervistare l'uomo. Ecco però che accade qualcosa di strano. Ad un certo punto, infatti, l'uomo si alza dalla sua postazione e va via. La D'Urso, un po' meravigliata in studio, chiede alla sua inviata cosa sia successo. In un primo momento l'inviata non vorrebbe dire la verità alla conduttrice, poi però è costretta a farlo. L'uomo è stato "prelevato" dalla concorrenza. E infatti, poco dopi minuti Annibale appare in collegamento alla trasmissione di Rai 1, La vita in diretta condotta da Paola Perego e Franco Di Mare. La reazione della D'Urso, che non nutre proprio una certa simpatia per Paola Perego non poteva mancare, ed ecco che la conduttrice bislacca di Canale 5, ha chiosato affermando: "Non sono civili come lo siamo noi". Al momento non si conoscono ancora quali erano gli accordi stabiliti dalle due trasmissioni con il signor. Rigamonti, per cui vi aggiorneremo nei prossimi giorni per dirvi chi aveva ragione e chi torto.
Settimana difficile per Barbara D’Urso, che nel giro di pochi giorni ha assistito impotente ad alcuni spiacevoli incidenti nel corso del suo ‘Pomeriggio 5’: dopo la bestemmia sfuggita a una misteriose voce fuori campo nel corso di un servizio dedicato all’attore spagnolo Alex Gadea, la conduttrice si è vista letteralmente soffiare sotto il naso uno tra gli ospiti più importanti della puntata di mercoledì 15 gennaio 2014. Si tratta di Annibale Rigamonti, padre di Maurizio, l’imprenditore parmense che da anni è in lotta con l’ex compagna di origini americane per l’affidamento del figlio e che nei giorni scorsi è fuggito con il bimbo di soli 8 anni: l’uomo è in collegamento con il salotto pomeridiano di Canale 5 quando all’improvviso, giusto il tempo di rimandare la linea allo studio, si alza e se ne va. E’ a questo punto che la D’Urso, interdetta, prova a chiedere alla sua inviata che cosa stia succedendo: la giornalista, visibilmente seccata, tenta di guadagnare tempo, ma incalzata dalla conduttrice è costretta ad ammettere che l'ospite è stato “prelevato di forza da altri colleghi”, come conferma anche Carlo De Filippi, l’avvocato dell’uomo, presente anche lui durante il collegamento. Il tempo impiegato dalla D’Urso a capire di che cosa si stia parlando consente giusto di afferrare il telecomando e sintonizzare il televisore su Rai1, dove alla ‘Vita in diretta’ condotta da Paola Perego e Franco Di Mare un trafelato Annibale Rigamonti sta rispondendo alle domande della padrona di casa. Negli studi di ‘Pomeriggio 5’, intanto, Carmelita è furiosa: “Quello che conta è non aver disturbato la sensibilità del nonno, io non l’ho fatto e mi va bene che ci siano state delle persone poco civili che l’hanno strappato da un posto e portato nell’altro - ha detto piccata rivolgendosi all’avvocato di Rigamonti, rimasto in postazione vicino all’inviata - Mi pare di capire che questi giornalisti facciano parte di un programma che va in diretta in questo stesso momento. Noi siamo stati sempre corretti e civili, gli altri no”. L’incidente ha sollevato una bufera di polemiche, dividendo in due il pubblico: c’è chi dà ragione alla D’Urso, accusando i “rivali” di avere agito scorrettamente strappando il nonno all’intervista e causandogli un ulteriore stress soltanto per fare ascolti, e chi invece difende la Perego e La vita in diretta, che dal canto suo ha scelto di replicare alle accuse sul blog: “Il sig. Annibale Rigamonti, papà dell’uomo in fuga da giorni con il figlio, era già in collegamento audio/video con la Vita in diretta dalle ore 15:45. Quindi ben prima dell’inizio della trasmissione concorrente. I commenti negativi si basano su informazioni errate. La Vita in Diretta sta seguendo la vicenda della famiglia Rigamonti da giorni, attenta a dare spazio a tutte le parti in campo e con l’obiettivo di mettere al primo posto l’interesse del bambino, ragion per cui abbiamo deciso di non mandare in onda il video del bimbo, esempio di esposizione mediatica di minore nella lotta tra genitori”. Cosa che invece ha fatto la D’Urso, è la critica sottintesa. In attesa di vedere se l’episodio verrà ripreso dalle due primedonne, di una cosa si può essere certi: a memoria di telespettatore, questo è il primo caso in assoluto di “furto di ospite in diretta”.
TROPPI BIMBI IN AFFIDO ALLE COMUNITA'.
Troppi bimbi in affido alle comunità. La denuncia di Brambilla, scrive Maria Silvia Sacchi su “Il Corriere della Sera”. È un tema che mi sta particolarmente a cuore. Perché parla di bambini soli, di situazioni difficili in cui i più deboli non hanno nessuno che li difenda, dove la povertà e l’ignoranza (anche di sentimenti) mettono a repentaglio il futuro di troppe persone in crescita. Ma anche se fosse uno solo a patire l’ingiusto, andrebbe denunciato ugualmente. Un ambito dove c’è anche il buon, l’ottimo, lavoro di molti che, però, viene distrutto dal cattivo lavoro di troppi. Ieri è stata Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, a presentare una lunga e dettagliata interpellanza bipartisan, di cui è prima firmataria: segnalazioni e denunce di sospetti maltrattamenti o abusi su minori, bambini ospitati in case-famiglia dalle condizioni igieniche intollerabili, allontanamenti «troppo facili» dai nuclei familiari, fiumi di denaro pubblico speso senza trasparenza. Nel documento si chiede di realizzare un censimento delle case-famiglia, di istituire un registro degli affidamenti temporanei, di monitorare le condizioni dei minori in queste comunità, di render noto il numero di inchieste penali in corso a carico di gestori o operatori di tali strutture e le relative ipotesi di reato, di disincentivare il fenomeno dei cosiddetti «allontanamenti facili» dei minori dalla famiglia d’origine. Pare assurdo che si debbano chiedere queste cose: il fatto è che non ci sono. Ma stiamo parlando di persone, di bambini! «Alla commissione – ha spiegato Brambilla – arrivano continuamente segnalazioni e denunce su allontanamenti di minori dalle famiglie, troppo spesso disposti all’esito di analisi frettolose di separazioni conflittuali o di difficoltà economiche familiari, o sulle condizioni igienico-sanitarie di alcune case famiglia o peggio ancora su casi di maltrattamenti ed abusi in quel contesto. È tempo di fare chiarezza non soltanto sulle situazioni particolari, delle quali già si occupa la magistratura, ma su tutto un sistema caratterizzato, nel complesso, da poca trasparenza e troppa discrezionalità». «Le residenze protette – osserva Brambilla – possono rappresentare una risorsa importante per la tutela del minore in difficoltà, a condizione che la sua permanenza venga gestita, contrariamente a quanto avviene i molti casi, con trasparenza e sulla base di precisi criteri». L’allontanamento del minore dalla sua famiglia dev’essere realmente l’extrema ratio. «Di per sé – ha ribadito la presidente della commissione – le condizioni di indigenza non possono impedire o ostacolare l’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. L’allontanamento è la certificazione di un fallimento dello Stato: invece di aiutare, con risorse o servizi adeguati, la famiglia e il minore che ci vive, la mano pubblica rischia di peggiorare le cose negando a un bambino il diritto di crescere tra i suoi, garantito dalle convenzioni internazionali, e creandogli un trauma probabilmente indelebile. Occorre invece – conclude – sostenere la genitorialità con programmi di supporto e dare maggiore e migliore ascolto al minore stesso». Si tratta di un tema molto rilevante. “E’ sicuramente aumentato il numero dell’affidamento a terzi, affidamento da intendersi normalmente al Comune ove i minori risiedono”, dice Anna Galizia Danovi, presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia. “Va però precisato che questa disposizione si accompagna quasi sempre al collocamento dei minori presso il genitore ritenuto dal giudice più adeguato allo scopo, fermo restando il diritto dell’altro genitore di continuare ad avere con il figlio rapporti normali. Di fatto, quindi, c’è un raddoppiamento delle competenze nella gestione del minore: al Comune spetterà di prendere in carico il nucleo familiare, supportando psicologicamente il minore e tenendo monitorata la situazione; al genitore spetterà di esercitare le facoltà genitoriali valendosi del supporto dei Servizi sociali del Comune affidatario per quanto riguarda le decisioni più significative. Quando il comportamento dell’uno o dell’altro genitore è di particolare gravità, può essere previsto l’allontanamento del figlio e il suo ricovero in Comunità”. Si tratta, dunque, precisa Galizia Danovi, di due situazioni diverse: nella prima lo scopo “è riportare i genitori all’esercizio corretto dei loro compiti”, nella seconda “il provvedimento può condurre a statuizioni ablative della potestà genitoriale (decadenza)”. Ecco quanto scrivevamo solo poche settimane fa su Sette. “Nei giorni scorsi la ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri ha preannunciato la volontà di costituire una commissione per valutare se la legge sulle adozioni e sull’affidamento abbia bisogno o meno di un aggiornamento. Basta aprire un qualunque blog di discussione per capire quanto, su questo tema, si intreccino un mare di sentimenti, di amore, delusione, incertezza, paura, speranza, rabbia, frustrazione, fratellanza e sorellanza, disponibilità, disorientamento, furbizia, di giustizia e di senso di ingiustizia per non avere le risorse economiche richieste…SITUAZIONE CRITICA. Dopo aver fatto i conti (non facili) con se stessi, bisogna confrontarsi infatti con un contesto dove la prima sfida da vincere non è capire se si potrà essere dei buoni genitori adottivi o se si ha il carattere giusto per essere un genitore affidatario (sono due situazioni molto differenti), ma trovare l’iter corretto da seguire. Nonostante la buona volontà di molti, esiste una specie di palude dentro la quale molte coppie e molti bambini/e e ragazzi/e finiscono per cadere. Va detto che questo succede spesso in quei settori dove è difficile dare una voce comune a interessi di singoli, e accade in modo maggiore dove gli interessi da difendere sono quelli dei più deboli, come i minori e gli anziani. Come 27esimaOra ci stiamo interrogando su come portare più in evidenza queste voci, soprattutto oggi che i tagli alla spesa sociale rendono critica la situazione. La legge dice che un minore ha «il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia». Per chi, però, sia privo di un ambiente familiare idoneo ha previsto la possibilità che sia accolto da una famiglia (anche un singolo) o da una comunità. Sono quasi 30mila i minori “temporaneamente” fuori dalla famiglia di origine, secondo l’ultima indagine dell’Istituto degli innocenti di Firenze, nel 37% dei casi per inadeguatezza genitoriale. Pochissimi, però, sono in stato di abbandono. L’affido a famiglie è molto aumentato negli ultimi 10 anni per i minori italiani, mentre gli stranieri, nonostante siano cresciuti di numero, sono più facilmente accolti dalle comunità perché solitamente più grandi (fino ai sei anni nella stragrande maggioranza dei casi si ricorre all’affido, dopo sempre meno fino ad arrivare al 18% tra 14 e 17 anni). Ma alcuni dati devono far riflettere: quasi il 50% degli affidi dura più dei due anni massimi previsti (rinnovabili dal tribunale) rispetto al 10% di chi è ospitato in comunità; chi è in affido, inoltre, incontra meno spesso di chi è in comunità i propri genitori. «Spesso sono delle adozioni di fatto», dice Enrico Moretti, lo statistico che si è occupato dell’indagine, «sicuramente questo è uno dei temi più sentiti e su cui occorre ragionare». È venuto il momento di iniziare a parlarne.
PARLIAMO DI ABUSI VERI E FALSI: IL BUSINESS.
15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. Per dare giustizia e un senso al suo sacrificio e affinché non vi siano più altre “Carmele”, nasce l’associazione in suo onore e memoria “IoSòCarmela”, come la frase che lei stessa ripeteva sempre e scriveva dappertutto per urlare a tutti il suo diritto di esistere e di essere rispettata.
Delle lettere scritte si è perso il conto. Soltanto in quest’ultimo mese al ministro di Grazia e Giustizia e al ministro delle Pari Opportunità ne saranno state inviate cinque o sei. Risposte? Nessuna. Certezze che siano state almeno aperte? Nessuna. E così Alfonso Frassanito ha deciso che era il momento di fare qualcosa di più per dare voci a tutti quelli come lui: genitori di bambini o adolescenti che hanno subito un abuso, che forse conoscono anche il nome del colpevole, ma hanno capito che non otterranno mai giustizia.
Per la prima volta lui - e tanti altri come lui - saranno sotto il ministero di Grazia e Giustizia a urlare quello che era scritto nelle lettere. «Perché nessuno stavolta possa dire di non aver sentito», spiega Alfonso. Sarà una catena umana di genitori, arriveranno da tutt’Italia, qualcuno ogni giorno per mantenere viva l’attenzione su quello che denunciano essere un vero e proprio business: i servizi sociali, le case-famiglia, gli istituti di accoglienza. Più o meno negli istituti sono collocati circa 30.000 minori per vari motivi: separazioni, abbandono, disagio dei figli e incapacità dei genitori di occuparsene secondo le perizie il Tribunale dei Minori. Per ciascun minore il Comune di appartenenza versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa mille milioni di euro che rappresentano un giro d’affari molto interessante. «E che fanno sì che la giustizia italiana a volte provochi più danni degli stessi criminali», ha provato a spiegare Alfonso Frassanito nella sua lettera al ministro Alfano.
La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.
Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.
Carmela aveva manifestato in vario modo la sua disperazione, ma per tutta risposta era stata classificata come “soggetto con problematiche psichiatriche”. E questi stessi magistrati, psichiatri che hanno deciso per Carmela, contro Carmela, quando è morta, si sono detti «sorpresi».
Drogata con anfetamine e violentata. In diverse occasioni e in luoghi diversi, di lei, come poi denuncerà al pm Vincenzo Petrocelli, abusano in otto. Sette minorenni, che hanno poco meno di 18 anni, tutti identificati e indagati per violenza sessuale, e un maggiorenne. È questo l' episodio che innesca la procedura per l' affidamento della ragazza al centro di accoglienza «L' Aurora» di Lecce. Dal quale, dopo circa tre mesi, Carmela verrà trasferita, per andare nel centro «Il Sipario», a Gravina di Puglia, proprio quello che ospitava Francesco e Salvatore, i fratellini scomparsi di Gravina. Carmela, prima delle violenze subìte in quei quattro giorni, aveva raccontato di un interessamento nei suoi confronti da parte di un giovane sottufficiale della Marina in servizio a Taranto, sul quale però la polizia non aveva trovato riscontri per l' avvio di un procedimento penale. Carmela, dicevano, spesso inventa le cose e non ha la completa padronanza di sé. Poi l' allontanamento da casa e l' intervento di assistenti sociali e medici e giudici. Da qui alla perizia psichiatrica il passo non è stato lungo. E ancora più breve è stato il cammino verso gli abusi sessuali, tanto ormai Carmela era per tutti «quella sbroccata», «quella che ci stava». Chi le avrebbe mai creduto? Il padre di Carmela adesso dice che la colpa è di quei medici e di quell'istituto che somministravano alla ragazza pesanti dosi di psicofarmaci per tenerla tranquilla.
Ma sulle scrivanie dei ministri dovrebbe essere arrivata anche la lettera di Luigi Bitonto, padre dei quattro fratellini che a gennaio del 2008 denunciarono con un video inviato da loro stessi su You Tube gli abusi subiti. Dopo tutti questi mesi gli abusi sono stati accertati anche dalle perizie ma i fratellini sono stati allontanati dal padre, unica figura familiare di riferimento, e ora vivono in una casa-famiglia. E a Luigi Bitonto non è rimasto che prendere carta e penna e denunciare «le tragiche lungaggini, che producono confusione, con Tribunali che seguono contemporaneamente strade diverse, perizie che si accavallano e l'una sconfessa l'altra e alla fine chi subisce sono appunto le vittime. E i criminali se ne vanno in giro in tutta tranquillità, casomai continuando a delinquere».
D'altro canto c’è anche il risvolto della medaglia.
La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva due condanne per molestie sessuali su bambini che frequentavano un asilo a La Loggia. Per Valerio Apolloni, all'epoca dei fatti presidente dell'ente di gestione della struttura, e Vanda Ballario, direttrice, la pena è di due anni e dieci mesi di reclusione, in parte già scontati per effetto di un periodo di custodia cautelare. I due educatori hanno sempre respinto ogni accusa. Anzi, Valerio Apolloni è il figlio di Vittorio Apolloni, presidente dell'Associazione Falsi Abusi, che da anni si batte (dai casi esplosi a Brescia fino a quelli di Rignano) per dimostrare come la stragrande maggioranza delle denunce sia del tutto inventata dai bambini.
PARLIAMO DEI RAPIMENTI DI STATO. RAPITI DALLA GIUSTIZIA.
I bambini “rapiti” alla famiglia da giudici e psicologi.
Dossier di “Panorama”
Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. “Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me” dice Barbara.
Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: “Questa volta, almeno, combatteremo insieme” le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni. Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza.
Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini.
Un numero enorme, che costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile, andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e libri-verità parlano di “bambini rubati dalla giustizia”. Raccontano di assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci. Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette.
A scuola, una maestra ha trovato un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità. Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri: Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse.
E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è “falsa testimonianza “. L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio.
Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli, Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali: un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia. Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben dieci dopo il suo “rapimento legalizzato “. Uno sbaglio tragico e clamoroso.
Tanto che la Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un “buco esistenziale” durato un decennio.
Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli. È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: “Tutti” accusa “denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa”.
Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori. Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. “Questi sono veri sequestri di Stato” prosegue concitato. E attacca: “Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno”.
Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente.
Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa.
C’è un altro dato che inquieta: quasi il 77 per cento dei minori viene allontanato per “metodi educativi non idonei” e per l’”impossibilità di seguire i figli”. “Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono ” denuncia Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. “Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie” considera Vignale. Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli.
Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese.
Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana.
I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede “il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture “. “Vogliono la mia busta paga” spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. “Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita”. Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto.
Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto “una madre esasperata “. Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. “Da quel momento è cominciato l’inferno” racconta Causin. “Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale”. Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. “Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro” racconta la signora. “Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande”. La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile.
In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido.
Il tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita. L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte. Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro, Presunto colpevole (editore Chiarelettere).
“I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno” sostiene. “Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone. Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli”. Accuse cui ribatte Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’Asnas, storica associazione di categoria: “C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini.
La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?”. Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, “come in tutte le professioni”: “Ma noi siamo dipendenti pubblici” aggiunge. “Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze”.
Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza: Melita Cavallo.
Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata, Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e “consiglia” al collega il pensionamento. “La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga” dice la presidente. “Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso. Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione”. Cavallo insiste, parla di “assistenzialismo spinto”: “Si spendono un sacco di soldi” continua. “Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima”. Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: “Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. Perché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti“. O, al contrario, troppo interventisti.
La Cassazione ha appena confermato l’”ammonimento” già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: “L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici “.
Insomma, quell’allontanamento è stato “un provvedimento abnorme “, per la Cassazione.
Cavallo non commenta, ma aggiunge: “Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi“. Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. “Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina” racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con “una condotta criminosa”, abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme.
Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. “Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima ” spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. “Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico”.
Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una “comunità protetta” costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia.
Anche per questo motivo il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. “Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori” dice Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare. “La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile”.
Un’utopia, appunto. “Il problema è che sono pochi i genitori disponibili” dice il pediatra veronese Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: “Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due”. Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé.
“E bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente” chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente.
Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata “provvisoriamente ” a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni.
Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. “Le hanno fatto il lavaggio del cervello ” accusa. La donna ha la sofferenza stampata sul volto. “L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla“.
Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso… di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: “La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia” ha assicurato. “Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali”. Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia.
Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.
Angela ha 19 anni e due genitori che adora. Ricambiata. Vivono sotto lo stesso tetto, in una bella villetta gialla alle porte di Milano. Angela vuole aprire un negozio di abbigliamento, guarda i programmi di Maria De Filippi e non le dispiacerebbe sedersi nel suo salotto televisivo.
I genitori, Salvatore, piccolo imprenditore edile calabrese, e Raffaella la coccolano con gli occhi e le hanno fatto fare un calendario (castissimo) che è appeso in sala. Ma questa famiglia nasconde un segreto. Quando aprono le loro carte di identità scopri che i tre hanno cognomi diversi. È la cicatrice lasciata da un’odissea durata oltre 12 anni, dal maggio 1994 al dicembre 2006. Perché la burocrazia in Italia va più lenta della ragione e, persino, del buon senso.
«Lo Stato mi ha rubato l’infanzia e l’adolescenza. E ora non mi vuole restituire neppure il mio vecchio cognome» si lamenta Angela. Nel 1995 è stata «rapita» da un magistrato zelante che ha ritenuto di salvarla dagli abusi del padre. Peccato che 6 anni dopo la Cassazione abbia sentenziato che quelle violenze non sono mai avvenute. Ma ormai la vita della famiglia L. era distrutta. Centoventisei mesi dopo Angela è tornata a casa. E ora, dopo essersi goduta un po’ di serenità, ha accettato di raccontare la sua storia.
L’inferno inizia quando una ragazza di 14 anni, Antonella M., denuncia per abusi il fratello. La famiglia è scettica e allora lei, particolarmente fragile (finirà in un ospedale psichiatrico), chiama in causa altri parenti, persino uno zio d’America che nei giorni dei presunti incontri risulterà oltreoceano. Racconta di orchi e di orge.
Il pubblico ministero Pietro Forno annota e aggiunge nomi sul registro degli indagati. Tra le persone che dubitano della versione di Antonella c’è suo cugino, Salvatore L., che finisce sul banco degli imputati. Avrebbe violentato sia Antonella sia sua figlia Angela. L’accusa crede alla giovane, anche se è ancora vergine.
E così, il 24 novembre 1995, due carabinieri, come nella favola di Pinocchio, insieme con un’assistente sociale, prelevano Angela a scuola. «Devi venire con noi» le dicono. Quindi la portano via dal padre, ma anche dalla madre. Cominciano a questo punto le vite parallele di Angela e della sua famiglia, che non si incroceranno più, sino al 2005.
Dei primi giorni di separazione la ragazza, oggi, ricorda la vetrata nel centro di assistenza familiare, un parente dall’altra parte, lei che cerca di raggiungerlo. E poi tante persone, forse dieci, che la placcano, la riportano dentro. Ricorda le notti passate a piangere, le punizioni, le serate con la faccia rivolta all’angolo della camerata. «Non dimentico gli schiaffoni della signora Virgilia. Per castigarci ci faceva fare 100 piegamenti sulle gambe». A bambini di 6-7 anni… «Là dentro mi dicevano che la mia famiglia mi aveva abbandonata, che mi dovevo rassegnare».
Un giorno Angela con cinque compagne organizza un’evasione, ma sei bambine che girano da sole per la città non passano inosservate. E rifiniscono dentro.
Durante le indagini la bambina può vedere solo la cugina Antonella, testimone come lei. «Gli operatori del centro mi assicuravano che era l’unica che mi voleva bene». I giudici d’appello, 4 anni dopo, annotano che Angela potrebbe essere stata «influenzata» da quegli incontri. La ragazzina, nelle stesse settimane, subisce molte altre pressioni.
«Ero piccola, ma ricordo che l’assistente sociale mi diceva che se confermavo certe cose sul papà avrei rivisto la mamma. Una volta sbottai: “Così non vale”». La verità è che Angela non conosce il significato della parola abuso, si limita a ripetere che il padre l’ha trattata male, per poter tornare tra le braccia materne.
Secondo l’accusa, le prove sarebbero almeno due: una testimonianza videoregistrata che, durante il processo, va perduta e i fantasmi disegnati dalla bambina. Per gli strizzacervelli, un simbolo fallico.
I periti del giudice nel processo d’appello sono durissimi: gli schizzi fatti dopo gli incontri con la psicologa non «rappresentano in alcun modo una spontanea e libera espressione figurativa». Una poliziotta appunta: «La bambina vuole disegnare tante bambole e la verbalizzante la invita a smettere. La verbalizzante le chiede di disegnare i letti… le bambole non mi interessano, mi interessano i letti e i fantasmi».
Nel 1997 la corte d’appello infine assolve Salvatore, sottolineando gli errori di consulenti e inquirenti. Sbagli che hanno trasformato in un incubo la vita di una famiglia unita.
Salvatore è quello a cui è toccata l’esperienza peggiore: 2 anni e 4 mesi in carcere, nel girone degli infami, accusato di incesto e pedofilia. «Stavo in una cella con tre albanesi, un marocchino e moltissimi scarafaggi» ricorda. Un giorno prende carta e penna e scrive all’avvocato Guido Bomparola: «Oltre all’accusa, io ho il pensiero quotidiano di mia figlia piccola allontanata dalla mamma (…), di un ragazzo che si trova tutti i giorni a convivere con l’idea di un padre che sta a San Vittore. (…) Non sai quante volte ho la tentazione di farla finita. Sembra assurdo, ma se ti uccidi ti ascoltano. (…) Allora a tutti quanti viene il dubbio che il mostro poteva essere innocente».
Ma Salvatore resiste. Organizza una piccola cooperativa per fare lo spesino per i detenuti più poveri e, da bravo muratore, ristruttura tutte le celle del piano e nella sua costruisce una nicchia in cui mette una madonnina luminosa.
La moglie non sta meglio: «Il momento più brutto della mia vita è stato quando sono andata alla fermata dello scuolabus e non ho trovato mia figlia». I primi mesi, per la vergogna e l’assurdità della vicenda, non esce di casa, quindi tira fuori la rabbia che ha dentro e reagisce: «Avevo un figlio da crescere, ho iniziato a lavorare nella tintoria di mia sorella».
Non sono facili neppure le 40 udienze dei processi, con il marito che arriva in manette: «Lo potevo incontrare solo lì. In aula ho portato anche Francesco, che voleva vedere suo padre». Nel 2001 c’è l’assoluzione definitiva, ma il tribunale per i minorenni, sordo a tutto, conferma l’adottabilità di Angela, «per incapacità genitoriale» di Raffaella e Salvatore.
La ragazza, nel frattempo, è stata affidata a una famiglia di ricchi imprenditori dell’hinterland milanese.
anno altri tre figli, due adottivi e una naturale, la più piccola. Angela non conserva un buon ricordo di quegli anni, forse per la severità dei nuovi genitori: «Litigavamo spesso. Non gli assomigliavo e mi imponevano regole ferree: potevo uscire solo la domenica pomeriggio dalle 14.30 alle 17.30, gli altri giorni sbrigavo spesso le faccende domestiche, stiravo per ore».
Ad Angela manca l’infanzia rubata e, quando può, gioca di nascosto con le bambole della sorella più piccola («A me regalavano solo gioielli che finivano in cassaforte»). In famiglia le fanno pesare il confronto con quella che il padre chiama «figlia figlia». A scuola va male, anche se tra i banchi è l’unico momento in cui si sente libera: «Ci andavo con il sorriso e quando tornavo a casa mi deprimevo».
Angela passa ore a scrivere sul diario pensieri sulla vecchia famiglia: «I miei genitori adottivi mi dicevano che quelli naturali mi avevano abbandonato, poi che mia madre era morta di parto. Però io mi ricordavo perfettamente i suoi riccioli». Alle medie impara il significato della parola abuso e si convince di non averlo mai subito: «Con i grandi non parlavo di queste cose per non finire di nuovo all’orfanotrofio».
Tace, sino a quando, dopo anni di ricerche, Salvatore e Raffaella la ritrovano su una spiaggia di Alassio, dove è in vacanza: «Era il 31 luglio 2005 e la riconobbi subito» si illumina Salvatore. Con la moglie Raffaella per 8 mesi si accontenta di seguirla da lontano, di vederla uscire dalla messa. Poi, nel marzo 2006, il fratello Francesco le consegna una lettera in cui le racconta la verità: che loro non l’avevano mai abbandonata e che anzi la cercavano da anni.
Angela decide di tornare dai suoi. Quando bussa la prima volta, dopo oltre 10 anni, è sera. Raffaella spalanca la porta e quasi sviene. Madre e figlia parlano tutta la notte, piangono, ridono.
A questo punto lo Stato mostra, per l’ultima volta, il volto più duro. «Poco prima di tornare a casa definitivamente, un pm ci ha provato ancora. Mi ha detto che se fuggivo di nuovo dalla mia famiglia adottiva mi avrebbero rispedito in un istituto» ricorda Angela. «Io gli ho risposto che potevano mandarmi dove volevano, ma che mio padre non aveva mai abusato di me e che, alla fine, sarei tornata dai miei genitori naturali». I giudici si arrendono.
Angela torna a casa, per sempre. Il 24 dicembre 2006 festeggia il diciottesimo compleanno in un ristorante con 115 invitati. In paese sparano i fuochi d’artificio, i regali si accumulano all’ingresso come un bottino di guerra. Una cameriera guarda stupita e papà Salvatore le sussurra: «Questo non è un compleanno, è un miracolo». Ora manca l’ultimo prodigio.
«Rivoglio il mio cognome» reclama la fu Angela L., che un giudice ha battezzato Angela C.
Un tavolo rotondo di legno al centro del soggiorno di una casa popolare di Quarto Oggiaro, periferia di Milano. Comincia qui, una sera di aprile del 2005, la storia di Pietro Guccio, a cui la giustizia ha portato via tre figli.
Uno scatto d’ira: ha saputo che la sua primogenita, Vanessa, 14 anni, marina la scuola. Un fragoroso pugno sul tavolo apparecchiato per la cena, le stoviglie che cadono a terra, tutti ammutoliti per l’inattesa ira. Lui che va a fumare una sigaretta sul balcone. E poi torna: si siede sul divano, comincia a parlare con quella ragazza in crisi adolescenziale. Un momento di rabbia che gli ha rovinato l’esistenza.
Nella stanza accanto c’è una maestra di sostegno. Viene due volte la settimana per aiutare l’altro figlio, Mirko, di 8 anni, a fare i compiti, avrebbe qualche difficoltà a scuola. L’insegnante riferisce l’accaduto ai servizi sociali: già seguono la famiglia, anche con sostegni economici.
Due giorni più tardi la moglie di Guccio, Tina Riccombeni, viene convocata in consultorio: conferma l’accaduto. Un mese dopo i carabinieri bussano alla porta del loro appartamento: prelevano i tre figli, compresa Sharon, di 4 anni, e li portano in una comunità di Milano assieme alla madre. Due mesi dopo la donna torna a casa dal marito, i due bambini e la ragazzina vengono spediti in un altro centro del Vercellese. Da quel momento inizia una lenta agonia, scandita da carte giudiziarie e incontri mensili di un’ora, sempre davanti agli assistenti sociali. Un pugno che ha sfasciato qualche piatto e un’intera famiglia.
Quattro anni dopo, i Guccio sono seduti attorno allo stesso tavolo del soggiorno. Hanno facce rose dalla sofferenza. Lo scorso Natale, ormai diciottenne, Vanessa è tornata a casa. Parla poco, ha i capelli biondi fermati da un cerchietto bianco, le labbra imbronciate. “Ho buttato la mia giovinezza. Lontano dai miei genitori, senza nessun motivo”.
Ricorda come fosse ieri la sera in cui cominciò tutto: “Non ero stata a scuola. E quando mio fratello mi ha chiesto se sarei andata il giorno dopo, io ho fatto la sbruffona: “Non so se me la sento” è stata la mia risposta. Mio padre l’ha sentito e ha dato quel pugno. Ma ha sbagliato, meritavo uno schiaffo. Invece non ci ha mai sfiorati”.
Tina Riccombeni, 44 anni, sposata con Guccio dal 1988, non si dà pace. È vestita di nero, fuma sigarette senza sosta. Da quando le sono stati tolti i figli ha avuto tre infarti. “Mi hanno convocata al consultorio chiedendomi se mio marito era un violento. Gli ho detto che c’era un po’ di tensione a casa. Mai però avrei pensato di finire in questo incubo”.
Il 27 aprile 2005 il tribunale per i minorenni di Milano decide l’affidamento dei tre bambini ai servizi sociali. I giudici scrivono che la situazione “è andata peggiorando negli ultimi mesi”, c’è un progressivo “disinvestimento di Vanessa nella scuola” e “scarsa reattività in famiglia “. Anche Mirko è peggiorato negli studi, parla poco. “Va bene” scandisce Vanessa mentre continua a toccarsi i braccialetti colorati sul polso destro.
“Non ero una cima a scuola. E allora? Non avevo voglia di studiare. Per questo mi hanno rinchiuso in un istituto?”. In realtà, la decisione del tribunale si fonda pure su un altro assunto: le presunte violenze di Guccio sulla moglie e i figli.
L’omone, emigrato da un paesino dell’entroterra siciliano da ragazzo, comincia a sfogliare nervosamente le carte raccolte in questi cinque anni di calvario: sentenze, ricorsi, pareri degli assistenti sociali.
“Da nessuna parte si fa riferimento a una sola volta in cui ho maltrattato i bambini. Non c’è una dichiarazione o un’accusa. Solo cose generiche e mai provate. La verità è che siamo dei poveracci, per questo dobbiamo solo subire” dice Guccio, che ora lavora come magazziniere. L’uomo è incensurato: mai un problema con la giustizia. A suo carico non risultano indagini né denunce. Il tribunale si ripronuncia il 22 ottobre 2007.
E riconferma la decisione iniziale. Ai genitori è imputato scarso “senso critico” e vaghe carenze educative. I giudici aggiungono: “Sono emersi ulteriori elementi di preoccupazione in ordine agli agiti violenti del padre”. Vanessa commenta: “Nessuno, mentre ero in comunità, mi ha mai chiesto niente sui comportamenti di mio padre”.
La ragazza si rabbuia. L’8 dicembre 2008 è ritornata a casa. Racconta il periodo passato lontano dalla famiglia. “Piangevo e scrivevo, per sfogarmi. Ho perso gli amici. E adesso pure i miei fratelli, che vivono ancora lì”. Sharon e Mirko sono rimasti nel centro del Vercellese che li ospita. Il padre racconta che il figlio, ogni tanto, cerca di telefonargli di nascosto. Mentre qualche tempo fa, quando hanno trovato la più piccola sul tetto, lei ha spiegato: “Volevo scappare per raggiungere papà”.
Sottratti a genitori “indegni ” da quattro anni. Ma allora perché non sono stati dati in adozione a un’altra famiglia? Che senso ha farli crescere da soli? Il magazziniere spiega: “Sono stati quelli dei servizi sociali a dirmelo. Per mantenere un bambino in comunità si spendono centinaia di euro al giorno. I miei figli sono già costati allo Stato 2 milioni di euro”.
L’avvocato Claudio Defilippi, che assiste la famiglia, ora ha fatto ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “La storia dei Guccio è un caso inspiegabile, in cui sono stati accumulati errori e ritardi clamorosi” accusa. L’ultima stranezza è una relazione di due pagine firmata dai servizi sociali di Milano, datata 6 aprile 2009. Si legge: i due bambini vogliono “fare rientro a casa” e i genitori “hanno costantemente espresso questo desiderio”.
L’esito degli incontri è “positivo”, le visite a domicilio sono “soddisfacenti”. Si consiglia dunque “un graduale rientro in famiglia”, preludio a un ritorno definitivo “entro il mese di settembre” 2009. Il giudice risponde qualche giorno dopo: chiede di rallentare gli incontri e annuncia l’apertura di un’istruttoria.
Come se di tempo non ne fosse già passato abbastanza.
L’ODISSEA GUCCIO: NON ANCORA FINITA
3 aprile 2005 - Durante una discussione con la figlia, Pietro Guccio, 48 anni, sbatte un pugno sul tavolo.
Nella stanza accanto c’è una maestra di sostegno che aiuta il figlio per i compiti. L’episodio viene riferito ai servizi sociali.
27 aprile 2005 - Il Tribunale per i minorenni di Milano dispone l’affidamento dei tre figli di Guccio al Comune di Milano. Il padre sarebbe responsabile di “agiti violenti”.
11 maggio 2005 - I carabinieri prelevano da casa i tre bambini: Vanessa (14 anni), Mirko (8 anni) e Sharon (4 anni). Vengono portati in una comunità per minorenni di Milano insieme con la madre, Tina Riccombeni.
24 luglio 2005 - Riccombeni torna a casa dal marito. I figli vengono trasferiti in un’altra comunità in Piemonte.
22 ottobre 2007 - Il tribunale conferma l’affido. Madre e padre avrebbero scarso “senso critico”.
8 dicembre 2008 - Vanessa, che ha compiuto 18 anni, esce dal centro. Torna a vivere a casa dei genitori.
Le pressioni fatte dagli psicologi, le violenze subite in comunità, lo strazio per l’allontanamento da casa. I due fratellini di Basiglio, sottratti a marzo del 2008 ai genitori per un disegno a sfondo sessuale erroneamente attribuito alla bambina, raccontano la loro storia in un’intervista esclusiva a Panorama, in edicola da venerdì 13 novembre.
“Quei due mesi in comunità sono stati un incubo” ricorda il fratello, di 14 anni. “Una volta un ragazzo straniero mi ha puntato il coltello in faccia. Gli educatori hanno tentato di dividerci. Lui urlava che mi voleva ammazzare”. Sua sorella, 10 anni, racconta a Panorama: “Senza i miei genitori sono stata malissimo. Non dormivo la notte. Mi mancavano tantissimo. Mi sentivo molto sola: speravo sempre di tornare a casa”.
Il ragazzo parla pure dell’incontro con uno psicologo: “Quando sono entrato nella stanza ha urlato che se gli dicevo la verità mi avrebbe riportato a casa. Gli ho risposto che non avevo fatto niente con mia sorella. Lui gridava: ‘Non è vero! Mi devi dire la verità!’ Sono uscito piangendo: sentirsi fare un’accusa del genere è stato terribile”. Anche la bambina riferisce a Panorama un episodio analogo: “Mi chiedevano se facevo quelle cose con mio fratello, con un tono molto forte. Ero terrorizzata“.
I due fratellini erano stati portati via da casa il 14 marzo del 2008: una maestra aveva trovato sotto il banco della bambina un disegno che li raffigurava in una scena di sesso. Ma era lo scherzo di una compagna di classe. Sono tornati dai genitori dopo più di due mesi.
Lui è un bel ragazzino di 14 anni con i capelli e gli occhi scuri. Lei è una bambina di 10 anni con lo sguardo vivace, la voce cantilenante e l’apparecchio ai denti. A. e G. vivono in un’accogliente casa di Basiglio, alla porte di Milano. A. cammina a testa bassa, come se fosse perennemente schiacciato dai ricordi. L’hanno incolpato di fare sesso con la sorella: c’era scritto a corredo di un disegno fatto a scuola da una compagna di classe di G. I fratellini sono stati tolti a genitori, poi chiusi in una comunità per più di due mesi. Un errore giudiziario, di cui giornali e televisioni continuano a parlare.
A. e G. raccontano per la prima volta a Panorama quel che hanno patito: il momento in cui sono stati strappati alla famiglia e i terribili giorni in comunità. Fino al ritorno in famiglia.
Ricordate come vi hanno portato via da casa?
A. Era il mio compleanno. Mentre festeggiavo con gli amici, è arrivata mia madre: “Devi venire con me” ha detto. Lì ho trovato due pattuglie e gli assistenti sociali ad aspettarmi. Mi hanno spiegato che dovevamo cambiare i genitori: secondo loro era la scelta migliore.
G. Io, invece, ero già a casa. Gli assistenti sociali mi hanno accompagnato all’ascensore: “Non puoi stare più con tua madre e tuo padre” hanno detto. Dicevano pure che sembravo turbata. Io ho cominciato a piangere: ero disperata. Temevo che non li avrei più visti.
Sapevate il motivo per cui venivate allontanati dai vostri genitori?
A. Io l’ho capito dopo. E quando è successo mi sono messo a piangere. Non era vero che avevo fatto quelle cose con mia sorella. Ho avuto un colpo al cuore.
G. Sì, per colpa di una mia compagna di classe. Aveva scritto che io e A. facevamo delle cose… Poi ha messo il diario sotto al banco. La maestra ha ritirato il disegno. “Non si fanno queste cose con i fratelli” ha detto.
e ho spiegato che non l’avevo scritto io. Lei mi ha risposto: “È la tua calligrafia”. Ho protestato che non era vero. Ha insistito. I miei compagni mi prendevano sempre in giro: dicevano che avevo i denti brutti. Per questo motivo hanno fatto quel disegno.
Come siete stati in comunità?
A. Era un incubo. Un ragazzo straniero mi ha puntato il coltello in faccia. Gli educatori hanno tentato di dividerci, lui urlava che mi voleva ammazzare.
G. Senza i miei genitori sono stata malissimo. Non dormivo la notte. Mi mancavano tantissimo. Mi sentivo molto sola: speravo sempre di tornare a casa.
Avete mai parlato con gli psicologi o gli assistenti sociali?
A. Una volta, con uno psicologo. Quando sono entrato nella stanza ha urlato: “Se mi dici la verità ti riporto a casa”. Gli ho risposto: “Non ho mai fatto niente con mia sorella, non ne sarei capace”. Lui però ha continuato: “Non è vero! Mi devi dire la verità!”. Era aggressivo: gridava. Io ho detto ancora di no. Sono uscito piangendo: sentirsi fare un’accusa del genere è stato terribile.
G. Una volta, anch’io, con uno psicologo. Mi ha detto la stessa cosa. Con un tono bello forte. Mi sono spaventata. Mi chiedevano se facevo quelle cose con mio fratello. Ho risposto di no… Poi sono stata zitta per tutto il tempo.
Siete tornati nella stessa scuola?
A. No, l’ho cambiata. Ma un giorno un compagno di scuola mi ha dato del molestatore. Io non gli ho risposto. Ho calato la testa e tirato dritto. G. Anch’io sono in un’altra scuola, e nessuno mi ha mai detto niente. Però incontro a catechismo le bambine che mi hanno accusato di aver fatto il disegno. Parlano sottovoce di me: le sento. Io non ho mai rivolto loro la parola. Ma quando le vedo provo rabbia. Tanta rabbia.
IL DRAMMATICO DIARIO DI A. DALLA COMUNITÀ
“Oggi è il secondo giorno che sono via dai miei genitori: dov’è mia sorella?”. Comincia così il drammatico diario di A., 14 anni, uno dei due fratellini di Basiglio. È stato rinchiuso per 68 giorni in una comunità alle porte di Milano. Giorni di paura e angoscia: sentimenti che ha trascritto quasi ogni sera, tra marzo e maggio del 2008, in un diario. Panorama ne pubblica in esclusiva alcuni stralci. Pagine che raccontano la sofferenza di un bambino accusato di un’assurdità. E la paura di non rivedere più i propri genitori.
16 marzo: “Uno psicologo mi ha fatto vivere un incubo. Io gli ho chiesto cos’era la comunità e lui mi fa in modo incazzato: “Zitto!” (…). Nel tragitto gli ho fatto un’altra domanda: cosa sarebbe successo a mio padre e mia madre. Lui mi ha risposto che se gli incontri con loro non andavano bene eravamo costretti a cambiare i genitori. Quando siamo arrivati mi ha preso di forza e m’ha spinto giù dall’auto”.
22 marzo : “Mi ritrovo a fare la Pasqua in una comunità dove ci sono i più grandi: quelli del penale, e io non so nemmeno cosa significa penale (…). Non ho fatto niente. Per favore, aiutatemi. Io vorrei scappare, non ne posso più. Stare qui è come in carcere”.
12 aprile: “Mentre uscivo da scuola vedevo tutti i ragazzi che venivano presi dai loro genitori e mi sono messo a piangere. Tornato in comunità mi sono chiesto perché mi trovavo qui, perché io non so niente di questa storia (…). Non riesco a mangiare, aiutatemi”.
20 aprile: “Oggi ho passato un inferno: verso le 20 un ragazzo di 15 anni, dopo che io gli ho detto di smetterla di fare il figo, ha preso un coltello e me l’ha puntato quasi in faccia (…). Ora sto scrivendo il diario sotto le coperte, e non so come ce la faccio. Di notte non dormo perché ho molta paura”.
23 aprile: “Oggi sono stato dall’assistente sociale. Mi ha detto che se gli dicevo la verità mi faceva tornare a casa!”.
5 maggio: “Uno di 15 anni me le ha date a sangue perché gli ho detto di stare zitto, e adesso sono a letto con il ghiaccio”.
22 maggio: “La mia prima notte a casa è stata molto bella. E poi ho ricevuto il bacio della buonanotte”.
Bambini “rapiti” alla famiglia da giudici e psicologi.
«Sua figlia ha disturbi dell’attenzione in classe e crediamo che il motivo sia legato alla sua impossibilità di seguirla appieno o alla sua “inidoneità genitoriale”». In parole poverissime significa: il bambino è lasciato allo sbando e il papà o la mamma non sono genitori come dovrebbero. A qualunque genitore, se in buona fede, un discorso di questo tipo farebbe gelare il sangue. Eppure capita pure questo a padri e a madri che vedono sottrarsi i figli senza un oggettivo motivo, diverso da maltrattamenti, abusi sessuali, condizioni economiche precarie, abbandono.
Secondo i dati dell’Osservatorio per l’infanzia della Regione Piemonte e dell’assessorato alle Politiche sociali, per la maggior parte dei casi (76,8%) gli allontanamenti dei minori non avvengono per fatti gravi, ma per valutazioni “soggettive”. Si parla cioè di “incapacità genitoriale” o di “metodi educativi non idonei”, o ancora di “impossibilità dei genitori a seguire i figli”, che sono croci o appellativi che si portano sulle spalle la grande maggioranza di padri e madri, nonché fenomeno in crescita, tanto che dal 2000 a oggi è aumentato del 20-30%. I minori, invece, allontanati per motivi “oggettivi” sono orfani (3,63% ), in stato di abbandono (9,81%) oppure maltrattati (4,72%). «Per tutti gli altri ci sarebbero degli allontanamenti impropri verso comunità o in famiglie affidatarie – denunciano le associazioni che hanno aderito al Movimento “Cresco a casa”, nato come manifesto associativo per impedire i cosiddetti “allontanamenti impropri dei bambini” - e che oltre a provocare disagio per le famiglie e per gli stessi minori, hanno anche un costo enorme».
Poi ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.
Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità. Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.
“I dati della Regione piemontese rispecchiano anche quelli a livello nazionale” - dichiara Gian Luca Vignale, consigliere regionale, - “ed indicano che il 76,8 per cento dei bambini vengono allontanati per motivi, che potremmo definire soggettivi: come incapacità dei genitori, o metodi educativi inidonei, oppure per impossibilità di seguire i minori; mentre solo il 18,16 per cento per motivazioni oggettive gravi come abusi, maltrattamenti o abbandono. Inoltre le statistiche dimostrano che su cento denunce per abusi su minori all’interno delle mura domestiche, solo il 3,6 per cento si conclude con una condanna”.
Tutte le altre sono storie di falsi abusi e falsi maltrattamenti che però costringono a sofferenze terribili i bambini e anche le loro famiglie. Spesso innocenti. Come è avvenuto per Laura, adolescente torinese che a “Panorama.it” racconta il periodo di distacco dalla famiglia e la vita in comunità.
“C’era tanta confusione. Un caos. Due donne che non conoscevo sono entrate in casa, si sono sedute in salotto e hanno iniziato a discutere con i miei genitori. Erano da poco trascorse le 11. Era freddo. Ripensandoci, non ho capito se fosse stato il freddo di quella mattina di febbraio, o solo il presentimento di quello che sarebbe accaduto quattro ore dopo”. Laura si ferma un attimo, fa un grande respiro e riprende il suo ricordo di quella mattina. “Mi hanno portato via. Erano le tre del pomeriggio. Non sapevo dove stavo andando, ma mi rassicuravano. Erano due assistenti sociali.
Qualche ora di viaggio in auto e mi sono ritrovata a Pavia, in un appartamento. C’erano altre cinque ragazze della mia stessa età e un bambino di otto anni. Ricordo i loro sguardi e il silenzio. Terribile”.
Torino-Pavia. È stato il primo trasferimento per Laura, quindici anni, studentessa di un liceo del centro storico del capoluogo piemontese; I suoi genitori erano stati accusati di incapacità genitoriale e maltrattamenti.
Tutto nasce da una bugia che Laura, adolescente sensibile e fragile, racconta alla sua insegnante di educazione fisica. Si sente trascurata e dice che la madre non la segue e quando si incrociano in casa nei ritagli di tempo, che avanzano tra il lavoro e la scuola, lei la maltratta, la umilia. L’insegnante ascolta lo sfogo, non capisce che si tratta solo di un bisogno d’amore e dà inizio così al calvario di una normale famiglia torinese. L’insegnante coinvolge la direttrice e senza nessun chiarimento con i genitori di Laura, vengono chiamati gli assistenti sociali.
“Sono rimasta in quell'appartamento per un mese e mezzo. Lavavo e pulivo la casa e stiravo. Ci portavano solo da mangiare. Ma la sofferenza più grande era il non poter parlare con nessuno dei miei familiari. Ero costretta solo ad ascoltare le tragedie di chi era con me e le offese degli assistenti sociali nei confronti dei miei familiari. Li screditavano, li descrivevano come dei mostri e alimentavano il distacco e l’allontanamento”. Laura sospira e poi riprende a raccontare: “Quante volte mi hanno detto che i miei genitori non mi volevano bene. Che mia madre non mi voleva. Con me avevo solo una fotografia di una delle mie due sorelle, Patrizia, che mi era rimasta nel diario di scuola preso il giorno in cui mi avevano portato via da casa”. Quello era solo l’inizio di un periodo durato sette mesi. L’inferno arriva con il trasferimento a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria; Laura rimane, all’interno di una comunità per cinque mesi e mezzo.
“Era una comunità mista” continua “e assieme a noi adolescenti c’erano tanti bambini di sei, sette e otto anni. E’ stato terribile: i più piccoli non riuscivano a trattenere le emozioni e urlavano, piangevano, cercavano i genitori mentre io cercavo di non sentire, volevo stare sola ma non era possibile”. Laura spiega che a quel clima di dolore, rabbia, confusione e abbandono è riuscita a sopravvivere grazie alla complicità, che si era creata con alcune delle ragazze della comunità. “La complicità ti permetteva di continuare a vivere. Non era un’amicizia ma qualcosa di più”. Poi una mattina, dopo cinque mesi che non vedeva e parlava con nessuno dei suoi parenti, le accordano il permesso di incontrare le due sorelle: “Ero come rimbambita, non riuscivo a parlare e anche se avevo voglia di abbracciarle e di farmi portare via da quell’inferno, non riuscivo a chiederglielo. Le ho riviste un’altra volta e mai da sole. Poi basta”.
Laura è la terza di tre figlie di due imprenditori: madre e padre lavorano nell’azienda di famiglia che hanno ereditato. Insieme da trent’anni, avevano cresciuto le figlie senza nessun problema ed erano diventati nonni di due bambine, solo pochi mesi prima che Laura fosse portata via di casa. “Sono ancora in cura da una psicologa” - sussurra Laura - “mi sta aiutando, ma la mia vita è stata segnata. Non potrò più dimenticare quello che ho provato nella comunità e soprattutto come vengono trattati i bambini. Sono pochi gli assistenti sociali, che vivono il loro lavoro come una missione e comprendono la tua sofferenza. Adesso ho diciotto anni, ma questa esperienza mi ha tolto la capacità di dare fiducia alle persone e la fiducia è la prima cosa per affacciarsi al mondo e quindi al futuro”. La vicenda di Laura si è conclusa con una sentenza del Tribunale dei minori, che dichiarava l’inesistenza di situazioni gravi tali da giustificare l’allontanamento da casa.
Trenta associazioni in tutta Italia si sono riunite a Torino, per presentare un manifesto chiamato “Cresco a Casa”. Un documento con il quale chiedono che gli allontanamenti da casa debbano essere eseguiti solo dopo l’acquisizione di prove oggettivi gravi e attendibili. “Le perizie psichiatriche e psicologiche devono avere solo valore di opinioni” puntualizza Vignale “ci batteremo perché non siano più considerate prove fondamentali per l’accertamento della verità durante i procedimenti giudiziari”. Poi prosegue: “Sui giudizi spesso sbagliati di esperti incapaci di decifrare la realtà, vengono sottratti e costretti a violenze psicologiche all’interno di comunità centinaia di bambini e adolescenti di tutta Italia”. Proprio com’è accaduto a Laura.
Queste associazioni, molti avvocati, criminologi e gente comune, s'interrogano sul fenomeno dei bambini sottratti alle famiglie senza alcun valido motivo, ma unicamente in seguito a rapporti, opinioni, di assistenti sociali e (fantomatiche) perizie di psicologie psichiatri.
È notizia nota che due bambini di Basiglio, per ben 40 giorni sono stati sottratti alla famiglia, solo per un disegno che, come dice lo stesso Tribunale dei minori, solleva più di una perplessità; mentre la bambina stessa e la madre non riconoscono la grafia.
Perché un'assistente sociale o uno psicologo invece di fare una verifica, scrive un rapporto che induce il Tribunale a prendere una decisione così drammatica, che può, di fatto segnare per sempre la vita di un bambino e della sua famiglia? Chi pagherà questo danno? Possibile che siano solo errori?
Il fenomeno in Italia coinvolge circa 40-50 mila bambini. Il costo che le amministrazioni pagano, per un bambino ritenuto vittima di "abusi", parte dai 150 per arrivare ai 300 euro al giorno.
Moltiplicate questo per il numero di bambini.
Ci domandiamo qual è la logica che preferisce togliere un bambino alla famiglia di origine perché, per esempio, indigente, facendo pagare alla comunità alcune migliaia di euro quando con 800 euro si potrebbe far fronte all'emergenza immediata e aiutare il padre a trovare lavoro?
Che danno esistenziale viene causato al bambino ed alla famiglia?
Perché l'assistenza sociale non lavora per preservare l'integrità familiare?
Ancora, che valore hanno i rapporti e le perizie di uno psicologo o di un’assistente sociale, che il più delle volte sono unicamente opinioni?
La pretesa di queste categorie è di capire da un disegno o uno scritto che esiste un abuso.
I casi di Rignano, di Basiglio e gli altri drammatici episodi, vedi Brescia, Milano, sono esemplari.
Ciononostante i Tribunali continuano a fare affidamento su queste opinioni.
Qualcuno comincia a capire e a prendere posizione.
Casi eclatanti sono il Giudice Edoardo Mori, di Bolzano, che in un articolo del 21 Aprile 2008 sul giornale Alto Adige, spara a zero sul valore scientifico di queste perizie e rapporti:"Il fatto che si sia dato ingresso alla psicologia come strumento probatorio è una totale assurdità", e ancora: "…non sono scienze esatte, sono scienze sperimentali. Per definizione - prosegue ancora il giudice Mori – sono strumenti che servono più che altro per manipolare la psiche e non hanno alcun bisogno di cercare la verità". Stessa linea viene sostenuta con forza dal dott. Marco Capparella e dal dott. Savio Fortunato coni loro articoli su criminologia.it.
I dubbi sollevati da questi professionisti sono stati fatti propri dall'On. Francesco Lucchese, con la presentazione dell'interpellanza del 27 Giugno 2007 n° 630.
A nessuno, siano essi assistenti, psicologi o psichiatri dovrebbe essere permesso di minare l'integrità della famiglia e la salute del bambino senza una certezza dell'abuso perpetrato. I bambini urlano nel silenzio di una comunità e le vite dei genitori sono distrutte da accuse infamanti. Una società che tollera questi fatti non può definirsi civile. Qualcuno deve intervenire per porre fine a questa incredibile violazione dei diritti che mina il mattone fondamentale della società: la famiglia.
Atto Camera: Interpellanza 2-00630, presentata da FRANCESCO PAOLO LUCCHESE.
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, il Ministro per le politiche per la famiglia, il Ministro della pubblica istruzione, il Ministro della salute, per sapere - premesso che:
sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l'assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l'innocenza di una persona (vedi casi Cogne, pedofilia a Brescia, pedofilia a Milano, Rignano Flaminio eccetera) senza che queste perizie secondo l'interpellante possano considerarsi prove concrete come dovrebbe essere in un giusto processo;
lo stesso sistema, cioè l'uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all'interpellante come uniche prove, determina le decisioni del Tribunale dei Minori nell'adottare il provvedimento con la formula «urgente e provvisorio» per l'allontanamento dei minori dalle famiglie, diventano gli unici riscontri in fase iniziale per cause di pedofilia: queste perizie si basano secondo l'interpellante non su riscontri oggettivi, come nel caso della criminologia, ma su opinioni degli psicologi e psichiatri;
mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d'ingegneria occorre l'ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico (figura specializzata con corso triennale post-laurea comprendente 22 esami più la tesi di specializzazione, oltre la laurea quadriennale del percorso vecchio ordinamento), ma lo psicologo, lo psichiatra, l'assistente sociale, eccetera. La laurea (in psicologia, medicina, giurisprudenza, lettere o filosofia) era la condizione necessaria per accedere allo studio di criminologia clinica ma insufficiente per potersi occupare di crimine. Abolendo tale specializzazione si è lasciato campo libero a professioni (psicologi e psichiatri) che hanno la pretesa di essere esperti, pretesa mai suffragata da fatti concreti -:
il numero di bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento alle comunità alloggio oscilla tra i 23.000 e i 28.000 con un costo per la comunità di miliardi di euro, senza contare l'indotto in termini di necessità di assistenti sociali, spazi protetti, psicologi e neuropsichiatri infantili;
molti genitori, se vogliono rivedere i loro figli, si devono sottoporre a trattamenti psicologici prolungati ed estenuanti con il ricatto morale di non rivedere più il loro figlio;
quale sia l'entità dei bambini sotto tutela dei servizi sociali e collocati in comunità alloggio o in affido;
quale sia il numero di comunità-alloggio distribuite sul territorio italiano e la loro capacità ricettiva;
quale sia l'entità dei soldi erogati dai Comuni, Province, Regioni e Stato per il mantenimento dei bambini nelle comunità alloggio;
quale sia il tempo medio del procedimento ablativo;
quale sia il numero di bambini che torna nelle famiglie di origine dopo essere stato allontanato;
perché si siano chiuse le scuole di specializzazione post-lauream in criminologia clinica presso le facoltà di medicina e se si intenda ripristinare;
come mai dietro le cattedre di criminologia in Italia, anziché criminologi clinici, siedano quasi tutti psichiatri;
perché anziché promuovere specialisti di criminologia di alto livello si favorisca la nascita di «corsi fast-food», senza rendersi conto che il crimine ed i criminali si aggiornano anche con le tecnologie, mentre le figure che si occupano del crimine in Italia (psicologi, psichiatri, assistenti sociali) non hanno conoscenze ermeneutiche, epistemologiche e scientifiche. (2-00630)«Lucchese».
AFFIDI. AFFARI SULLA PELLE DEI BAMBINI.
Il Forteto: La setta dell’orrore e della vergogna, scrive Domenico Rosa su “Imola Oggi”. Oltre vent’anni di abusi, zoofilia, minori schiavizzati, punizioni corporali. Questo era Il Forteto, la comunità-cooperativa fondata dal santone Rodolfo Fiesoli nella civilissima Toscana, accreditata negli ambienti che contano come un esempio di solidarietà e integrazione. Sono proprio queste le parole utilizzate dal sindaco di Vicchio, Alessandro Bolognesi (PD), nell’assegnare la massima onorificenza del comune mugellano, il Giotto d’Oro, alla famigerata Cooperativa. Siamo nel maggio 2003. A nulla sono valse 10 anni dopo le richieste di Caterina Coralli, consigliere FdI di Vicchio, per la revoca del premio. A seguito dell’arresto del profeta Fiesoli per violenza sessuale aggravata ai danni di minori e maltrattamenti aggravati ai danni di minori, avvenuto nel 2011, nasce una commissione d’inchiesta regionale presieduta dal consigliere PdL Stefano Mugnai (oggi FI). Nelle 88 pagine redatte dalla commissione si individua in Fiesoli il guru della ‘setta’. L’orco che rende schiavi sessuali adolescenti indifesi, costretti a un duro lavoro e a subire ogni sorta di angheria. Fino al 2009 quando già fioccano le denunce il Tribunale dei minori continua ad affidare i bambini alla comunità degli orrori. Non a caso i legami dell’orco con personalità della politica, della magistratura, della comunità scientifica sono molteplici. Si legge nella relazione: “Ecco un elenco dei personaggi che, a vario titolo, e con differenti modalità, passano dal Forteto: Edoardo Bruno, Piero Fassino, Vittoria Franco, Francesca Chiavacci, Susanna Camusso, Rosi Bindi, Livia Turco, Antonio Di Pietro, Tina Anselmi, Claudio Martini, Riccardo Nencini, Paolo Cocchi, Michele Gesualdi (Presidente Provincia di Firenze), Stefano Tagliaferri (Presidente Comunità Montana del Mugello), Alessandro Bolognesi (Sindaco di Vicchio), Livio Zoli (Sindaco di San Godenzo e Londa), Rolando Mensi (Sindaco di Barberino di Mugello)”. In più i presidenti del Tribunale per i minori: Francesco Scarcella, Piero Tony, Gianfranco Casciano e l’attuale procuratore della repubblica di Prato, Massimo Floquet. Mugnai, presente ieri pomeriggio 20 maggio 2015 alla presentazione del libro “Il Forteto: destino e catastrofe del cattocomunismo” (Settecolori) di Stefano Borselli, di cui è il prefatore, insieme all’autore, a Sergio Pietracito, una delle vittime de “Il Forteto”; Caterina Coralli, Capo gruppo uscente di FdI al Comune di Vicchio, il giornalista Pucci Cipriani Direttore di “Controrivoluzione”, Roberto Dal Bosco, scrittore e studioso vicentino, l’Avv. Ascanio Ruschi, Presidente della Comunione Tradizionale e Giovanni Donzelli, Capo gruppo FdI in Regione, ha ricordato di come gli abusi non fossero estemporanei ma sistematici. Dell’appoggio degli ambienti culturali, dei libri agiografici sulla comunità editi dall’importante casa editrice Il Mulino e del silenziatore calato dai media nazionali su atrocità inenarrabili. Sergio Pietracito, una delle vittime di Fiesoli, trova il coraggio di parlare. Nei suoi occhi si legge il dolore, ma ormai sta portando avanti una missione: quella della verità. Racconta del sistema pederastico messo in atto dall’orco. “Addestrati a rinnegare i valori tradizionali. A recidere i legami con gli amici all’esterno e i familiari”. il guru porta avanti l’idea di società omosessuale. In questo davvero un profeta. Il suo verbo è netto: “Fuori il mondo è merda, ma va usato”. Istrionico, imbonitore, capace di accreditarsi ovunque. La testimonianza di Sergio è commovente. Borselli lo ringrazia e assieme a lui tutte le vittime che hanno fatto crollare il castello del male con il loro coraggio di venire allo scoperto. La connivenza tra il mondo che conta e Il Forteto è lampante, Giovanni Donzelli chiede giustizia. Sul banco degli imputati mette chiunque abbia avuto rapporti col mondo dell’orrore del profeta. Cita l’ex presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, il quale apriva sempre la sua campagna elettorale a Il Forteto, il procuratore Floquet, un tempo affidatario dei minori alla ‘setta’ e oggi procuratore della Repubblica di Prato. Tra i simpatizzanti della cooperativa non manca un nome che va oltre la destra e la sinistra. Lo studioso Dal Bosco fa infatti il nome di Franco Cardini, autore di una prefazione a un libro agiografico su Il Forteto. Pietracito rincara la dose e attribuisce allo storico fiorentino le parole: “Ci vorrebbero 10-100-1000 Forteto”. Donzelli conclude: “Cardini qualche volta era di destra? Anche lui deve pagare”. Il caso del medievista dimostra come spesso anche nel mondo non proprio di sinistra che spadroneggia in Toscana si aveva un’idea positiva della comunità degli abusi. Mugnai a proposito ricorda di un assessore comunale del centrodestra che gli aveva confessato di aver affidato in tutta buona fede minori alla cooperativa. “Convinto che fosse l’ambiente migliore per loro”. Oggi non dorme la notte. L’incubo Forteto. La setta ancora oggi troppo poco scandagliata, l’abisso di perversione che merita chiarezza e visibilità anche su giornali e Tv nazionali. Per dirla come l’avvocato Ruschi “in attesa di una verità processuale esiste già una verità storica”. Di fronte a orrori del genere non ci si può arenare nelle secche della cronaca giudiziaria.
29mila minori ospitati ogni anno nelle comunità alloggio. Oltre 400 euro la retta giornaliera che lo Stato arriva a pagare per ognuno di questi bambini in alcune comunità. 80 quelli che ogni giorno vengono sottratti ai genitori biologici. 2 miliardi il giro d’affari generato intorno ai minori. 0 euro il valore di un sorriso di un bambino, scrive “Federcontribuenti”. Numeri raccapriccianti ma che più di ogni altra parola spiegano perché Federcontribuenti ha sentito la necessità di creare Finalmente Liberi, la commissione d’inchiesta diretta dall’avvocato Cristina Franceschini che si occuperà esclusivamente di tutti quei bambini che ogni giorno vengono sottratti immotivatamente alle proprie famiglie e dati in affidamento alle strutture gestite dallo Stato, spesse volte non adeguate alla vita in crescita di un minore ma che rappresentano un vero proprio business per lo Stato e per i suoi apparati. Obbiettivo di Finalmente liberi è quello di fare luce sulle gravi incongruenze di un percorso giudiziario e psicologico poco trasparente e non scientificamente appropriato, che trasforma genitori e figli in vittime dello Stato. “Noi consideriamo Finalmente Liberi una missione sociale ma anche etica – dice l’avvocato Franceschini – Vogliamo dare voce a tutti quei bambini che subiscono scelte che non sono in grado ne di comprendere e ne di controllare. Lo faremo con l’aiuto di un pool di esperti che ha condiviso la mission della commissione d’inchiesta e ha deciso liberamente di aderirvi e dare il proprio contributo per denunciare un grave problema troppo spesso ignorato dalla società e dall’opinione pubblica”. Una commissione che intende mettere nero su bianco anche il peso che queste strutture hanno sui bilanci dello Stato, confrontandolo con il sostegno che viene garantito alle famiglie e alle associazioni che si occupano di minori e malati: “Quello che la gente non sa – dice il Presidente di Federcontribuenti – è che ogni anno, forse anche ogni mese, lo Stato apporta tagli significativi ai contributi elargiti a famiglie e associazioni con a carico minori e disabili. Una spesa che non può essere neanche paragonata alle cifre da capogiro investite per le case famiglia o per gli alloggi temporanei che, al contrario del nucleo familiare originario, nella maggior parte dei casi contribuiscono in modo negativo alla crescita di un bambino. Quello che vorrei che capissero i cittadini – conclude Paccagnella – è che l’indignazione provata per il caso del bambino di Padova dovrebbe essere manifestata ogni giorno, 80 volte al giorno. Parliamo senza mezzi termini di abusi come minimo psicologici sui minori inferti con i soldi dei contribuenti. Quello che mi chiedo è se davvero la società vuole farsi complice dello Stato in questi abusi o se, una volta per tutte, s’intende mettere un freno a realtà non compatibili alla nostra etica e moralità”.
Affidamento minori e le relazioni degli operatori, scrive “Finalmente Liberi”. «Se avessi raccontato alle maestre che mia madre provava l’impulso di schiantarsi contro un camion mentre era con me in macchina, o che mio padre, pur generoso, non non è mai stato proprio affettuoso, avrei rischiato di vedermi prelevata con forza dai servizi sociali?» L’outing lo fa Roberta Lemma, vice presidente di Federcontribuenti e fautrice di Finalmente Liberi, la commissione di inchiesta di Federcontribuenti sugli affidamenti minorili nata con il solo scopo di richiamare l’attenzione delle Istituzioni su un fenomeno che riguarda direttamente i minori e le famiglie coinvolte. «Nel sistema che vede segnalare un minore all’attenzione del tribunale dei minori e dare inizio alla procedura di analisi e valutazione dello stato psico fisico del bambino e dei genitori incontriamo spesso criticità tali da mettere in pericolo il sistema di tutela minori stesso. Finalmente Liberi non si occupa solo della teoria giuridica nell’ambito minorile, ma soprattutto, si pone come attenta osservatrice dell’accanimento, spesso ingiustificato, degli operatori che ruotano intorno al tribunale dei minori». Il pericolo si annida nelle valutazioni scritte rilasciate dai psicologi o dagli stessi assistenti sociali come dagli operatori delle case famiglia, «leggendo molte relazioni viene da pensare che chiunque di noi, considerate le osservazioni sollevate, è a rischio di valutazione negativa. Nelle relazioni troviamo osservazioni di questo tipo: la mamma si tocca spesso i capelli mostrando fragilità emotiva. Il bambino scaglia i giocattoli che il padre gli porge. La casa è troppo in ordine per permettere ai bambini di giocare liberamente. La casa è troppo in disordine». Il giudice come punto di riferimento per le sue decisioni prende proprio queste relazioni, ma quale genitore non sarebbe nervoso davanti ad un test che deve valutare la sua capacità genitoriale? O quale bambino non gioca gettando a terra i giocattoli? Proprio di questo parliamo, queste persone vengono messe volutamente in una situazione di inferiorità, schiacciate dal potere che la penna che li descrive ha. Precisiamo che non si parla di bambini che hanno subito violenza, parliamo di famiglie in difficoltà per i più svariati motivi, spesso conseguenza di una cattiva politica sulle famiglie, caduti nella segnalazione ai servizi sociali. Quale famiglia italiana non vive un qualche disagio di natura economica o emotiva o quale famiglia nell’arco della sua vita non si trova a vivere una momentanea tragedia o quale coppia di genitori non litiga. Si riscontra spesso anche una coercizione di minori, un atteggiamento di esuberante senso di protezione, un comportamento di superiorità nei confronti di famiglie in difficoltà da parte di coloro che operano nell’ambito della tutela del minore. «Ribadiamo la necessità di rivedere il sistema di tutela dei minori quando non vittime di violenza, la necessità di coinvolgere sin dall’inizio l’intero nucleo familiare spesso tagliato fuori. L’allontanamento del minore e il suo affido devono diventare l’ultima opportunità e non la prima. La procedura va snellita, i protagonisti devono sapersi porre domande, non diventare plotone d’esecuzione. Molti padri non vengono tutelati nel loro compito genitoriale, le famiglie affidatarie diventano spesso un ostacolo alla ritrovata serenità della famiglia di origine. Non abbiamo tanto bisogno di giudicanti ma di persone capaci di trattare casi così delicati con tutta l’umanità, il buon senso e l’onestà intellettuale di cui devono essere capaci». Conclude Roberta Lemma, «la mia famiglia mi ha cresciuta con attenzione e amore e questo anche se mia madre si è ammalata di depressione quando ancora ero piccola, una depressione che spesso le ha fatto tentare il suicidio e con un padre che sempre mi ha amata anche se non è una persona capace di slanci affettuosi. Non può essere una sculacciata, uno schiaffo, un disegno angosciante o una difficoltà momentanea il movente del prelievo forzato del minore. La segnalazione dovrebbe dare inizio ad una attenta valutazione ed investigazione e non all’accanimento psicologico; solo nei casi di comprovata violenza può essere giustificato un intervento immediato di prelievo e allontanamento del bambino e, anche in questo caso, spesso sarebbe sufficiente spostare il minore dai nonni o dai zii quando non intercorre il pericolo di essere raggiunto dalla violenza».
A Roma durante l’evento “Affidamento temporaneo: abuso o tutela?” – il fenomeno degli “allontanamenti facili”, il convegno ha visto la partecipazione dell’avvocato Francesco Miraglia che è intervenuto denunciando il sistema e portando dei casi concreti: «Uno dei problemi è chi controlla i controllori, quando ci sono delle case famiglia gestite da qualcuno che è anche stato condannato per terrorismo a 17 anni di reclusione e oggi è gestore di due case famiglia e sottoposto a procedimento penale, c’è qualcosa che non funziona. Io sto aspettando dalla Regione Emilia Romagna da più di un mese per sapere chi decide e chi da l’autorizzazione per aprire una casa famiglia». Ma l’avvocato ha portato anche l’esempio di un caso abruzzese dove «qualcuno che ha subito dei procedimenti penali per maltrattamenti ha chiuso da una parte una casa famiglia e ne ha aperta un’altra. Vuol dire che c’è un problema». E poi ancora «a Trento più di qualche giudice onorario è presidente della cooperativa che gestisce la casa famiglia e poi successivamente è giudice onorario e partecipa alla Camera di Consiglio su quel caso, un problema c’è». Il problema, secondo il legale, sta anche nel tribunale dei minorenni «dove c’è un certo automatismo tra le relazioni dei servizi sociali, la richiesta della procura e il provvedimento. Viene prima allontanato il minore e poi passano mesi per fissare le udienze in cui i genitori e l’avvocato possano dire la propria».
Nella mattinata de 7 maggio 2014 presso il Palazzo della Regione di Trento, l’onorevole Giacomo Bezzi assieme al consigliere comunale Gabriella Maffioletti ha presentato il disegno di legge «Disposizioni in materia di affidamento di minori: modificazioni dell'articolo 34 della legge provinciale sulle politiche sociali», scrive “La Voce del Trentino”. Un disegno di legge rivoluzionario che se accolto dal Consiglio Provinciale è destinato a trasformare il campo della tutela minorile allineandolo alle convenzioni internazionali sui diritti del fanciullo con il passaggio da una cultura della protezione a una cultura dell’accoglienza. Il disegno di legge ha tre capisaldi: Superamento entro il 31 dicembre 2017 dei servizi a carattere semiresidenziale e residenziale per minori, con l'attivazione di vere e proprie comunità di tipo familiare. Purtroppo nonostante la legge abbia disposto che il ricovero in istituto doveva essere superato entro il 31 dicembre 2006, in realtà i minori sono ancora affidati a strutture che sono sostanzialmente degli istituti. La priorità rimane ancora la tutela mentre dovrebbe essere l’accoglienza. Attivazione obbligatoria di un progetto formale di recupero o rafforzamento per la famiglia di origine che impedisca ai minori allontanati dalle famiglie di passare dalla condizione di ‘allontanati’ a quella di ‘abbandonati’: spesso infatti i minori rimangono nelle strutture per anni senza alcun recupero della famiglia di origine, come il caso pubblicato oggi dai media del minore che alla fine è tornato a casa senza aspettare il decreto del giudice che è arrivato solo in un secondo momento. I tempi dei minori non sono quelli della giustizia. Affidamento familiare dei minori, con priorità rispetto all'affidamento a servizi a carattere semiresidenziale e residenziale o dal 2018 a comunità di tipo familiare. Questo è il chiaro intento del legislatore che vorrebbe garantire il diritto del minore a una famiglia, quando la famiglia naturale non lo possa fare. Nel DDL si favorisce anche l’affidamento ai parenti. Si tratta di un disegno di legge che non dovrebbe trovare alcuna opposizione se non negli interessi privati delle strutture residenziali e di certi psicologi, psichiatri, operatori, ecc. che lavorano nel sociale. Solo pochi giorni fa abbiamo saputo di uno psicologo che svolge anche il ruolo di consulente tecnico d’ufficio e che è stato denunciato da due mamme trentine per avere, a loro avviso, commesso dei gravi errori che hanno portato all’allontanamento o al pericolo di allontanamento dei minori: questo psicologo è anche dirigente di una comunità del privato sociale che fattura circa 10 milioni di euro all’anno. Gli interessi economici sono quindi ingenti e c’è il pericolo che queste lobby, che per anni hanno banchettato sulla pelle dei minori, esercitino la loro influenza per impedire una riforma che va a tutto vantaggio dei minori. Per questo motivo ieri l’onorevole Giacomo Bezzi e il consigliere comunale Gabriella Maffioletti hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti perché si faccia luce sul possibile danno erariale causato dagli allontanamenti “facili” dalle famiglie e dalla difficoltà di implementazione dell’affido famigliare. Il Trentino infatti è tra le pecore nere per quanto concerne i minori sottratti alle famiglie. È al penultimo posto prima della Liguria per le percentuali di bimbi allontanati dalle famiglie, mentre la percentuale del 33% di affidamenti familiari ci colloca assieme a regioni con disponibilità finanziare molto inferiori alle nostre come l’Abruzzo (31%) e il Molise (32%) mentre ad esempio la Sardegna è al 68%. Inoltre secondo le statistiche in Trentino, nel 2010, 160 bambini sono stati allontanati dalle famiglie per un periodo inferiore all’anno, bambini che molto probabilmente avrebbero potuto evitare il dramma dell’abbandono con una politica genitoriale opportuna, in grado di prevenire e risolvere i disagi. Nell’esposto sono stati rivelati anche alcuni conflitti di interesse come ad esempio quello di certi giudici onorari che lavorano anche nel settore minorile.
L’affidamento minorile: case famiglia, servizi sociali e bambini sottratti, scrive “Federcontribuenti”. In Italia oltre 32 mila bambini sono stati tolti alle famiglie, vengono chiamati, sequestri di Stato. Come camminare su di un campo minato, dove ogni parola o affermazione rischia di far esplodere una bomba perchè, dietro il fenomeno dei sequestri di Stato, ci sono i tribunali dei minori, i servizi sociali, le case famiglia cattoliche e un fiume di soldi. Dal presidente Paccagnella: ” stiamo trattando con dei parlamentari per portare questa denuncia in parlamento, luogo dove ogni argomento dovrebbe trovare spazio. Sugli affidamenti e relative elargizioni da parte dello Stato sono categorico: ogni storia familiare, quando non si è in presenza di prove schiaccianti di violenza o abusi, va studiata in maniera più approfondita e ove si presenta la famiglia in stato di indigenza economica, le risorse economiche vanno assegnate alla stessa per far si che possano recuperare la propria posizione nella società continuando a crescere i propri figli, sicuramente la spesa dei denari del contribuente sarà inferiore a quella dell’affidamento e non ci troveremmo in presenza di queste storie disumane ”. Una famiglia media, composta da due adulti e due bambini può vivere con un salario sindacale, diciamo circa mille e 200 euro al mese. Il costo per ogni bambino messo in un istituto, da parte dello Stato, è di circa 3 mila euro al mese. Se ne sta occupando la Federcontribuenti, la quale, dopo aver ricevuto una lettera anonima, si è attivata per scoprire la veridicità del contenuto. La lettera inizia con questa frase: I fiori migliori devono essere dati al Dio, quindi i Suoi figli devono essere dati alla chiesa. Aiutateci. La Federcontribuenti scopre così un fenomeno inquietante, un sottobosco, storie di ordinaria follia. Decine di forum, aperti dai familiari coinvolti nella sottrazione di minori, foto pubblicate, atti, sentenze, documenti su carta intestata e timbri di questo o quell’ufficio. Le foto ritraggono i bambini tolti alle famiglie. Sono tutti piccoli, belli, bellissimi. Le storie sono tutte ben documentate e scritte in perfetto italiano. Sembra essere in presenza di un mondo sommerso legato ai minori con la compiacenza di tribunali, uffici comunali, istituti per famiglia.Un capitolo a parte le case famiglia per madri sole con bambini: alcune di queste madri denunciano di essere state costrette, con vessazioni, ad abbandonare i propri figli. Quanti bambini figli di madri sole e senza reddito vengono dati in affido ad altre famiglie? E quanti di questi affidi temporanei diventano poi delle adozioni definitive? È vero che agli aspiranti genitori vien detto che che l’affido è una scorciatoia, in quanto sono gli stessi operatori a dire loro che per alcuni bambini si sa già che sarà un affido sine die? Quanto ci sarà di vero in queste storie? Non lo sappiamo, ma nessuno indaga nè si pone queste domande. Se ne è occupato anche il settimanale Panorama che scrive: ” il 14% dei bambini collocati negli istituti è straniero, quasi 17 mila i bambini dati in affidamento, negli ultimi anni il fenomeno è salito del 29,3%”. Basta un litigio, un disegno frutto di uno scherzo o di una fantasia nata da una pessima televisione, per rischiare di subire un sequestro di Stato. Dietro l’agire di certi tribunali dei minori può esserci connivenza con servizi sociali e case famiglia per le adozioni illegali? Al momento c’è un’unica indagine in corso a Napoli in cui sono indagate diverse persone di alcune case famiglia e servizi sociali per aver favorito la permanenza nelle case famiglia anche senza ragione.
Affidamento minori. Scoppia il caso: perchè il prelievo diventa la sola alternativa? Si chiede Federcontribuenti. "Sembrerebbe che basti essere una madre sola per rischiare di vedersi prelevare un figlio già dopo il parto. Stiamo seguendo in queste ore un difficile caso a Roma. Tale concetto, grave sotto ogni punto di vista umano ed intellettuale, se fosse vero ci renderebbe tutti, indistintamente, dei criminali. Decenni per riconoscere i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio e ancora combattiamo, condanniamo ed emarginiamo madri sole o genitori in difficoltà economica? Infine perchè, a questi bambini, viene tolto anche l’affetto dei nonni?” Se quel bambino non andava prelevato? Se quel bambino fosse vittima di una strategia legale volta a vincere una causa per divorzio? Se quel bambino fosse finito al centro di un business? Se tutto ciò accadesse per davvero, di quali crimini ci staremmo macchiando? Certi che, quello che non si fa, non si dice, dopo troppe segnalazioni che denunciano tali aberrazioni, si è cercato di capire se, e come, tutto questo può accadere durante la conferenza stampa promossa da Federcontribuenti. Presente Finalmente Liberi, la commissione d’inchiesta sul fenomeno dei, comunemente chiamati, sequestri di Stato. Secondo l’avv. Franceschini, responsabile della commissione, mancano nei giudizi verso i bambini, contraddittorio, garantismo, legalità e senso civico. ” Oggi ci troviamo ad affrontare casi di centinaia di famiglie distrutte per motivi assurdi, perizie superficiali, denunce per abusi difficili da accertare solo per ottenere l’affido nelle cause di divorzio. Giudici che rimettono ogni valutazione sul bambino ad esperti troppo spesso coinvolti con le strutture di ospitalità destinate agli stessi minori”. La dott.ssa in pediatria Pignotti: “Non ci si rende conto di quale aggressione viene consumata nei confronti di un bambino quando gli si sottrae l’affetto e la presenza della famiglia. Studiando la Pas e le procedure relative l’affidamento mi sono resa conto dei criteri insensati con cui vengono affrontati questi casi. Bisogna rendersi conto che questi bambini vengono traumatizzati. E traumi come questi si trascinano anche nella vita adulta. Di queste cose si può morire”. Il psichiatra Cioni, punta il dito sugli interessi di casta e la mancata volontà di mettere un freno agli automatismi, anche in funzione dei costanti studi che in tutto il mondo vengono promossi nel settore. E a parlare di interessi, ma anche di realtà torbida e contaminazione istituzionale è il giudice Morcavallo che ha recentemente rassegnato le sue dimissioni per aderire attivamente alla commissione d’inchiesta: “Problemi che vanno denunciati all’opinione pubblica. Il meccanismo decisorio troppo spesso si basa su pretesti che nulla hanno a che vedere con fatti e prove. Sono decine di migliaia i bambini che così vengono sradicati dalle proprie famiglie per essere collocati in strutture che rendono denaro pubblico. Il tutto accompagnato dal silenzio delle istituzioni, anche quelle che dovrebbero essere preposte all’esercizio di controllo sulle decisioni prese dalla magistratura”. L’amara constatazione sul fenomeno dei sequestri del presidente di Federcontribuenti, Marco Paccagnella: ” Sembrerebbe che basti essere una madre sola per rischiare di vedersi prelevare un figlio già dopo il parto. Stiamo seguendo in queste ore un difficile caso a Roma. Tale concetto, grave sotto ogni punto di vista umano ed intellettuale, se fosse vero ci renderebbe tutti, indistintamente, dei criminali. L’opinione pubblica deve intervenire sia per sensibilizzare un cambiamento necessario per definire la nostra società come civile, ma anche per sottrarsi dalla responsabilità di queste azioni”. Una responsabilità indiretta, riconducibile ai soldi pubblici investiti per mantenere le strutture di accoglienza , la commissione ha quantificato in 2 miliardi il giro d’affari che ruota intorno all’affidamento dei minori. Purtroppo quando si parla di spesa pubblica è sempre necessario indagare per capire come vengono spesi questi soldi, e questo è quello che si propone di fare Federcontribuenti costituendo la commissione d’inchiesta. Si lavora per proporre una riforma di tutta la normativa che va dal ruolo dei servizi sociali, alla modalità del prelievo dei minori, ai metodi usati per valutare la loro situazione, ai motivi che portano al prelievo stesso. Una coppia di genitori in difficoltà, quando persistono realtà non violente e non letali per il bambino, andrebbe aiutata e andrebbe permesso ai nonni e agli zii di prendersi cura del nipote. Perchè il prelievo diventa la sola alternativa? Prima di tutto si vogliamo tutelare questi bambini affinché anche loro possano dire di essere…FinalmenteLiberi.
Affido: il Garante per l’Infanzia dichiara guerra ai giudici incompatibili. E se incompatibili, per una volta, fossero i giudici chiamati a pronunciarsi sull’affido, invece che le famiglie in difficoltà, che si vedono sottrarre i figli? La domanda potrebbe suonare provocatoria, ma è quella che ha ispirato una inchiesta denuncia di “Panorama”, e che pare aver risvegliato le coscienze. Quelle che contano, per lo meno. Si partiva dalla contestazione che nei Tribunali dei Minorenni, oggi, si contano oltre 100 giudici onorari che versano in un profondo conflitto di interesse: si tratta di psicologi, medici e assistenti sociali, che da una parte sono chiamati a pronunciarsi sull’allontanamento dei bambini dalle proprie famiglie, e dall’altra sono essi stessi titolari, dipendenti o consulenti di centri di affido o istituti, dove poi accolgono gli stessi minori. Con rette, neanche a dirlo, spesso elevate. Sono emersi casi ai limiti del paradossale, come quello di un giudice onorario chiamato a decidere sull’affidamento di un ragazzino di cui egli stesso era tutore. Si parla di veri e propri “scippi”, di un “business osceno”, come è stato definito dall’avvocato bolognese che ha denunciato questa deplorevole anomalia del sistema. Bene, dopo la denuncia, qualcosa sembra cominciare a smuoversi. Il Garante per l’Infanzia, Vincenzo Spadafora, ha prontamente reagito alla notizia annunciando che proporrà subito di “scrivere un rigido codice etico, coinvolgendo gli ordini professionali, per vietare a ogni giudice onorario di tribunale dei minori di avere un ruolo nelle comunità di affido.” Non solo: Spadafora ha aggiunto che proporrà ai tribunali la sottoscrizione di un protocollo sulle ispezioni, così da metterli in condizione di effettuare controlli presso le strutture che dovessero risultare “sospette”. Già il fatto che dei giudici possano intervenire così pesantemente nella vita dei bambini e delle loro famiglie, è un aspetto piuttosto controverso del nostro sistema di affido. Che qualcuno se ne approfitti pure, per mero tornaconto personale e a scapito dei bambini, è davvero vergognoso. E richiede censure immediate.
Finalmente Liberi ha contato circa 105 giudici onorari in evidente conflitto di interesse e ci si prepara alla denuncia. Scrive “Feder Contribuenti Nazionale”. Vincenzo Spadafora, Garante dell’infanzia e adolescenza pochi giorni fa durante il congresso organizzato dal Cismai si è espresso così sul business delle comunità per l’accoglienza dei minori denunciato dalla commissione di inchiesta Finalmente Liberi di Federcontribuenti: “Ma quale business? Io ho conosciuto comunità che stanno chiudendo. Per evitare che passino messaggi come questo, completamente sbagliati, è dunque necessario tenere alta la soglia della tensione”. Generalizzare è sempre sbagliato, pericoloso ma su questo tema è cento volte più letale la generalizzazione. Probabilmente è vero, esistono case famiglia che operano con professionalità, ma è altrettanto vero che esistono molti, troppi casi dove il bambino viene letteralmente fatto prigioniero, sequestrato anche quando non necessario, per errore, abuso o favoritismo. Entriamo quindi nello specifico e cerchiamo di capire quali sono le cose che non vanno, ” il nostro scopo è fare e dare giustizia tutelando genitori e bambini, non cerchiamo la polemica, il nostro è un invito aperto al Garante, – precisa l’avv. Franceschini responsabile di Finalmente Liberi -, abbiamo tra le mani casi pazzeschi e siamo disposti a mostrarli al dott. Spadafora ”. Ad esempio, un ragazzino di 12 anni chiede, perchè ne ha diritto, di essere ascoltato dal giudice, per dirgli che vuole stare con la madre: ” sono il nonno di F., strappato con violenza all’affetto non solo della madre, ma anche dei nonni. Io e mia moglie siamo entrambi professori in pensione, mia figlia fa la maestra eppur avendo l’autorizzazione ad educare una classe di bambini un giudice le ha tolto la potestà genitoriale. Il tribunale dei minori, dopo la relazione di un giudice onorario e quella di una psicologa di parte avversa, mia figlia si è separata dal marito, ci ha zittiti, dicendo che sapeva tutto su di noi, ora possiamo vedere F. solo allo spazio neutro. Veniamo a mia figlia. La patria potestà le è stata tolta grazie alla relazione di un perito di parte avversa e senza tenere in alcuna considerazione le due relazioni di psichiatri certificate da due istituzioni statali per ribaltare a sentenza ”. Di casi come questo ne abbiamo molti, come di genitori con la sola colpa di non avere abbastanza soldi per crescere un figlio e gli viene tolto. Soprattutto abbiamo tantissimi giudici in conflitto di interessi perchè hanno direttamente o indirettamente a che fare con le comunità a cui vengono affidati, dietro fondi dello Stato, i bambini. ” Le spieghiamo, dott. Spadafora, come funziona il meccanismo. Sulla base dei dati in nostro possesso e tenga presente che nessun ente conosce davvero il numero dei bambini allontanati dalle proprie famiglie, parliamo di migliaia all’anno, solo il 7% ha alle spalle abusi sessuali o violenza, poi ci sono allontanamenti per futili motivi, come problemi economici o scaturiti da separazioni conflittuali. Basta la segnalazione ai servizi sociali, un furbo psicologo di parte e scatta il sequestro, il dramma è che non ci si può appellare agli atti del tribunale e il risultato è una grande, disumana, ingiustizia nei confronti di questi bambini. Bisogna intervenire sui provvedimenti ritenuti per legge ” provvisori ” ma che in realtà durano anni togliendo ai genitori il diritto di difendersi ed appellarsi ”. Infine la questione dei giudici onorari che decidono il destino del minore. Sono psicologi, sociologi, medici e assistenti sociali, pagati un tanto ad udienza, pagati dagli istituti e dalle cooperative che accolgono i bambini e sa chi li nomina i giudici onorari? Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva e il CSM ratifica, le sembra un sistema in grado di assicurate equità e giustizia? Fin ora, Finalmente Liberi ha contato circa 105 giudici onorari in evidente conflitto di interesse e ci si prepara alla denuncia. La Commissione invita quindi pubblicamente l’Autorità Garante, Spadafora, ad un incontro per mostrargli, carte alla mano, la realtà che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno ammette.
Intervista shock al giudice Morcavallo sull’affidamento minorile, scrive “Federcontribuenti”. Il giudice Morcavallo entra in Finalmente Liberi, commissione di inchiesta costituita dentro Federcontribuenti sulla questione dei bambini sottratti alle famiglie e ammette:
«Tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura infernali; altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia.»
Cosa può determinare l’allontanamento di un minore dai propri genitori?
«L’attuale procedura consente al Tribunale per i Minorenni di sospendere la potestà genitoriale ad uno o entrambi i genitori, dietro la segnalazione di un operatore scolastico o sanitario. Un comportamento o atteggiamento sospetto da parte di un bambino, un disagio economico, può gettare una famiglia nell’inferno. Non solo segni evidenti di abusi sul corpo, non solo confessioni drammatiche. Per vedersi sottrarre un figlio basta intravedere una difficoltà ad interagire con i coetanei, eccessiva aggressività, inappetenza, linguaggio sboccato, tutto quel che può essere interpretato come sintomo di disagio. Difendere i minori è un dovere assoluto, ma l’approssimazione, lo standardizzare una procedura, il trattare i singoli casi come fossero documenti su cui apporre un timbro, significa correre il rischio di commettere errori gravi, veri atti disumani. Durante le separazioni di solito tale segnalazione agli organi preposti è fatta dal genitore affidatario (nel 93% la madre) che, su consiglio di consulenti legali senza scrupoli, utilizza l’apparato giudiziario per far allontanare l’altro genitore dalla vita del figlio. Capita di vedersi sospeso dal ruolo di genitore anche senza una consultazione, d’ufficio. Gli assistenti sociali hanno la totale gestione del minore. Molti hanno perso i contatti per anni con i loro figli, istituzionalizzati in altre città o in luoghi di cui non viene fornita localizzazione. Quando il decreto di sospensione emesso dal tribunale è provvisorio, non consente ai genitori di ricorrere in appello. Si può andare avanti per anni senza alcuna possibilità di contraddittorio e difesa dalle accusa che hanno determinato il provvedimento. Non vengono accolte prove sull’innocenza, non vengono sentiti testimoni: valgono esclusivamente le insindacabili relazioni degli assistenti sociali e le perizie dei consulenti psichiatrici, in linea con le aspettative del magistrato.»
Federcontribuenti costituisce Finalmente Liberi, una commissione di inchiesta che si occuperà esclusivamente della questione dei bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento. Intervista al Giudice del tribunale dei minori di Bologna, Francesco Morcavallo.
E’ vero che dietro gli allontanamenti, le perizie e le casa famiglie, spesso, si nasconde uno spietato business? Conosce all’incirca la cifra spesa ogni anno dallo Stato?
«Quasi cinquantamila minori in istituto (termine rispondente alla realtà, in luogo degli pseudonimi comunità e casa-famiglia) non rispecchiano la realtà del problema della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza; tanto più che, per la stragrande maggioranza, gli allontanamenti non sono motivati su fatti certi, ma su impressioni relative al carattere ed alla adeguatezza (termine quanto mai vuoto) delle persone nello svolgimento dei compiti familiari quotidiani ed in ragione delle difficoltà economiche delle famiglie, in realtà risolvibili mediante la concreta applicazione dei diritti sociali costituzionalmente garantiti (ma effettivamente negati da quelle stesse istituzioni pubbliche e para-amministrative che, in alternativa, perseguono il metodo della sottrazione dei minori dai contesti arbitrariamente qualificati come ‘inadeguati’). Si determinano così l’arbitrio e l’incertezza dei criteri di decisione, utili non soltanto a fini di autoritario controllo sociale, ma anche ad alimentare la circolazione di somme di denaro pubblico per circa due miliardi di euro ogni anno, che tiene vivo il mercato degli affidamenti e -insieme ad ingenti esborsi di denaro privato- quello delle adozioni».
Cosa ha da dirci sulla Pas?
«La così detta p.a.s., sindrome immaginaria, i cui inventori e fautori si affrettano a proclamarne oggi a gran voce, in protocolli e linee-guida, l’assoluta inesistenza, ha costituito e costituisce ancora uno strumento utilissimo all’esercizio di quell’arbitrio in nome del quale le vite delle famiglie possono essere controllate ed il novero dei bambini da destinare al mercato degli affidamenti può essere continuamente alimentato. Il meccanismo è semplice e – applicato con la disonestà e l’ignoranza dominanti nell’ambito de quo - efficace: nella famiglia che, secondo l’impostazione autoritario-cattolica, si etichetta come disgregata, a) la madre è inadeguata allo svolgimento del proprio ruolo perché formula accuse forse false nei confronti del padre del bambino; b) il padre è inadeguato al svolgimento del proprio ruolo perché forse le accuse della madre sono fondate; c) inter litigatores e in attesa di fatti certi, il bambino è posto in sicurezza (e in circolo di mercato) mediante l’intrusione dell’accolita di amministratori, mediatori, psicologi ed esperti pronti a fornire (imporre) il sostegno dell’autorità, nonché spessissimo mediante la collocazione protetta, cioè in istituto (privato, ovviamente)».
Secondo lei, quale dovrebbe essere il primo passo di Finalmente Liberi?
«Il primo passo dovrebbe coincidere con quello che è stato proprio anche di altre meritorie iniziative: descrivere la realtà in modo documentato e diffondere la descrizione stessa, anche sollecitando magistrati, avvocati, medici e psicologi affinché si dissocino dal distorto sistema».
E’ vero o sono leggende, le storie che vedrebbero gravi abusi su minori, all’interno di alcune strutture private?
«Tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura infernali’ altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia».
Che tipo di controlli vengono effettuati su queste strutture? Vero che molte sono di matrice opussiana?
«I controlli amministrativi sulle strutture predette sono del tutto inattendibili. Molte sono gestite da religiosi, molte altre da laici. In effetti, la contaminazione e l’etero-direzione del sistema giurisdizionale ed amministrativo minorile, soprattutto da parte dell'Opus Dei, si attua non soltanto attraverso la gestione di istituti, ma anche e primariamente mediante la pervasiva e massiccia contaminazione della magistratura, specialmente di quella minorile, delle istituzioni di controllo sul sistema della giustizia, con particolare riguardo al C.S.M., nonché dell’amministrazione e del parastato. Del resto, il problema non è peculiare dell’ambito minorile, essendo ben noto che quella stessa organizzazione è assurta dalla fine degli anni Settanta del Novecento alla titolarità del soglio pontificio ed all’egemonia nel sistema creditizio e finanziario, nonché ininterrottamente dal 1992 al controllo del governo italiano ed alla predominanza in tutti gli schieramenti politici nazionali così detti ‘tradizionali’ (anche - ed anzi in special modo - in quelli riciclatisi dalla tradizione marxista all’esito degli eventi del 1989, attraverso la denigrazione e la sostanziale distruzione del partito e del movimento autenticamente socialisti - nell’ambito di metodi per l’acquisizione del potere cui, secondo quanto stanno chiarendo inchieste ormai decennali, avversate dai centri di potere politico e giudiziario, non sono rimasti estranei l’utilizzo di strutture associative occulte, la manipolazione dell’attività dei servizi segreti e l’alleanza con organizzazioni criminali consolidate -)».
Per ciascuno minore si versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa 1000 MILIONI di euro a carico della collettività ( fonte Osservatorio Nazionale Famiglie Separate – Gesef). Si dal varo della legge 285 del 1997 che stanzia annualmente centinaia di miliardi per garantire e tutelare i diritti dell’infanzia, si sono quintuplicati i centri di accoglienza, gestione e trattamento dei disagi minorili. Un’armata fatta di servizi sociali territoriali, migliaia di operatori formati e retribuiti con fondi pubblici, una schiera di avvocati e di psicologi, che non troverebbero altrimenti spazio sul mercato del lavoro professionale già saturo, traggono dalle conseguenze giudiziarie della conflittualità tra ex coniugi e del disagio minorile una inesauribile fonte di prosperoso guadagno. Temiamo che dietro gli enormi interessi economici che ruotano intorno alla “tutela del minore” possano celarsi lobbies di potere, serbatoi di voti, per un business che nulla ha a che vedere con la tutela dei minori.
Francesco Morcavallo e l’inchiesta de Le Iene sull’affidamento dei minorenni. Le Iene Show intervistano Francesco Morcavallo. Nella puntata di mercoledì 21 maggio 2014 Matteo Viviani, inviato de Le Iene Show intervisterà Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei Minorenni di Bologna. Le dichiarazioni sono destinate a lasciare clamore e ad alimentare polemiche sulle pratiche relative agli affidamenti. Il programma si era già occupato di questa spinosa tematica sostenendo che in alcuni casi le ragioni per cui dei bambini venivano sottratti ai loro legittimi genitori erano piuttosto vaghe e farraginose. L’intervista a Francesco Morcavallo si proponeva di acclarare eventuali ragioni a scelte così impegnative che apparivano di primo acchito ingiustificate. L’ex giudice del Tribunale dei minorenni non ha escluso la possibilità di interessi che possano inficiare l’obiettività nella decisione sull’affidamento dei più piccoli. Ma se il caso è destinato a far discutere, è doveroso precisare come Le Iene Show partono da esperienze concrete in cui intervistano protagonisti. Ammesso che in tali casi siano ravvisabili anomalie o discrepanze, non è intenzione del programma screditare intere categorie o far sorgere il dubbio che tutte le pratiche di affidamento siano viziate da irregolarità o interessi che poco hanno a vedere con il bene dei minori. Tuttavia, fa scalpore pensare che anche una materia così delicata possa essere macchiata da abusi e da giochi sottobanco che hanno come primo risultato quello di spezzare famiglie segnando irrimediabilmente il futuro dei minori coinvolti. Le parole di Francesco Morcavallo sono ancora più significative perché provengono da una figura che per la propria esperienza professionale parla con cognizione di causa: le sue considerazioni aprono prospettive per certi versi inquietanti. E’ chiaro che non rimane che attendere nuovi sviluppi così come in altre coraggiose inchieste condotte da Le Iene: sempre nella puntata di mercoledì 16 maggio, Luigi Pelazza continuerà la sua indagine sui soprusi e sulle torture perpetrate dai nostri soldati impegnati nelle cosiddette missioni di pace.
Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei Minori, intervistato da Matteo Viviani descrive le anomalie relative alle pratiche di affidamento. Matteo Viviani nella puntata De Le Iene Show è tornato su un tema che segue da alcuni mesi: come funzionano gli affidamenti dei minori? Ad aprile aveva già intervistato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minorenni di Bologna, che aveva raccontato come spesso le decisioni in tribunale siano influenzate da interessi e pressioni da parte di psicologi, medici, sociologi e assistenti sociali. Sebbene la legge lo vieti espressamente infatti ci sono giudici onorari, chiamati a decidere su eventuali affidamenti di bambini sottratti alle loro famiglie, che hanno una partecipazione diretta o indiretta all’interno delle comunità di affido alle quali si rivolgono. Viviani in quell’occasione aveva raccolto la testimonianza di genitori ai quali era stato tolto l’affidamento dei figli a seguito di motivazioni vaghe e farraginose. Una questione spinosa visto che sono coinvolti soggetti minori e che senza dubbio merita di essere approfondita proprio nel loro interesse e nel nome della trasparenza. Ovviamente anche nel servizio di ieri le conclusioni alle quali si può arrivare riguardano casi singoli e concreti e non devono portare a screditare intere categorie o modus operandi. E di certo il fatto che a raccontare certi abusi sia un giudice dà maggiore attendibilità alla testimonianza. Tempo fa Viviani aveva aiutato Andrea Barlocco e Sabrina Saccomanni ai quali erano stati portati via i bambini a causa delle presunte condizioni igieniche della casa. La cosa apparentemente incomprensibile in questo caso era l’affidamento diretto alla comunità, senza contattare parenti e familiari.
Le Iene, 21 maggio 2014: Come funziona il business dei bambini.
23.07 Il punto è che Viviani ha in mano le prove di cinquanta casa di conflitto d'interesse nella gestione di casi di minori affidati al parere di giudici onorari...
23.05 Viviani va a cercare la Presidente del Tribunale dei minori di Trento per sottoporle il caso. Ma quando la trova...
23.02 Salta fuori che un giudice onorario di Trento sia anche vicepresidente di una cooperativa che gestisce una casa famiglia. Per legge non si potrebbe proprio per non creare un terribile "conflitto di interessi". Che storia brutta. La Iena Matteo Viviani indaga con un collega della dottoressa che al momento è in ferie.
23.00 Però gli allontanamenti accadono solo in casi "disperati", giusto? Non proprio...(e nel frattempo chi gestisce questi bimbi si fa un sacco di soldi!).
22.58 Una conversazione straziante tra una mamma che è stata separata dai suoi bambini e, appunto, i suoi figli che urlano: "Ma io ce li ho i genitori!". E come dar loro torto?
22.56 Francesco Morcavallo che ha gestito per un bel pezzo casi di affido di minori ci spiega un po' come funziona questo sistema. Soprattutto alla luce delle scoperte fatte dalle Iene negli ultimi tempi.
I nostri figli portati via da un giudice. In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido. Spesso per cause non del tutto giustificate. E si moltiplicano le critiche contro assistenti sociali, psicologi e magistrati. Accusati di interventismo e perizie frettolose. Ma soprattutto di alimentare un business, che per alcuni vale più di 1 miliardo, scrive Antonio Rossitto “Panorama”. Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. "Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me" dice Barbara. Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: "Questa volta, almeno, combatteremo insieme" le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni. Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza. Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini. Un numero enorme, che costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile, andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e libri-verità parlano di "bambini rubati dalla giustizia". Raccontano di assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci. Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette. A scuola, una maestra ha trovato un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità. Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili. L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri: Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse. E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è "falsa testimonianza ". L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio. Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli, Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali: un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia. Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben dieci dopo il suo "rapimento legalizzato ". Uno sbaglio tragico e clamoroso. Tanto che la Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un "buco esistenziale" durato un decennio. Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli. È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: "Tutti" accusa "denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa". Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori. Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. "Questi sono veri sequestri di Stato" prosegue concitato. E attacca: "Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno". Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente. Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa. C’è un altro dato che inquieta: quasi il 77 per cento dei minori viene allontanato per "metodi educativi non idonei" e per l’"impossibilità di seguire i figli". "Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono " denuncia Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. "Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie" considera Vignale. Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli. Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese. Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana. I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede "il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture ". "Vogliono la mia busta paga" spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. "Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita". Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto. Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto "una madre esasperata ". Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. "Da quel momento è cominciato l’inferno" racconta Causin. "Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale". Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. "Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro" racconta la signora. "Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande". La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile. Il tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita. L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte. Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro, Presunto colpevole (editore Chiarelettere). "I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno" sostiene. "Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone. Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli". Accuse cui ribatte Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’Asnas, storica associazione di categoria: "C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini. La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?". Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, "come in tutte le professioni": "Ma noi siamo dipendenti pubblici" aggiunge. "Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze". Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza: Melita Cavallo. Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata, Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e "consiglia" al collega il pensionamento. "La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga" dice la presidente. "Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso. Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione". Cavallo insiste, parla di "assistenzialismo spinto": "Si spendono un sacco di soldi" continua. "Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima". Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: "Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. Perché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti". O, al contrario, troppo interventisti. La Cassazione ha appena confermato l’"ammonimento" già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: "L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici ". Insomma, quell’allontanamento è stato "un provvedimento abnorme ", per la Cassazione. Cavallo non commenta, ma aggiunge: "Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi". Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. "Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina" racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con "una condotta criminosa", abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme. Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. "Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima " spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. "Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico". Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una "comunità protetta" costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia. Anche per questo motivo il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. "Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori" dice Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare . "La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile". Un’utopia, appunto. "Il problema è che sono pochi i genitori disponibili" dice il pediatra veronese Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: "Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due". Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé. "E bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente" chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente. Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata "provvisoriamente " a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni. Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. "Le hanno fatto il lavaggio del cervello " accusa. La donna ha la sofferenza stampata sul volto. "L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla". Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso... di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: "La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia" ha assicurato. "Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali". Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia. Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.
Lo scandalo dei minori «affidati». Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila mentre da noi è 5 volte tanto? Scrive Maurizio Tortorella “Panorama”. È uno scandalo che meriterebbe l’intervento urgente di qualche magistrato penale. In Italia, secondo gli ultimi dati ufficiali, sono circa 39 mila i bambini tolti alle loro famiglie dai Tribunali dei minori (per presunte violenze, per indigenza dei genitori, e per altre cause): 30 mila di loro sono ospitati in case d’affido e comunità protette, e il fenomeno da anni è in forte crescita. Tutto normale? Per nulla. Le anomalie sono grandi e sospette. Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila e a 7.700. E poiché in Italia comuni e aziende sanitarie locali pagano per ciascun minorenne affidato una retta minima giornaliera di 200 euro (ma spesso si arriva a superare i 400). Per questo c’è chi solleva il terribile sospetto che dietro al fenomeno affidi si nasconda un colossale business della sofferenza minorile, in troppi casi basato su perizie «addomesticate», se non su veri e propri illeciti: a denunciarlo è la Federcontribuenti, che stima in 2 miliardi di euro la spesa pubblica annua destinata a sostenere gli affidamenti di minorenni. «È un’anomalia troppo grave perché possa essere ignorata da politici e magistrati penali» protesta Marco Paccagnella, che della Federcontribuenti è presidente. Per contrastare gli abusi, l’associazione ha appena dato vita a una commissione d’inchiesta intitolata «Finalmente liberi» che denuncerà i comportamenti non trasparenti. «Una delle grandi carenze del sistema italiano è proprio l’opacità» dice Cristina Franceschini, l’avvocato veronese a capo della commissione. «Da noi non è previsto nemmeno un registro degli affidamenti, attivo invece in tutti gli altri paesi, né si sa quante siano le comunità protette». Gli ultimi dati governativi sui minorenni sottratti alle famiglie risalgono al 2010: quell’anno ne erano stati calcolati 39.698, collocati dai tribunali dei minor in centri di affido temporaneo o in altre famiglie, il 24 per cento in più rispetto a 10 anni prima. «Abbiamo già scoperto quasi 100 casi» rivela Zorzella «nei quali i giudici minorili onorari, in gran parte psicologi, operano nelle case d’affido o compaiono addirittura tra i loro fondatori». Il conflitto d’interessi è evidente: è ammissibile che a decidere se un bambino debba essere sottratto alla famiglia sia chi ha un ruolo professionale (e retribuito) nella struttura destinata ad accoglierlo? «Stiamo facendo le ultime verifiche» dice Paccagnella. «Le prime denunce sono già pronte. E abbiamo solo cominciato».
LI CHIAMANO AFFIDI. SONO SCIPPI.
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Il più osceno business italiano: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna? Sono decine, centinaia?
«Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono».
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso».
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali».
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo».
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore».
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato».
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati»».
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili».
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla».
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.»
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato».
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare».
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca».
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna».
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3».
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica».
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà̀.»
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali».
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più».
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti».
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani».
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce».
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti».
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura».
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete».
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
PARLIAMO DI BIBBIANO.
· Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.
Pedofilia, Fiesoli condannato e libero. “L'ho visto con dei ragazzini”. Le Iene l'11 settembre 2019. Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana sostiene, mostrando le foto, di aver visto il “profeta” della comunità agricola il Forteto, condannato per abusi sui minori e ancora in libertà, avvicinare in maniera sospetta dei ragazzini. Uno di loro: “Faceva discorsi strani”. Rodolfo Fiesoli, il “profeta” del Forteto, sarebbe stato avvistato mentre chiacchierava con ragazzini ad Aulla (Massa-Carrara), spacciandosi per uno scrittore. A sostenerlo è Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. Gorlandi che ha anche scattato delle foto pubblicate su Facebook che vedete qui sotto e che ritraggono l’orco della comunità agricola in Toscana travolta dagli scandali per le accuse di abusi e molestie sessuali sui minori, mentre chiacchiera con giovani ragazzi.
La corte d'appello di Firenze ha assolto, perché il fatto non sussiste, Rodolfo Fiesoli nel cosiddetto "Fiesoli bis", un procedimento che lo vede accusato di violenze sessuali simili a quelle del processo principale, ma ai danni di un solo minore che frequentava saltuariamente la comunita' di Vicchio. In primo grado, Fiesoli era stato condannato a 8 anni col rito abbreviato. Nell'altro processo, ovvero quello principale, Fiesoli è stato condannato a 14 anni e 10 mesi in un nuovo processo d'appello. Attualmente è libero in attesa del giudizio della Cassazione. Ora Rodolfo Fiesoli vive ad Aulla, in una residenza per anziani. Durante una delle sue passeggiate sarebbe stato avvistato da Gorlandi. “L’ho visto un giorno al bar”, racconta al quotidiano La Verità il coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. “Si è avvicinato ad alcuni ragazzini, ho sentito che raccontava di essere uno scrittore, che scriveva libri bellissimi. Mi sono alzato e ho chiesto che cosa stesse facendo, e allora si è allontanato”. “Si è avvicinato solo, non sapevo chi fosse”, ha raccontato un ragazzo sempre a La Verità. “Mi ha parlato per circa 10 minuti mentre le mie colleghe si erano assentate. I discorsi che faceva mi parevano parecchio strani. Si è presentato come psicologo e scrittore”. Noi de Le Iene, nell’inchiesta di Pablo Trincia, già nel 2013 abbiamo cominciato a occuparci della terribile vicenda del Forteto. Siamo partiti proprio dalle testimonianze degli ospiti della comunità agricola, all’epoca dei fatti tutti minorenni. Bambini che venivano affidati a quella struttura dal Tribunale dei minori poiché con situazioni familiari difficili. A Pablo Trincia hanno raccontato i veri e propri lavaggi del cervello a cui erano sottoposti, come potete vedere nel video qui sopra. “A 13 anni sono arrivato al Forteto perché mio padre era stato accusato di abusi sessuali”, racconta Paolo, uno dei ragazzi della comunità, nel primo dei tre servizi dedicati a questo caso. “Rodolfo Fiesoli mi diceva: ‘Vieni in camera mia, si discute’. Mi diede un bacio a stampo”. Ma “il profeta”, racconta Paolo, non si limita a questo. “Dopo il bacio comincia a toccare. Mi prendeva la mano, se la metteva sui pantaloni e faceva su e giù. Mi toccava i pantaloni e mi ha messo un dito nel sedere”. “Sono arrivato al Forteto a 14 anni e sono stato abusato dal Fiesoli. Erano rapporti completi”, ha raccontato un altro dei ragazzi cresciuti nella comunità. A cui si aggiunge la testimonianza di Marika: “Ebbi un rapporto orale completo con Fiesoli, da quella volta non riuscì più a guardarlo come mio padre affidatario”. Si attendono le valutazioni della Cassazione.
CHE MARCIO IN DANIMARCA! Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 14 agosto 2019. C'è del marcio in Danimarca. La citazione dall' Amleto shakespeariano è d' obbligo dinanzi alla notizia che il primo ministro Mette Frederiksen ha voluto rivolgere pubbliche scuse per gli orribili abusi commessi in istituti statali per i minori dal 1946 e il 1976, nel pieno splendore dei governi della socialdemocrazia e del sogno libertario che i paesi del Nord Europa rappresentavano. «Per chi è qui, per quelli che c’erano, voglio dire scusa a nome della Danimarca. Voglio guardare ciascuno di voi negli occhi per dire l'unica cosa giusta: scusa, scusa per le ingiustizie che vi sono state fatte», ha dichiarato, commossa, la premier socialdemocratica, durante una cerimonia organizzata nella sua residenza ufficiale a Marienborg, alla presenza di alcune delle vittime. Molti di loro provenivano dall' istituto statale per ragazzi di Godhavn, nel nord della Danimarca. Nel 2005 è stato un documentario della televisione danese a rivelare quegli orrori nascosti: abusi fisici e sessuali, vessazioni psichiche, e persino sperimentazioni, da parte di uno psichiatra, dell'Lsd con bambini che bagnavano il letto. Inutile dire che molti di questi ragazzi, in seguito, sono diventati dipendenti da stupefacenti. Nel 2010 fu così avviata un' inchiesta che ha documentato casi di abusi in 19 istituti per minori. Le violenze non si sono fermate quando i ragazzi e le ragazze uscivano dagli istituti. Li hanno segnati e seguiti per sempre, perché, come emerge da molte testimonianze raccolte, per molti di loro la vita è stata costellata da difficoltà di ogni genere: uso di droghe, alcolismo, lavori ottenuti e persi continuamente, matrimoni falliti. Per tutto questo in realtà nessuno ha pagato, perché quando il velo è stato sollevato su questi tragici fatti erano passati già molti anni, quasi tutti i responsabili erano scomparsi e i vari governi succedutisi dal 2010 hanno realizzato che si trattava di vicende troppo lontane per essere affrontate giuridicamente. Una storiaccia insomma che ricorda i casi che hanno coinvolto ordini, sacerdoti e alti prelati della Chiesa cattolica scuotendo l' opinione pubblica mondiale. Tanto che è diventato quasi automatico avvicinare al termine "prete" quello di "pedofilo". Capiterà lo stesso con gli "educatori laici" danesi? Scommettiamo di no.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Affidati alla sinistra. Alesandro Bertirotti l'1 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. Certo, rimanere sconcertati di fronte a notizie come queste è il minimo. Anche il Cristo esprime parole durissime quando si riferisce a coloro che avrebbero osato “scandalizzare” i bambini. E dice, al tempo stesso, che per entrare nel Regno dei Cieli occorre farsi, appunto, come bambini. Questi sono i due concetti dai quali parto per il ragionamento che segue, perché penso siano non solo concetti cristiani ma appartenenti alla sensibilità che l’Occidente credeva di aver conquistata e mantenuta. Non siamo nuovi in Italia a notizie del genere, perché sono sicuro che molti di voi ricorderanno esattamente quello che è stato scoperto sul Forteto di Firenze. E potete trovare ancora materiale in rete, oltre a questo. Ma abbiamo di più, e cioè la presenza di una organizzazione a delinquere contro la famiglia tradizionale, la figura paterna per avvantaggiare famiglie alternative, ossia omosessuali et similia (anche bisessuali, tanto non fa male un po’ di creatività…), come si evince da questo articolo ulteriore. Coloro che conoscono la legge Cirinnà sulle unioni civili sanno perfettamente che penalizza qualsiasi unione eterosessuale a vantaggio di quelle omosessuali, perché ovviamente questo significa voti, per quella sinistra che appoggia da sempre la creatività evolutiva. È ovvio, mi riferisco alla creatività che ghettizza, attraverso le manifestazioni come il Gay Pride, i circoli con tessera Arci e altre amene iniziative ricreative. Quindi, possiamo sostenere che per la sinistra la famiglia tradizionale è qualche cosa da superare, desueto, démodé e quindi reazionario. Un padre che fa il padre, amando una madre che fa la madre, con la colpa di essere eterosessuali, sono sicuramente inadatti all’educazione dei figli. Ecco perché è utile organizzare il peggio possibile, per condurre questi bambini ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con sevizie psicologiche e fisiche. Io sono convinto che non tutta la sinistra sia in queste condizioni, almeno la poca che ancora pensa, e che non sia piegata all’ideologia di qualche multinazionale. È anche vero che gli esponenti politici attuali non hanno rivolto nessuna attenzione a quanto sta uscendo fuori da questa scandalosa storia emiliana. E non si sono assolutamente recati in Emilia, magari con qualche dichiarazione di condanna, preferendo, giustamente secondo loro, imbarcarsi per difendere bambini, famiglie, padri e madri del tutto normali, ma poveri ed immigrati. È evidente, che esiste una normalità che a loro piace, e che magari proviene dal mare. Mentre la normalità di una Emilia che lavora duramente è assolutamente da evitare, visto che si inventano persino storie per sottrarre i bambini alle proprie famiglie, e attraverso un interessantissimo giro di denaro, affidarli a famiglie creative. In questo caso, il termine “creative” è sinonimo di delinquenti, almeno queste sono le accuse. Vedremo se ci sarà un rinvio a giudizio e dunque un giudizio. Intanto, “la politica progressista per il bene dell’umanità intera” (locuzione che esprime tutto l’amore possibile per la povera gente…) prende il sole in Sicilia e se ne frega dei criminali che alimenta in patria. Cosa dovremmo pensare di tutto ciò?
Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo.
La guerra contro l'infanzia. Bambini vittime di violenza o indifferenza, abusati o considerati intralci alla vita degli adulti. E le culle si svuotano. Marcello Veneziani l'8 agosto 2019 su Panorama. Omofobia, xenofobia, islamofobia...E se l’emergenza dei nostri giorni fosse invece la puerofobia? Non sopportiamo più i bambini, li maltrattiamo, li usiamo e li abusiamo, calpestiamo i loro affetti primari, la loro natura e la loro indole infantile. Meglio i cani o i gatti che avere bambini tra i piedi. Siamo alla guerra civile contro l’infanzia. La triste storia di Bibbiano dei bambini sottratti con la forza e la menzogna alle loro famiglie è la punta di un iceberg inquietante ma anche l’emblema di una guerra ai bambini e alla famiglia naturale. Su altri piani sono quotidiani i casi di violenze e sevizie, anche mortali, inflitte ai bambini nella più tenera età. Genitori solitamente tossici si accaniscono coi loro figli con crudeltà inumane, insofferenti alla loro minime turbolenze. Nello stesso tempo emergono periodicamente siti pedofili, traffici di bambini e tentativi di adescarli su strada. Intanto perdura inattaccabile l’industria dell’aborto, la soppressione dei bambini indesiderati. E il racket delle adozioni, le battaglie contro la fertilità, la maternità e le famiglie naturali. Storie diverse, piani differenti, ma vanno tutte in una direzione: la guerra molecolare contro i bambini. È ormai a pieno regime l’Opera Nazionale contro la Maternità e l’Infanzia. Il bambino è considerato l’Intruso, l’Intralcio alla nostra vita e alla nostra libertà, o semplicemente un pacco postale da rispedire, un materiale da smaltire, come un rifiuto tossico, o un oggetto di consumo, di sfogo sessuale, di perversione o una vittima sacrificale su cui scaricare la vita, il lavoro e il mondo che non ci piace. Ma quando metti insieme la campagna assordante contro la famiglia naturale e tradizionale, il pregiudizio che si cresca meglio demolendo le figure genitoriali e ripudiando i padri e le madri naturali più il controllo invasivo della struttura pubblica sulle famiglie, il risultato è quello. Quel che resta della brutta storia di Bibbiano, oltre le responsabilità penali e civili dei protagonisti, è il rifiuto della famiglia. Non è più considerata il focolare ma il focolaio di tutte le infezioni sociali, dal sessismo al razzismo, dal familismo all’omofobia. Dunque sottrarre i figli alla famiglia naturale è progresso, è emancipazione. Meglio genitori adottivi, magari omosessuali o lgbt, meglio le strutture pubbliche, le costosissime case-famiglie, che l’alveo naturale in cui sono nati. A tutto questo si aggiunge il connotato di fondo, la denatalità, l’assenza di futuro delle nostre società imbevute di presente, l’egoismo dei genitori, eterni ragazzi che non vogliono cedere quote di vita e piacere all’egocentrismo sovrano dei bambini che competono coi capricci degli adulti ed esigono rinunce. L’unica forma di natalità compatibile è quella dell’utero in affitto; tutto meno che la procreazione secondo natura. Gli unici bambini su cui si esercita ancora una tenerezza umanitaria sono migranti; i bambini restanti in Africa nella miseria più nera, interessano assai meno. Lontani dal video, lontani dal cuore. Bambini plagiati e venduti nel nome dell’infanzia guidata da assistenti sociali e psicologi, bambini violentati nel nome del piacere sessuale, perfino bimbi malati eliminati nel nome dell’eugenetica o della dolce vita dei loro genitori. E bambini vietati nei luoghi della vacanza e del divertimento. Un posto fashion è per definizione proibito ai bambini, ai passeggini, alle famiglie tradizionali coi marmocchi. A malapena sono ammessi i vecchi, purché potenti, abbienti o travestiti da giovani. Ma i bimbi no, in assoluto, perché sono per definizione proletari, non sono elettori e tantomeno eletti, e non sono consumatori attivi della droga, del sesso, dei viaggi, dei consumi, ma solo vittime passive. I pochi superstiti del regno infantile sono trattati coi guanti bianchi, ipernutriti, benvestiti e tecnologicamente accessoriati, anche se poco educati alla vita reale e alle buone maniere; sono specie protetta, tecnologicamente avanzata, macchinette accessoriate, dotate di ogni comfort, eccetto i genitori e la comunità intorno. Certo, è meglio vivere in società avare di bambini e piene di fobie, come la nostra, che in società in cui i bambini muoiono di fame o sono mandati a morire in guerra. Meglio vivere in una società come la nostra, dove vedi bambini confinati nei recinti dell’idiozia, squallida o lussuosa che sia, piuttosto che in Paesi dove li usano come agnelli sacrificali, sgozzati o mandati a morire nel nome di Allah. Nei Paesi islamici ho visto il sangue e i dolore dei bambini portati al piccolo macello rituale, per l’infibulazione o più frequentemente la circoncisione; li ho visti avvolti in panni di sangue, tra le lacrime; e ho pensato al sereno rituale dei nostri battesimi cristiani, prime comunioni e cresime, dove il massimo era un po’ d’acqua in faccia alla creatura in fasce o il buffetto rituale per diventare soldati di Cristo. Ma per il catechismo dominante, il male principale da rimuovere è la nostra religione coi suoi simboli e riti. Per questa ragione ai nostri bambini si preferisce negare pure il presepe e i canti di Natale, visti come segni di xenofobia...Insomma su piani diversi siamo alla guerra all’infanzia. I bambini sono visti come i nemici dell’umanità perché ricacciano nel passato, ipotecano il presente e usurpano il futuro. E invece dovremmo riaprire le frontiere famigliari e accogliere i bambini, dar loro asilo. Mai parola fu più azzeccata per un popolo di piccoli profughi clandestini, costretto a lasciare la madrepatria e a vivere sotto mentite spoglie perché indesiderati. Di loro sarà il regno dei cieli; ma in terra da noi scarseggia chi è disposto ad accoglierli secondo natura e umanità.
La teoria partecipativa. Ossia: La legge del più forte.
L’Europa unita nel diritto? Con l’On. Cristiana Muscardini e Marinella Colombo si parlerà di Jugendamt e regolamenti europei. Jugendamt0.blogspot.com martedì 12 maggio 2015. Domani, giovedì, 16 aprile, presso l’Istituto Zaccheria di Milano, in via della Commenda 5, si svolgerà il convegno Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco organizzato dall’associazioni Vivimi, al quale parteciperanno l’On. Cristiana Muscardini, la dott.ssa Marinella Colombo, l’Avv. Laura Cossar, l’Avv. Laura Irene Gonnelli, l’Avv. Laura Tusa Salvetti. Di Jugendamt in Italia se ne parla da pochissimo, spesso in maniera sommaria data la scarsità di conoscenza dell’istituzione, da quando, nel 2009, alla dott.ssa Marinella Colombo sono stati sottratti dalla Germania i due figli a lei affidati dal tribunale tedesco dopo la separazione dal marito tedesco. Della vicenda se ne occupò tra i primi l’On. Cristiana Muscardini, eurodeputata, che con interrogazioni e interventi in aula portò all’attenzione del Parlamento europeo la questione che non riguardava solo la dott.ssa Colombo ma centinaia di genitori non tedeschi che si erano visti sottrarre dallo Jugendamt, dopo la separazione dal coniuge tedesco, i figli. La cosiddetta “Amministrazione per la gioventù”, Jugendamt appunto, opera da oltre 20 anni in Germania e controlla i tribunali familiari di quel paese e, attraverso i regolamenti europei, anche i nostri e quelli dei restanti paesi dell’Unione. Nessuno ne sa nulla e soprattutto dicono di non saperne nulla i nostri giuristi e magistrati che dunque consegnano ingenuamente, o in modo volontariamente inconsapevole, i nostri bambini, cioè il nostro futuro e supportano le autorità tedesche nel processo di criminalizzazione dei genitori italiani che perdono i figli, la relazione con loro, ma anche ogni avere e la futura pensione. Giovedì sarà affrontato questo tema per permettere ai giovani avvocati di reperire gli strumenti per difendere efficacemente i loro clienti italiani e ai media di svelare una realtà provata, ma fino ad ora troppo ben dissimulata. L’ingresso è libero e aperto al pubblico.
Fonte: Il Patto Sociale.
Estratto dall'intervento di Cristiana Muscardini, europarlamentare per 5 legislature, veramente impegnata nel sostegno dei suoi concittadini, anche contro lo Jugendamt: "“Dobbiamo cominciare a dire, noi europeisti, che gli Italiani non devono sposare nessuno che sia di lingua tedesca? Dobbiamo cominciare a dire che non ci sia può fidare, all’interno dell’Unione europea, di un paese che è nostro alleato? Il bambino portato via dal padre marocchino non è diverso dal bambino portato via dalla mamma tedesca! Questo dovrebbero capire gli amici che a volte fanno discorsi sull’immigrazione. Il discrimine è all’interno dell’Europa. Non possiamo pensare solo a discrimini con altre religioni o con altre cultura, il discrimine è all’interno della stessa cultura europea, della stessa religione e della stessa Unione politica ed economica. Come fai ad avere ragione del terrorismo se non sei capace di avere ragione del terrorismo psicologico di un paese che si fa forza del proprio potere economico per costringere il resto dell’Europa a cedere i propri figli nell’interesse della grande Germania? Questo quesito va posto alle autorità politiche e alla stampa (che tace) … Va formulata una richiesta al Santo Padre affinché si affronti questo tema per fare chiarezza … perché non è possibile che i Cristiani si facciano la guerra all’interno dell’Unione europea … “ La finalità del diritto di famiglia tedesco non è il “bene del bambino”, ma il “bene della comunità dei tedeschi attraverso il bambino”, quindi la possibilità di trattenere tutti i bambini in Germania.
Estratto dall’intervento del 16 aprile 2015 all’incontro “Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco”. Ciò che per noi è illegale, è legale in Germania, cioè deutsch-legal. Intervento dell’avvocato Irene M. Gonnelli con il contributo del dott. A. Ferragni.
Un sentito grazie all’avv. Laura Tusa Salvetti che ha confermato i nostri timori, riportandoci le parole dei magistrati di Milano in relazione ai casi italo tedeschi: “Speravo in una smentita, almeno parziale da parte dei tribunali italiani, sull’essere pedissequi a questo tipo di scempio giudiziario che viene perpetrato ai danni di persona come la dott.ssa Colombo. Purtroppo mi è stato risposto, con un mezzo sorriso sulle labbra: “quello che noi stiamo cercando di comprendere e di approfondire è la cosiddetta teoria partecipativa”. Mi si è aperto un mondo. La teoria partecipativa è una modalità attraverso la quale i nostri tribunali, le nostre corti di merito e, in tendenza, la Corte di Cassazione, desiderano conformarsi, nel rispetto della normativa e dell’applicativa dei tribunali di famiglia di tutti i vari stati membri, ma che poi sostanzialmente devono ridursi ad una adesione pedissequa al diktat dello Stato membro più forte. Questa è la teoria partecipativa. Alla mia domanda “ma voi concretamente che cosa fate?” è stato risposto. “Cerchiamo di temperare le necessità contingenti e stiamo facendo dei corsi di tedesco”.
Adozioni, le famiglie scrivevano e nessuno rispondeva: la responsabile non ha guardato la posta ufficiale per 10 mesi. La pubblica amministrazione dovrebbe rispondere entro 60 giorni. La Commissione Adozioni non rispondeva da 316. Motivo? L'indirizzo di posta ufficiale era nelle sole mani della vicepresidente Silvia Della Monica che dal 10 agosto 2016, per 10 mesi, non si è curata di darne lettura fino a intasare la casella di posta. L'ex magistrato evita anche il passaggio di consegne, mettendo a rischio di decadenza gli atti che devono essere ratificati. E negli uffici Cai è partita la corsa contro il tempo. di Thomas Mackinson il 22 Giugno 2017 su Il Fatto Quotidiano. Adozioni, il lato oscuro dello Stato: cambio al vertice dopo tre anni di ombre, veleni e conflitti politico-giudiziari. Avevano anche lanciato l’hashtag #cairispondi. Le coppie adottive erano andate sotto Palazzo Chigi per farsi sentire, perché nessuno si degnava di rispondere alle loro mail. Ora che è saltato il tappo si scopre la banalità del male: semplicemente nessuno le leggeva, da mesi, tanto che molte sono andate perdute per sempre. Cai, Commissione Adozioni Internazionali, comunicazione secca sul sito ufficiale: “In data 20 giugno 2017 si è rilevato che la casella di posta elettronica istituzionale risultava piena con restituzione al mittente delle email in arrivo. E’ emerso che tale situazione si protraeva da tempo e precisamente dal agosto 2016; tale casella di posta poteva essere visionata esclusivamente dalla ex Vice Presidente dott.ssa Silvia Della Monica con password riservata. Si è provveduto pertanto a svuotare la relativa casella che ora è pienamente operativa”. Fuori dal gergo istituzionale e garbato significa che la vicepresidente uscente della Cai, che predicava trasparenza e legalità come un mantra, per quasi un anno si è ben guardata dallo scaricare la posta elettronica della Commissione di cui lei sola deteneva l’accesso. Figurarsi rispondere. Sembra una barzelletta e non lo è. Non solo perché la Pubblica amministrazione avrebbe l’obbligo di rispondere entro 60 giorni mentre qui la sola in condizioni di farlo, dalla poltrona più alta dell’autorità pubblica, non lo faceva da 316: dalla verifica è infatti risultato che molti messaggi in giacenza non erano stati neppure letti e che tutte le mail inviate dopo il 10 agosto 2016, quando la casella ha esaurito lo spazio, si sono materialmente perse. Poi ci si lamenta che le adozioni in Italia sono crollate del 50% in una manciata di anni. L’amara scoperta è stata fatta pochi giorni dopo l’insediamento della nuova vicepresidente della Cai, il giudice minorile Laura Laera, a seguito della presa di possesso dell’ufficio. Due dirigenti sono stati ora incaricati di leggere e controllare le mail in giacenza per fornire in ogni caso una riposta tempestiva laddove sarebbe stato necessario. Sui messaggi non recapitati però questo non sarà possibile. A parte un problema di comunicazioni, banale fin che si vuole ma pur sempre lesivo del diritto dei cittadini a una leale collaborazione da parte dell’amministrazione pubblica, sta emergendo un problema ben più sostanziale sempre determinato dalla condotta poco lineare dell’ex vicepresidente, già magistrato ed ex senatore Pd, nella bufera per le rivelazioni del Fatto sul suo coinvolgimento nella vicenda Airone, tra intercettazioni compromettenti e accuse dei pm di “volersi sottrarre”, di voler “sindacare l’orientamento delle indagini” e di aver “sparso una cortina fumogena” attorno alle vicende oggetto della loro inchiesta penale. Muovendo la superficie dell’acqua del pozzo è venuto a galla il tema dell’operatività e insieme quello della legittimità della Commissione adozioni. Della Monica non ha mai convocato la commissione nell’arco di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Per avere efficacia di legge però molti degli atti disposti, firmati e sottoscritti dalla vicepresidente nel corso di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Ebbene quegli atti, ai sensi del regolamento, per essere pienamente efficaci devono essere ratificati dall’organismo collegiale, pena la decadenza. Anche per questo Laera ha subito annunciato la volontà di convocare la Commissione prima dell’estate. C’è però un problema: il 15 giugno ha preso possesso dell’ufficio ma non c’è stato alcun passaggio di consegne utile anche a individuare – nella mole dei 150mila numeri di protocollo dell’ufficio – gli atti che rischiano di diventare carta straccia. Per il semplice fatto che Della Monica, avvisata da tempo e ricontattata quella stessa mattina dalla segreteria, non si è presentata all’appuntamento fissato da mesi (la nomina di Laera risale al 19 febbraio). Era tutto pronto con il capo dipartimento, il segretario generale, il capo dell’ufficio del personale; mancava giusto colei che per tre anni ha condotto in sostanziale autonomia la delicatissima macchina in consegna. Così a villa Ruffo è partita anche una revisione delle carte che si annuncia monumentale. E potrebbe riservare altre scoperte clamorose.
Come funziona il sistema degli affidi di minori. Giulia Giacobini su wired.it il 25 luglio 2019. Dato che si torna a parlarne a causa di Bibbiano: contrariamente all'adozione, l'affido è una misura temporanea e il minore mantiene contatti con la famiglia d'origine. Possono diventare affidatari coppie conviventi o sposate, ma anche single e anziani. Angeli e Demoni, l’indagine che la procura di Reggio Emilia ha aperto per far luce su un presunto sistema illecito riguardante l’affidamento di alcuni minori a Bibbiano, ha portato molte persone a interessarsi di un tema che solo raramente trova spazio sui giornali e nel dibattito politico: quello degli affidi, per l’appunto. L’affido è un istituto previsto e regolato in Italia dalla legge 184 del 1983 poi modificata dalla 149 del 2001. Contrariamente all’adozione, si tratta di una misura temporanea e non prevede un distacco totale tra il bambino e la famiglia originaria. La legge specifica che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Vengono quindi dati in affido i neonati, i bambini e i ragazzi, anche stranieri, che hanno meno di 18 anni e provengono da una situazione familiare cosiddetta “difficile”. Si può optare per questa misura se, per esempio, il minore è vittima di abusi fisici o psicologici o se il genitore non può o non riesce a prendersene cura perché, per esempio, è tossicodipendente, detenuto o soffre di una malattia fisica o mentale. L’affido può avvenire con o senza il consenso dei genitori. Nel primo caso il provvedimento è disposto dal giudice tutelare, ovvero un magistrato che si occupa delle tutele, al termine di un iter che coinvolge i servizi sociali territoriali. Nel secondo caso, invece, interviene il Tribunale dei minorenni.
La famiglia affidataria. Il minore solitamente viene affidato ad un familiare o ad un parente (per esempio, un nonno o uno zio). Nel caso in cui ciò non sia possibile, si pesca dalla rete dei servizi sociali territoriali. L’affidatario può essere una singola persona o una coppia, sposata o convivente, con o senza figli. La legge non stabilisce vincoli di età né di reddito. L’importante è che la persona o la famiglia abbia uno spazio in casa per ospitare il minore e sia in grado di accudirlo, educarlo e mantenerlo. Naturalmente, non si diventa affidatari in maniera automatica: bisogna proporsi ai servizi sociali e sottoporsi a un serie di incontri e colloqui, durante i quali gli esperti valutano l’ambiente familiare e la propria capacità di prendersi cura di un minore. Se arriva l’ok, si viene inseriti in una lista e, al momento opportuno, si diventa affidatari.
Come funziona l’affido. La durata dell’affido varia di caso in caso. Può essere disposto per sei mesi, 18 mesi, per due anni ed essere eventualmente prorogato se il problema iniziale, per cui era stato disposto, non è stato ancora risolto. Durante questo periodo, il minore mantiene comunque i rapporti con la famiglia originale della quale tornerà a far parte non appena terminerà l’affido. Tuttavia, l’autorità giudiziaria può anche porre a carico della famiglia d’origine vincoli di non frequentazione, ovvero vietarle di vedere il minore. Come spiega La Legge per tutti, questo avviene quando i genitori del minore abbiano tenuto una condotta pregiudizievole per lo stesso tale da sfociare in provvedimenti di dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c. L’affido può anche terminare prima del previsto se la famiglia affidataria non si è rivelata adeguata per il compito e l’esperienza per il minore è risultata negativa o se, al contrario, questa misura è stata trasformata in adozione. In quest’ultimo caso, gli affidatari diventano genitori a tutti gli effetti. L’affido, infine, può anche essere professionale. In questo caso la famiglia affidataria firma un contratto di collaborazione con una cooperativa e partecipa a un progetto elaborato appositamente per il minore per il quale riceve anche un indennizzo. Negli altri casi, le famiglie affidatarie ricevono solo, su richiesta, un contributo economico pari alla somma decisa dal comune.
TUTTI I DATI SUGLI AFFIDI IN ITALIA. Valentina Maglione e Selene Pascasi per Il Sole 24 ore l'1 agosto 2019. Nascosto dietro l’inchiesta sui presunti affidi illeciti di Bibbiano c’è un mondo che coinvolge circa 26mila bambini e ragazzi con genitori in difficoltà: 14mila accolti da famiglie diverse da quella di origine e 12mila collocati nei servizi residenziali per minorenni. Un dato che rappresenta il 2,7 per mille del totale degli under 18 che vivono in Italia e a cui vanno aggiunti i minori stranieri che arrivano non accompagnati, perlopiù collocati in comunità. L’incidenza degli affidi varia da un’area all’altra, senza - per una volta - differenze nette tra Nord e Sud Italia: le regioni dove gli affidamenti sono più frequenti sono la Liguria (con il 5,8 per mille dei ragazzi e bambini coinvolti) e il Molise (dove l’affido riguarda il 3,9 mille dei minori). A scattare la fotografia più recente è l’indagine a campione realizzata dall’Istituto degli Innocenti di Firenze per il ministero del Lavoro. I dati risalgono al 2016 ma l’andamento degli affidi familiari e dei collocamenti nelle residenze per minori è rimasto stabile nei dieci anni precedenti: è probabile che non ci siano stati scostamenti eccessivi anche nel periodo successivo. È proprio dai numeri che è partita l’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Il sospetto è che i servizi sociali - con relazioni false e prove manomesse - abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. In realtà l’affido - in base alla legge 184 del 1983, modificata dalla legge 149 del 2001 - è una soluzione estrema, a cui la giustizia minorile si vede costretta quando la vita e l’educazione di bambini e ragazzi sono a rischio nelle famiglie d’origine. Non bastano motivi economici per decidere l’affido: in caso di bisogno si deve intervenire con sostegni che consentano ai genitori disagiati di occuparsi comunque dei figli. Quali sono, allora, le ragioni per cui viene disposto l’affido? La legge 184/83 non fa un elenco. A fornire dei criteri è l’articolo 403 del Codice civile, che consente l’allontanamento dei minori dalla famiglia da parte della «pubblica autorità» quando sono in stato di abbandono morale o materiale, vivono «in locali insalubri o pericolosi» o sono allevati da persone incapaci di provvedere alla loro educazione.
La procedura. L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori (o di chi esercita la potestà o del tutore), ma deve essere il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se invece genitori o tutori non sono d’accordo, a decidere è il tribunale per i minorenni. Mentre nella procedura urgente dell’articolo 403 del Codice civile, i servizi sociali decidono da soli e poi avvisano il tribunale per i minorenni, ma a volte a distanza di mesi. Bambini e ragazzi possono essere affidati a una famiglia, formata da una coppia sposata, convivente o da una persona singola (ma sono preferite le coppie stabili con figli minori), o a una struttura. Nei casi più gravi si ricorre all’affido “professionale”, in cui i servizi sociali incaricano una cooperativa di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto e prevedendo un contributo: il genitore affidatario, individuato come “referente professionale” deve avere sufficiente tempo disponibile e seguire un percorso di formazione. L’affido è una misura “a tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea: salvo proroghe nell’interesse del minore, non può superare i 24 mesi, ma nella pratica il 60% degli affidi in famiglia dura più di due anni. E l’obiettivo del rientro nella famiglia d’origine è centrato solo nel 40% dei casi. Un impianto che, secondo Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, mostra criticità nell’applicazione: Ronzulli denuncia l’eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e le prassi discordanti sul territorio. Per riformare l’affido, la senatrice ha presentato la scorsa settimana una proposta di legge (atto Senato 1389) che mira ad aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori.
Bibbiano: l'inchiesta di Reggio Emilia sugli affidi dei bambini. Tutto quello che c'è da sapere sull'inchiesta legata agli affidi di minori in provincia di Reggio Emilia. Barbara Massaro il 19 agosto 2019 su Panorama. Le intercettazioni ambientali diffuse nei giorni scorsi dal TgR Emilia Romagna aggiungono nuovi tasselli al quadro del cosiddetto "Caso Bibbiano", ovvero l'inchiesta circa un presunto articolato traffico di affidi illegali di minori che sarebbero stati strappati con l'inganno alle loro famiglie d'origine a scopo di lucro.
Cosa riportano le intercettazioni ambientali. L'inchiesta, che al momento vede indagate 27 persone, coinvolge psicologi, politici locali, neuropsichiatri, medici e assistenti sociali (oltre che le famiglie d'origine e quelle affidatarie dei bambini). Il sistema sarebbe stato talmente collaudato e le persone coinvolte si sarebbero sentite talmente forti che in un'intercettazione ambientale tra una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl di Reggio Emilia si sentono le due donne sbeffeggiare un maresciallo dei carabinieri che stava indagando su di loro e che aveva chiesto loro dei documenti circa gli affidi. Una delle due donne dice all'altra: "E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai..." Si tratterebbe di una minaccia neppure troppo velata di poter agire anche sui figli del militare cercando di far sì che gli venissero tolti. Un'altra intercettazione mandata in onda dal telegiornale riporta la registrazione avvenuta nell'auto di una delle madri affidatarie di una minore. La donna avrebbe fatto scendere la bambina dalla macchina in pieno novembre e sotto la pioggia perché la bambina si sarebbe rifiutata di accusare i genitori naturali di averla molestata o maltrattata. "Vai da sola a piedi, scendi! Scendi! Non ti voglio più!" si sente nell'audio. La stessa donna poi aggiunge: "Anziché dire 'io sono così perché mi è successo questo!', piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male, dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!' Anziché dire “sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male, (dici che) sono [Omissis] e [Omissis2] (nomi della coppia affidataria, ndr)” che mi sgridano… troppo comodo". Secondo gli inquirenti, però, a riempiere la bambina di "Urla e parolacce" non sarebbero stati i genitori naturali quanto piuttosto quelli affidatari. Un passo indietro. L'inchiesta è lunga, articolata e complessa, ma per capire tutti i punti passo per passo bisogna fare un passo indietro.
Estate 2018. I Carabinieri del comando provinciale di Reggio Emilia notano che da un po' di tempo a quella parte le denunce dei servizi sociali dei 7 comuni dell'Unione di Val D'Enza (Reggio Emilia) sono aumentate in maniera esponenziale. Si tratta di una serie di esposti per casi di abusi sessuali su minori, abusi che hanno avuto come diretta conseguenza quella di determinare l'allontanamento dalle famiglie d'origine di una settantina di bambini con conseguente affidamento dei minori ad altre famiglie.
"Angeli e Demoni". E' partita in questo modo l'inchiesta denominata "Angeli e Demoni" che ha portato alla luce un presunto sistema illecito di gestione dei minori in affido alla comunità terapeutica di Bibbiano, Reggio Emilia, La Cura, che si avvaleva, a sua volta, della consulta esterna della Onlus piemontese Hansel e Gretel il cui psicanalista è l'ultra accreditato Claudio Foti (68 anni), autore di libri, luminare nell'analisi di casi abusi su minori, colui che ha determinato l'apertura di una serie di atti processuali in ogni angolo del Paese a tutela di bambini che sarebbero stati abusati.
L'ordinanza di revoca dei domiciliari. Il Tribunale del Riesame, giorni fa, ha disposto per Foti la revoca degli arresti domiciliari. Un fatto che alcuni avevano visto come una perdita di forza della Procura. Invece l'ordinanza dei giudici appare ancor più dura e drammatica nelle sue accuse. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti dell'operato e del Metodo Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza - dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta».
Chi è Claudio Foti. Il cosiddetto metodo Foti parte dell'assunto che i "bambini non mentono mai" e che, scopo del terapeuta è "l’emersione del ricordo dell’abuso e la rielaborazione del trauma". Foti è colui che ha definito la Carta di Noto - un protocollo di psicologia forense redatto per la prima volta nel 1996 da esperti del settore - un Vangelo Apocrifo solo per il fatto che si sottolinea come, al contrario di quanto sostiene Foti, un bambino sia molto influenzabile e il terapista ne deve tenere conto nella sua analisi per evitare, in primo luogo, di influenzare a sua volta lo stesso minore di cui dovrebbe occuparsi.
Cosa sostiene l'accusa. Secondo l'accusa assistenti sociali e terapeuti che giravano intorno al sistema Bibbiano avrebbero manipolato le testimonianze dei bambini allo scopo di toglierli alle famiglie d'origine e affidarli a nuclei di propria conoscenza lucrando illecitamente sui fondi pubblici destinati alla tutela dei minori. La tesi è che per farlo venivano manipolati disegni, documenti e le stesse testimonianze dei ragazzini che arrivavano a essere a tal punto condizionati mentalmente da credere di aver subito abusi che in realtà non si erano verificati (si era parlato anche di elettrochock, tesi presto smentita dagli stessi inquirenti). In questo modo la Procura dei minori di Bologna si trovava di fronte a fascicoli firmati da assistenti sociali e psicologi accreditati che dimostravano in maniera esplicita l'avvenuto abuso e quindi firmava l'affido in comunità e poi in famiglia.
Cosa è emerso dall'inchiesta e il ruolo di Carletti. Dopo un anno di inchiesta il 27 giugno scorso 29 persone sono state indagate e di queste 17 hanno ricevuto misure cautelari. Tra questi ci sono lo stesso Foti (prima ai domiciliari e poi rilasciato con l'obbligo di dimora) e la moglie Nadia Bologni, anch'essa psicoterapeuta, l'ex sindaco di Bibbiano il piddino Andrea Carletti, l'ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione di Val D'Enza Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli. Nell'inchiesta sono indagati anche gli ex sindaci di Montecchio Emilia e Cavriago, Paolo Colli e Paolo Burani, in carica all’epoca dei fatti. Secondo gli inquirenti, infatti, affinché il sistema Bibbiano funzionasse così bene tutti sarebbero stati informati a vario titolo dell'illecito che si stava commettendo sulla pelle dei bambini e dei genitori. In particolare l'ex sindaco Carletti sarebbe stato accusato di aver "omesso di effettuare una procedura a evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di psicoterapia che aveva un importo superiore a 40mila euro procurando intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel". Carletti, secondo i pm, avrebbe inoltre agito "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema sopra descritto e dell’assenza di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica". Non solo avrebbe invitato Foti e Bolognini, retribuiti, a convegni in cui lui stesso era relatore sostenendo l'attività di Hansel & Gretel. Nell'ordinanza del giudice delle indagini preliminari Luca Ramponisi legge che gli indagati sono accusati a vario titolo di frode processuale, depistaggio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, abuso d’ufficio, peculato d'uso e lesioni gravissime.
I filoni dell'inchiesta. I filoni dell'inchiesta sono, in realtà due: da una parte c’è l'affidamento illecito di incarichi di psicoterapia a privati con l'utilizzo di fondi pubblici quando le stesse Asl avrebbero potuto ricoprire simili compiti; dall’altra, invece, c’è la questione relativa ai bambini e ai metodi utilizzati per accertare gli abusi. Il sistema, secondo la procura funzionava così: si partiva da una segnalazione che presentasse elementi indicativi anche labili di una precoce erotizzazione del minore. Secondo la Procura le testimonianze dei minori venivano manipolate dai terapeuti che firmavano le relazioni. In seguito queste relazioni venivano inviate all’Autorità Giudiziaria Minorile e alla Procura della Repubblica del tribunale di Reggio Emilia. Vista l'evidenza dei casi la procura affidava i bambini alla comunità terapeutica La Cura. Una volta al centro i bambini sarebbero stati sottoposti a ulteriori sedute di psicoterapia che al Comune costavano 135 euro a seduta di fondi pubblici a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio. Il danno economico per l'Asl di Reggio Emilia e per l'Unione, secondo le indagini, sarebbe quantificabile in 200mila euro. I bambini, poi, venivano affidati a famiglie della zona il più delle volte di conoscenza degli stessi vertici dei Servizi Sociali.
Il caso Bedogno-Bassmaji. E' il caso, ad esempio, di una coppia gay unita civilmente dal 2018. Si tratta di Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji. Le due donne hanno ricevuto in affido una bambina sottratta alla famiglia d'origine col presunto metodo Bibbiano.
Una delle due donne, la Bassmaji, sarebbe stata l'ex fidanzata della responsabile dei servizi sociali di Val D'Enza Francesca Anghinolfi(tra gli indagati) che avrebbe facilitato l'affido alla coppia di amiche. Non solo: le famiglie affidatarie ricevono un contributo pubblico mensile che varia dai 600 ai 1300 euro a seconda dell'impegno che il minore va a dare al nuovo nucleo. Secondo quanto riporta Corriere della Sera, invece, le due donne avrebbero percepito un assegno pari a 6000 euro mensili. In tutto sarebbero una settantina i casi sospetti dove l'allontamento dalla famiglia d'origine sarebbe stato pilotato. I Carabinieri di Reggio Emilia si sono trovati, ad esempio, a compiere sopralluoghi in case definite nei fascicoli degli assistenti sociali "fatiscenti e con cibo avariato sui mobili" mentre in realtà si trattava di appartamenti assolutamente ordinati e normali. O, così si legge nei documenti, venivano virgolettate frasi del minore che poi si sono rivelate invece essere elaborazione degli assistenti sociali ora indagati. Nel fascicolo, ad esempio, si parla di una bambina che sarebbe stata abusata mentre sarebbe stato stato omesso che i suoi comportamenti "strani" potevano essere la conseguenza dell'epilessia della quale soffriva. Un altro caso riguarda l’affido di una bambina tolta alla famiglia di origine per presunte violenze sessuali. Tra i documenti presentati al Tribunale dei minori ci sarebbe stato un disegno realizzato dalla minore in cui la piccola si ritraeva accanto all’ex compagno della madre e le mani dell'uomo sembravano toccare le aree genitali della bambina. Il grafologo che ha analizzato il disegno non ha dubbi nel dire che quelle mani sono state disegnate in un secondo momento rendendo contraffatto il disegno della piccola. Il tutto per dipingere il nucleo d'origine come inadeguato, criminoso e pedofilo, inadatto alla crescita del minore e giustificare l'affidamento esterno.
Non solo Bibbiano. Il Presidente del Tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro sta avviando una revisione imponente di tutti i casi nei quali negli ultimi 20 anni ha collaborato Foti non solo quelli della comunità La Cura. Il nome Hansel e Gretel, infatti, ricorre in altri casi di cronaca. Negli anni '90 c'era ancora la onlus Hansel & Gretel dietro al caso dei diavoli della bassa modenese con l'inchiesta giornalistica Veleno firmata da Pablo Trinca. Sedici bambini erano stati allontanati dalle loro famiglie per presunti abusi e riti satanici. E Foti allora aveva contestato la ricostruzione di Veleno visto che centro torinese era lo stesso da cui provenivano le psicologhe accusate di aver manipolato i bambini dei comuni della Bassa modenese. Non solo: Hansel e Gretel avrebbe anche firmato la perizia del 1996 nel biellese quando quattro adulti – padre, madre e due figli – si suicidarono in seguito alle accuse di terribili abusi sessuali su due bambini, figli e nipotini. A quanto pare il caso Bibbiano avrebbe aperto il vaso di Pandora su un modus operandi portato avanti da una parte malata di coloro che si dovrebbero occupare del bene dei bambini che, invece di mettere al primo posto l'interesse del minore ha lucrato per anni sul dolore delle famiglie sottraendo soldi pubblici all'erario e causando danni irreversibile a bambini strappati dalle braccia delle proprie madri. Il Presidente Spadaro si è dichiarato parte offesa al pari dei minori in quanto Procura e Tribunale dei minori sono stati frodati da parte di coloro che dovevano essere i garanti del diritto alla gioia e al benessere dei bambini. L'inchiesta è ancora aperta e la strada è lunga, ma già 4 bambini sono stati restituiti alle proprie famiglie.
I bambini di Bibbiano ci riconducono al Novecento. Angelo Santoro su 24emilia.com il 10 Agosto 2019. Nulla di nuovo rispetto al secolo scorso e quelli che lo hanno preceduto. Le giovani puerpere non sposate, o facenti parte di famiglie povere in canna, venivano fatte partorire direttamente negli orfanotrofi e già i nascituri avevano trovato una nuova mamma e un nuovo papà che, dopo aver pagato una lauto compenso all’istituto religioso, se ne prendevano cura. Non c’era affidamento all’epoca ma, in quattro e quattr’otto, venivano completate quelle pratiche segretissime che davano direttamente in adozione i bambini. Certo, le cose oggi sono cambiate e per certi aspetti anche in peggio, perché non solo i buchi delle maglie del malcostume sociale consentono il perpetuarsi di questi abusi sulle categorie più deboli della società, ma tutto ciò avviene con una sfacciataggine sconcertante, dopo aver stravolto il concetto di famiglia. I vecchi e ricchi sporcaccioni si sono mischiati con gli amici degli amici che non sono neanche benestanti; tanto ci pensano alcuni assistenti sociali ad affidargli quei bambini sottratti alle famiglie con l’inganno, fornendo loro i contributi economici per mantenere gli stessi piccoli e tutta la famiglia (si fa per dire) allargata. Eppure l’informazione senza veli, nel tempo della digitalizzazione, dovrebbe smascherare ogni cosa. Invece per certi aspetti le complica, in quanto versioni diverse e fantasiose si mischiano attraverso i social con la realtà dei fatti. Tutto finisce in una frenetica danza infernale di parole finalizzate a strumentalizzare la vicenda a fini politici e propagandistici. Gli unici a rimetterci, come sempre, sono i bambini, le sole vittime innocenti del caso Bibbiano che in molti sembrano aver dimenticato, tanto sono presi a sfoderare i forconi contro coloro che si presume siano i responsabili. Lo scandalo di Bibbiano, dunque, diviene carburante per i giustizialisti d’ogni risma. Ma anche sul lato giustizialista le cose si complicano. Un tempo c’erano le guardie e i ladri, ciascuno con i propri specifici ruoli. Oggi non si capisce più nulla in questo otto volante digitale. Nel senso che le prime non riescono più ad esercitare con autorevolezza e assunzione di responsabilità il loro ruolo, perché se prendono delle iniziative di buon senso finiscono nei guai e rischiano anche lo stipendio, mentre i secondi, i ladri, oggi hanno tante di quelle sfumature di “furfante” che se non fai notizia diventando famoso ti cacciano fuori dalla galera in un baleno. Ecco, sulla faccenda di Bibbiano, su questa macchina ben oliata dell’orrore, dove ogni cosa era “quasi” legale, il narcisismo dentro un cocktail di potere d’altri tempi, ancora una volta, condanna i bambini che sembrano essere stati rimbalzati nel secolo scorso. Ma non nella comunicazione, però, che ne tiene saldamente la prima pagina sui giornali, bensì da quegli eminenti studiosi in ogni campo che si stanno preparando a vergare le loro conclusioni nella stesura di libri pronti ad essere presentati e venduti per Natale. E i bambini? Che fine faranno i bambini di Bibbiano? Ecco che, un po’ imbarazzati, tutti ci guardiamo in faccia smarriti perché, in effetti, il grande spettacolo li ha usati e dimenticati allo stesso tempo come fossero cose. Angelo Santoro (consigliere comunale centrodestra a Scandiano)
I genitori di Bibbiano avevano ragione. Ma non se ne parla! Alessandro Gnocchi il 15 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Buongiorno. Bibbiano ancora ancora Bibbiano. Ma non per fare un favore a Salvini come qualcuno crede. Ci interessa della vicenda perché rivela una certa mentalità. Il sindaco di Bibbiano, ad esempio, ha dichiarato tempo che in Italia c’è ancora troppa fiducia nella famiglia patriarcale (!). Vi riassumo cosa è successo: un bambino viene sottratto alla famiglia naturale perché secondo i servizi sociali è stato costretto ad assistere ad atti sessuali tra la madre e il padre. Quest’ultimo, inoltre, avrebbe abusato del figlio. Questa seconda accusa è già caduta da tempo: adesso che è caduta anche l’altra e quindi il bambino potrà far ritorno alla sua famiglia naturale. Vi leggo un piccolo passo da un articolo: “nel caso del bambino sono stati indagati a vario titolo (falsità ideologica, violenza privata, frode processuale, falsa perizia) diverse figure confluite nell’indagine Angeli & demoni. Anghinolfi, Gibertini, Monopoli e la psicoterapeuta di Torino Nadia Bolognini, accusata anche di essersi travestita da lupo cattivo davanti al piccolo associandolo al padre.” Monopoli, poi, avrebbe tramato per convincere i giudici che tutto andava bene e che il bambino nella nuova famiglia stava finalmente rifiorendo. Insomma, alla fine salta fuori che il reato addirittura non esiste: l’accusa rivolta ai due genitori naturali è stata archiviata. Noi vi diamo la notizia come l’abbiamo letta sul Resto del Carlino e speriamo che questo in qualche modo possa essere utile. Molti dicono che le luci sulla vicenda di Bibbiano sono destinate a spegnersi perché al governo ci sono il Partito Democratico e i Cinque Stelle. Noi crediamo e speriamo che non sia così. Nell’incertezza tutte le volte che troveremo una notizia su Bibbiano come promesso ve ne daremo conto. Alessandro Gnocchi, 15 settembre 2019
Bibbiano, la notizia che i giornali nascondono. Alessandro Gnocchi, 15 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Relegata nello spazio dedicato di solito al prete di Paese che cade dalla bicicletta sui giornali di oggi (neanche tutti) trovate una notizia interessante sulla vicenda di Bibbiano e su Claudio Foti il guru della onlus Hansel e Gretel al centro di una indagine su affidi illeciti di minori. Trascrivo, senza commenti, le motivazioni del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato gli arresti domiciliari di Foti ma imposto l’obbligo di residenza. Non commento perché non tocca certo ai giornalisti fare i processi. Ma informare sulle motivazioni del tribunale, questo sì, toccherebbe ai giornalisti. Foti agiva per una “commistione di motivi ideologici o professionali e soprattutto economici”. La sua tecnica “invasiva e suggestiva” era applicata alla “trattazione di questioni delicatissime” riguardanti bambini. Foti “non risulta in modo certo dotato delle competenze professionali e scientifiche necessarie”. La Hansel e Gretel svolgeva le sue attività in una struttura pubblica di Bibbiano “senza alcuna procedura”. A me sembra una notizia interessante ma molti giornali hanno deciso di seppellirla dopo mille pagine di politica in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto.
Bibbiano: abbiamo pagato tutto noi. Alessandro Gnocchi, 17 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Seconda puntata su Bibbiano (dopo la prima in cui racconto la notizia nascosta dai giornali). Continuiamo nella lettura delle motivazioni consegnate dal giudice del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato i domiciliari allo psicoterapeuta Claudio Foti imponendo però l’obbligo di residenza. Questa volta ci aiuta un lungo articolo di Francesco Borgonovo su La Verità di oggi. Borgonovo riporta le parti delle motivazioni relative all’interesse economico (oltre che ideologico) alla base della incredibile vicenda degli affidi “facili” di minori abusati. Scrive il giudice: “Foti ha approfittato del suo ascendente per svolgere alcuni anni psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno degli Enti pubblici”. Sentite come funzionava il sistema Bibbiano, a parere del giudice: “L’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali a soggetti privati quali Foti, Bolognini e Testa (i responsabili del centro Hansel e Gretel, ndr) è avvenuta di fatto senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Continuiamo: “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da solo la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro pagata interamente da soggetti pubblici”. Tradotto: Hansel e Gretel non pagava una lira di affitto agli enti pubblici per locali a proprio uso esclusivo; gli affidatari dei minori pagavano con soldi rimborsati con bonifico dai servizi sociali “senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Così era più difficile ficcare il naso. Foti aveva fondato una Srl per gestire “la psicoterapia su larga scala” per cui, secondo il giudice, conosceva le questioni tecniche relative ai pagamenti della pubblica amministrazione. Insomma: questo giro di soldi sulla pelle dei minori l’abbiamo pagato noi contribuenti.
Bibbiano, le intercettazioni horror. Alessandro Gnocchi, 19 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Ancora Bibbiano? Ancora Bibbiano. Fino a quando leggeremo nuove notizie sui giornali, ve ne daremo conto. Non certo per coprire le magagne di Matteo Salvini come sostiene qualche complottista. E comunque i media si occupano già a tempo pieno del ministro dell’Interno. Le carte dell’inchiesta di Bibbiano il presunto sistema illecito di affidi dei minori nella val d’Enza escono alla spicciolata e confermano episodi da film dell’orrore. In questi giorni sono uscite due intercettazioni. La prima al Tg3. Parlano due indagate al telefono, una neuropsichiatra e una psicologa. Si sono fatti vivi i carabinieri ma le due donne non sembrano preoccupate. Anzi: «Comunque potevi anche dirgli ‘guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai…’». Segue una risata canzonatoria. Insomma, il suggerimento, non si sa quanto ironico, è di minacciare il carabiniere. Il TgR Emilia-Romagna ha mandato in onda un’altra intercettazione: negli audio si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla degli abusi subìti, abusi che in realtà non sarebbero mai avvenuti. “Scendi, io non ti voglio più”, le grida la donna nell’intercettazione ambientale dei carabinieri.
Bibbiano, le prove manomesse. Alessandro Gnocchi, 22 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buonasera. Bibbiano quarta parte. Ho promesso di riportare ogni notizia proveniente dai giornali o da altri media e intendo onorare l’impegno. Il Tg1 di oggi, mercoledì 21 agosto, ha trasmesso un servizio con due notizie. La prima: l’inchiesta sui presunti affidi illeciti si allarga, ci sono altri tre indagati. La seconda: una nuova intercettazione suggerisce (ripeto: suggerisce) un tentativo di nascondere o di inquinare le prove. Ascoltate con le vostre orecchie il servizio del Tg1. I carabinieri si sono presentati dagli assistenti sociali e hanno chiesto i fascicoli relativi a sei minori. Parte una telefonata mentre i carabinieri fotocopiano “tutto ma proprio tutto”. Un’assistente chiede consiglio all’altro. E l’altro le risponde di mostrare i fascicoli ma di non consegnare gli appunti. Cosa contengono gli appunti? Secondo gli inquirenti contengono le prove della avvenuta falsificazione dei fascicoli. Le prove che i bambini sono stati indotti a confessare di aver subito abusi mai avvenuti ma necessari per giustificare l’affido. Alcune precisazioni: le intercettazioni ci sono. Sarebbe assurdo da parte mia non riportarle, come qualcuno forse vorrebbe. Le intercettazioni non condannano nessuno. Saranno i giudici a stabilire come stanno le cose. Infine, questa storia è brutta a prescindere da qualsiasi considerazione politica. La sua diffusione non è strumentale ma doverosa.
Caso Bibbiano, verifiche sugli affidi anche in Veneto. In allarme i servizi sociali di molti Comuni. A Verona emergono ombre sulla gestione degli allontanamenti dei figli dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Da anni un'associazione si occupa della difesa dei minori. Angelo Pangrazio TGR Veneto il 19 agosto 2019.
Caso Bibbiano anche a Verona: "Usavano lo stesso metodo". Partono le indagini sul sistema degli affidi nel veronese. Un'operatrice: "Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza". Costanza Tosi, Sabato 31/08/2019, su Il Giornale. Non solo Bibbiano. Bambini portati via dalle proprie famiglie con pretesti infondati, strappati dalle braccia delle proprie madri tra i pianti e le urla dei piccoli o ancora prelevati dai carabinieri in divisa mentre si trovano a scuola, sotto la vista dei propri compagni. Nei casi denunciati, dalla Procura di Reggio Emilia, nella recente inchiesta che ha scandagliato il losco sistema di affidi illecito e che prende il nome di “Angeli e Demoni”, questi fatti sono quasi una costante che descrive il modus operandi dei servizi sociali. Atteggiamenti sistematici che adesso, dopo che Bibbiano ha fatto accendere i riflettori sugli affidi dei minori, sembrano tornare familiari a molti tra coloro che se ne sono occupati, in tantissime città d’Italia. Nell’occhio del mirino ci sono spesso famiglie con problemi economici, situazioni familiari al limite, le cui debolezze finiscono per essere sfruttate come pretesto per definire i genitori incapaci di gestire i propri figli. Tanto che, denunciare le proprie difficoltà, in troppe occasioni ha fatto tramutare una richiesta di aiuto in una condanna dalla quale non si riesce a fuggire. A Bibbiano come a Verona. A raccontarlo, in un’intervista a La Verità è un’operatrice di Verona. “C’ è un target particolare - spiega - famiglie particolarmente disagiate, generalmente non radicate nel territorio, che hanno delle difficoltà dal punto di vista sociale, economico e culturale”. Non hanno il modo di difendersi, queste persone, e così rimangono progioniere nel labirinto delle ingiustizie. “Non sono in grado di difendere la propria condizione, a volte costrette a rinunciare agli avvocati perché costano troppo” racconta ancora la fonte, che poi scende nei dettagli: “generalmente è la madre la parte debole. Di solito viene in qualche modo giudicata dai servizi sociali. Faccio l' esempio di una situazione che abbiamo seguito. Abbiamo avuto una signora che era stata picchiata dal marito, il quale è finito poi in carcere. I servizi sociali hanno considerato la madre poco adeguata perché, secondo loro, aveva un rapporto simbiotico con la bambina di 8 anni. Secondo i servizi, se una madre si fa picchiare non è adeguata a crescere una figlia. Di fronte a vicende come queste mi chiedo da che parte stia il servizio sociale”. Una disattenzione inaccettabile, forse una superficialità che rischia di far male come una spada che ha il potere di trafiggere il cuore di intere famiglie. “Diciamo che c' è una attenzione scadente riguardo alle situazioni di difficoltà delle madri. E poi il bambino non viene messo al centro. Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza”, spiega l’operatrice. Eppure la tutela del minore dovrebbe essere sempre al primo posto, in questo, come in tanti altri settori. Ma, troppo spesso non è così. “La sensazione è che ci sia scarsa sensibilità nei confronti delle condizioni famigliari disagiate, mettiamola così. Nel senso che è come se venissero giudicate la mancanza di lavoro, la casa inadeguata... Come se fossero un motivo sufficiente per portare via i bambini. Viene fatta una valutazione su dei criteri che non sono criteri educativi o relazionali”. Nelle tante storie che, noi de IlGiornaleit, abbiamo raccontato negli ultimi mesi, uno dei tanti punti interrogativi comuni a tutte le esperienze denunciate dai genitori è stato: perchè l’allontanamento e non un supporto per aiutare queste persone? C’erano forse interessi economici? Ancora una volta pare proprio che sia così. La professionista che racconta la propria esperienza spiega che “da un punto di vista economico si tende a optare per una soluzione costosissima come quella della comunità a fronte di situazioni dove potrebbe essere molto più semplice mandare un consulente alla famiglia, un educatore”. Sembra di assistere ad un film già visto. E ad aggiungere sospetti sulla mala gestione degli affidi da parte dei servizi sociali anche a Verona, qualche settimana fa era stata ancora un’altra testimone. L’ ex dirigente dell' Usl Scaligera, ora in pensione, ha lavorato per 25 anni nei servizi a Verona, assistendo in prima persona a “dieci casi di allontanamento dei bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette”. Una storia che si ripete. “Bambini prelevati a scuola, senza informare i genitori” e operatori che consentono che i piccoli vengano mandati, guardacaso, “sempre nelle stesse strutture”.Una denuncia che non è passata inosservata alle autorità veronesi, che dopo essere venute a conoscenza del caso, hanno fatto partire le indagini. Sul tema degli affidi familiari “c' è l' inchiesta della Procura (pur senza indagati e senza ipotesi di reato) e c' è quella, interna, da parte dell' Usl. E c' è anche una presa di posizione ufficiale dell' assessore regionale ai Servizi sociali, Manuela Lanzarin”. Riporta il Corriere del Veneto. Consegnato il “mandato alla Direzione regionale dei servizi sociali di verificare la situazione degli affidi nel proprio territorio”, mentre “l' Usl Scaligera è incaricata di approfondire e controllare eventuali situazioni controverse”. Ha spiegato l’assessore, che dichiara di aver “inviato le segnalazioni relative alla Procura della Repubblica”. Se c’è una cosa che però la Lazarin non ha gradito è l’anonimato: “È contrario alla deontologia professionale che una ex dirigente muova delle accuse così gravi restando nell' anonimato. Avrebbe dovuto denunciare i propri sospetti durante il suo incarico. Non posso accettare che venga gettato fango, in modo gratuito, su come vengono gestiti gli affidi in Veneto”. Forse sì, era necessario denunciare prima, e magari sarebbe servito ad evitare moltissimi casi amari. Ad ogni modo il coraggio di denunciare non spesso riesce a scavalcare la paura delle ritorsioni e, in ogni caso, “meglio tardi che mai”. Adesso, finalmente, si cercherà di portare a galla le magagne da troppo tempo nascoste sul fondo di un sistema che esige la massima trasparenza. Anche il Pd, ore, chiede chiarimenti alla regione e lo fa tramite la consigliera Anna Maria Bigon. Ma, ahimè, lo stile dei dem sembra essere lo stesso utilizzato a Bibbiano. “Il sistema veneto dei servizi sociali”, ha detto la Bigon, “ha formato, negli anni, una fondamentale e positiva rete di famiglie affidatarie. Queste ombre rischiano di minare la credibilità di quanti si prodigano per trovare una soluzione a carenze educative e a difficoltà familiari che possono compromettere il futuro di tanti bambini”. Insomma, così detto, sembra che non ci siano neanche i presupposti per indagare. É pur vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, ma i fatti di Bibbiano dovrebbero suggerire che elogiare prima di sapere fino in fondo come stanno le cose, non sempre porta a grandi risultati.
Affidi, da Bibbiano lo scandalo si allarga. A Genova altri casi analoghi e la Liguria si rivela la prima regione d'Italia per casi di minori "allontanati". Simone Di Meo il 12 settembre 2019 su Panorama. Quando Laura, con la mano che le trema, sottoscrive il verbale dell’udienza conclusiva, è convinta che il peggio sia passato. Non le avrebbero più tolto il bambino di nemmeno due anni, nato da una burrascosa relazione con un marito col quale condivideva ormai solo i problemi di tossicodipendenza. Hanno già «perso» due figlie, andate in affidamento, il terzo bimbo è stato dichiarato adottabile dal Tribunale dei minori di Genova. È certa che non le toglieranno pure il piccolo S. quando i giudici della Corte d’appello le chiedono la disponibilità a «entrare in comunità con il minore seguendo le disposizioni dei giudici». È l’occasione che attende da mesi per dimostrare di voler cambiar vita. E lei, 28enne, con la speranza di uscire dall’aula col bambino abbracciato al collo, ha preso la penna e, con una grafia minuta e incerta, ha messo la propria firma. Quel che poi è successo, purtroppo, è stato molto diverso da ciò che aveva immaginato. La stessa firma, dopo qualche giorno, Laura l’avrebbe apposta a una denuncia contro i cinque magistrati che hanno scelto di affidare il figlio ai servizi sociali del Comune di Genova. A tradimento, secondo la mamma. Perché la sentenza, sostiene, era già pronta, e la discussione finale sarebbe stata solo una finta. I giudici, secondo quanto riportato nell’esposto che Panorama ha avuto modo di visionare, non avrebbero voluto - per pigrizia - cambiarla. Assistita da un avvocato penalista, Laura ha depositato nei giorni scorsi in Procura, a Genova, una denuncia per falso ideologico e abuso d’ufficio. Il ragionamento della mamma è semplice: la sentenza riporta la stessa data dell’udienza collegiale. In poche ore di camera di consiglio, dice la donna nell’esposto, i giudici non possono aver discusso e compilato le 14 pagine del verdetto, letto e valutato le oltre 120 pagine della consulenza tecnica d’ufficio (richiamandola 26 volte nel provvedimento), le «relazioni dei servizi sociali» e quella del direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Asl 1 che ha in cura la giovane madre. Il verdetto menziona poi «quattro diverse sentenze della Cassazione» e le posizioni delle parti provenienti da altri due fascicoli paralleli - il papà e i nonni paterni si erano costituiti contro la conferma del giudizio di primo grado, sostenuto invece dagli assistenti sociali - per un totale di altre centinaia di pagine da approfondire. Possibile che i giudici siano riusciti a valutare tutto questo materiale in così poco tempo, pur sapendo che da quelle scelte dipendeva la vita di un bambino di appena due anni? La risposta di Laura è no. «Sembra quasi che la sentenza, firmata e datata, sia stata scritta prima dell’udienza collegiale... e non sia frutto di una regolare e approfondita riunione in camera di consiglio» accusa la madre. Soprattutto perché non si fa mai riferimento alla proposta dei giudici di trasferirsi in comunità con il bambino, nonostante l’impegno - nero su bianco - della stessa Laura. Come mai? «La Corte era ovviamente libera di cambiare idea in camera di consiglio, ma a questo punto perché non fare alcuna menzione in sentenza di un passaggio così importante per la madre e per suo figlio? Forse perché la sentenza di rigetto dell’appello era già pronta? (…) Mio figlio viene quindi dato in adozione nonostante in aula, in sede di udienza, mi fosse stata data la possibilità di entrare in comunità con lui». La droga è l’ombra che si allunga anche sulla storia di Dalila, alla quale un drappello di 13 agenti di polizia ha sottratto il figlio all’uscita dall’allenamento di calcetto dietro la minaccia, sostiene lei, di un taser (la pistola elettrica). Davanti a tutti. Con un furgone blindato ad attendere un dodicenne trattato come un latitante. Da cinque mesi, il ragazzino si trova in una comunità in Piemonte, a 200 chilometri da casa. In attesa che il tribunale decida se affidarlo alla cugina della mamma, che si è detta disponibile ad accoglierlo nella sua famiglia, o ai nonni materni dove prima viveva. Il minore è già scappato una volta dalla struttura di accoglienza. Si è lanciato dal secondo piano rischiando di morire o di restare paralizzato. Ha preso un treno per tornare a Genova, ma è stato fermato dalla polizia ferroviaria che ha avvisato i genitori e le forze dell’ordine. Quando è stato interrogato, ha spiegato di essere evaso dalla comunità come gli aveva consigliato uno dei poliziotti che lo aveva preso in custodia. Dalila ha deciso di rivolgersi all’avvocato del foro di Genova, Lars Markus Hansen, per chiedere la revisione del processo. Tutto incentrato sulle valutazioni assai negative - «esagerava su tutto per aggravare la nostra situazione» sostiene lei - dello psicologo che ha in cura il bambino. Come nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui minori sottratti ai genitori a Bibbiano, pure in questa storia l’incubo inizia con un disegno. Il 12enne avrebbe fatto il suo ritratto sotto la pioggia, senza occhi e mani. Mancanze gravissime, secondo lo psicologo che per questo ha deciso di tenere il minore fuori dalla portata del papà, che però già se ne disinteressava, e della madre. Della cui dipendenza da stupefacenti il ragazzino viene informato proprio dal terapeuta, che gli racconta anche delle difficoltà di curarla in un Sert. Provocando di fatto una rottura tra madre e figlio. Perché? «La Liguria risulta essere la prima regione in assoluto per minori allontanati, più dello 0,5 per cento di affidi e/o internamenti in istituto sulla popolazione minorile, circa il doppio della media nazionale» spiega a Panorama l’avvocato Hansen, fondatore e dirigente del Comitato «Salviamoli da Erode». «Se questa percentuale nasconda o meno una precisa scelta ideologica, che privilegi soluzioni alternative rispetto al supporto della famiglia naturale, non è dato sapere. Ma il sospetto è plausibile». E aggiunge: «Riteniamo indispensabile un approfondimento nel merito e nella sostanza da parte delle autorità competenti e supporteremo le persone coinvolte per il riconoscimento e le conseguente repressione, quando se ne confermi la veridicità, di eventuali irregolarità da parte degli enti pubblici preposti, in relazione alla perdita o riduzione della potestà genitoriale». Per questo «il Comitato si è prefisso l’obiettivo di raccogliere e monitorare informazioni e testimonianze, denunziando i casi di abusi o maltrattamenti». Ma cosa si può fare se non si conosce chi ti accusa, e di cosa? È il dubbio che dilania Giovanni, un operaio di 58 anni che, dopo 35 anni di vita matrimoniale, non può più vedere liberamente il figlio, portatore di handicap. Un giorno, come accade al signor K. del Processo di Franz Kafka, due poliziotti e due assistenti sociali gli portano via il ragazzo da scuola. Senza un apparente perché. Quarantott’ore dopo, il Tribunale dei minorenni lo accusa di violenze fisiche e psicologiche sulla consorte e sul minore, nel frattempo trasferito in una struttura protetta di La Spezia. Nessuno ha convocato Giovanni, nessuno gli ha detto dell’avvio di un iter giudiziario, si è tutto messo in moto indipendentemente da lui. Giura alla polizia di non aver fatto nulla, decide di denunciare l’abuso in tv. Prende contatti con una redazione locale e quando preannuncia la sua intervista alle assistenti sociali, queste lo invitano alla cautela. «Stia attento ai passi che fa» è l’avvertimento. Lui capisce, e rinuncia. Ora cerca - attraverso un ricorso all’autorità giudiziaria - di conoscere le accuse che lo continuano a tenere lontano dal figlio. Ha il sospetto che la psicologa e l’assistente sociale responsabili della cura del minore abbiano tenuto un comportamento «professionalmente non corretto». Un piccolo ma significativo episodio, come racconta Giovanni: «Il primo incontro con mio figlio, dopo settimane, mi è stato fissato dagli assistenti sociali su un foglietto bianco, scritto a penna. Come quelli che si usano in salumeria». L’amore di un padre un tanto al chilo.
SARDEGNA COME BIBBIANO: 640 MINORI STRAPPATI ALLE FAMIGLIE. Chenews.it l'11 Settembre 2019. Il caso Bibbiano colpisce anche la Sardegna: 640 minori strappati alle famiglie. Il ruolo del Coordinamento Nazionale contro la sottrazione minori. Il caso Bibbiano, che ha scioccato l’Italia circa un anno fa, ha aperto il vaso di Pandora e ha portato alla luce una serie di episodi simili riscontrati in tutta Italia; tra gli ultimi fatti scoperti emerge la tragica situazione in Sardegna di 640 minori che sono stati strappati alle loro famiglie, alcune delle quali non vedono i figli da oltre due anni. Il caso Bibbiano si delinea sempre più come la sola punta dell’iceberg del traffico di affidi illegali di minori. I casi in cui bambini, anche di pochi anni, sarebbero stati sottratti ai genitori con l’inganno e con solo scopo di lucro si moltiplicano giorno dopo giorno e per scoprire ed analizzare i possibili casi sospetti è nato il Coordinamento Nazionale contro la sottrazione di minori alle famiglie e ai genitori in separazione. Barbara di Donato, referente regionale per la Sardegna, ha dichiarato in un’intervista sul sito Cagliari Casteddu che i minori sottratti nell’isola “sono circa 640, per le più svariate motivazioni”. La situazione è resa ancora più tragica dal fatto che alcuni genitori biologici, che di norma hanno diritto a vedere i figli ogni 15 giorni, hanno affermato di non vedere i propri figli da oltre due anni e mezzo. “Questo lo trovo drammatico perché fa perdere pure la speranza”, ha affermato la Di Donato. Il Coordinamento Nazionale si prefigge come scopo quello di far luce sulle eventuali anomalie negli interventi sociali, assistenziali e socio sanitari. Il Caso Bibbiano si sta espandendo a macchia d’olio e la Sardegna, con i suoi 640 minori sottratti alle famiglie è solo un altro triste esempio di affidi illegali. Gli atteggiamenti sistematici che contraddistinguono il modus operandi dei servizi sociali stanno aprendo gli occhi a quanti sono stati coinvolti in situazioni simili e hanno visto una richiesta di aiuto trasformarsi in una condanna a cui è difficile sfuggire. La referente del Coordinamento Nazionale per il Trentino Alto Adige Gabriella Maffioletti sta organizzando per il 14 settembre una manifestazione pacifica per sensibilizzare la comunità su questo tema ancora troppo sottovalutato.
Affidi, ora tutti si scandalizzano. Ma ci sono casi difficili ovunque. Mario Alberto Marchi, Giornalista, consulente di comunicazione, il 6 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Era sette mesi prima che esplodesse il caso di Bibbiano. Malgrado il legale che curava la vicenda fosse l’arcinoto avvocato Miraglia, malgrado egli si facesse in quattro bombardando redazioni e social di comunicati e denunce, a parte me in questo spazio su ilfattoquotidiano.it, nessuno si degnò di parlare della vicenda del piccolo Marco di Verona. Un bambino di tre anni che aveva cambiato casa quattro volte. Lasciato solo pochi mesi alla madre ex tossicodipendente – anche se con lei in una comunità – era stato affidato ai nonni materni. Poi tolto anche a loro, perché accusati di non voler fare l’improponibile scelta di voler bene al piccolo o alla figlia. Accolto da una coppia affidataria era quindi stato tolto anche a questa, perché aveva rapporti di conoscenza con la famiglia d’origine, in spregio alla legge che in realtà quei rapporti li suggerisce e perfino impone. Messo in casa famiglia, a ridosso delle feste di Natale, per essere reso adottabile. Vennero organizzati comitati. Sotto le finestre del Comune di Verona venne organizzata una fiaccolata per chiedere al sindaco della città scaligera e all’assessore ai servizi sociali, semplicemente di fare una verifica sull’operato dell’assistente sociale che aveva stilato tutte le relazioni. L’avvocato Miraglia continuò a denunciare e inviare comunicati. Chi scrive, continuò a farlo. Il risultato sono stati sette mesi di silenzio, con Marco in casa famiglia. Sette mesi, cioè un quinto della sua vita. Oggi, mentre tutta Italia è giustamente sconvolta per i fatti di Bibbiano, mentre una parte d’Italia è meno giustamente impegnata ad attribuire a tutti i costi una valenza politica quell’orrore, mentre un’altra parte ancora tace, dando quindi valore alle strumentalizzazioni, a Marco è stato revocato lo stato di adottabilità e quindi la permanenza in casa famiglia. Un risultato a metà – come lo stesso legale della famiglia ha sostenuto – perché il bambino è tornato non dai nonni, ma dalla coppia affidataria. A Marco qualcuno dovrà spiegare perché sette mesi prima quella condizione non andava più bene e adesso sì. Qualcuno dovrà anche spiegargli perché ora i genitori affidatari dovranno stare comunque attenti a non avere rapporti troppo stretti con i suoi nonni e perché la sua vita continui comunque ad essere appesa al filo dell’incertezza, anche se ha un madre che è ormai uscita dalla droga e si sta ricostruendo un vita, anche se ha dei nonni che lo avevano accudito con amore. A noi qualcuno dovrà invece spiegare altro. Perché mentre perfino dei cantanti lanciavano appelli affinché si “parlasse di Bibbiano”, Marco rischiava di essere uno dei tanti bambini che scompaiono nel sistema dell’ “infanzia di Stato”. Perché addirittura qualche sera fa nel centro di Verona, esponenti dell’amministrazione comunale abbiano pensato bene di manifestare “contro Bibbiano”, ma erano stati totalmente assenti sulla vicenda di Marco. Forse un’altra Bibbiano già c’è, se è vero che in Veneto viene allontanato dalle famiglie lo stesso numero di minori della famigerata Emilia Romagna. Circa duemila, come rilevato dall’interrogazione fatta in Regione dal Consigliere del Movimento 5 Stelle Manuel Brusco. Numero evidentemente fino ad ora sconosciuto al governatore leghista Luca Zaia, oppure solo ora giudicato degno di qualche verifica, visto che ha fatto eco al suo leader di partito Salvini nell’annunciare una commissione d’inchiesta, anche territoriale. Meglio tardi che mai? Certamente, ma rimane il fatto che fino ad ora si sono consumati nel silenzio più totale chissà quanti casi come quello di Marco e che – anzi – quando qualcosa era stato detto da chi oggi dichiara di volere chiarezza, era esattamente del senso opposto. Era il 29 maggio del 2018, quando l’assessore regionale dichiarava che “L’affido di un minore resta la via privilegiata per affiancare un ragazzino e la sua famiglia in situazioni di difficoltà” e annunciava lo stanziamento di sette milioni di euro per le case famiglia e le famiglie affidatarie. Il Veneto è l’unica regione di cui si conosca il dato attuale degli affidi, ma è appena un poco superiore a quello – noto a livello nazionale – del 2013. I minori fuori dalle famiglie erano quasi duemila anche nell’allora leghista Piemonte, oltre quattromila nella Lombardia amministrata dal centrodestra, con numeri alti in Campania e Sicilia, governate della sinistra. A dimostrazione che chi chiude gli occhi lo fa a prescindere dall’appartenenza politica, ma se poi aspetta l’occasione per scandalizzarsi a comando, lo fa in virtù dell’appartenenza al grande partito degli ipocriti.
«Decine di minori affidati senza motivo». Parla l'ex dirigente. Luca Fiorin su L’Arena 18.08.2019. Allontanamenti e affido di minori, un tema che fa ancora discutere. Ombre sulla gestione nel Veronese degli allontanamenti dei minori dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Le fa emergere, mentre fa ancora discutere il caso del piccolo Marco, il racconto di una persona che alle difficoltà di bambini e ragazzi ha dedicato la propria vita professionale. Una testimone diretta che fa riferimento a situazioni che per alcuni aspetti ricordano il cosiddetto “sistema Bibbiano”, come ormai si identificano le pratiche volte a dare in maniera illecita bambini in affido messe in atto in quel Comune emiliano, grazie alla complicità di istituzioni e professionisti. Da noi non si ha notizia di inchieste in corso, ma la persona che abbiamo intervistato si dice pronta a dire quanto sa anche all'autorità giudiziaria. A parlare di casi che definisce di «violenza istituzionale» è una ex dirigente dell’Ulss 9 Scaligera che ha da poco lasciato l'incarico che la vedeva impegnata nell'ambito dei servizi sociali in provincia. La professionista, che non vuole apparire con nome e cognome perché teme ritorsioni, spiega che non ce la faceva più a mantenere il silenzio su una serie di avvenimenti. «In 25 anni di lavoro ho visto personalmente almeno dieci allontanamenti di bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette e ho saputo di molti altri episodi, a decine, da colleghi», racconta la dottoressa. La quale spiega che a queste misure, che rientrano in procedimenti giudiziari, viene dato corso con veri e propri blitz. I minori vengono prelevati su ordine del giudice dalle forze dell'ordine quando sono a scuola, o comunque fuori casa, senza informare i genitori, i quali a volte nemmeno sanno dove vengono portati i loro figli. «L'allontanamento dovrebbe essere solo “extrema ratio“ a cui ricorrere quando ci sono situazioni di violenza e abbandono o quando i minori sono in pericolo o hanno genitori non in grado di garantire un'educazione», dice. «Molte volte però le istituzioni, compiendo abusi, applicano questa misura in maniera indiscriminata; avviene di solito quando ci sono genitori con limitate disponibilità economiche o che non possono contare su famiglie vicine». Stando a quanto afferma l’ex dirigente, queste situazioni sono dovute a una serie di concause. Da una parte, i servizi sociali, sia dei Comuni che dell’Ulss, invece di cercare di aiutare i genitori a superare i loro eventuali problemi, si trovano a dover fare attività di tutt'altro genere, perché devono rispondere alle continue richieste che fa loro il tribunale. Dall'altra, gli assistenti sociali danno pareri senza avere il tempo di approfondire le situazioni o cercano addirittura di non esprimersi, perché non sono sicuri di essere tutelati dai loro superiori. «Senza contare che sono considerati come requisiti per stabilire se i genitori abbiano o no la capacità di seguire i figli anche cose che invece non dovrebbero essere prese in considerazione», continua. «Ad esempio, vengono dati in maniera impropria giudizi sui modelli educativi, per cui succede che siano tolti i figli a genitori che sono solo più o meno rigidi nella propria educazione rispetto a quello che ritiene corretto chi valuta la famiglia, o perché i genitori sono per l'alimentazione vegana». Questo, però, sarebbe solo un lato della medaglia. «A dire quasi sempre la parola definitiva sono i consulenti tecnici d'ufficio (Ctu) del tribunale, che esprimono pareri di solito poi accolti integralmente dai giudici», dice l'ex-dirigente. I Ctu, per quanto riguarda i minori, sono spesso psicologi, in ogni caso liberi professionisti, che hanno fatto corsi specifici e sono iscritti a un albo. «A Verona sono pochi e, di fatto, fanno il bello e il cattivo tempo, indicando anche le realtà in cui vanno portati i minori allontanati», precisa la dottoressa. «Questi ultimi vengono accolti in strutture accreditate e, se va bene, i genitori possono vederli una o due volte alla settimana, magari solo con la presenza di educatori; se va bene, perché in alcuni casi essi nemmeno sanno dove sono», aggiunge. «Dovrebbero esserci progetti per mantenere e poi eventualmente riportare i minori nelle loro famiglie, ma nessuno li porta avanti». Ma perché tutto questo? «Per mancanza di tempo o di volontà di prendersi responsabilità, superficialità e persino incompetenza». Solo per questo? «Io non posso dire che ci sia dell'altro, non ne ho le prove, però è vero che ci sono consulenti che fanno ospitare sempre nelle stesse strutture i minori, che spesso vi restano anni, con costi a carico della collettività e superiori rispetto a quelli necessari per realizzare sostegni a casa». Non avrebbero quindi solo rilevanza giuridica e morale, ma anche economica, i fatti raccontati dal medico. «Sono situazioni che a Verona non accadono di rado», conclude, «e vorrei ricordare che solo riuscendo a far trasferire la competenza giuridica a tribunali di altre città alcuni genitori sono riusciti a far annullare gli allontanamenti».
Piccolo Marco, l'avvocato: «Dopo Bibbiano, caso veronese». Bertacco: «Diffama una città». Scontro durissimo dopo la sentenza della corte d'appello sul caso del "piccolo Marco". Verona Sera il 27 luglio 2019. Sentenza Corte d'Appello, il piccolo Marco torna a casa. Sboarina: «Giusta conclusione». «Ma ci rendiamo conto che anche Verona, se non fosse stato per la forza dei parenti supportati dal movimento raccontato puntualmente dal giornale cittadino, potrebbe essere una Bibbiano due?». Sono le parole colme di indignazione che l'avvocato Francesco Miraglia ha rilasciato al quotidiano L'Arena, commentando il caso del "piccolo Marco" dopo la sentenza della corte d'appello di cui si è avuta notizia ieri. Uno sfogo nel corso del quale è inoltre emersa la volontà da parte dell'avvocato difensore della famiglia del bambino finito al centro di questo complesso caso di affido, di «chiedere il risarcimento dei danni all’assistente sociale e alla psicologa». «Marco torna in famiglia e di questo non possiamo che essere contenti. - aveva commentato l'avvocato Miraglia nell'immediato della sentenza - Abbiamo vinto su tutta la linea e questo sta a significare che non c’è soltanto il caso di Bibbiano, ma si profila anche un caso veronese di immotivato allontanamento di un bambino da far adottare a chissà chi. Sulla base della decisione assunta dalla Corte di Appello di Venezia, chiederemo ora la revoca del provvedimento di affidamento e che il piccolo venga assegnato ai nonni materni. Ci rivolgeremo, inoltre, alla Procura perché una situazione simile, un provvedimento assolutamente immotivato e ingiusto come quello assunto da questa assistente sociale, devono essere verificati e sanzionati nelle maniere opportune».
Nell'immediato non si è fatta attendere la replica da parte dell'assessore ai Servizi sociali del Comune di Verona, nonché senatore, Stefano Bertacco: «Paragonare il caso del piccolo Marco a quello di Bibbiano è schifosamente strumentale. Invito l’avvocato Miraglia ad andare lunedì stesso in Procura per dare avvio alle verifiche di cui parla. Ricordo a tutti che, nell’immediatezza dell’allontanamento, il Sindaco scrisse una lettera al Ministro della Giustizia Bonafede e io stesso presentai un’interrogazione parlamentare che attende ancora risposta (chiedo al Ministro Fontana di intervenire), per segnalare l’ingiustizia perpetrata nei confronti del piccolo Marco». «La verità, spero, sia accertata al più presto e difenderò in ogni sede la mia reputazione. Non ci sto ad essere diffamato. - incalza ancora l'assessore Bertacco - Chi mi conosce sa con quanta dedizione svolgo il mio incarico. Sono pronto a rispondere a qualunque cosa nelle sedi competenti. Il tema della tutela minorile è un problema serio e delicato, è evidente a tutti che deve essere profondamente riformato. Io ci sto provando in Parlamento, ed insieme ad altri miei colleghi, ho depositato un disegno di legge per l’abolizione del Tribunale dei minori e, conseguentemente, per l’istituzione del Tribunale della famiglia. Quindi, avvocato Miraglia, - attacca l'assessore ai Servizi Sociali del Comune di Verona - la invito a citare anche me in Tribunale, perché le sue parole sono pesanti ed io ora mi aspetto da lei coerenza e non solo annunci ad effetto. Sono mesi che dice di voler denunciare l’assistente sociale e i responsabili dei Servizi sociali del Comune di Verona e non l’ha ancora fatto, perché? Intanto rilascia interviste dicendo inesattezze sulla decisione della Corte, ma ognuno risponde prima di tutto alla propria coscienza e poi del suo operato. Aspetto con trepidazione la sua denuncia - conclude veemente l'assessore Stefano Bertacco - perché, oggi, lei ha ingiustamente diffamato un’intera città».
Bibbiano, altri tre indagati per gli affidi illeciti. Sarebbero accusati di abuso d’ufficio. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val d’Enza, accusati di aver redatto false relazioni. Il Dubbio il 21 agosto 2019. Tre nuovi indagati nell’inchiesta sul presunto giro di affidi illeciti di minori in Val d’Enza, denominata “Angeli e Demoni”. Tre persone, secondo quanto si apprende, sarebbero indagate con l’accusa di abuso d’ufficio dopo il caso delle consulenze affidate alla psicologa Nadia Bolognini, coinvolta nell’inchiesta sugli affidi e moglie dello psicoterapeuta Claudio Foti, successivamente al suo arresto, quando si trovava ai domiciliari. La vicenda era stata segnalata dal consigliere di Forza Italia in Provincia a Modena, Antonio Platis, e dal capogruppo di Fi nell’Unione dei Comuni dell’Area Nord modenese, Mauro Neri, attraverso esposti: secondo quanto riportato dagli esponenti forzisti, l’Unione Comuni Modenesi Area Nord avrebbe affidato a Bolognini l’incarico il 3 luglio, quando la psicologa era ai domiciliari da una settimana. Pronta la replica dell’avvocato Francesco Guazzi, legale della Bolognini: «Un incarico mentre la mia assistita è ai domiciliari? Non ne sapevo nulla e sicuramente è all’oscuro di tutto pure la dottoressa. L’unica persona con cui ha contatti sono io». Prossimamente è previsto un incontro tra le Procure di Reggio Emilia e Modena, che coordinano le indagini dei carabinieri. L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. La vicenda lo scorso 27 giugno aveva visto coinvolte sedici persone tra politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino, raggiunti da misura cautelare per affidamenti illeciti di minori. Secondo gli investigatori, quello svelato dall’inchiesta “Angeli e Demoni” è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Secondo gli accertamenti svolto dai carabinieri alcune vittime dei reati contestati dall’inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell’estate del 2018 dopo l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori.
Bibbiano, tre nuovi indagati per abuso d'ufficio. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019, su Il Giornale. Continuano le indagini per fare chiarezza sul “caso Bibbiano” e si allargano i presunti colpevoli. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti nel reggiano. Altre tre persone sarebbero indagate di abuso d’ufficio perchè ritenute responsabili di aver affidato pazienti in cura alla psicologa Nadia Bolognini nonostante si trovasse agli arresti domiciliari. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. L’evento, che ha fatto scoppiare il caso e reso necessarie ulteriori indagini, è il caso di una minore di Mirandola. La ragazzina, prima in terapia presso il centro “La Cura”, dopo la pubblicazione dell’inchiesta della procura di Reggio Emilia che aveva compromesso il nome del centro di Bibbiano finito sotto accusa, venne mandata in uno studio privato, per continuare il suo percorso di psicoterapia con la dottoressa Bolognini. Ex moglie di Claudio Foti, che il 3 luglio, giorno in cui l'Unione Comuni Modenesi Area Nord affidò le affidò l’incarico, si trovava agli arresti domiciliari già da una settimana. Forza Italia, che ha fatto un accesso agli atti, ha parlato di un incarico “mascherato” e di una determina “retroattiva” che, scrive il consigliere Platis sulla sua pagine Facebook, “a norma di legge non si può mai fare e che costituisce un debito fuori bilancio”. L'amministrazione, ha scritto il partito, "impegna i fondi, 13.589 euro, dal 1 giugno 2019” e, così facendo, aumenta, in modo retroattivo, l'importo a una casa famiglia “da 110 a 127 euro al giorno per coprire i maggiori costi per le sedute della moglie di Foti (170 euro all'ora). Tecnicamente - continua - siamo davanti ad un debito fuori bilancio, perchè mai e poi mai una amministrazione pubblica può impegnare soldi per prestazioni effettuate nel passato". Nell’inchiesta, esplosa lo scorso 27 giugno, Nadia Bolognini è, tra gli indagati, una delle figure di maggior rilievo. Il suo nome, infatti, era già balzato alle cronache quando vennero riportate alcune sue intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura. Durante uno dei suoi incontri con i piccoli pazienti in cui, la Bolognini, cercava di cancellare dalla mente del minore i ricordi del proprio papà ad un certo punto arrivò persino a dire al piccolo: "E' come se dovessimo fare un funerale!”. E poi ancora: “Dobbiamo fare una cosa grossa.. Sai qual è? Gli psicologi la chiamano elaborazione del lutto (...) Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papa' non esiste più”. Ma c’è di più. La psicologa chiedeva continuamente al bambino di ricordare i momenti in cui il padre “lo umiliava”, atteggiamento che, secondo il gip, si descrive nel tentativo di indurre falsi ricordi. Adesso, tra le due Procure emiliane che coordinano le indagini dei carabinieri, è previsto un incontro per decidere come proseguire con le nuove indagini.
La moglie di Foti e le sue sedute da 170 euro l'ora. Una ragazzina di Mirandola venne mandata in terapia presso lo studio privato della moglie di Foti per una cifra ancora maggiore rispetto a quelle concordate al centro "La Cura". Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Più passano i giorni e più si aggiungono pezzi al gigantesco puzzle che descrive i presunti orrori del “caso Bibbiano”. Aumentano i dettagli sulla storia di Sara. La ragazzina che nel 2011 venne affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord, e poi, nel 2013, trasferita e affidata ad una casa famiglia. A gestire la struttura, dal nome Madamadorè, situata nel Parmense, i coniugi Paolo Dioni e Romina Sani Brenelli. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti, nonchè ex-allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come, lei stessa, scrive sul quotidiano online diretto dallo stesso terapeuta. Ma non basta. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto ai profili di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma torniamo a Sara. Durante la permanenza all’interno della casa famiglia le condizioni della ragazza iniziano, a poco a poco, a peggiorare. Come riportato da La Verità, la piccola soffre di forti crisi, conseguenza, si legge in una delle relazioni, dei “traumi profondi che ha subito”. Motivo per cui, gli assistenti sociali, decidono di proporre, a Sara, un percorso di terapia presso il centro “La Cura” di Bibbiano. Lo stesso finito nelle carte della Procura di Reggio Emilia perchè identificato come il luogo in cui, gli psicologi della Hansel e Gretel, poi finiti sotto accusa, manovravano le menti dei bambini per indurli a confessare abusi e maltrattamenti inesistenti. Come emerge dalle pagine dell’ordinanza il costo delle sedute con i professionisti di Foti era molto elevato rispetto alla media. Di fatti, anche per Sara, furono accordati 135 euro per ogni incontro. Ma perchè la piccola venne mandata proprio a Bibbiano? Secondo il giudice che ha seguito le indagini preliminari è “verosimile che Romina Sani Brenelli frequentando Foti, Nadia Bolognini e Federica Anghinolfi, ne segua gli orientamenti e le idee in termini di “ricerca” dell’abuso sessuale anche davanti a qualsivoglia e seppur minimo sintomo specifico”. Dunque, sembrerebbe, che persino nel parmense ci fossero individui a capo di intere comunità, pronti a seguire la “pseudo-psicologia” del padre della onlus torinese. Il 3 luglio 2019, dopo solo una settimana dall’uscita dell’inchiesta, gli stessi servizi sociali dell’Unione dei comuni modenesi dell’area nord, attraverso una determina, decisero di “aggiornare il progetto relativo alla minore collocata presso la struttura Madamadorè”. Nella lettera, firmata dalla dirigente Romina Sani Brenelli, si richiede che Sara continui il suo percorso di terapia, per il quale la Comunità Madamadorè, “si rende disponibile ad intervenire come intermediaria rispetto al pagamento della psicoterapia privata per la minore in oggetto ai fini di garantire la continuità terapeutica”. La struttura “La Cura”, finita sotto gli occhi dei riflettori, non poteva più essere luogo idoneo dove far svolgere a Sara le sue sedute, dati i rapporti con gli indagati di “Angeli e Demoni”. E così, per la ragazza, si doveva trovare una soluzione alternativa. Detto fatto. L’amica di Foti suggerisce di mandare la paziente presso uno studio privato e di farla seguire - come scritto nella lettera - dalla “dottoressa Nadia Bolognini al costo di 510 euro totali per due interventi mensili di 90 minuti”. Dunque, non solo la moglie di Foti, mentre era agli arresti domiciliari, avrebbe accettato di lavorare con la ragazza nonostante il metodo da lei utilizzato fosse appena stato messo in discussione dalla Procura, ma lo avrebbe fatto ad un prezzo ancora più elevato. 170 euro l’ora. Vale a dire 35 euro in più rispetto alla tariffa del centro “La Cura”, già accusata, dal giudice per le indagini preliminari, di fissare tariffe ampliamente al di sopra della media.
Da Mirandola venne mandata in cura a Bibbiano, ora invece può essere seguita dall'Asl. A Mirandola partono le indagini e l’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Costanza Tosi, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. A Mirandola si corre ai ripari. Proprio ieri, i carabinieri si erano recati nel municipio della cittadina in provincia di Modena per venire in possesso di alcuni documenti utili ad andare a fondo sulla questione dei nuovi indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. Poco dopo, ecco che spuntano nuovi accordi. L’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Invano. Qualche settimana fa, avevamo raccontato la storia della minore di Mirandola che, il 3 luglio, era stata affidata alle cure della terapeuta Nadia Bolognini mentre, l’indagata nel caso Bibbiano, si trovava, già da una settimana, agli arresti domiciliari. Dopo l’intervento della Procura di Modena, che ha deciso di provare a vederci chiaro, ecco che arriva una nuova determina che cancella tutti gli accordi, tra la terapeuta e gli affidatari della minore, presi esattamente due mesi fa. Così l’Ucman prova a salvarsi. “Sono state assunte – recita l’atto - decisioni circa la presa in carico sanitaria e psicoterapeutica dell'utente in tutela succitato, che coinvolgeranno direttamente il Servizio Sanitario Pubblico, che si è dichiarato temporaneamente disponibile, al fine di assicurare la prestazione sanitaria, ad attivare un intervento senza oneri di spesa a carico degli enti sottoscrittori del progetto, ovvero la Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza e l’Unione Comuni Modenesi Area Nord, con decorrenza dal prossimo 1°settembre 2019”. La ragazzina è stata affidata alle cure, gratuite, degli psicologi dell’Asl. La stessa ragazzina per la quale, nel 2017, la casa famiglia Madamadorè che la teneva in affido, aveva ritenuto indispensabili le cure a Bibbiano, presso il centro “La Cura”. Secondo i dirigenti della casa d’accoglienza dunque, la bambina aveva una situazione talmente grave da dover essere curata da specialisti privati, tramite sedute da 135 euro l’ora. Ora, si potrebbe pensare, che nel giro di due anni la situazione potesse essere cambiata. Ma, ancora una volta, i conti non tornano. Solo a luglio infatti, tramite una dichiarazione congiunta dei Servizi Sociali e dell’Asl, si richiedeva che la paziente potesse continuare ad essere seguita dalla stessa psicologa della "Hansel e Gretel" che l’aveva curata a Bibbiano, dichiarando che, vista la situazione, era necessario persino un rafforzamento del costo delle sedute, pari a 170 euro l’ora. Adesso, tutto d’un tratto, la situazione non è più così grave e la bambina può essere seguita da uno psicologo a costo zero. Perchè non farlo prima? Erano veramente necessari tutti quei soldi spesi in due anni per farla seguire dalla onlus di Foti? Sembrerebbe di no. Ma c’è di più. I Servizi Sociali e la dirigente della Madamadorè erano così preoccupati che la ragazza perdesse il suo supporto terapeutico, dopo lo scoppio del caso degli affidi di Bibbiano, che chiedevano di farla seguire nello studio privato della Bolognini a causa dello stop delle attività de “La Cura”. Adesso, da alcuni documenti, rintracciati dal consigliere di Forza Italia Antonio Platis, si scopre che, da quel giorno, la piccola non ha più partecipato a nessuna seduta. Fino al primo di settembre. Giorno in cui è stata affidata agli psicologi del Servizio Sanitario Pubblico. A questo punto, le ipotesi sono due e, entrambe, portano ad evidenze raccapriccianti. O la bambina, affidata alla Madamadorè nel 2013, non si trovava in una situazione così grave da doversi sottoporre per anni a sedute presso psicologi privati con costi elevatissimi costretta a spostarsi da Parma a Bibbiano. Nel caso, sarebbe da domandarsi perchè aggravare la situazione per rimpolpare le tasche della onlus di Torino. Oppure, se la piccola avesse veramente avuto bisogno di tale assistenza, come è potuto accadere che la lasciassero per mesi senza le proprie cure? Se così fosse verrebbe messa in dubbio, non solo la professionalità di chi avrebbe dovuto occuparsi di lei, ma persino l’umanità di chi dovrebbe lavorare per salvare i minori dalle difficoltà. “La cosa ancora più paradossale - ci riferisce, sconcertato, il consigliere Platis - è che, in tutto questo, la bambina rimane affidata alla stessa casa famiglia, nonostante la dirigente sia finita nel registro degli indagati”. Vengono revocate le terapie alla Bolognini, ma nessuno si preoccupa di revocare l’affido alla Madamadorè. Dopo aver scoperchiato l’ennesima beffa del sistema, Platis non ha dubbi, “o siamo davanti ad incompetenti o c’e’ della malafede”. Difficile non essere d’accordo.
Ecco il giro d'affari di Foti&Co. "150mila euro per 18 ragazzi". In una mail spuntano i compensi di Foti per gestire gli affidi: ecco quanto guadagnava l'associazione Hansel e Gretel per seguire 18 minorenni. Costanza Tosi, Lunedì 26/08/2019, su Il Giornale. Una ventina di bambini in terapia portava nelle casse della onlus Hansel e Gretel 150mila euro. Un guadagno sopra la media, se si considera che i costi delle singole visite con i terapeuti dell'associazione superavano, di gran lunga, il "prezzo di mercato" per la stessa terapia, pari a 60/70 euro l'ora. Numeri che confermerebbero, ancora una volta, che il presunto “business dei bambini” di basava su un’ideologia, ma non escludeva gli interessi economici. A scovare l’ennesimo documento che inchioderebbe la onlus torinese fondata dal terapeuta Claudio Foti, finito nel registro degli indagati per l’inchiesta "Angeli e Demoni", è un giornalista del Tg3 Emilia Romagna, venuto in possesso di una mail recapitata nell’aprile del 2018 a Foti da parte di Cinzia Salemi, segretaria dello stesso centro. Nel documento emergono diverse strategie di gestione del denaro “fai da te”. La Salemi elencava a Foti alcuni metodi per la buona gestione dei fondi derivanti dal sistema degli affidi. Al primo posto, un planning che prevedeva, per 18 bambini in terapia, quattro incontri mensili di un’ora ciascuno tutti fissati al costo di 135 euro l’ora. Esattamente come quelli organizzati al centro La Cura di Bibbiano. Soldi ai quali vanno aggiunti i guadagni derivanti dal lavoro di supervisione e dai vari corsi di formazione di cui si occupava il centro di Foti, oltre alle terapie per altri 4 bambini. Ed ecco che si arriva ad un totale di 144mila euro l’anno. Una cifra non proprio irrisoria, ma che, secondo la Salemi, poteva ancora essere gonfiata. Nel documento emergerebbe, infatti, un secondo suggerimento: aumentare il costo degli incontri da 135 a 180 euro l’ora. Soldi che, in parte, sarebbero andati al terapeuta che si occupava del minore (60 euro), e in parte sarebbero invece finiti nelle tasche della Sie. La società fondata da Foti. Con questo metodo, scrive la segretaria, “Sie avrebbe un margine di profitto di 3980 euro al mese”. Ma c’è ancora una terza alternativa: 160 euro l’ora. Una via di mezzo che avrebbe portato ad un incasso annuo di 166.400 euro. E se i numeri già di per sè sciolgono qualche altro nodo dell’orribile groviglio che descrive il sistema di affidi illecito nel reggiano, dalla mail emergerebbero anche altri indizi. Sembra difficile che Foti, destinatario dei calcoli matematici della Salemi, potesse non essere a conoscenza dei guadagni della Hansel e Gretel. Tesi sostenuta, invece, dal legale del terapeuta. Ma quale ruolo aveva Cinzia Salemi nell’azienda di Foti? Come spiega il tribunale del Riesame, era colei che teneva i legami con i servizi sociali di Bibbiano. Gli stessi che - come descritto nell'ordinanza della Procura - avrebbero passato i soldi, pubblici, alle associazioni e alle famiglie affidatarie a cui venivano dati i bambini tolti alle proprie famiglie per pagare le terapie dei piccoli presso La Cura. Ma torniamo alle carte. Nella mail la Salemi farebbe cenno ad un contributo da versare all’associazione Rompere il silenzio che, suggerisce la segretaria di Foti, sarebbe potuto arrivare tramite la cooperativa Si può fare. Oppure nel caso fossero aumentati i costi delle sedute, anche direttamente dalla Sie. Ed ecco che rispuntano sempre gli stessi nomi. Tra cui Romina Sani Brandelli. Ora indagata, la signora Sani è una ex allieva di Foti, oltre che dirigente della casa famiglia Madamadorè di Mirandola dove, la terapeuta, ospitava la ragazza che poi mandò in cura presso lo studio privato di Nadia Bolognini, nonostante questa fosse già agli arresti domiciliari, dando persino il benestare alla richiesta di aumento del costo delle sedute che, in quell'occasione, passarono da 135 euro l'ora a 180. Caso che poi, ha portato ad allargare il diametro delle indagini sull’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. Ma questo, già era noto. Ciò che invece tocca sottolineare, è che la Sani era anche responsabile di “Si può fare”. E non è ancora tutto. Ecco che l’amica di Foti compare anche nel direttivo dell’associazione “Rompere il silenzio” assieme a Francesco Monopoli, assistente sociale dell’Unione Val D’enza e fidato collaboratore di Federica Anghinolfi. Dunque, se le ipotesi venissero confermate in aula di tribunale, i soldi delle terapie che non finivano nella società di Foti, andavano a ingrassare il portafogli dell’associazione di cui Foti faceva parte, assieme a dirigenti delle case famiglia, ex allievi e assistenti sociali. In effetti i conti della Salemi, viste le circostanze, sembrano meno utopici: dopotutto ad essere d’accordo sul costo delle terapie, oltre a Foti, dovevano essere proprio coloro che facevano parte della stessa associazione del terapeuta.
Bibbiano, non solo ideologia. Foti prolungava le terapie anche per ottenere più soldi pubblici. Il Tribunale di Bologna ha dichiarato che il terapeuta ha ricavato "un ingente profitto economico" grazie al sistema di Bibbiano. Costanza Tosi, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Strappavano i bambini alle proprie famiglie con false accuse e finte relazioni per poi affidarli ad amici e conoscenti e inserirli in lunghi percorsi di psicoterapia con gli psicologi della Hansel e Gretel presso il centro La Cura. Era questo l’obiettivo dei "demoni" di Bibbiano, di cui la Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un presunto giro d’affari. Un metodo ben collaudato che sarebbe stato portato avanti non solo per ideologia, ma anche per soldi. Il “guru” Claudio Foti, padre della onlus torinese che si era appropriata degli spazi del centro pubblico La Cura, in cui venivano mandati in terapia i bambini affidati ai servizi sociali, senza partecipare a nessuna gara pubblica, con questo meccanismo faceva cassa. Lo scrive, nero su bianco, - come riportato da La Verità - il giudice del Tribunale del riesame di Bologna, nell’ordinanza contenente le motivazioni del provvedimento che impone a Foti, prima ai domiciliari, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il Riesame, Foti, ha “approfittato del suo ascendente per svolgere, per alcuni anni, psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno per gli enti pubblici”. Anni di psicoterapia a bambini e ragazzi che non ne avevano bisogno. All’ombra di un’ideologia questo è certo, ma anche lucrando sulla pelle di vittime innocenti. Come nel caso della ragazzina che Foti ha seguito, in terapia, fino a novembre del 2018, per riuscire a “far riaffiorare un passato abuso sessuale da parte del padre”. Secondo le carte, per ben tre anni, il terapeuta ha lavorato con la bambina incontrandola due volte a settimana e cercando di plagiare la minore al fine di farle raccontare abusi sessuali che, in realtà, non erano mai avvenuti. Le sedute con la paziente sono proseguite anche quando la giovane era ormai diventata maggiorenne, dopotutto, ogni incontro, erano soldi che finivano in tasca alla onlus del terapeuta. E il “luminare” non se li lasciava scappare facilmente. Che il terapeuta avesse l’obiettivo di accumulare denaro è “pacifico, poiché per ogni seduta il suo guadagno era di 135 euro, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta, pari a 70 euro” sostiene il giudice. Tutti soldi pubblici. Ebbene sì, il teatrino paradossale messo in piedi da psicologi e assistenti sociali avrebbe provocato anche un danno ingente alle casse dello Stato. Come spiega il Riesame, “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da soli la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro interamente pagata da soggetti pubblici”. Di fatto, secondo quanto scrive il Tribunale, “è stato violato il principio di trasparenza e di buona amministrazione”, poichè “l’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali, a soggetti privati è avvenuta senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Motivo per cui, adesso Claudio Foti, si ritrova indagato per abuso d’ufficio. Come si legge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, il meccanismo era sempre lo stesso: “Gli affidatari venivano incaricati dai Servizi Sociali di accompagnare i bambini alle sedute private e di pagare le relative fatture a proprio nome”. Soldi che poi gli affidatari ricevevano mensilmente attraverso rimborsi sotto una finta causale di pagamento. In questo modo, si riuscivano anche a falsificare i bilanci dell’Unione dei Comuni coinvolti. Le sedute di psicoterapia, “venivano pagate dalla Asl con denaro destinato agli affidatari di minori bisognosi, senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Ma c’è di più. Nel momento in cui i servizi sociali della Val d’Enza assegnavano l’incarico delle sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura agli psicologi della Hansel e Gretel, in una delle delibere, specificavano che non vi sarebbero state spese aggiuntive provenienti dalla collaborazione con la onlus di Foti. Fatto smentito dalle carte. Tutto questo nonostante, come specificano i magistrati, l'Asl di Reggio Emilia avrebbe potuto offrire lo stesso servizio gratuitamente. Cosa che però non è successa e che ha provocato un danno alla Pubblica amministrazione di 200mila euro. Ma Claudio Foti non ne sapeva niente secondo il suo avvocato. Che continua a sostenere che l’assistito fosse ignaro di tutto ciò che riguardava denaro e pagamenti. Dal canto suo, il terapeuta agiva in buona fede, non curandosi della parte economica. Secondo i giudici però, e a fare attrito con le ragioni riportate dal legale dell’indagato è un fatto avvenuto nel lontano 2003, anno in cui Foti, “aveva formato una Srl per gestire la psicoterapia su larga scala, di cui lui era amministratore delegato, socio di maggioranza e diretto destinatario di ingenti somme elargite senza titolo dalla pubblica amministrazione per le prestazioni private camuffate da pubbliche a cui aveva preventivamente dichiarato che avrebbe rinunciato, ma aveva invece dato direttive alla segretaria per fissare le tariffe”. Ora come allora. Il meccanismo è esattamente lo stesso utilizzato per le sedute a La Cura. Insomma, pare che, il terapeuta torinese, con i soldi sapesse bene come muoversi e che i sotterfugi per fregare le casse dello Stato non fossero per lui cosa nuova. Per di più, secondo il giudice del Riesame, “la circostanza che vi fossero precedenti rapporti di conoscenza e collaborativi di Foti con Federica Anghinolfi, la dirigente amministrativa che aveva introdotto Hansel e Gretel nella realtà emiliana importandovi le persone che la rappresentavano, in primo luogo Foti, da Torino, induce a ritenere evidente che tra essi vi sia stato precedente accordo finalizzato a raggiungere il risultato concreto descritto”. Rapporti che il terapeuta della Hansel e Gretel avrebbe sfruttato, anche per ricavare denaro. Secondo il tribunale di Bologna dopo essere “riuscito a inserirsi nel territorio emiliano potendo contare sulla totale dedizione a lui e al suo gruppo da parte degli assistenti sociali e responsabili dell’Unione Comuni Val d’Enza” Foti avrebbe approfittato di “tale ascendente per svolgere per alcuni anni psicoterapia di un numero elevato di minori, protratta il più a lungo possibile, al fine di perseguire un ingente profitto economico con parallelo danno per gli enti pubblici”.
All’avvocato Scarpati si contesta una raffica di incarichi fiduciari. Niente bandi né rotazione Per anni è stato il legale dei minori abusati, dell’Unione Val d’Enza e perfino dell’Anghinolfi. Am. P. il 2 luglio 2019 su La Gazzetta di Reggio. Avvocato dei minori abusati, avvocato dell’Unione Val d’Enza parte civile nei processi e avvocato di fiducia di Federica Anghinolfi. Il che equivale a dire controllato e controllore. Al di là di quelli che saranno gli esiti penali, la posizione di Marco Scarpati, stimato esperto di abusi minorili e storica figura di riferimento in questo campo, all’interno della struttura “La Cura” presenta quantomeno un conflitto di interessi. Da sottolineare che l’avvocato Scarpati viene definito dall’accusa come un «concorrente extraneus al reato», non coinvolto direttamente nella gestione dei singoli casi. Tuttavia ai cinque indagati – Anghinolfi (in quanto dirigente del servizio), Carletti (assessore politiche sociali dell’Unione), Campani (responsabile dell’Ufficio Piano dell’Unione) e Canei (istruttore amministrativo del Servizio Sociale dell’Unione) e infine lo stesso Scarpati – si imputano «affidamenti intuitu personae», cioè incarichi fiduciari a raffica in virtù delle acclarate qualità del libero professionista, in barba a parecchie normative e in violazione alle linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). Incarichi «in contrasto con la natura occasionale», che avrebbero procurato «intenzionalmente a Scarpati un ingiusto vantaggio patrimoniale»: liquidati «12.830 euro nel 2016, 18.593 euro nel 2017, 27.287 euro nel 2018 (per un totale di oltre 50mila euro)». Nulla di male, né cifre esorbitanti, senonché tali somme vengono erogate «simulando una formale procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dell’incarico di consulente giuridico del Servizio Sociale Val d’Enza, procedura in realtà intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati», al quale sono stati affidati «sia l’incarico di consulente giuridico sia singoli incarichi di fiducia dei minori affidati al Servizio sociale». Condotte che avrebbero procurato a Scarpati «non solo l’ingiusto vantaggio patrimoniale pari a 20mila euro(rilevata la nullità del bando), bensì anche le ulteriori somme da quest’ultimo percepite con riferimento ai singoli incarichi di difesa dei minori». Non solo: Federica Anghinolfi, «in presenza di un interesse proprio», non si è astenuta dal nominarlo (il 20 giugno 2018) suo difensore di fiducia per un procedimento penale che la riguardava. Ad Andrea Carletti e Nadia Campani, in particolare, l’accusa muove l’addebito di essere «pienamente consapevoli della totale illeicità del sistema» e «della sistematica violazione della trasparenza e rotazione nelle nomine fiduciarie», sostenendo altresì «il legale anche attraverso l’invito a pubblici convegni tenutisi a Bibbiano», con Scarpati relatore. Mentre all’avvocato si addebita «la totale illeicità non solo della procedura amministrativa, ma anche della cumulabilità economica». — Am. P.
Il Riesame boccia Foti: "Non risulta dotato delle competenze professionali". È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Costanza Tosi, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Il Riesame “boccia” Claudio Foti. Secondo il giudice, lo psicologo “non risulta dotato delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta”. È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il tribunale, il metodo utilizzato dal padre della onlus torinese, finita sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori, “appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’”. Pertanto, il Riesame - come riportato da Il Resto del Carlino - definisce il “metodo Foti”, tanto decantato dai vertici della Val D’enza, “una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Eppure, Claudio Foti era considerato un luminare della materia, nonostante, come suggeriva il curriculum vitae del professore che ilGiornale.it aveva consultato, non disponesse neppure di una laurea in psicologia. A confermalo è quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti, “a fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività”, aveva ammesso di essere dottore in Lettere e di poter esercitare la sua attuale professione grazie ad “un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia”, aggiungendo di aver seguito anche svariati corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. “Il caso sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca”, osservava il giudice. Ma ciò non è bastato a convincere il Riesame sulle competenze dell’indagato, che sottolinea la "trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta". Due, le ipotesi di reato formulate a carico di Claudio Foti, ricorso al Riesame per chiedere la revoca dei domiciliari. Il terapeuta è finito nel registro degli indagati, per i fatti di Bibbiamo, con l’accusa di abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Secondo la Procura di Reggio Emilia, lo psicologo avrebbe tenuto sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura, a titolo oneroso, senza però essersi aggiudicato il ruolo partecipando all’obbligatoria gara pubblica. Ipotesi di reato per la quale il giudice individua i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Motivo per cui decide di sostituire i domiciliari, con l’obbligo di dimora. “Perchè - spiega - rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi”. Considerando che “l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo”. L’altra accusa alla quale Claudio Foti era chiamato a rispondere è quella di frode in processo penale e depistaggio, riguardante la vicenda avvenuta tra il 2016 e il 2017, di una ragazza che sarebbe stata plagiata e indotta a ricordare abusi sessuali subiti da parte del padre e di un giovane dante la sua infanzia. Caso per il quale c’è stato l’annullamento del Riesame, dato che, nel frattempo, la ragazzina avrebbe compiuto 18 anni e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima.
“Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019. In un’intervista al Corriere del 19 luglio 2019 aveva dichiarato: «Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato». Adesso però che è nota l’ordinanza che ha revocato i domiciliari (ma imponendo l’obbligo di dimora) la posizione di Claudio Foti appare diversa da quanto dichiarato ai giornali a fine luglio. Bibbiano, il Riesame. “Ingerenza nella vita dei bambini” – il Resto del Carlino di Alessandra Codeluppi su Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019 – “Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Riesame la definisce così, attribuendola alla “scuola Foti“, come la definisce lo stesso giudice, cioè il gruppo di professionisti che faceva capo al centro ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri (To) e di cui tre esponenti sono indagati nell’inchiesta sugli affidi di Bibbiano: Claudio Foti, la moglie Nadia Bolognini e Sarah Testa. È uno dei passaggi dell’ordinanza con cui il tribunale bolognese motiva l’obbligo di dimora disposto per Foti a Pinerolo, mentre prima il 68enne si trovava ai domiciliari. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti del metodo di Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza – dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro – evidenzia – non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta». E si richiama quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti aveva detto di avere la laurea in Lettere: «A fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività, ha addotto di avere "un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia", nonché di aver seguito molti corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. Il caso – osserva il giudice – sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca». Il giudice accenna poi al «picco statistico di presunti abusi individuati sulla base di questa tecnica, non verosimile – rimarca – che ha dato luogo all’indagine». Due le ipotesi di reato che sono state formulate a carico di Foti, che era ricorso al Riesame contro i domiciliari. Una era la frode in processo penale e depistaggio, per la vicenda tra il 2016 e il 2017 di una ragazza che sarebbe stata da lui convinta a ricordare di aver subito abusi sessuali da parte del padre e di un giovane quand’era piccola: per questa parte c’è stato l’annullamento del Riesame perché nel frattempo la ragazzina sarebbe diventata maggiorenne e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima. L’altra riguarda l’abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa, perché avrebbe esercitato la psicoterapia a Bibbiano ricavandone guadagno, ma senza che si passasse dalla necessaria gara pubblica per l’affidamento. Per quest’ultima ipotesi di reato, il giudice ravvisa i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. E motiva la decisione di sostituire i domiciliari, che erano a Pinerolo, con l’obbligo di dimora nella stessa località, «perché rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi». Ciò alla luce del fatto che «l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo». Fonte: Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino 14.8.19
L'infanzia difficile. Due scuole di pensiero duramente contrapposte. È guerra tra le associazioni che difendono i bimbi dagli abusi. Jenner Meletti il 27 febbraio 2002 su La Repubblica. La guerra prima sotterranea - o chiusa nelle aule dei tribunali - è scoppiata all´improvviso su una pagina di giornale. Un genitore di Ferrara viene assolto dall'accusa di violenza su un figlio adottivo e un consulente della difesa - il dottor Giovanni Battista Camerini, coordinatore del corso di perfezionamento sulle strategie di prevenzione degli abusi all´università di Modena - dichiara papale papale: "Le valutazioni sono state fatte solo per provare le accuse. Siamo a questo punto perché ci sono operatori che si rifanno alla metodologia Cismai: a tale categoria appartengono anche la psicologa dei servizi e la consulente del Pubblico ministero". Il dottor Camerini fa parte del Sinpia - Società italiana neuro psichiatria infantile e adolescenziale - e di Telefono azzurro, e queste associazioni si ispirano alla Carta di Noto. Dall'altra parte di quella che rischia di diventare una barricata c´è il Cismai, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso dell´infanzia. Soci Cismai, nella regione Emilia Romagna, oltre al distretto 2 di Mirandola, sono il dipartimento Servizio sociale di Cesena, il Servizio tutela infanzia e adolescenza di Imola, il Centro abusi e maltrattamenti e il Servizio tutela minori e legale di Ferrara, il Servizio area minori di Modena. "Io non vorrei - dice il dottor Camerini, stretto collaboratore di Ernesto Caffo - che si arrivasse a ragionare in termini di appartenenza, reinventando i guelfi e i ghibellini. Il Cismai è un punto di vista, non la verità scientifica che nasce solo da un confronto dialettico. Nessun problema se il Cismai fosse un´associazione che stimola il confronto. Il problema nasce quando certi tribunali nominano come consulenti soltanto chi aderisce alla dichiarazione di consenso del Cismai. Io penso che tutelare davvero i bambini significhi anche proteggerli dalle conseguenze che scaturiscono dai cosiddetti falsi positivi, vale a dire gli abusi inventati. Nel Cismai vedo invece una cultura dell'abuso tutta fondata sulla denuncia, con poca attenzione alle risorse che possono essere presenti nella famiglia. Si preferisce allontanare il minore, con il rischio di valutazioni superficiali e di decisioni affrettate". La "Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale dell'infanzia" è stata preparata dal Cismai nel 1999 ed è stata pesantemente attaccata nelle udienze dei processi per pedofilia. I punti importanti sono numerosi. "L´abuso è un fenomeno diffuso". "Il perpetratore quasi sempre nega, e spesso mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne". "L´assenza di lesioni non può mai portare il medico ad escludere l'ipotesi di un abuso". "Quanto più un bambino è stato danneggiato dall´abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare". "Lo stesso professionista può effettuare sia la diagnosi che la cura". Anche nello Statuto del Cismai non mancano gli articoli che hanno suscitato polemiche. "I Soci sono obbligati - recita l´articolo 9 - a svolgere le attività preventivamente concordate, a mantenere un comportamento conforme alle finalità dell´associazione". Teresa Bertotti, presidente Cismai fino all´anno scorso, parla delle Commissioni dell´associazione come luoghi nei quali "si sviluppa una solidarietà e una comprensione reciproca", tutto questo "al riparo dalle critiche distruttive e dalle possibili aggressioni esterne". Gli avversari del Cismai diffondono una perizia effettuata dal professore e avvocato Guglielmo Gulotta per conto del Consiglio nazionale dell´Ordine degli psicologi, che giudica del tutto inadeguata la "Dichiarazione di consenso" del Cismai. Il documento - scrive - è composto da "una serie di enunciazioni che lasciano trasparire poche incertezze. Non viene neanche presa in esame l´ipotesi che il sospettato possa essere innocente, ma solo che "il perpetratore quasi sempre nega"". Il professore dice no a uno psicologo - poliziotto, e nega anche che chi fa la diagnosi possa poi seguire anche la cura, come previsto dal Cismai. "Oltre che inopportuno - scrive - è vietato dalla legge". Nel confronto fra le diverse "scuole" non mancano i colpi bassi. "Quelli della Carta di Noto - fanno sapere amici del Cismai - fanno i soldi come consulenti delle difesa dei pedofili". "Quelli del Cismai - fanno sapere dall´altra parte della barricata - fanno i soldi con le consulenze per i tribunali, procurate da altri soci". A volte le accuse sono scritte su carte ufficiali. "Legga questa requisitoria milanese. Tenga presente che il medico legale di cui si parla, Cristina Maggioni, è lo stesso che ha fatto 350 perizie in tutta Italia. E´ lo stesso medico che ha dichiarato abusati tutti i bambini del caso Mirandola". Pagine che fanno venire i brividi, quelle della requisitoria del Pubblico ministero Tiziana Siciliano. Una bambina dice parolacce, e la madre si rivolge al Cbm - la Casa del bambino maltrattato, casa madre del Cismai - per essere aiutata. Le parolacce potrebbero essere "sintomo di abuso". "O denunci tu o denunciamo noi, e ti portiamo via la bambina", questa la proposta fatta da un'operatrice del Cbm. Partono le indagini, la bambina viene allontanata dalla famiglia e il padre è arrestato. Sul perito, la dottoressa Maggioni, il magistrato dice: "Viene da chiedersi se sia una totale incompetente o se sia una persona in malafede. Crede evidentemente di essere in grado di sostenere con la sua semplice parola tutto quello che lei a ritenuto di valutare. Incompetente, negligente, superficiale: questo il giudizio dei periti del giudice su di lei. Queste sono perizie fatte da persone che dovrebbero cambiare mestiere". E lo stesso Pubblico ministero chiede e ottiene l´assoluzione del taxista. Altre carte vengono usate come sciabole. Un amico del Cismai replica consegnando fotocopia di un articolo apparso sulla rivista "Minori giustizia", a firma di Claudio Foti, psicoterapeuta, direttore scientifico del Centro Hansel e Gretel di Torino, pure questo associato ai Cismai. Nel mirino, stavolta, il Telefono azzurro fondato da Ernesto Caffo, uno dei leader della scuola di Noto. Qui si arriva all´insulto. "Il Telefono azzurro - si chiede lo psicoterapeuta - è un servizio sociale che i cittadini sentono necessario, come sostengono artisti, politici e uomini della strada, oppure - come pensano molti operatori dell'area del Child abuse - rappresenta il Cacao Meravigliao della tutela dell´infanzia, cioè una straordinaria operazione pubblicitaria che propone all´opinione pubblica un servizio sostanzialmente inesistente dal punto di vista della gestione concreta, efficace e continuativa dei casi di maltrattamento?". La vera fortuna del Telefono azzurro sono i giornalisti. "Il Telefono Azzurro fornisce informazioni e dati ai cronisti bisognosi di elementi sui cui produrre comunque servizi sulla violenza ai minori, e in cambio i giornalisti restituiscono notorietà e buona immagine al Telefono Azzurro". L´organizzazione "è un imbuto con il collo troppo stretto". "Da 8.000 tentativi di contatto al giorno - scrive Claudio Foti - si arriva ai 6-8 casi al giorno che si afferma di "prendere in carico", e a meno di un caso al giorno giudicato grave e - si sostiene - segnalato ai servizi socio - sanitari, alla scuola, alle forze dell´ordine, ai tribunali". Per finire, lo studioso cita il Consiglio direttivo dell´ Associazione italiana giudici per i minorenni, i quali invitano "quanti, come il principe azzurro del telefono per i bambini, intendono sputare sentenze sui metodi e sulle tecniche d´intervento rispetto ai quali nulla sanno", a preferire "la strada del dignitoso silenzio".
BIBBIANO, secondo me. Fabio Nestola su newspam.it l'11 agosto 2019. Ecco, secondo me. Come spesso accade mi trovo in controtendenza rispetto alla maggioranza dei pareri più autorevoli. Sulle vicende di Bibbiano si sono espressi parlamentari, segretari nazionali di partito e presidenti di sezioni regionali, amministratori locali, presidenti di tribunali, ordini professionali, Garanti regionali, giornalisti televisivi e di carta stampata. Minimizzare è la parola d’ordine che trasuda dalla maggior parte delle dichiarazioni ufficiali, e a seguire depistare, spostare altrove l’attenzione, nascondere il nocciolo del problema o addirittura negare che ci sia un problema. In sostanza, in troppi si sono affannati a concentrare l’attenzione sul dito e non sulla luna. Le truppe oscurantiste si sono mobilitate al grido di “in fondo non è successo niente, è solo una strumentalizzazione dei bambini per fini politici”. Un pluridirettore di TG ha liquidato la questione sentendosi a posto per aver dato la notizia dei primi indagati il 27 giugno, tacendo poi su tutto il resto. Dovere di cronaca rispettato, e visto che lui non intendeva seguire gli sviluppi dell’inchiesta, non avrebbe dovuto farlo nessun altro: chi si azzarda a parlare ancora di Bibbiano è un avvelenatore di pozzi.
Roba da stracciargli la tessera dell’Ordine. Come se la stampa mondiale avesse trattato la strage del DC9 di Ustica limitandosi alla notizia “è caduto un aereo”, calando poi un velo omertoso sugli sviluppi successivi. Era un avvelenatore di pozzi chi ha osato scrivere dei radar militari spenti, del Mig libico caduto sulla Sila, degli aerei francesi ed americani in volo, dell’ipotesi “sull’aereo c’è Gheddafi”, della teoria bomba a bordo, della teoria aereo abbattuto da un missile, della teoria cedimento strutturale, dei reperti recuperati e tutto il muro di gomma emerso negli anni successivi. È sufficiente “è caduto un aereo”, tutto il resto ad un bravo giornalista non deve interessare.
E Montanelli si rivolta nella tomba. “Quelle su Bibbiano sono solo fake news” tuona qualcuno, dichiarandosi vittima di una macchinazione ai danni del proprio partito ed esprimendo solidarietà al Sindaco arrestato, mica alle famiglie devastate. Poi vengono mobilitate falangi di avvocati per agire penalmente nei confronti di chiunque insinui coinvolgimenti politici con toni non graditi al segretario nazionale. Emergono posizioni molto critiche con la sinistra in generale e col PD in particolare, tralasciando quelli offensivi ecco un esempio tra i meno violenti, a firma Selvaggia Lucarelli sul Il Fatto Quotidiano: “La sinistra è molto più preoccupata del fatto che Bibbiano contamini il PD che del fatto che il metodo Foti abbia contaminato i tribunali di mezza Italia” e ancora “a destra si continua a parlare di “bambini che non si toccano”, a sinistra di “partito che non si tocca”. Selvaggia Lucarelli non risulta essere militante di Casapound, però nel web è stata additata come fassista ed ha sollevato un polverone di critiche per aver scritto ciò che è sotto gli occhi di tutti: c’è chi, anche strumentalmente, indossa i panni del difensore dei minori, e chi invece ha scelto di concentrarsi sulla difesa del proprio apparato. Personalmente non credo a coloro che oggi sventolano il vessillo di paladini dell’infanzia, per un motivo semplicissimo: è facile sbraitare oggi, ma quando avrebbero potuto e dovuto fare non hanno fatto ciò di cui c’era bisogno. Ed avevano tutte le informazioni necessarie.
Lontano dai riflettori la tutela dell’infanzia non è una priorità della politica, tutta senza esclusioni. Diventa argomento caldo solo in alcune fasi particolari, quando cioè i media garantiscono titoloni, interviste, servizi al TG, visibilità. E soprattutto quando serve a gettare fango sugli avversari, salvo poi scambiarsi grandi strette di mano al prossimo rimpasto di alleanze. Sono partite accuse di speculare sui bambini per accusare un partito, dimenticando o fingendo di dimenticare che in altre occasioni l’immagine di un bambino annegato è stata utilizzata per accusare la fazione opposta. E all’epoca identiche accuse di speculazione sui bambini erano partite a ruoli invertiti. Della serie: utilizzare i bambini a fini politici non si può, tranne che sia io a farlo. La Garante regionale dell’Infanzia sforna appelli a non fare di tutt’erba un fascio, gli assistenti sociali sono tutte brave persone e la categoria non può essere sfiduciata se ogni tanto qualcuno sbaglia. N.B. – lo ha detto la Garante, pagata per rilevare le violazioni dei diritti dell’infanzia, che invece si espone pubblicamente per tutelare una categoria professionale. Un presidente di tribunale è di parere diverso e lascia intendere che la responsabilità del sistema di malaffare sarebbe dei servizi sociali. Si dichiara infatti preoccupato per i suoi giudici ed annuncia che farà di tutto per stroncare la campagna d’odio costruita a causa di qualche assistente sociale infedele. Sport nazionale italiano, lo scarico di responsabilità. Quindi i giudici non c’entrano niente, come se i provvedimenti di allontanamento dei minori, lo stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità li firmassero assistenti sociali, psicologi ed assessori. Come minimo il tribunale ha legittimato una intera filiera disfunzionale fatta di condizionamento dei minori, relazioni false, ricordi costruiti a tavolino e disegni contraffatti al solo scopo di “scoprire” abusi in realtà inesistenti. Come minimo i giudici hanno avallato una montagna di falsità, incentivando la reiterazione delle dinamiche illecite. Come minimo, ad altro tacere... Grazie alla superficialità di GOT e togati gli operatori infedeli hanno potuto agire indisturbati per anni, erano tranquilli perché sapevano che nessuno avrebbe verificato, in tribunale si fidavano ciecamente, abboccavano a qualsiasi falsità.
Ma oggi il tribunale si chiama fuori, provando addirittura a passare per vittima. Si è poi aggiunta una ulteriore forzatura a-giuridica: l’affidamento di parti dei compiti di valutazione a privati, con il risultato che a valutare una presunta fragilità familiare non è più il Tribunale per i Minorenni. Il Tribunale – non solo in Emilia – ha delegato a psicologi ed assistenti sociali il compito di raccolta delle prove, valutazione della famiglia, eventuali rilevanze giuridiche. Polizia giudiziaria e magistratura possono anche andare in naftalina, gli elementi sui quali basare il processo li raccolgono gli “esperti” delegati dal tribunale, e sono sempre gli stessi “esperti” ad indicare soluzioni, misure da adottare, percorsi di sostegno.
Con tale prassi il processo ha smarrito il proprio ruolo, l’accertamento della verità. “Tra le righe si delega al Consulente il compito di cavare le castagne dal fuoco a chi deve giudicare, togliendo ai professionisti del processo il loro faticoso mestiere, che è quello di portare prove (il PM) , demolirle ponendo dei dubbi (l’avvocato) e infine decidere sulla base delle prove rimaste in piedi (il giudice) . Il consulente deve solo dirci se il bambino ha idea di cosa voglia dire testimoniare e se capisce la differenza fra vero e falso. E aiutare a porre domande che non contengano suggerimenti sulle risposte, ovvero che siano all’interno di uno schema corretto Il resto è mestiere dei giuristi” (cit. Marco Scarpati).
Ecco un’altra strategia diffusa, quella di dichiararsi parte lesa. Gli Ordini professionali annunciano la costituzione di parte civile, il diritto cioè di ottenere dei risarcimenti dai propri iscritti qualora ne fosse accertata nel processo la responsabilità penale. Alla società civile poco importa se gli Ordini chiederanno indennizzi di 50 euro o 500.000, piuttosto sarebbe interessante sapere quali misure disciplinari intendano applicare nelle more dell’iter penale. Ci sono dei codici deontologici, vogliamo dargli un’occhiata? Le cronache dicono che la prima pentita dell’inchiesta Angeli e Demoni è stata reintegrata nel proprio incarico. È un premio per aver aiutato le indagini? Tale riconoscimento spetta, eventualmente, alla magistratura sotto forma di uno sconto di pena, o all’Ordine sotto forma di “vabbé, dai, chiudiamo un occhio però prometti di non farlo più”? . Anche il Garante Nazionale per l’Infanzia annuncia la costituzione di parte civile. Anche lei, manco a dirlo, recita il copione della parte lesa; tuttavia proprio il suo ruolo istituzionale le avrebbe imposto di rilevare il problema già da tempo e segnalarlo al Governo. Non lo ha fatto. La filiera disfunzionale ipotizzata dagli inquirenti viene confermata dalle confessioni dell’ultima ruota del carro, la giovane assistente sociale che ha ammesso di aver compilato relazioni false dietro pressione dei propri dirigenti. Doveva scrivere che i bambini andavano allontanati perché la casa in cui vivevano era inadeguata, anche se in quella casa non aveva mai messo piede. Tanto non sarebbe mai stata controllata dal dirigente del Servizio, che non sarebbe mai stato controllato dall’Assessore, che non sarebbe mai stato controllato dal Sindaco. Et voilà, la frittata è servita. Emerge dagli atti d’indagine una macchina organizzativa fondata sulla sistematica falsificazione delle valutazioni sulle famiglie, con lo scopo di allontanare i minori anche quando non ci fosse alcun criterio per farlo. Una filiera strutturata su paradigmi antidemocratici ed antisociali, contrari alla Convenzione di New York del 1989, alla Carta di Noto ed a qualsiasi principio nazionale ed internazionale di tutela del minore. Un laboratorio assistenziale spacciato per best practice. dove ci si arroga il diritto di scegliere arbitrariamente in quale contesto far crescere bambine e bambini tolti senza motivo ai propri genitori, fratelli, zii, cugini, nonni.
Esperimenti di architettura sociale FFM – Famiglia Forzatamente Modificata. Acronimo che utilizzo per identificare il minore sradicato dalla propria famiglia d’origine, e collocato in un contesto forzatamente modificato ad unilaterale discrezione di chi “rileva”, anche con prove false, criticità inesistenti. Il focus è essenzialmente sui diritti del minore, meglio sorvolare sui diritti delle famiglie alle quali vengono strappati i figli poiché si dovrebbe aprire un altro fronte sconfinato. Non c’è solo Bibbiano; per decenni le famiglie hanno denunciato il sistema che sfornava FFM, e a fianco delle famiglie singoli avvocati come anche associazioni forensi, associazioni di pedagogisti, associazioni di genitori ed anche diverse interrogazioni parlamentari. I contorni del problema “allontanamenti facili” hanno cominciato a delinearsi già nel secolo scorso, con le prime inchieste su maltrattamenti ed abusi nel Forteto del Profeta a Vicchio, poi i finti abusi sessuali di Sagliano, poi 16 finti casi di pedofilia e satanismo a Mirandola e Massa Finalese … l’elenco dei casi emersi è lungo, e di quello dei casi sommersi non si può intuire la fine .
Tutti sapevano tutto, anche a livello istituzionale. C’è da stupirsi che oggi la politica si stupisca. L’attuale Sottosegretario a Palazzo Chigi Vincenzo Spadafora sapeva tutto, ma ha snobbato l’allarme. Nel 2014 gli ho illustrato personalmente, in Senato, una relazione dettagliata sulle storture del sistema di allontanamento dei minori dalle famiglie d’origine e sui trattamenti a volte irrituali che subiscono.
Sapeva quindi che non esiste un database ufficiale dei minori collocati fuori famiglia, dei tempi di permanenza, delle strutture di accoglienza laiche e religiose, dei fondi erogati a tali strutture. Sapeva che non esistono criteri certi per l’allontanamento dei minori, sapeva che le criticità delle famiglie potevano essere mistificate.
Sapeva che esistono interessi economici che proliferano nella costruzione degli abusi.
Sapeva dell’enorme potere conferito dall’art. 403 CC e sull’utilizzo non sempre cristallino di tale potere.
Sapeva persino degli abusi e maltrattamenti subiti dai minori proprio nelle strutture che avrebbero dovuto proteggerli.
Oggi tutti si indignano per Bibbiano e la politica chiede trasparenza, riforme e commissioni d’inchiesta. Tuttavia le stesse richieste sono state fatte a Spadafora da oltre 5 anni, che invece di recepire le criticità non trovò di meglio che minimizzare: “non è il caso di fare allarmismi, il Sistema tutto sommato regge”.
Eppure all’epoca era, o fingeva di essere, il Garante Nazionale per i diritti dell’Infanzia. Torniamo all’oscuramento dei fatti di Bibbiano: un tentativo di cortina fumogena che però viene diradata dai fari antinebbia accesi – principalmente sul web – per mantenere alta l’attenzione. Esiste una sostanziale differenza tra la Val d’Enza e le migliaia di situazioni simili denunciate da anni in tutta Italia, ed è nella sua genesi. L’inchiesta Angeli e Demoni nasce dalla magistratura, non dalle proteste dei cittadini come nelle mille occasioni precedenti. Il Sostituto Procuratore del Tribunale di Reggio Emilia, Valentina Salvi, ha rilevato con sospetto la mole anomala di situazioni problematiche, o presunte tali, presenti sul territorio, dalle quali nasceva l’esigenza di allontanamenti in massa dei minori dalle famiglie d’origine. Ed ha deciso di vederci chiaro, verificando gli sforzi fatti dal Sistema per autoassegnarsi l’esclusiva della bontà, ramificata ben oltre l’Emilia. Il resto è cronaca: creando un problema creo anche il diritto di potermene occupare. E brulicano le FFM. Fabio Nestola
Bibbiano, ora parla l'ex giudice: "Così funziona il sistema affidi". I servizi sociali riuscivano a togliere i bambini alle famiglie grazie al Tribunale dei Minori. Costanza Tosi, Giovedì 01/08/2019 su Il Giornale. False relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. Ne ha viste tante, troppe l’ex giudice Francesco Morcavallo che, da settembre 2009 a maggio del 2013, ha prestato servizio al Tribunale dei Minori di Bologna. Testimone diretto dell’operato dei "diavoli" della Val d’Enza, i servizi sociali finiti sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio lui, assieme ad altri due colleghi, a denunciare le irregolarità del sistema degli affidi dei minori. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", ci dice al telefono l’ex giudice, che denuncia: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Un altro tassello inquietante si aggiunge al caso Bibbiano. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Almeno secondo l’ex giudice Morcavallo. “Quando arrivano le segnalazioni dei servizi sociali non c’era e non c’è una verifica. Il giudice deve verificare due cose, che la relazione contenga dei fatti che giustifichino le valutazioni e che quei fatti siano veri. Il giudice deve accertare i fatti per capire se deve provvedere e come farlo.” Segnalazioni fatte da Morcavallo che, proprio per questo, è stato punito. “Ci sono stati dei veri e propri provvedimenti nei miei confronti poi, successivamente, annullati dalla cassazione. L’ex giudice è un fiume in piena. Dopo le anomalie ha deciso di lasciare il tribunale dei minori. Troppe cose non tornavano. “Non ce la facevo più. É doloroso trovarsi ad operare consapevole di essere al centro di un sistema del genere, senza riuscire a fare niente. É disumano. Ho dovuto dimettermi.” Morcavallo ha più volte lanciato grida d’aiuto. “Io e altri due colleghi abbiamo denunciato tutto al Csm, alla Procura Generale, alla Corte di Cassazione, a tutte le autorità di garanzia. Ma nulla. Nessuno si è mosso. Per fortuna ci ha pensato la procura di Reggio Emilia". Ma, per Morcavallo, che è tornato a fare l’avvocato e a difendere le famiglie “abusate”, “il problema è che in queste istituzioni operano gli stessi referenti politici dei gestori di questo sistema assurdo". Istituzioni, il cui compito sarebbe quello di vigilare. Verificare che i giudici controllino i fatti. E che, invece, secondo le parole di Morcavallo, i fatti se li facevano sfuggire o, nella peggiore delle ipotesi, li coprivano. "Ha sentito un magistrato, un presidente di un tribunale, un componente del Csm, chiedere scusa? Non dico dimettersi. Solo chiedere scusa. Non è stato fatto. Qualcuno è arrivato persino a dire “io sono la vittima”, che credo sia anche offensivo per le vere vittime di questo sistema".
Ecco come funzionava il sistema. “Facevano subito un provvedimento urgente che, come minimo, era di affido del bambino ai servizi sociali. Questo è come dire ai servizi sociali da questo momento tu, fai quello che vuoi. Sottoporre il bambino a terapie, fagli fare dei percorsi in cliniche diagnostiche, terapie psicofarmacologiche, molto spesso addirittura lo allontanavano - dice l’ex giudice - disponevano che venisse portato in una casa-famiglia.” Da lì iniziava l’inferno delle famiglie. Fatto di controlli, terapie, visite mediche e, a volte, anche di lunghi processi penali. Processi che spesso finivano per non risolvere la situazione. Tanto che, come testimoniano i genitori nelle storie che vi abbiamo raccontato, molte volte nonostante l’assoluzione del padre o della madre nella sala di tribunale, i bambini restavano affidati ai servizi sociali. Perché se le accuse degli psicologi nei confronti dei genitori venivano smentite quei bambini non tornavano a casa? Semplice. “Innanzitutto, la verifica del tribunale dei minori è autonoma da quella del tribunale penale ed è molto più lenta. Ma il punto è che subentrano degli altri fattori di valutazione che non dovrebbero subentrare.” Il procedimento riparte da zero, con ulteriori verifiche e periodi di osservazione. Ma, soprattutto, nuove relazioni che suggeriscono la decisione da prendere. “Il punto è che le relazioni vengono fatte dalle associazioni che seguono il bambino preso in causa, dalla casa-famiglia in cui vive… dagli stessi che hanno tutto l’interesse che la situazione rimanga invariata, che non vogliono che il bambino torni a casa. I soggetti sono gli stessi che sperano che gli affidamenti siano tanti e lunghi", afferma ancora l’ex giudice. Insomma, perfino dopo le sentenze dei tribunali gli assistenti sociali erano liberi di continuare la loro battaglia per portare avanti i propri interessi. E a conferirgli il potere erano proprio i giudici del tribunale dei minori. Così, d’altronde, dice la legge. "Il potere glielo danno i giudici - spiega Morcavallo - L’assistente sociale di per sé non ha uno strumento per fare questo certo tipo di cose. O, comunque, non ha uno strumento per farle in modo durevole. L’unica cosa che consente la legge, oggi, all’assistente sociale è la possibilità, in caso di emergenza, di prendere un bambino e allontanarlo dalla famiglia ma per il periodo dell’urgenza. Vale a dire massimo pochi giorni. Periodo che, per essere prolungato necessita di una decisione di un giudice. I terapeuti, gli psicologi, non hanno assolutamente gli strumenti giuridici per costringere la famiglia a soggiacere a quel trattamento". Ma i giudici sapevano o non sapevano cosa si nascondeva sotto le false relazioni lasciate passare senza la minima esitazione? Al momento non ci è dato saperlo. “In ogni caso è comunque grave. - Ci tiene a sottolineare l’ex giudice - A un giudice che dorme io non affiderei neanche una bambola, figuriamoci un bambino…". Ma per Morcavallo l’alibi della buona fede lascia il tempo che trova. "Mi domando solo se sia possibile che dormissero se sono dieci anni che gli viene detto che non devono fare in questo modo, che non devono prendere per buona la relazione, ma devono verificare i fatti". In Italia, ma soprattutto a Bologna dove, i casi di bambini strappati illegalmente alle proprie famiglie, ce ne sono stati tanti. Oggi come in passato.
"Io vittima come Bibbiano". E l'avvocato si sdraia davanti palazzo Chigi. L'avvocato Carlo Priolo stamattina ha protestato davanti a Palazzo Chigi per denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Francesco Curridori, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'avvocato Carlo Priolo, insieme alla sua assistita, stamattina davanti a Palazzo Chigi è stato protagonista di una protesta con la quale ha cercato di denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Una situazione che ricorda l'inchiesta 'Angeli e Demoni' di Bibbiano e su cui l'avvocato ha voluto puntare l'attenzione dei media gettandosi a terra di fronte agli agenti di polizia di guardia all'ingresso di Palazzo Chigi. Priolo è, infatti, il difensore di una madre a cui nove anni fa è stato sottratto il figlio che, ora, di anni ne ha 13. La donna è al centro di una vicenda giudiziaria che prosegue a suon di perizie degli assistenti sociali e sentenze. L'ultima è arrivata proprio oggi e ha dato ragione all'ex marito della donna che ha ottenuto l'affidamento esclusivo del loro figlio, mentre per l'assistita di Priolo sono stati disposti degli incontri protetti ogni 15 giorni. "È una "sentenza vergogna". Mi hanno tolto la potestà genitoriale, mi hanno diagnosticata come 'Simbiotica' ovvero troppo affettiva (Pas), mi hanno tolto mio figlio", afferma la donna. "Mi tolgono mio figlio per un eccesso di affetto", continua la donna che si sente vittima di "un caso simile a quello di Bibbiano". "Chiedo di parlare con il ministro della Giustizia Bonafede e con il presidente del consiglio Giuseppe Conte", ha concluso la madre disperata che da tempo denuncia l'esistenza di ""sequestri di Stato" in tutta Italia".
Sistema Italia. Violazione dei diritti umani e burocratizzazione del sistema.
Affidi illeciti all'altro genitore. Marcello Adriano Mazzola, Avvocato e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 30 gennaio 2013.
Diritto alla bigenitorialità, la Corte Europea condanna l’Italia. Era ora. Finalmente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo palesa ciò che si sa da molto tempo e si finge di non sapere. L’Italia è stata condannata – in un caso identico a quello noto di Cittadella di qualche mese fa, caso in realtà molto diffuso -, per non avere predisposto un sistema giuridico (e amministrativo) adeguato a tutelare il diritto inviolabile del genitore (nella specie e quasi sempre il padre “separato”) di esercitare il naturale rapporto familiare col figlio. Con la sentenza Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, 29 gennaio 2013 (Pres. Jočienė), Affaire Lombardo c/ Italia si osserva che dall’art. 8 della Convenzione, derivano obblighi positivi tesi a garantire il rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi obblighi possono giustificare l’adozione di misure per il rispetto della vita familiare nelle relazioni tra gli individui, e, in particolare, la creazione di un arsenale giuridico adeguato ed efficace per garantire i diritti legittimi delle persone interessate e il rispetto delle decisioni dei tribunali. Tali obblighi positivi non si limitano al controllo a che il bambino possa incontrare il suo genitore o avere contatti con lui ma includono l’insieme delle misure preparatorie che permettono di raggiungere questo risultato. In particolare per essere adeguate, “le misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui”. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche.
Il caso Lombardo c/ Italia, – come si può ricavare nel fatto della sentenza leggibile in francese – rende palpabile e avvertibile con dolore profondo, il dramma esistenziale di un uomo che per anni ha dovuto ricorrere all’infinito ai giudici, con un esborso economico notevole (evento che anch’esso può segnare il destino di un uomo) per ottenere l’esercizio (e dunque il riconoscimento del diritto inviolabile, poiché non può esservi il diritto se viene riconosciuto formalmente ma violato nella sostanza) del diritto alla bigenitorialità, nella specie paterna, dopo che il tribunale gli ha riconosciuto le modalità per esercitarlo. Il caso è identico a quello di Cittadella, connotato da una madre che dopo la separazione impedisce con ogni mezzo al padre di vedere il figlio, alienando la figura paterna, compiendo ben due crimini: uno contro il figlio indotto a crescere in modo innaturale, privo del riferimento fondamentale di uno dei due genitori; il secondo (spesso trascurato ove non ignorato) contro il padre violato nel suo diritto più sacro e forte, quello del rapporto padre-figlio. Un caso da manuale, poiché chi tratta il diritto di famiglia ben sa che rientra in una casistica assai diffusa. Casistica che vede spesso la madre “separata” artefice di tale condotta, in danno del padre. Come raccontano gli esperti, mentre una tale gravissima condotta vedeva sino all’inizio del secolo artefici i padri verso le donne, dalla seconda metà del ‘900 in poi pare che tale potere sia stato conquistato dalle donne. Chi tratta il diritto di famiglia (magistrati ed avvocati in primis, poi i consulenti e gli assistenti sociali) ha una responsabilità enorme poiché gestisce non diritti di crediti ma diritti inviolabili. E’ necessario dunque che sia dotato di straordinaria capacità, formazione, etica professionale, equilibrio ed onestà intellettuale. Non ultimo, intuito. Molte volte mi sono imbattuto in magistrati e avvocati incapaci di gestire il conflitto e con tale mediocrità o con insulsa piaggeria, decidere di formalizzare l’affido condiviso ma sostanzialmente realizzare un affidamento esclusivo (mascherato dall’ipocrisia del genitore collocatario, nel 90% dei casi la donna secondo i dati resi noti nei convegni, relegando il diritto di visita del padre e dei contatti col figlio al 15%). Può dirsi “condiviso” un diritto alla bigenitorialità funzionale al 15%, gravato dalla servitù di versare un assegno di mantenimento (spesso utilizzato dalla madre con disinvoltura) indiretto (quando la ratio delle legge è il mantenimento diretto), espropriato interamente dell’abitazione e ridotto (se dotato di reddito medio) alla povertà, infine privo di un sistema (come denuncia la Cedu ora) di tutela adeguato del diritto già così compresso? L’auspicio è che si esca ora da questo velo di grave ipocrisia che connota tale materia e si riequilibri il sistema che sta causando ogni anno migliaia di vittime bianche, atteso che non c’è nulla di più straordinario, intenso, sublime, indissolubile del rapporto tra un genitore ed il figlio.
Affidi illeciti a terzi. Forum di Avvenire. Bimbi tolti ai genitori: ma è crudeltà o tutela? Lucia Bellaspiga e Luciano Moia, domenica 21 luglio 2019 su Avvenire. Il caso degli affidi illeciti a Bibbiano riapre gli interrogativi sul sistema di protezione dei piccoli. Il dibattito di Avvenire con sette esperti nel campo della tutela dei minori. Bambini dati in affidamento con procedure sospette, procedimenti viziati da metodi di ascolto suggestivo per non dire capzioso, famiglie senza diritto alla difesa. E poi servizi sociali appaltati a cooperative esterne, libere di agire in modo arbitrario, quasi senza controlli, consulenze tecniche d’ufficio affidate a psicologi e pedagogisti che ignorano le linee guida degli ordini professionali, giudici onorari in sospetto di conflitto d’interesse per aver ricoperto incarichi nelle strutture d’accoglienza a cui loro stessi destinano i minori allontanati dalle famiglie. Cosa sta succedendo al nostro sistema di tutela dei minori? Il caso Reggio Emilia è isolato o ha rivelato prassi diffuse, una routine orientata al peggio che produce ingiustizie e sofferenze?
Per riflettere su vizi e virtù del nostro diritto minorile abbiamo chiesto aiuto agli addetti ai lavori, giudici, magistrati, avvocati, neuropsichiatri infantili. Giovedì scorso, per quasi tre ore, hanno discusso con noi Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano; Ciro Cascone, procuratore capo della Procura per i minorenni di Milano; Patrizia Micai, avvocato, Reggio Emilia; Rosanna Fanelli, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio; Luisa Francioli, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano; Maria Carla Barbarito, avvocato di Milano, curatore speciale minori; Stefano Benzoni,neuropsichiatra, Policlinico di Milano. A condurre il dibattito, dopo l’introduzione del direttore Marco Tarquinio, alcuni giornalisti di “Avvenire”.
MARIA CARLA GATTO, presidente Tribunale minorenni Milano: «I numeri ci dicono che non abbiamo bisogno di trovare bambini da mettere in famiglie, ma di famiglie affidatarie disponibili ad accogliere i bambini. L’ultimo dato disponibile dei bambini fuori casa è del 2014: in Italia 2,6 minori per mille residenti, uno dei dati più bassi in Europa. Dobbiamo capovolgere l’assioma. E quando i bambini non possono essere collocati in famiglia vanno inevitabilmente in comunità. Chi decide quando? Arriva la segnalazione dalla società civile ma, tra tutte le segnalazioni che arrivano alla Procura, meno della metà arrivano al Tribunale. Da qui partono i procedimenti e si mandano le segnalazioni alle parti, sulla base del giusto processo. Ci sono situazioni di emergenza, violenza, abusi, abbandoni, in cui l’urgenza impone di abbreviare i tempi. In ogni caso gli interventi sono sempre complessi e delicati, e hanno bisogno di competenza e di specializzazione. Ma non ci può essere specializzazione e competenza se non c’è formazione: questo problema riguarda tutti, autorità giudiziaria, servizi sociali, magistrati, avvocati. Altro problema è la delega a terzi dei servizi. «Non è certo garanzia né di specializzazione né di competenza. E questo è un profilo su cui dobbiamo confrontarci. Perché in situazioni complesse, come quelle evidenziate nelle famiglie fragili, che si inseriscono in una realtà complessa come la nostra società, tutto diventa difficilissimo, compresa l’educazione dei figli. Il tribunale per i minorenni cerca di 'fare la regia' di queste situazioni di fragilità, con l’obiettivo di ridurre quanto più possibile i casi di allontanamento». Le famiglie sono adeguatamente rappresentate? «Noi a Milano cerchiamo fin dal primo momento di impostare il procedimento sulla base del giusto processo, offrendo cioè alle famiglie ampie possibilità di contraddittorio. Certo, perché tutto funzioni al meglio è necessario che ogni tribunale abbia risorse e personale adeguato, ma quasi sempre non è così, gli organici sono assolutamente insufficienti. Quante volte non possiamo fare notifiche perché non abbiamo personale sufficiente! Segnalare queste carenze al ministero? L’abbiamo fatto decine e decine di volte. Non ci rispondono neppure». Eppure non dobbiamo mollare. «Dobbiamo lavorare tutti insieme, schierarci dalla parte delle famiglie e dei bambini, ricercare 'con' i genitori e non 'contro' i genitori, soluzioni accettabili e condivise da tutti. Il criterio di fondo dev’essere chiaro: sostenere le famiglie per quanto possibile all’interno delle famiglie stesse. Il mio successo di giudice minorile è quello di lasciare il bambino all’interno della propria famiglia, aiutandola a superare i momenti di difficoltà. Purtroppo, però, non sempre è possibile».
LE SUE PROPOSTE:
1) Garanzia di giusto processo nel procedimento minorile: l’assenza di norme chiare che regolamentino le varie fasi non dipende da noi ma dal legislatore.
2) Abolire il Tribunale per i minorenni e istituire invece il Tribunale della famiglia? No, non basterebbe. Vorrebbe dire perdere la specializzazione messa insieme in tanti anni. L’esternalizzazione dei servizi invece ha fatto decadere il livello: le gare si fanno sempre al ribasso.
3) Procedure più adeguate e tempi certi nella giustizia minorile sono la mia battaglia.
CIRO CASCONE, procuratore della Procura minorenni di Milano: «Se avessimo sufficienti famiglie affidatarie, le comunità non avrebbero motivo di esistere. I dati? Sono quelli del Garante Infanzia». Modificare l’articolo 403, che dà troppo potere ai servizi sociali nell’allontanare i bambini dalle famiglie? «La norma (articolo 403) è del 1941 e non è mai stata modificata, varie proposte di riforma non hanno mai trovato le convergenze necessarie e alla fine tutto è rimasto uguale. Anche l’Associazione italiana dei magistrati minorili (Aimmf) ha presentato una proposta articolata per superare questo problema, ma siamo ancora fermi. Certo, ci sono situazioni che impongono all’autorità pubblica di intervenire in tempi rapidi per risolvere situazioni di emergenza e gli interventi non si possono rimandare: la legge non prescrive in quei casi di segnalare l’intervento alla Procura dei minorenni, così in alcuni casi avviene – a Milano sempre – in altri no». Non sarebbe quindi urgente prevedere una procedura univoca, con tempi certi, valida per tutti i tribunali? «Certamente sì, ma per farlo occorre modificare la legge. Attenzione, però, stiamo parlando di pochi casi all’anno, a Milano (ovvero tutta la Lombardia ovest) circa cento l’anno. Nel 2018, su 7.100 segnalazioni, abbiamo aperto circa 2.500 procedimenti e le richieste di limitazione della responsabilità genitoriale sono state poco più di mille». L’ingerenza dei servizi nelle vite familiari non è esagerata? «Quando c’è il fondato sospetto, o addirittura dati di fatto, che dicono che in quella casa i bambini vivono in mezzo ai topi, l’ingerenza è necessaria». Ci sono però disfunzioni in questa procedura? «Sì, a cominciare dall’art. 1 della legge 184, al punto in cui si dice che se ci sono problemi familiari che non garantiscono il diritto del minore a vivere in famiglia, lo Stato deve intervenire con sostegni "nei limiti delle risorse disponibili". E le risorse non sono mai sufficienti. Ogni giorno facciamo un lungo elenco di richieste ai servizi e la risposta è sempre quella: 'Non ci sono le risorse'». Il fondato sospetto non porta a volte ad allontanamenti poco motivati? «Il 'fondato sospetto' mi deve spingere ad aprire l’inchiesta: di fronte alla relazione di un assistente sociale, il compito del procuratore è sempre quello di verificare i fatti, capire se è davvero capitato quello che mi sta descrivendo. E poi devo chiedermi: partendo dai dati che ho messo insieme, com’è possibile ricostruire una relazione? Perché questo rimane l’obiettivo di tutto il nostro sistema».
LE SUE PROPOSTE:
1) Più risorse per i servizi, per la famiglia e l’infanzia. Risorse anche per l’autorità giudiziaria e, in particolare, per l’informatizzazione dei dati.
2) La normativa oggi lacunosa deve prevedere meglio ciò che oggi, in alcuni tribunali, si fa per prassi costituzionalmente orientata.
3) Tribunale per i minorenni sì o no? Forse prima dobbiamo chiederci: possiamo arrivare a un Tribunale della famiglia e delle persone con la stessa elevata specializzazione che abbiamo nei Tribunali per i minorenni? Oggi il problema è che ci siano più giudici che hanno competenze quasi identiche sui minori.
PATRIZIA MICAI, avvocato a Reggio Emilia: «È grave che non esista una banca dati nazionale. Per raccogliere i dati sui minori fuori casa abbiamo tre fonti diverse, dunque la raccolta non è omogenea». Quanto al super potere degli assistenti sociali? «A me pare che il loro potere sia fuori controllo. Un potere di fronte al quale le famiglie non hanno quasi possibilità di intervento. O meglio, la possibilità ci sarebbe, la querela di parte contro l’operato dei servizi stessi, ma per questo la famiglia deve pagare un avvocato, con costi e tempi tutt’altro che certi. Ricordo che non c’è un contraddittorio paritetico fin dall’inizio e questo mina alla base il diritto di difesa da parte della famiglia. Non si può rispondere ogni volta con una querela per falso e così i provvedimenti, anche quelli urgenti, sono in teoria provvisori ma diventano invece lunghissimi, anni e anni. Se nel diritto penale il pm ha 48 ore per confermare il fermo, non si vede perché nel diritto minorile non si debba avere la stessa fretta: quando un errore riguardo a un bambino, la famiglia viene distrutta. Quindi possiamo dirlo: ci sono termini troppo discrezionali. Dobbiamo lavorare tutti insieme per modificarli». Per quanto riguarda il metodo di interrogatorio dei minori, è corretto parlare di protocolli troppo generici? «Occorre senza dubbio fare chiarezza. Esistono linee guida rigorose, c’è la Carta di Noto, ma purtroppo non si è obbligati a seguirla, tanto che si sono varie associazioni legate al Cismai che usano il metodo del 'disvelamento progressivo' e in alcune regioni queste posizioni culturali sono preponderanti». Sostenere le famiglie, anziché allontanare i minori: si fa davvero di tutto? «Benissimo parlare di recupero delle risorse familiari, quando è possibile. Ma dobbiamo essere tutti d’accordo nel perseguire questo intento positivo: giudici, avvocati, psicologici e assistenti sociali. Non sempre è così scontato». Com’è possibile che a genitori assolti nel penale siano comunque sottratti i figli? «L’inadeguatezza del sistema si traduce anche in queste situazioni di contraddittorietà. Spesso tra giudizio penale e civile ci sono sentenze inconciliabili, e allora per mia esperienza diventa difficile riuscire a capire le decisioni di un Tribunale per i minorenni, non solo rispetto alla sentenza, ma anche rispetto al merito. E quando c’è questa contraddittorietà si creano situazioni difficilmente gestibili. Nel caso delle adozioni, per esempio. Quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli, come facciamo a riprendere quei minori e a ributtarli nelle famiglie di origine? È talmente enorme questo dramma da richiedere una riflessione molto attenta. Come ci possono essere pronunciamenti così in contrasto? In uno Stato civile questo non può avvenire».
LE SUE PROPOSTE:
1) Giusto processo con contraddittorio paritetico per garantire il diritto alla difesa della famiglia. Oggi non c’è.
2) Soppressione del Tribunale per i minorenni e istituzione del Tribunale della famiglia con competenze specifiche anche degli avvocati.
3) Abolizione dell’articolo 403 del codice civile (allontanamento coatto dei figli dalla famiglia sulla base della valutazione dei servizi sociali).
ROSANNA FANELLI, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio (genitori separati): Mancano i dati, lo abbiamo detto. «Ma al di là dei numeri ci sono vite umane, non dimentichiamolo. E non dimentichiamo che l’Italia ha accumulato molte condanne dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) proprio perché le nostre istituzioni si intromettono nella vita familiare in maniera spropositata, violando l’articolo 8 della Convenzione internazionale per i diritti dell’uomo». Troppo potere agli assistenti sociali, dunque? «Certo, l’articolo 403 del Codice civile va sicuramente modificato. Io sono portavoce di un’associazione che raccoglie situazioni in cui l’indebita ingerenza dei servizi sociali nella vita delle famiglie è un dato assodato, non un’impressione. Non si tratta di errori giudiziari ma di orrori giudiziari, e le continue condanne della Cedu rappresentano un costo economico intollerabile per la collettività. Non possiamo trincerarci dietro il fatto che un ufficio funziona o non funziona: è il sistema nel suo complesso che non funziona». L’esternalizzazione dei servizi è uno dei gravi problemi? «Certo, la norma è assolutamente da cambiare. Non si può dare a un soggetto che non fa parte dell’amministrazione pubblica, il potere di decidere la vita delle persone. I maltrattamenti dei bambini ci sono sempre stati, ed ovviamente esistono provvedimenti giustificati e tempestivi, ma ci sono anche bambini che non godono di queste attenzioni, che dopo essere stati maltrattati in famiglia continuano ad essere maltrattati nelle comunità. E ai quali per di più vengono recisi tutti i rapporti familiari. Noi avvocati ascoltiamo il dramma di questi bambini e cerchiamo di dare loro risposte, ma non sempre è possibile. Conosciamo situazioni limite, casi giudiziari assurdi, come quelli di bambini tolti alle famiglie per conflittualità coniugale di genitori già separati, ma queste sono ingerenze illecite. Stiamo lasciando troppo spazio a operatori, assistenti sociali, "ctu" (consulenti tecnici d’ufficio) che non hanno la competenza necessaria». Le ingerenze quindi ci sono? «Quando un assistente sociale, o uno psicologo, stende una relazione e la manda a un giudice, quella diventa legge. E non c’è possibilità di cambiare le cose, se non a prezzo di sforzi terribili sul piano giudiziario e su quello economico. Conosciamo bene il ruolo di "perito peritorum" del magistrato, ma difficilmente un magistrato si prenderà la responsabilità di dissentire rispetto alla posizione del suo perito. E intanto passano anni e le posizioni si consolidano. Esistono casi noti e terribili».
LE SUE PROPOSTE:
1) Abolizione dell’articolo 403. E riappropriarsi dei ruoli e delle competenze delle varie professionalità.
2) Estendere e consolidare le garanzie: diritto alla difesa, contraddittorio paritetico nel rispetto del dettato costituzionale.
3) Estendere la qualità del lavoro giudiziario, con l’accertamento delle responsabilità, comprese le garanzie risarcitorie a favore delle famiglie in caso di giudizio errato.
LUISA FRANCIOLI, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano: ingerenza dei servizi sociali sulla famiglia? «Io l’ho vista solo quando è necessaria: nessuno desidera aprire un procedimento giudiziario per una volontà di ingerenza, si apre un caso quando c’è una situazione di pregiudizio. E gli allontanamenti in comunità sono sempre motivati, per le situazioni drammatiche, mentre in altre situazioni viene fatto solo dopo un’indagine». Troppo potere ai servizi sociali? «Non mi pare, sono senz’altro i primi che intervengono e sono quelli che hanno il dovere di riferire ai giudici, ma non è che i giudici si attengono semplicemente a quello che riferiscono i servizi sociali, ci sono anche le relazioni dei consulenti, dei periti, eccetera. Non è una posizione univoca. D’altra parte sulle difficoltà, sull’incompetenza e sulle carenze d’organico siamo tutti d’accordo». Quali allora le disfunzioni del sistema? «Anche il fatto che l’attività dei servizi sociali venga appaltata a cooperative esterne è un grosso problema. Sono invece in disaccordo sul fatto che le famiglie non siano adeguatamente rappresentate nel momento del contraddittorio».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse, altrimenti tutto continuerà a funzionare male.
2) Maggiore professionalità da parte di tutte le categorie.
3) Individuazione di un procedimento che dia maggiori garanzie, uguali tra tutte le procure italiane.
MARIA CARLA BARBARITO, avvocato a Milano, curatore speciale minori: «Non ho mai visto una volontà esplicita da parte degli avvocati o degli assistenti sociali di creare problemi o di ingerenza. Mi sono invece resa conto che c’è una differenza abissale tra procura e procura, tra regione e regione. Io personalmente non ho mai visto le situazioni marginali e drammatiche che sono state descritte stasera (l’inchiesta "Angeli e Demoni" di Reggio Emilia o "I Diavoli della Bassa" del Modenese, ndr)». Eppure le falle del sistema sono emerse con drammaticità, in certi casi. «Sugli interventi necessari per rimediare alle falle, che certamente esistono, credo che qui siamo sulla strada giusta: dobbiamo fare fronte comune per arrivare a riconoscere in ogni caso il diritto di un contraddittorio paritetico e di difesa per le famiglie nel momento dell’allontanamento del bambino. Urgono poi tempi più rapidi per l’avvio del procedimento ed è necessario migliorare la competenza di tutti gli operatori, eliminando i conflitti di interesse. Poi certamente ci sono molti ambiti su cui non dobbiamo stancarci di lavorare, per esempio definire un maltrattamento è un fatto complicatissimo, che richiede mille cautele. Più aumenta la competenza, più si lavora in modo concorde, meglio è per tutti.
LE SUE PROPOSTE:
1) Una maggiore competenza di tutti nell’ascolto dei minori, con garanzie del contraddittorio e giusto processo.
2) Tempi certi e non eterni nei procedimenti.
3) Non credo che il Tribunale per i minorenni vada abolito. Occorrono invece molte più risorse.
STEFANO BENZONI, neuropsichiatra del Policlinico di Milano: «Non è un problema soltanto di giustizia, ma di società in generale e di politica. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un aumento esponenziale dei bambini che hanno problemi di carattere psichiatrico... e nello stesso tempo sono diminuite le risorse pubbliche per affrontare queste situazioni. Proprio mentre le famiglie sono sempre meno attrezzate per risolvere autonomamente i problemi. Se questa è la situazione generale, inevitabile che anche il sistema della giustizia minorile sia in sofferenza». Ma lo stato di necessità coinvolge tutti, dagli assistenti sociali ai consulenti tecnici d’ufficio. «Non dimentichiamo che al centro di ogni accertamento ci devono sempre essere gli interessi del bambino e della famiglia. In queste settimane abbiamo letto critiche feroci ai metodi seguiti dai Servizi sociali di Reggio Emilia. Quando c’è in gioco la tutela di un bambino o l’ipotesi di un maltrattamento, un abuso, c’è in gioco un bene superiore. Ma un’indagine psicosociale presenta una complessità cento volte maggiore rispetto a un’indagine medica, perché ciò che vogliamo accertare è molto più fluido rispetto a una diagnosi di malattia. Stiamo parlando di questioni che profondamente attengono all’idea di vita buona rispetto ai valori particolari di ogni singola famiglia. Questa idea non è dicotomica: bianco o nero. Quindi rispondere alla domanda, "cos’è un’indagine psicosociale accurata su un minore?" merita rigore e complessità, non risposte urlate e violente. Chi opera in questo sistema non deve avere conflitti di interesse, deve seguire le linee guida nazionali per quanto riguarda gli interventi su famiglie e bambini in situazioni di vulnerabilità. Linee guida che sono rigorose e precise. Uno dei criteri fondamentali è quello di mettere al sempre al centro gli interessi e i valori della famiglia, senza ingerenze indebite». Ma purtroppo non succede sempre così, non è vero? «No, purtroppo spesso prevalgono le cattive prassi, legate all’incompetenza, al degrado del sistema, ma anche alla scarsità di mezzi e alle routine negative. Dobbiamo saper rilevare le risorse delle famiglie, non solo i loro problemi, questa deve essere la finalità comune. Raccontare che l’obiettivo del sistema è quello di togliere i bambini alle famiglie diventa fuorviante». I protocolli non sono troppo generici e quindi a rischio di interpretazioni arbitrarie? «Per fortuna che i protocolli sono generici, perché devono fornire principi e orientamenti metodologici: abbiamo capito che l’iperspecializzazione porta ad aberrazioni nel giudizio clinico. Ciò non vuol dire che non serva una preparazione specialistica, ma il linguaggio tecnico deve servire a migliorare il contatto umano. Un lavoro di esplorazione di storia familiare costruita in termini partecipativi e collaborativi non si improvvisa, si costruisce se il professionista ha una specifica formazione all’ascolto attivo, se sa mettersi nei panni dell’altro. Nel campo dei maltrattamenti le sfumature sono infinite. Se mettiamo tra parentesi i fatti penali, una coppia di manager che trascura i figli, che non trova mai tempo di stare con loro, che li lascia davanti alla playstation con quattro tate diverse, è una coppia maltrattante anche se abita in un attico di 400 metri quadrati o no? Ecco perché il concetto di maltrattamento è fluido. Ed ecco perché un’indagine psicosociale seria deve mettere in luce le carenze di una famiglia ma anche le sue risorse, i suoi punti di forza. E questo riguarda soprattutto le famiglie con fragilità. Se non ho una cultura positiva delle risorse delle persone, avrò sempre uno sguardo negativo sulle cose».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse umane ed economiche.
2) Un registro nazionale che ci dica quanti bambini sono in comunità, che esigenze e che punti di forza hanno.
3) Implementazione delle linee guida nazionali, che sono un vero patrimonio culturale del nostro sistema di accoglienza e tutela dei minori.
Il Sistema Italia. Tg2 post del 7 Agosto 2019. Bibbiano. Come funziona il Sistema degli Affidi nel resto d'Italia.
Maria Antonietta Spadorcia: Avv. Morcavallo come si risponde a questa domanda? E soprattutto perchè lei ha lasciato la Magistratura?
Avv. Francesco Morcavallo, del Foro di Milano, ma di origini calabresi, ex magistrato del Tribunale dei minori: Proprio per reagire al silenzio delle Istituzioni e delle Autorità di Garanzia su questo tipo di mancanze della Giustizia Minorile. Cioè, lo strumento con cui queste persone hanno operato, ora con le caratteristiche specifiche del caso di Bibbiano, è lo strumento dei provvedimenti del Giudice Minorile. Provvedimenti del Giudice Minorile emessi non riguardo a fatti, ma riguardo a segnalazioni, impressioni, valutazioni, che non sono state verificate. Possono essere valutazioni svolte in malafede, o valutazioni sbagliate, o valutazioni generiche.
M.A.S: Qual è il caso in particolare che l'ha colpita ed ha preso questa decisione? Una decisione importante.
F.M.: Mah, il caso che fu emblematico, ma che fu soltanto la goccia che fece traboccare il vaso fu la vicenda della morte di uno di quei gemellini nella piazza Maggiore di Bologna. Rispetto alla quale si pretese di reagire subito, allontanando l'altro bambino dalla famiglia, mentre ancora non si sapeva nemmeno cosa cosa era successo. Io mi opposi e denuncia questa situazione assieme ad altri colleghi, o meglio, assieme ad altri solo due colleghi. Un magistrato, Guido Sanzani, e un giudice onorario di allora, Mauro Imparato, che oggi ha nuovamente parlato di quelle situazioni lì. E, invece, il Presidente di allora ed altri colleghi rimasero violentemente, reagirono violentemente arroccandosi sulla posizione che è quella di quel Tribunale Minorile, ma anche di altri Tribunali Minorili italiani. Cioè: si decide sulla base della valutazione degli assistenti sociali e psicologi senza verificarla, senza verificare i fatti. E questo porta alle violazioni dei Diritti Umani che sono state compiute e rilevate dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Alessandra Forte, giornalista del TG2 Cronaca: A me quello che è rimasto veramente colpito è quello che diceva l'avvocato, comunque. Il fatto che si asaltata totalmente tutta la catena di controllo. Mi sembra assurdo, Poi lui ci sta raccontando che anni fa si è dimesso dalla Magistratura; ani fa ha fatto queste denunce. Quello che mi colpisce è il silenzio assoluto istituzionale a cui abbiamo assistito.
F.M.:E denunciandole in tutte le sedi istituzionali questo tipo di situazioni.
M.A.S: Morcavallo c'è un Sistema? Perchè dalle parole è rimasto colpito dalle parole di questa...(assistente sociale pentita del caso Bibbiano).
F.M.: Colpito nel senso che sono parole gravi, ma sono parole di situazioni note. Quello che questa assistente sociale dice è vero. Prevale una funzione di intervento. Di intervento al buio. Il provvedimento di affidamento dei bambini al servizio sociale in Italia, sono numeri del Garante dell'Infanzia, che finora si è mosso per dare solo numeri. Quindi non è tacciabile di averli esagerati, per il resto non ha tutelato nessuna posizione di Diritto di minorenni. Sono 500 mila. E affidamento al Servizio Sociale significa dare un mandato in bianco che consente ad un operatore o ad uno psicologo di prendere il bambino e portarlo a ricevere trattamenti diagnostici, terapeutici, psicofarmacologiche, di ogni tipo senza il consenso dei genitori.
M.A.S: C'è un Sistema Bibbiano, lei ha parlato di Bologna, c'è un Sistema Bibbiano oppure c'è un Sistema che riguarda un po' tutto.
F.M.: Ci sono dei Servizi Sociali che funzionano molto bene. Come tutte le professioni ci sono: professionisti bravi; professionisti non bravi; professionisti delinquenti. In tutte le professioni. Quindi senza generalizzazioni. Ma quel sistema che non chiamiamo Sistema Bibbiano, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, quindi l'Europa, lo chiama da anni: Il Sistema Italia. Con condanne continue nei confronti dello Stato italiano in relazione a questo profilo che è decisivo. Non si decide su comportamenti e su fatti provati, ma si decide su valutazioni. La valutazione in questo modo può essere una lotteria. Può provenire da un delinquente, come si ipotizza sia stato fatto a Bibbiano. Due annotazioni brevissime: attenzione a dire che è solo una questione di moralità e di formazione di chi svolge delle consulenze. Intanto queste non erano consulenze. Sulle valutazioni si basavano i giudizi, come avviene in tutti i giudizi minorili in Italia in modo sbagliato. Il Problema poi non era di modalità. Non mi stupisce e non mi allarma solo e soltanto il fatto che un disegno sia stato falsificato. Quello che mi allarma e che sulla base di un disegno, anche non falsificato, un bambino possa andare in una comunità lontano dai genitori.
Bibbiano, ex giudice su affidi illeciti. “Assistente sociale è diventato sceriffo…”. Silvana Palazzo l'1.08.2019 su Il Sussidiario. Bibbiano, affidi illeciti: parla ex giudice. Francesco Morcavallo a La Vita in Diretta: “Assistente sociale è diventato sceriffo”. E Licia Ronzulli propone riforma. Lo scandalo dei presunti affidi illeciti, il cosiddetto caso Bibbiano, ha dimostrato che l’impianto dell’affido in Italia ha delle criticità nella sua applicazione. Lo sostiene ad esempio Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Secondo Ronzulli c’è eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e prassi discordanti sul territorio. Quindi ha presentato una proposta di legge per riformare l’affido, con l’obiettivo di aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori. Di questo ha parlato anche l’ex magistrato Francesco Morcavallo, ora avvocato, a La Vita in Diretta. Da anni denuncia le storture nel sistema degli affidi che non riguarderebbe solo Bibbiano e l’Emilia Romagna. «Non andavano le stesse cose che non vanno oggi. Oggi parliamo di sistema Bibbiano, ma si può parlare di un sistema italiano. Gli affidi vengono decisi senza accertare i fatti». Morcavallo parla con cognizione di causa, essendo stato dal 2009 al 2013 giudice del Tribunale dei minori di Bologna. «Dovevamo vedere se dietro queste generiche valutazioni c’erano fatti e se erano veri». Morcavallo ha poi aggiunto: «Se si dà uno strumento di autorità all’assistente sociale, allora diventa uno sceriffo. E chi doveva vigilare sull’operato non lo ha fatto». L’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano è partita dai numeri: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Così è nato dunque il sospetto che i servizi sociali abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. E ciò con relazioni false e prove manomesse. Eppure l’affido è una soluzione estrema, per la quale non bastano motivi economici. Cosa dice allora la procedura? L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori, o di chi esercita la potestà o del tutore, ma è il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se non c’è accordo, decide il tribunale per i minorenni. La procedura urgente invece prevede che i servizi sociali decidano da soli e avvisino poi il tribunale, ma a volte a distanza di mesi. In casi gravi si può ricorrere poi all’affido “professionale”, in cui una cooperativa viene incaricata di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto, prevedendo un contributo. Ma l’affido è una misura a “tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea, ma nella pratica dura più del previsto. E il rientro in famiglia è centrato solo nel 40 per cento dei casi.
Non solo Bibbiano, il giudice che ha lasciato la toga “contro questa disumanità”. Chiara Affronte il 24 Luglio 2019 su Il Salvagente. Il caso Bibbiano, nonostante le strumentalizzazioni politiche, è solo la punta di un iceberg su un sistema, quello degli allontanamenti e degli affidi, che evidentemente ha più di un punto debole. Ieri il Salvagente ha pubblicato la storia di Laura, una donna che si è vista trascinare in nove mesi di incubo, separata a forza dal figlio in maniera ingiusta. Non l’unica testimonianza delle falle di questo sistema. Lo dimostra la denuncia – anche questa raccolta dal nostro giornale più di un anno fa – di Francesco Morcavallo che è stato giudice al Tribunale dei minorenni. Fino a che non si è scontrato a Bologna contro la decisione di togliere la patria potestà ai genitori del piccolo Devid. E ora ha scelto di fare l’avvocato per non scendere a compromessi. Sono centinaia gli allontanamenti coatti di minori dalle loro famiglie che avvengono ogni anno e che finiscono sui tavoli degli avvocati o del Comitato dei cittadini per i diritti umani (Ccdu). Allontanamenti spesso ingiustificati, di bambini dati in affido o alle comunità, a guardare le pratiche, sebbene la legge dica chiaramente che si debba fare tutto il possibile affinché i minori restino con le loro famiglie, organizzando tutte le forme di sostegno necessarie. Gli ultimi dati disponibili prodotti dall’Istituto degli Innocenti per il ministero risalgono al 2010 e contano quasi 30mila bambini (i prossimi “Quaderni” di raccolta dei dati usciranno a luglio e si riferiranno al 2014), l’Istat parla per il 2014 di 20mila ragazzini accolti esternamente alla famiglia in strutture socio-residenziali. Ma per gli avvocati che se occupano sono molti di più. Così come per Francesco Morcavallo, che ha condotto e conduce una lotta durissima contro le modalità e le prassi con cui a suo avviso avvengono gli allontanamenti di minori: provvedimenti che ha potuto osservare sia da giudice del Tribunale per i minorenni fino a qualche anno fa, sia da legale, oggi, dopo la decisione di lasciare la toga di giudice, deluso e deciso a combattere la lotta da fuori, senza scendere a compromessi. A Bologna, nel 2011, si scontrò contro il provvedimento che prevedeva di togliere la patria potestà (nei confronti degli altri due figli) ai genitori del “piccolo Devid”, morto di freddo in Piazza Maggiore: un caso che ebbe molta eco sulla stampa e su cui fu dura la battaglia di Morcavallo e del collega Guido Stanzani, perché la decisione del Tribunale fu presa, secondo Morcavallo, senza un’accurata istruttoria sull’accaduto. Lui fu allontanato da Bologna ma poi la Cassazione gli diede ragione e tornò nel capoluogo emiliano: “Ma mi tolsero tutti i fascicoli che stavo seguendo. Ero soggetto a pressioni: me ne sono andato, e adesso cerco di aiutare questi bambini da fuori”.
Sono denunce molto pesanti quelle che fa. Può spiegarci cosa accade quando viene allontanato un bambino?
«La prassi diffusa è quella di allontanare i bambini solo sulla base di semplici segnalazioni anche senza precise motivazioni verificate, quando invece la legge prevede che i minori restino nelle proprie famiglie, provvedendo semmai ad un sostegno laddove necessario. Lo dice la legge ma si tratta anche di un diritto primario, motivo per cui il nostro paese è stato spesso condannato per aver leso questi diritti dalla Corte europea».
Il disagio economico prevede per legge l’allontanamento?
«No, mai».
Quali sono le motivazioni per cui si allontana?
«Ribadiamo innanzitutto che l’allontanamento dovrebbe essere una misura estrema, motivata da ragioni estremamente serie. Purtroppo 99 volte su 100 non esistono. O sono vaghissime, incomprensibili, assurde: anche “l’atteggiamento troppo amorevole” viene addotto spesso come motivazione, per fare un esempio. Ho letto di tutto: considerazioni da manuali di psicologia di 70 anni fa… Ciò che manca è una seria attività istruttoria. Troppo spesso – anzi, quasi sempre, purtroppo – accade che vengano letteralmente copiate e incollate le relazioni degli assistenti sociali: non vengono interrogati i genitori e non si procede ad un confronto tra le versioni dei fatti. E poi, anche quando si riesce a stabilirlo, non si rimedia. Non si applica la normativa prevista in merito, ad esempio le interazioni con la famiglia affidatarie non esistono. E nelle comunità si esercitano molto spesso pressioni – quando non anche minacce – ai bambini, soprattutto quando ci sono interessi in ballo».
Perché accade, secondo lei?
«Per ignoranza. O per acquiescenza dei giudici a un certo tipo di orientamento diffuso, talvolta anche per vicinanza tra i Tribunali dei minorenni e le strutture. L’allontanamento, in fondo, è uno strumento che deresponsabilizza».
Descrive un panorama molto preoccupante e anche poco noto all’opinione pubblica, almeno nella misura da lei descritta, dove sembra scomparire il concetto di “umanità”…
«Dentro ai Tribunali dei minorenni dovrebbero lavorare quei giudici a cui richiedere uno sforzo in più rispetto a ciò che viene chiesto ad altri. E invece avviene tutto il contrario».
Ciò che sta descrivendo è accaduto anche per il caso bolognese che riguardava Devid, vero?
«È accaduto per Devid e per molti altri casi. Solo che quel caso in particolare ha avuto una notevole risonanza mediatica. In quell’occasione mi opponevo al fatto che venissero prese delle decisioni senza un’istruttoria. Ho avuto molte pressioni e anche la sottrazione del fascicolo, cosa che non si può assolutamente fare. Comunque poi la Cassazione ha annullato il mio allontanamento. Tuttavia, quando sono tornato non si voleva che mi fossero affidati i casi su cui stavo lavorando. ‘Occupati di altro’, mi veniva detto. Ovviamente non potevo accettarlo e ho lasciato quel ruolo e oggi cerco, come altri avvocati, di aiutare le famiglie e i bambini, anche se non è l’unico campo in cui opero».
Cosa bisognerebbe fare, a suo avviso?
«Bisogna assolutamente tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su questo tema, difendere le persone ponendo tutte quelle questioni che non vengono poste. Ma sarebbe necessaria una riforma politica che espliciti il nesso tra fatti e provvedimenti, adeguarsi alla Corte europea. Non si può accettare che le comunità e gli affidi suppliscano ad una mancanza di welfare».
Rif. Camera Rif. normativi. XVII Legislatura. Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Resoconto stenografico. Seduta n. 12 di Martedì 16 febbraio 2016.
INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA. Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.
Blundo Rosetta Enza, Presidente.
ALLEGATO: Documentazione presentata dall'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza ...
Testo del resoconto stenografico. PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE ROSETTA ENZA BLUNDO. La seduta comincia alle 13.15. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso. (Così rimane stabilito). Sostituzione di un componente della Commissione.
PRESIDENTE. Comunico che la Presidente della Camera, in data 15 febbraio 2016, ha chiamato a far parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza la deputata Valentina Vezzali, in sostituzione del deputato Antimo Cesaro, dimissionario. (La Commissione prende atto). Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Do la parola all'avvocato Maria Carsana.
DONELLA MATTESINI. Intervengo, Presidente, sull'ordine dei lavori. Chiedo scusa anche a nome suo – e speravo che lo facesse – perché non si arriva, rispetto alla convocazione, con 40 minuti di ritardo, senza neanche scusarsi. Chiedo scusa ai nostri auditi anche del fatto che, dovendo votare, tra dieci minuti noi rappresentanti del Partito democratico dovremo assentarci. Vi chiedo scusa perché ritengo sia davvero molto serio e molto importante il contenuto dell'audizione, ma anche i lavori della Commissione permanente ai quali dobbiamo partecipare.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Buongiorno. Ho visto che nelle precedenti audizioni sono stati sentiti dei rappresentanti di case famiglia e di autorità che si occupano dei problemi dei bambini che troviamo in istituto. Abbiamo visto anche che non ci sono numeri certi, il che è già un primo fatto gravissimo. Nell'analisi fatta dall'associazione che presiedo e che ho consegnato questa mattina, si parla di circa 30.000 bambini in istituto. Teniamo presente che, secondo il nostro studio, che è orientato a capire i motivi per cui questi bambini si trovano negli istituti, il 63 per cento di questi bambini, come motivo primario o secondario, ha un problema di indigenza economica, abitativa e lavorativa dei genitori. Io, come avvocato, mi sono occupata di tantissimi casi di bambini allontanati dalle Pag. 4loro famiglie e spesso ho dovuto notare che questi allontanamenti avvengono, a seguito della richiesta di aiuto di queste famiglie, da parte di chi è preposto ad aiutarle. Questo è un primo dato che mi fa riflettere perché, in qualche modo, onestamente io, prima di consigliare ad una famiglia di rivolgersi allo Stato per chiedere aiuto, ci penso due volte, se non tre. In più, abbiamo i fenomeni dell'allontanamento, ex articolo 403 del codice civile. Ho visto che in precedenti audizioni vi siete domandati quanti di questi provvedimenti d'urgenza vengano convalidati. Al riguardo, io vi posso dire, per quanto riguarda la mia esperienza, che non c'è una sola volta in cui non ci sia stata la convalida. Questo è un altro dato che ci dovrebbe far riflettere, anche perché questi provvedimenti sono emessi se c'è un sospetto di disagio o comunque di inidoneità delle famiglie ad accudire i propri figli. Io, come vi dicevo, mi sono occupata di tantissimi casi, ma il più eclatante a mio avviso è quello avvenuto recentemente dei sei bambini di una famiglia povera di Anzio messi in un istituto ecclesiastico gestito dalle suore. Il comune di Anzio versava 18.000 euro al mese per mantenerli in istituto. Sono riuscita a risolvere questo problema grazie ad una puntata di Presa diretta che si è occupata di questo caso; altrimenti probabilmente questi bambini stavano ancora in istituto. Prima di risolverlo, il comune di Anzio ha speso 700.000-800.000 euro per mantenere questi bambini in istituto. Mi domando se non sarebbe stato più facile dare un alloggio a questa famiglia o fornire un aiuto economico, ovviamente con una progettualità. L'aiuto economico non deve essere considerato un obolo che è fine a se stesso, perché poi i soldi finiscono e i problemi restano, ma ci dovrebbe essere appunto una progettualità che al momento onestamente, per quanto riguarda la mia esperienza, manca. C'è un altro problema che voglio sollevare. A proposito del caso di questi sei bambini, io andai a parlare ripetutamente con l'assessore ai servizi sociali del comune di Anzio per chiedere che venisse loro data una casa, perché la prima cosa che mancava a queste persone era un alloggio idoneo. L'assessore mi rispondeva: «Se lo chiede il tribunale, io darò questa casa». In quel periodo è stato approvato il decreto legislativo n. 154 del 2013, che ha regolamentato in parte la riforma che c'è stata nel 2012, con la legge 219, in materia di diritto di famiglia. Questo decreto legislativo ha aggiunto alla legge n. 184 del 1983, cioè quella sulle adozioni, l'articolo 79-bis che prevede espressamente che i tribunali debbano sollecitare i comuni di residenza dei minori in difficoltà economica per avere degli interventi. L'assessore mi disse: «Se il tribunale mi dice questo, io ho la possibilità di far saltare le liste d'attesa per le case popolari e quant'altro e dare una casa a questa famiglia». Io ho fatto ripetutamente, non soltanto in questo caso, ma anche in molti altri, la richiesta al Tribunale per i minorenni, in base all'articolo 79-bis della legge n. 184 del 1983, di dare questo input e di ordinare ai comuni di intervenire. Tuttavia, non ho mai ricevuto risposta, neanche una risposta di diniego. Sono stata sempre completamente ignorata, quindi io sono qui per rappresentare che cosa vuol dire per una famiglia il fatto che, come vi ho detto, nella maggior parte dei casi per motivi economici vengano tolti i bambini. Queste famiglie entrano in una sorta di inferno dantesco dove abbiamo operatori spesso oberati di lavoro, che si devono occupare dei minori, dell'anziano in difficoltà e del disabile e che spesso sono molto volenterosi e molto bravi. Tuttavia, capita anche il caso in cui l'assistente sociale che deve relazionare al tribunale non è competente o ha delle presunzioni o ha una visione del tutto personale sul concetto, assolutamente non codificato, di capacità genitoriale. In effetti, dovremmo anche interrogarci su che cos'è la capacità genitoriale perché non è scritto da nessuna parte e ognuno lo interpreta a modo proprio. Ci troviamo nella situazione in cui i Tribunali per i minorenni prendono per oro colato queste relazioni, per cui abbiamo Pag. 5 bambini che nel 42 per cento dei casi, secondo il nostro studio, restano collocati oltre 48 mesi in istituto e nel 22 per cento dei casi da 24 a 48 mesi. Parliamo del 64 per cento degli affidamenti in istituti e in case famiglia o in famiglie che si offrono di tenere questi bambini che si protraggono nel tempo, anche se noi sappiamo che, tranne in casi eccezionali, questa permanenza non deve superare i due anni. In merito, dobbiamo fare l'esame del perché non ci siano questi aiuti alle famiglie e del perché gli interventi da parte dei comuni, ormai ridotti all'osso economicamente, siano assistenziali e senza una progettualità dietro. Io vi devo ricordare sia il dissolvimento degli interventi finanziari della legge n. 216 del 1991, che interveniva nella prevenzione della devianza minorile e sulle sue cause, sia il dissolvimento degli interventi in termini di servizi, dopo la decisione della riduzione dei finanziamenti per la legge n. 285 del 1997 avvenuta in forma forse criticabile nel 2003, quando ancora non c'era tutta questa crisi che c'è ora. È stata fatta la scelta di spostare l'interesse sulla famiglia piuttosto che sul minore. Io prego e invoco questa Commissione di fare qualcosa per ridare fondi alla progettualità, al fine di assistere appunto questi minori nella situazione problematica che in questo momento è anche peggiorata con l'arrivo dei minori migranti non accompagnati. In ultimo, vista l'ora, vorrei – il mio intervento è stato molto breve perché ho saltato alcune parti – ricordare che le convenzioni internazionali e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea citano espressamente l'obbligo di considerare il minore non come oggetto di tutela, ma come soggetto di diritto. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a lei che è stata abbastanza sintetica, ma, nello stesso tempo, incisiva. Io non ho voluto prolungarmi, per non togliere tempo, nel discorso di scuse che farò alla fine.
DONATELLA ALBANO. Sull'ordine dei lavori, Presidente, siccome ci dobbiamo assentare e riteniamo che l'audizione dell'avvocato Morcavallo sia molto interessante, le chiedo se fosse possibile proporre un'altra audizione, in modo che possiamo presenziare e fare le domande direttamente.
PRESIDENTE. Mi sembrava che i colleghi avessero detto di rimanere almeno fino alla conclusione dell'audizione prevista.
DONATELLA ALBANO. L'audizione era prevista alle 12.45. Io ho fatto il «giro dell'oca» per essere puntuale, pensando di audire l'avvocato Morcavallo e la dottoressa Carsana. Io ho un'altra Commissione alle 13.30, per cui non è una questione di tempo, ma di rispetto.
PRESIDENTE. Al Senato, comunque, votiamo alle 16.30.
DONATELLA ALBANO. Io ho altre Commissioni. Si vota anche in Commissione, con presenza del numero legale. Le chiediamo di riferire questa richiesta al Presidente.
PRESIDENTE. Mi dispiace. Riferirò la vostra richiesta. Do la parola all'avvocato Morcavallo.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Cercherò di essere sintetico e schematico, anche perché non ho potuto preparare un compendio scritto, che, se sarà necessario, mi riserverò di comunicare in altro modo. Intendo, peraltro, essere piuttosto schematico perché anche io ho avuto modo di esaminare le precedenti audizioni e ho notato che sono emersi contenuti specifici piuttosto omogenei, per quanto riguarda gli aspetti di sostanziale criticità del sistema di protezione del minore mediante l'allontanamento dalla famiglia. Nell'apparente dicotomia – forse dovuta anche a particolari appartenenze che poi coincidono con un coinvolgimento nella gestione degli istituti privati che svolgono l'assistenza ai minori mediante ricovero – mi pare che ci sia un aspetto di sostanziale Pag. 6omogeneità, cioè non è possibile svolgere una generalizzazione secondo cui la critica al sistema di protezione, di cui fa parte l'allontanamento dei minori dalla famiglia, sia una critica all'intervento di allontanamento in assoluto. Nessuno nega che ci siano delle situazioni – peraltro, le statistiche ci dicono essere di assoluto margine – in cui può essere necessario un intervento così radicale. Nessuno vuole escludere che un bambino o un ragazzo in pericolo possa fruire di un pronto intervento, anche cautelativo. Il problema, però, è di evitare che il rimedio diventi più dannoso del male, cioè che, per garantire protezione a queste situazioni di margine, si crei un sistema monstrum che sostanzialmente fa poi dell'allontanamento del bambino o del ragazzo dalla famiglia l'intervento normale e più frequente. Le statistiche, per quanto in qualche modo disomogenee – forse lo sono necessariamente, non essendovi, come è noto e come è stato ricordato, dei registri specifici o degli elenchi specifici dei minori allontanati – dimostrano che l'intervento di allontanamento sia il più frequente nell'ambito del sistema di protezione, sia amministrativo sia giurisdizionale del minore. Tale intervento non è solo il più frequente, ma è anche quello che più frequentemente manifesta una divergenza rispetto alla finalità normativa. Per essere schematici, mi sto riferendo, nell'ambito di tre questioni – an, quomodo e quantum – che individuo sul macrotema di cui ci occupiamo, cioè l'allontanamento inteso in termini temporali, al primo di questi aspetti (an), cioè se disporre o meno l'allontanamento. I riferimenti normativi e il sistema normativo che riguarda questo aspetto, cioè se occorra dar luogo all'allontanamento del minore dalla famiglia, sono ormai noti, se non altro perché, a più riprese e anche in epoca recentissima, è stato ribadito non solo dalla giurisprudenza interna ma anche dalla giurisprudenza sovranazionale, cioè quella la Corte europea dei diritti dell'uomo, con pronunce anche severe, quanto al contenuto e alla materia, cioè pronunce di condanna che hanno riguardato addirittura procedimenti di adottabilità definiti con sentenze passate in giudicato. Siamo al limite dell'errore irrimediabile o forse oltre il limite, visto che ancora nell'ordinamento italiano non vi è un sistema per adeguare gli effetti dell'ordinamento interno, a fronte di un giudicato già formato, alla statuizione di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo. In merito, sono chiari i riferimenti sistematici, nel senso che l'allontanamento, secondo la giurisprudenza sovranazionale cui è conforme in modo assoluto la normativa e anche la giurisprudenza costituzionale di legittimità interna, occorre che sia, com'è scontato, l’extrema ratio, non una soluzione immediata, e che venga applicato soltanto allorché si manifesti l'immediata impossibilità di soluzioni alternative, prima di tipo assistenziale (articoli 30 e 31 della Costituzione e articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), poi eventualmente di tipo autoritativo, e comunque non riguardanti l'allontanamento. Una volta rimasti inattuabili questi rimedi, solo se è constatata la permanenza di un pericolo grave, concreto e provato di permanenza del bambino o del ragazzo nell'ambito della propria famiglia, è consentito ricorrere all'allontanamento. Questa graduazione di criteri in ambito giurisdizionale, come in ambito amministrativo, comporta anche una graduazione dei momenti di accertamento, cioè su cosa succede, su quali rimedi si possono porre in essere, su quali rimedi diventano inattuabili e se permane il pericolo. Tuttavia, questa graduazione di accertamenti – sono d'accordo con quanto si diceva poc'anzi – sostanzialmente non viene compiuta mai. L'esperienza ci dice – credo che non sia prospettabile in alcun modo una smentita – che l'allontanamento viene disposto inaudita altera parte, quindi come primo provvedimento del procedimento giurisdizionale, se non addirittura in via preprocessuale ai sensi dell'obsoleto, salva l'auspicata riforma, articolo 403 del codice civile. Si può trattare anche di un rimedio che, se non attuato immediatamente, in alcuni casi, anche se statisticamente più rari, viene Pag. 7attuato in corso di giudizio, ma senza una motivazione specifica sulla impossibilità di dare séguito in modo efficace agli interventi svolti precedentemente. Io direi che ciò accade perché – non c'è neanche bisogno di studi – nel 100 per cento dei casi questa motivazione si rinviene in valutazioni assolutamente generiche e addirittura in certi casi di incidenti sulle opinioni personali degli interessati. Sono reduce da una difficile udienza in un procedimento di adottabilità dinanzi al Tribunale per i minorenni di Cagliari. Tale procedimento di adottabilità si è aperto con la seguente ipotesi di quello che potremmo definire uno stato di abbandono: i genitori della bambina collocata in comunità, nel chiedere che gli interventi fossero svolti previo rientro della bambina in casa, mostrano di non condividere gli interventi dell'assistenza sociale, del tribunale e della casa famiglia, per cui manifestano un'opinione divergente rispetto al progetto assistenziale, di guisa che non è prevedibile un recupero delle attitudini familiari in tempi idonei a evitare addirittura lo stato di adottabilità, quindi la dichiarazione dello stato di abbandono della bambina. Questa bambina, tra parentesi, come regalo di Natale ha chiesto di poter tornare a casa dopo un anno e mezzo di comunità e praticamente tutti i giorni si butta per terra chiedendo di incontrare i genitori. Nel provvedimento di apertura dello stato di adottabilità, in limine processus, cioè con il primo provvedimento che è quello di apertura, sono stati interrotti i rapporti tra la bambina e i genitori. Mi chiedo se sia il caso di indugiare sul corto circuito logico che è contenuto in questo tipo di motivazione, cioè quando viene disposto un intervento autoritativo con la collocazione della bambina in comunità e si rivela possibile – non entro nel dettaglio del procedimento – la prosecuzione di un intervento, eventualmente anche mediante assistenza e controllo nella casa famigliare. Il più delle volte i genitori o i famigliari del minore si rendono anche disponibili a questo tipo di intervento. Vi ripeto, se ce ne fosse bisogno, che concordo con quanto è stato detto, cioè che quello nella famiglia è molto meno costoso di un intervento di permanenza residenziale in una casa famiglia. Inoltre, tale intervento è più virtuoso perché garantisce il diritto primario del minore a crescere nell'ambito della propria famiglia. Il corto circuito logico sta in questo: venuta meno, se ve n'è stata mai qualcuna, la ragione originaria di allontanamento del minore, ne è stata trovata un'altra. I familiari hanno osato contrapporre un proprio dissenso rispetto all'intervento autoritativo, come se l'intervento autoritativo dovesse incidere non solo sullo status iuris familiare, ma addirittura sulla mentalità, sulle opinioni stesse e sul carattere delle persone, cioè come se dovesse indurre addirittura un ravvedimento interiore tale da portare le persone da un paradigma di supposta anormalità a uno di normalità, nel senso di adesione all'intervento autoritativo quale che sia, anche se è stato accertato che era sbagliato. In questo caso è certo che un allontanamento di un anno e mezzo, potendo essere surrogato da un intervento di assistenza domiciliare, è sbagliato perché l'allontanamento, per principio ordinamentale consolidato, deve essere l’extrema ratio, come dicevamo all'inizio. Vorrei collegarmi al secondo aspetto del problema, ripromettendomi di essere addirittura più sintetico. Mi riferisco al quomodo, cioè a come si svolge questo periodo di allontanamento e come si svolgono gli accertamenti per vedere come va questo periodo di allontanamento, cioè come incide sul benessere del minore, che è l'aspetto prioritario, e sulle dinamiche famigliari. Certo, è sottinteso che questo secondo passaggio, cioè lo svolgimento di attività idonee a recuperare una situazione familiare e che escludano il pericolo che ha determinato l'allontanamento, ossia – se esiste – il pericolo di permanenza in famiglia, dovrebbe essere attuato specificamente nell'ambito delle situazioni di pericolo vero. Nelle situazioni che non sono di pericolo vero, l'allontanamento non ci dovrebbe essere. Lo dico non per il fatto che fa guadagnare denaro alla struttura privata, Pag. 8 che è un altro argomento, forse secondario e collaterale, ma perché l'allontanamento è dannoso. L'allontanamento per un bambino o per un ragazzo è un danno e si può praticare solo quando il danno sia considerato minore del pericolo che si dovrebbe affrontare. Questo è un passaggio logico che l'ordinamento e la giurisprudenza interna e sovranazionale danno assolutamente per assodato. Tuttavia, la giurisprudenza di merito, cioè i Tribunali per i minorenni e le Sezioni minorili delle Corti d'appello, misteriosamente non lo fanno. Su questo voglio aggiungere un'altra cosa, aprendo e chiudendo una piccola parentesi. Questi casi marginali di pericolo impeditivo della permanenza del bambino nella famiglia ci sono, anche se sono statisticamente marginali perché sto parlando dei casi di pericolo comprovato, non di indicatori di pericolo genericamente intesi nelle linee-guida di alcune associazioni o comitati di associazioni che poi sono, guarda caso, gestori di istituti di ricovero di minori. Sto parlando di pericoli comprovati perché il processo, anche minorile, si basa su fatti e prove. Inoltre, non è altrimenti configurabile una vicenda processuale, se non in questo modo. Questi casi di pericolo vero vengono offuscati dal mare magnum di allontanamenti indebiti, perché svolgere interventi su decine di migliaia di casi in cui quello specifico intervento è indebito ed è conseguentemente inefficiente dal punto di vista dell'assistenza alla famiglia, comporta altresì una dispersione di risorse che, invece, potrebbero essere canalizzate su quei pochi ma importantissimi casi di pericolo vero e comprovato. Certo, tali casi sono pochi, ma esistono. Inoltre, anche se ce ne fosse uno solo, dovrebbe essere garantito un rimedio assistenziale o autoritativo rispetto ai casi di pericolo comprovato, ma con una canalizzazione di risorse assolutamente impedita dalla generalizzazione del rimedio dell'allontanamento a ipotesi – sono la stragrande maggioranza – che con l'allontanamento non c'entrano nulla, cioè che non costituiscono un presupposto normativo idoneo all'allontanamento; tanto più, dove la motivazione, riguardi – vi ripeto – una valutazione personologica o generica sull'idoneità ad essere genitori. Tale concetto non solo, come giustamente diceva l'avvocato Carsana poc'anzi e come è stato detto da molti in questa sede, è difficilmente individuabile, ma è anche concettualmente e linguisticamente vuoto perché la congruità, o l'idoneità, presuppone un termine di paragone: congruità a qualche cosa, in base ad un parametro. Tuttavia, non c'è un parametro di idoneità genitoriale. Chiunque, a fronte di un'accusa generica di inidoneità a essere il migliore dei genitori o un buon genitore, non avrebbe modo di difendersi perché il processo è fatto in modo che ci si possa difendere solo dai fatti. Le norme del codice civile di riferimento, cioè gli articoli 130 e 333 del codice civile stesso, sono carenti su questo punto. Inoltre, è evidente che tali norme facciano riferimento a fatti, cioè a condotte violative dei doveri parentali. Tuttavia, è così indeterminata la proposizione normativa che, nella giurisprudenza di merito (Tribunale dei minori e Sezione per i minorenni dalla Corte d'appello), si è ricondotta questa fattispecie, cioè delle condotte di violazione dei doveri parentali, ad una generica sintomatologia di inidoneità ad essere genitori normali, anche se non si sa cosa voglia dire essere un genitore normale perché non esiste un parametro normativo o scientifico che lo definisca. Come si svolge l'allontanamento, giustificato o ingiustificato? Me lo chiedo perché è un nuovo aspetto del problema. La previsione normativa specifica è contenuta nella legge sull'affido e sull'adozione, cioè la legge n. 184 del 1983, e nelle successive modificazioni e integrazioni, in particolare agli articoli 2, 4 e 5, per cui l'allontanamento si dovrebbe svolgere mediante l'organizzazione di ogni intervento idoneo a rendere questo periodo di permanenza del minore lontano dalla famiglia il più breve possibile. Tali interventi dovrebbero essere congrui al fine di determinare il pronto rientro del bambino in famiglia. Per quanto riguarda l'attuazione pratica, nella stragrande maggioranza dei casi Pag. 9la frequentazione tra i genitori e un bambino, anche in tenera età, è ridotta, quando tutto va bene, a un'ora a settimana. Certo, per un bambino di un anno o di due anni, vedere i genitori o i nonni o i fratelli per un'ora a settimana significa perdere la cognizione stessa del proprio ambito familiare, ma è dannoso anche per i bambini di altre età.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Con casi anche di autolesionismo grave.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Anche per gli adolescenti è estremamente dannoso perché si perdono dei riferimenti. Forse non nella stessa quantità della collega Carsana, ma penso di aver analizzato, prima come giudice delegato o come giudice relatore, oggi come avvocato, qualche decina di migliaia di casi. In nessuno di essi ho potuto constatare che, a fronte dell'allontanamento, vi fosse un solo beneficio o anche solo la predisposizione di quello che lei chiamava «progetto di riavvicinamento», cioè di quegli interventi che la legge impone e che il dettato normativo impone per sollecitare il pronto rientro del bambino in famiglia. A questo si sovrappone quello che definirei un ulteriore dramma, oltre che una disfunzione, e che non riguarda una disapplicazione normativa, ma un difetto di controlli. Vi ripeto che in tutti i casi esaminati non c'è stata una sola ipotesi in cui io abbia constatato che l'istituto – li chiamo ancora così – venisse fatto oggetto di quei controlli che sono oggetto del potere e della funzione di soggetti ben determinati dell'ordinamento. Si tratta, prima di tutto, delle amministrazioni locali, cioè degli assessori alle politiche sociali o comunque si chiamino e siano qualificati, inoltre dei procuratori minorili, anche se io non ho mai visto un procuratore minorile che facesse accesso ad una comunità, infine dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza che peraltro – mi pare di aver capito – ritiene di non avere questo tipo di potere, anche se, nell'ultima relazione al Parlamento, dice di averlo esercitato. C'è anche qui un corto circuito logico: o si ha il potere o non lo si ha, per cui, se non lo si ha, non lo si esercita e, se lo si esercita, lo si ha. Di questi controlli forse ci sarebbe bisogno, non solo a fronte delle ipotesi patologiche più gravi cui la collega ha fatto riferimento, ma anche a fronte di aspetti che riguardano anche la sensibilità soprattutto di un minorenne nella vita quotidiana. È di questi giorni la vicenda relativa a una cosiddetta «casa famiglia» – in realtà, è un agglomerato di case famiglia – a Rocca di Papa, in violazione del disposto normativo sulla separazione delle case famiglia per il superamento appunto degli istituti. Si tratta di un vero e proprio istituto, quindi forse non sbaglio se continuo a utilizzare questo termine. Le immagini di questo istituto sono state oggetto di riprese televisive. Sono rimasto sconcertato, quando ho visto le sbarre alle finestre e alle porte. Questo non vale solo per l'agglomerato di Rocca di Papa, perché a Roma ne abbiamo anche altri; basta andare sulla via della Pineta Sacchetti per avere un'idea. Questi agglomerati sembrano strutture carcerarie e me ne chiedo il perché.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Si tratta di ex istituti mascherati da casa famiglia.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Si tratta di tutti gli ex istituti cui, invece di un nome solo, si danno quattro nomi, cioè invece di chiamarsi «istituto delle suore» eccetera si chiamano con quattro nomi, come «Casa L'armonia» o «Casa Letizia» eccetera, anche se si tratta di un'unica struttura. Io non ho mai visto controllare e sorvegliare le modalità di organizzazione di un istituto, nemmeno da parte delle istituzioni amministrative o delle istituzioni private che li finanziano. Pag. 10 Tuttavia, in questi meccanismi di finanziamento si creano delle disfunzioni. La collega faceva riferimento a dei termini di durata, non solo previsti dalla legge, ma anche di durata prevedibile da indicare nel provvedimento, come da qualche tempo avrebbe prescritto la Corte europea dei diritti dell'uomo, ma, evidentemente, con statuizione rimasta costantemente inattuata, anche in questo caso. Addirittura, per ricevere finanziamenti privati, alcune strutture, tra cui quella cui facevo riferimento, indicano alla fondazione privata finanziatrice la durata prevedibile, esprimendola in anni (un anno, due anni o un anno e sei mesi), anche se non si sa sulla base di quale criterio, e sostituendosi al giudice. Succede che, quando l'accertamento sulla opportunità o meno e sulla necessità o meno che la collocazione in istituto debba proseguire, si basa su quanto riferiscono i gestori o gli operatori di quella struttura. Tuttavia, si potrà essere sicuri che i gestori e gli operatori di quella struttura riferiscano secondo il criterio del diritto soggettivo nell'interesse del minorenne o vi può essere il dubbio che, nella ponderazione, in qualche modo, possa assumere rilievo, se non addirittura prevalenza, il dato del gestore? Certo, il principio di trasparenza vorrebbe, se si cerca la prospettiva di una modifica normativa, che sull’an – l'esempio è quello della riforma dell'articolo 403 – venga individuata la fattispecie di riferimento, pericolo comprovato alla salute e alla vita del minore derivante dalla permanenza nella famiglia. Sul quomodo e sull'accertamento del quantum temporis, cioè della durata dell'allontanamento, trasparenza vorrebbe che venga previsto che la prova dei dati di fatto su cui si deve basare l'apprezzamento circa la valutazione e la durata della collocazione fuori dalla famiglia venga formata nel contraddittorio processuale e non possa essere limitata soltanto a quanto riferito dai gestori dell'istituto; altrimenti si crea una commistione di ruoli in cui gli operatori diventano anche giudicanti, invece bisogna separare le funzioni. L'importante funzione di ospitare e di accogliere un bambino non può coincidere con la funzione di dire se quel bambino deve essere ospitato e accolto, perché invece lo deve dire qualcun altro; altrimenti si creano dinamiche di sovrapposizione logica che poi confinano con il conflitto di interesse, anche a prescindere dal coinvolgimento di giudici onorari nella gestione di case famiglia che pure è abbastanza diffuso, come avete avuto modo di constatare. Questa possibile prospettiva di riforma di tipo processuale porterebbe a superare un dato ormai obsoleto, cioè la collocazione del processo minorile, anche in quei casi delicatissimi che portano all'allontanamento dalla famiglia o addirittura alla dichiarazione dello stato di adottabilità e soprattutto in quelli de potestate, nell'alveo della volontaria giurisdizione. Ancora adesso, dimenticando e pretermettendo un secolo e mezzo di riflessione processuale civilistica, la volontaria giurisdizione viene intesa come una sorta di arbitrium iudicis, in cui il giudice fa quello che vuole e l'occhio del giudice è l'assistente sociale o l'operatore della casa famiglia. Sostanzialmente, non c'è possibilità di difesa in giudizio e la volontaria giurisdizione diventa sinonimo di arbitrium iudicis, cioè di decisione del giudice sulla base di un dato impressionistico costruito sul riferito altrui. Questi mi sembrano, anche al di là dei dati statistici, dei punti di criticità assolutamente rimediabili. Riguardo l’an, la riforma è all'esame del legislatore e c'è un'indicazione determinata della fattispecie normativa, mentre per il quomodo basterebbe poco, cioè basterebbe introdurre una norma di una riga sulla formazione della prova e dare, sul piano amministrativo, attuazione ai poteri di sorveglianza e controllo sulle strutture e attuazione alle norme che tendono a impedire che queste strutture divengano o continuino ad essere, perché non hanno mai smesso, degli istituti. Certo, è una questione di politica amministrativa quella di distribuire le risorse in modo diverso, cioè nell'assistenza alla famiglia o con il finanziamento di lontani surrogati della famiglia. Tuttavia, è una questione politico-amministrativa che sarebbe Pag. 11 consequenziale a queste riforme normative perché, se fosse chiaro e se fosse ineludibile un dettato stringente, tale da rendere necessariamente marginale, come lo è nella realtà sociale, il rimedio dell'allontanamento, sarebbe consequenziale indirizzare le risorse e gli sforzi anche di organizzazione verso la famiglia.
PRESIDENTE. La ringrazio perché è molto interessante quello che lei è venuto a riferirci. È importante che noi raccogliamo questi allarmi. In realtà, ci ha dichiarato delle cose davvero gravi, come il fatto di non tener conto delle condizioni dei genitori che possono, giustamente, contestare, anche se dal punto di vista di un autoritarismo eccessivo, una scelta che tra l'altro elude le tutele della Costituzione e, come ci ha detto, le sollecitazioni dell'Europa. Vi porgo le scuse anche a nome della Presidente che, purtroppo, ha avuto un problema di salute e non ha potuto essere presente. Raccolgo la sollecitazione della collega di chiedere la sua disponibilità per una successiva audizione al fine di dar la possibilità ai colleghi di interagire con le domande. La Commissione sta portando avanti questa indagine conoscitiva che serve appunto a raccogliere le vostre sollecitazioni che, in parte, sono anche denunce. Stanno arrivando anche delle proposte fattive per migliorare, visto che è nell'interesse di tutti – della Commissione e di voi auditi – portare avanti al meglio la tutela dei minori. In effetti, come dicevamo prima, è pericoloso considerare che la capacità genitoriale sia un criterio così discrezionale e poco oggettivo da lasciare eccessivi margini all'allontanamento. Sull'articolo 403, personalmente ho presentato un disegno di legge che è incardinato nella Commissione Giustizia al Senato. Purtroppo, adesso dobbiamo interrompere perché abbiamo le votazioni alla Camera, quindi dobbiamo consentire ai colleghi di poter andare a votare. Grazie ancora. Dichiaro conclusa l'audizione. La seduta termina alle 13.50.
Affidi, l'ex giudice: "Cacciato perché mi opposi". Scontro al tribunale dei minori di Bologna. Imparato criticò gli allontanamenti. Ilrestodelcarlino.it il 28 luglio 2019. «Nel periodo 2009-2013 due giudici togati e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Allontanamenti ingiustificati di minori in primis ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale. Non solo subimmo procedimenti disciplinari ingiustificati poi cassati, ma veri e propri atti lesivi delle proprie funzioni. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi». Una lunga lettera scritta dal ferrarese Mauro Imparato, psicologo, neuropsicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori, solleva il velo su una guerra fratricida tra le mura del tribunale minorile di Bologna che, seppur antecedente e non collegata all’inchiesta Angeli e Demoni, le fa in un certo qual modo da sfondo. L’oggetto del contendere è proprio quello degli affidi. Il tribunale dei minori, in quegli anni, era diviso in due. Da una parte i giudici togati Francesco Morcavallo e Guido Stanzani e l’onorario Imparato. Dall’altra, tutti i restanti colleghi, guidati dall’allora presidente del tribunale Maurizio Millo. I tre erano fautori di una linea morbida e non appiattita sui servizi sociali. Sostenevano insomma che bisognasse agire più rapidamente nella restituzione dei figli alla famiglia oppure non allontanarli affatto. Al contrario, la maggioranza dei magistrati, spiega Millo contattato dal Carlino, era «più prudente nell’accertare la situazione delle famiglie e la loro capacità di recupero». Lo scontro è deflagrato con la morte per ipotermia di un neonato in piazza Maggiore a Bologna e la guerra tra toghe è finita davanti al Csm, tirato in ballo a suon di esposti. L’organo di autogoverno dei giudici, valutata la situazione, ha allontanato Morcavallo e Stanzani. Il primo con un provvedimento cautelare il secondo con un trasferimento volontario. Morcavallo, però, ha fatto ricorso in Cassazione e la suprema corte non solo ha annullato il trasferimento ma ha anche ‘bacchettato’ il Csm per non aver tenuto conto delle sue argomentazioni. Morcavallo aveva infatti denunciato gravi abusi quali «affidamenti di bambini scarsamente motivati, provvedimenti provvisori prorogati all’infinito e l’appiattimento del tribunale sulle relazioni dei servizi sociali». Accuse che scivolano addosso a Millo, sicuro della correttezza del proprio operato. «Il Csm e l’Ispettorato – ha chiarito – non hanno trovato alcun elemento per dire che non svolgevamo il nostro compito in maniera corretta».
Tribunale Minori Bologna, tre giudici "fatti fuori" perché contro il "sistema"! Imola Oggi sabato, 27 luglio 2019. Illegittime ed illecite camere di consiglio, calunnie, minacce, mendaci addebiti disciplinari. Estromissioni e allontanamenti per tre giudici che erano contro il ‘sistema’ del Tribunale dei Minori di Bologna. Pubblichiamo le denunce di uno dei tre giudici, con esposti scritti, indirizzate a Presidente del Tribunale dei Minori, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Consiglio Giudiziario, alla Corte d’Appello, al Ministro, alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino alla Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: rimaste nei cassetti se non cestinate.
Mi chiamo Mauro Imparato e sono psicologo, neuropsicologo e psicoterapeuta. Sono stato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna ininterrottamente dal 2004 al 2013 (tre mandati consecutivi). Durante il mio secondo e terzo mandato (2008-2010 e 2011-2013) ho avuto modo di affiancare, collaborandovi strettamente, il dottor Guido Stanzani e il dottor Francesco Morcavallo, entrambi giudici togati. Al massimo delle mie possibilità li ho appoggiati nel loro strenuo impegno volto a contrastare le “malpratiche” del Tribunale, in particolare gli “allontanamenti facili” e altri interventi de potestate privi di effettiva e comprovata giustificazione (un reale pregiudizio per il minore). Mi sono quindi trovato a contestare e contraddire subdoli e delittuosi ripetuti tentativi dei colleghi (Presidente, giudici togati, giudici onorari) di allontanare i predetti, dottor Stanzani e dottor Morcavallo, con infamanti calunnie e mendaci addebiti disciplinari. In diverse occasioni, tra il gennaio 2011 e la fine del mio incarico (2013) ho denunciato, con esposti scritti indirizzati a Presidente del TM, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro, Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione:
– le illegittime ed illecite camere di consiglio civili, con presenza multipla di componenti onorari e fissazione del collegio non ad inizio discussione del singolo caso, ma con scelta dei giudici da inserire a collegio in base alle adesioni al parere del giudice togato relatore (sempre a favore dell’allontanamento del minore dalla famiglia naturale, ovvero del suo collocamento extrafamigliare);
– le calunnie proferite per iscritto, al Presidente del Tribunale, da parte di almeno due giudici togati e almeno due giudici onorari, nei confronti del dottor Guido Stanzani, addebiti del tutto falsi (aver modificato decisioni di camera di consiglio durante la stesura dei decreti) e dalla mia testimonianza confutabili, nonché le pressioni o intimidazioni, da parte dei due giudici togati ai giudici onorari (sottoscritto compreso), affinché mendacemente le sostenessimo; (i reati che si sarebbero calunniosamente attribuiti al dottor Stanzani sarebbero occorsi in camere di consiglio cui io stesso avevo partecipato e, come appurai, con coinvolgimento di un giudice onorario che non vi era incluso); contraddissi queste calunnie anche in udienza avanti al CSM nella tarda primavera 2011;
– la mendacità delle attribuzioni di comportamenti disciplinarmente sanzionabili mosse al dottor Francesco Morcavallo e al dottor Guido Stanzani e la mia deliberata estromissione dall’ispezione ministeriale sollecitata e ottenuta dall’allora Presidente;
– la sospensione della rotazione dei giudici togati e onorari, sino ad allora da sempre vigente, nella composizione delle camere di consiglio civili settimanali, volta a impedire al dottor Stanzani, al dottor Morcavallo e al sottoscritto di condividere un qualsiasi collegio. Ciò per impedire che vi fosse mai alcun collegio in grado di opporsi, per maggioranza, ad allontanamenti ingiustificati di minori dalle loro famiglie o rigettare ricorsi inconsistenti della Procura della Repubblica per i Minorenni.
Nonostante le mie testimonianze e denunce agli organismi giudiziari competenti:
– il dottor Guido Stanzani, fu indotto a non ricorrere contro l’ingiusto provvedimento disciplinare del CSM, che lo allontanava dal TM, sotto avvisaglia di nuove calunnie (questa volta non neutralizzabili da “dissidenti” all’impostura quale si era rivelato il sottoscritto), limitandosi a richiedere il trasferimento a precedente sede giudiziaria e incarico;
– il dottor Morcavallo, nonostante la Cassazione avesse disposto l’annullamento del procedimento di allontanamento del CSM, dovette attendere oltre un anno per il reintegro al TM di Bologna;
– il dottor Morcavallo, non appena reintegrato al TM di Bologna, tornò a subire pesante ostracismo e violazioni del suo ufficio;
– al dottor Morcavallo e allo scrivente fu nuovamente impedita qualsiasi rotativa partecipazione condivisa a camere di consiglio sia civili che penali (e.g. tribunale del riesame).
Successivamente alle mie prime denunce e al mio rifiuto di calunniare il dottor Stanzani e il dottor Morcavallo, fui lentamente esautorato da qualsiasi attività istruttoria, per anni svolta in gran mole, e da qualsiasi delega di udienza (fatti salvi unicamente le udienze per ricorsi congiunti ai sensi dell’art 317bis), e fui “invitato” alle dimissioni dal Presidente e da un altro giudice togato. Dopo il mio ultimo esposto (dicembre 2012) a CSM, PG di Cassazione, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro di Giustizia, commissione bicamerale per i diritti dell’infanzia, Presidente facente funzioni del TM:
– finii per svolgere due sole camere di consiglio al mese (gennaio e febbraio 2013, dopo l’ultima mia denuncia agli organismi competenti del dicembre 2012), a fronte delle 10/15 udienze settimanali (oltre a collegi civili e di dibattimento penale, GUP, riesame …) svolte per anni sin dal 2004; due sole camere di consiglio civili in cui tutte le deleghe istruttorie erano conferite unicamente all’altro giudice onorario presente (benché di inferiore anzianità di servizio) e in cui lo scrivente era sempre, inevitabilmente, in minoranza 1:3 nei casi contrastati;
– rassegnai le mie dimissioni – che mai ricevettero accettazione o rifiuto dal CSM – denunciandonuovamente tutti i fatti del periodo 2011-2013 già denunciati, inclusa la mia ormai totale e ingiustificata estromissione dalle attività di udienza;
– il mio mandato fu fatto silenziosamente scadere senza che venissi più convocato (per ben 10 mesi) né mi fosse comunicata risposta per le mie dimissioni di denuncia e protesta da alcun ufficio o organismo competente (Corte d’Appello, CSM, TM, Consiglio Giudiziario, Ministero di Giustizia).
Nel periodo 2009-2013, dunque, due giudici togati – dottor Guido Stanzani e dottor Francesco Morcavallo – e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna – allontanamenti ingiustificati di minori in primis, ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale (oggi responsabilità genitoriale) –, ma subirono calunnie, procedimenti disciplinari ingiustificati (poi cassati), atti delittuosi lesivi delle proprie funzioni, la propria autonomia giurisdizionale, il proprio ruolo o incarico, la propria persona.
I soli tre giudici che si opposero a questo sistema furono “fatti fuori” e le loro denunce sistematicamente ignorate anche da organismi giudiziari superiori. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi a danno della giustizia e dei minori. Mauro Imparato
Imolaoggi scrive al Fatto per dire che non pubblica bufale. NeXt quotidiano il 21 Luglio 2019. Il Fatto Quotidiano oggi torna sul convegno su Bibbiano alla Camera perché ha ricevuto una lettera dagli organizzatori in cui ci si lamenta che Imolaoggi venga tacciato di pubblicare bufale: Fornendo il resoconto, frammentario e fuorviante di un convegno svoltosi alla Camera dei deputati, sulle violazione dei diritti dei bambini e delle loro famiglie riemerse, da ultimo, nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, Il Fatto Quotidiano ha preso posizione il 19 luglio 2019,alla pagina 19,con firme di Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio, affermando che una vicenda riguardante “una decina di bambini” verrebbe amplificata per sostenere tesi riferibili a partiti politici o a posizioni ideologiche o addirittura discriminatorie. Inoltre, il sito di informazione Imola Oggi, cui va il merito dell’organizzazione dell’evento, viene tacciato di pubblicare bufale. I sottoscritti, moderatore e relatori nel convegno, esprimono dissenso e rivendicano la propria posizione di tecnici, i quali, in modo riconosciuto nei rispettivi settori di appartenenza, esercitano le proprie professioni al più elevato livello, secondo la più limpida attendibilità, mai posta in dubbio da chicchessia, e soprattutto in modo scevro da alcun condizionamento o pregiudizio politico, ideologico O religioso. Si vogliono qui prendere le distanze da chiunque intenda insabbiare o sminuire una vicenda di ingiustizia diffusa, di cui sono vittime bambini e famiglie per lo più deboli e povere e di cui sono responsabili enti solo nominalmente non lucrativi e magistrati impreparati o disonesti. Il sistema emerso a Bibbiano non solo rispecchia una diffusa e quotidiana violazione dei diritti umani che riguarda centinaia di migliaia di bambini in Italia, come più volte rilevato e censurato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; ma risulterebbe raccapricciante anche se riguardasse un bambino solo e qualunque fosse il colore dell’eventuale tessera di partito dei suoi familiari o di coloro che avessero il coraggio di difenderlo. Ridurre questo inquietante contesto ad argomento di polemica politica o ideologica significa favorire la l’ormai noto e documentato sistema che produce guadagno sulla pelle dei bambini e a favore di cooperative ed enti religiosi.
Come hanno fatto notare sul Fatto Quotidiano Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio nel panel dei relatori compaiono i nomi di esperti vicini al CCDU, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani. Formalmente è una semplice Onlus ma in realtà è la versione italiana della Citizens Commission on Human Rights (CCHR), un’associazione che è emanazione di Scientology, la setta fondata da Ron Hubbard nota per alcuni casi di abuso sugli adepti. Che quelli della CCDU siano di Scientology è pacifico, lo ha ammesso anni fa anche il vicepresidente della Onlus durante uno dei convegni contro il sistema degli affidi. Questa è la risposta delle autrici dell’articolo alla lettera:
Non intendiamo sminuire né insabbiare nulla, neanche le nostre perplessità di fronte alle generalizzazioni che abbiamo ascoltato durante il convegno a partire da un’inchiesta su fatti avvenuti in una parte del territorio della provincia di Reggio Emilia. Di quell’inchiesta il Fatto Quotidiano ha dato ampiamente conto. Imola Oggi si presenta come una testata giornalistica e non lo è, più volte ha pubblicato notizie che si sono rivelate inesatte, il suo sedicente direttore non è iscritto all’Albo dei giornalisti: sorprende che sia stato invitato a moderare un dibattito alla Camera dei deputati e che, addirittura, i giornalisti dovessero accreditarsi per Montecitorio scrivendo a Imolaoggi.it.
Affidamenti illeciti. Nei piccoli Comuni "servizi sociali e appalti senza controlli". Lucia Moia domenica 14 luglio 2019 su Avvenire. Dopo l’inchiesta di Reggio Emilia emergono situazioni ad alto rischio nel nostro sistema di protezione dei figli in difficoltà L’avvocato Franceschini: gli abusi continuano. «Sempre che i fatti siano confermati…». A venti giorni dagli arresti per l’inchiesta affidi illeciti di Reggio Emilia, tutti si trincerano dietro la frase di rito. Ma intanto quei fatti sono capitati. Decine di bambini non sono già stati allontanati dalle loro famiglie? Non hanno già subìto interrogatori condotti con metodi che – a leggere i particolari dell’ordinanza – risultano invasivi e capziosi? Alcuni di loro non hanno già manifestato con sindromi da dipendenza e altro disturbi psicologi il disagio profondo per quegli episodi? Certo, l’altro ieri il Tribunale dei minori di Bologna, ha reso nota l’intenzione di rivedere i procedimenti relativi a 5 dei minori coinvolti. E si tratta di una scelta comunque positiva. Ma, nel frattempo quanta sofferenza... Nel 2013 l’associazione 'Finalmente Liberi' presieduta dall’avvocato Cristina Franceschini, una lunga esperienza proprio accanto alle famiglie ferite dalla separazione e ai minori in difficoltà, aveva raccolto in un dossier tutti gli intoppi del diritto minorile. Era risultato che, su oltre mille giudici onorari – psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti che affiancano il magistrato 'togato' nel collegio giudicante – circa 200 sembravano a rischio conflitto di interesse, perché impegnati a vario titolo nelle comunità destinate ad ospitare quegli stessi bambini oggetto delle sentenze emesse 'anche' da quei giudici. Oggi la situazione è probabilmente diversa perché nel frattempo sono arrivati due provvedimenti del Csm che vieta in maniera esplicita agli 'onorari' di avere incarichi di qualsiasi tipo, anche a titolo gratuito, con le comunità d’accoglienza dei minori. Situazione ristabilita? «Credo che qualche abuso persista – osserva l’avvocato Franceschini – perché se il Csm è stato costretto ad intervenire due volte significa che il problema era grave. Stiamo completando un nuovo dossier anche su questo tema e lo renderemo noto al più presto». Dove la situazione appare del tutto fluida – negativamente fluida – è invece sul fronte del rapporto tra amministrazioni locali, cooperative che assolvono le funzioni di competenza degli assistenti sociali e tribunali. La storia parte dalla legge 328 del 2000 – legge quadro di riforma dei Servizi socio assistenziali – che ha dato ai Comuni al di sotto dei cinquemila abitanti la possibilità di offrire servizi sociali consorziandosi in cooperative. Ora, visto che in Italia i piccoli Comuni rappresentano quasi l’80 per cento del totale, servizi delicati e importanti, come quelli riguardanti appunto i minori fuori famiglia, risultano di fatto privatizzati in troppe zone. Ma ciò accade ormai per prassi anche nelle grandi città visto che il personale amministrativo è insufficiente. Il loro operato si svolge quasi senza controlli, nonostante venga utilizzato denaro pubblico, perché raramente nei piccoli Comuni ci sono risorse e competenze specialistiche per verificare decisioni professionali comunque complesse e delicate. «Queste realtà possono per esempio gestire i cosiddetti "spazi neutri" – riprende la presidente di "Finalmente liberi" – dove i genitori separati incontrano i figli allontanati da casa sotto la tutela di una psicologa o di una terapeuta, oppure il servizio di assistenza domiciliare qualora venga disposta prima dell’allontanamento o dopo il rientro in famiglia del bimbo. Questi incontri, che dovrebbero servire anche per accertare le capacità genitoriali, hanno un costo. Il Comune o il genitore paga da 50 a 100 euro ogni incontro. Se quindi un ente o il genitore ha disponibilità economiche, ci possono essere uno e due incontri settimanali, altrimenti tutto viene diradato anche ad una sola ora al mese, alla faccia del presunto obiettivo di recupero della genitorialità ». Sulla base di questi incontri, i professionisti che operano nelle cooperative – di cui certamente la maggior parte offre servizi trasparenti e di grande competenza – preparano poi le relazioni per il giudice minorile. Ma, considerando che la cooperativa guadagna anche grazie alla frequenza e alla durata dei colloqui, chi può accertare che non vengano dilatati oltre il necessario? «Non molto tempo fa alcuni miei assistiti mi avevano riferito di aver sentito personalmente la responsabile di una di queste realtà – rivela l’avvocato Franceschini – accordarsi con un funzionario comunale: 'Dobbiamo continuare ancora un anno altrimenti mi manca la copertura'. Capito? Quella cooperativa aveva un contratto annuale e aveva la necessità di prolungare il percorso con i genitori, benché non più necessario, per continuare a incassare le quote». Non sarebbe stato più opportuno con quei soldi aiutare quella e altre famiglie? Certamente sì. Ma chi può sindacare sulla relazione di una cooperativa privata che viene sottoscritta dall’assistente sociale e finisce per diventare l’atto di un pubblico ufficiale? Certo, le famiglie con competenze e, soprattutto disponibilità economiche, potrebbero nominare un consulente tecnico di parte (che costa in media oltre mille euro), ma ben difficilmente uno psicologo scelto dalla famiglia può influire sulle scelte del giudice prima della convocazione dell’udienza. E non di rado passano mesi. Troppi mesi. «A meno che l’avvocato scelto dalla famiglia – conclude Cristina Franceschini – non si attivi in tempi rapidissimi, non prenda contatto subito con i servizi sociali, non si presenti al giudice per esporre il suo punto di vista. Certo, nella procedura ordinaria il pm ha 48 ore di tempo per l’obbligo di convalida di un fermo. Nel diritto minorile non ci sono limiti. E ogni giudice agisce a discrezione». C’è da stupirsi se in sistema così traballante possano accadere episodi come quelli emersi dall’inchiesta di Reggio Emilia? «Sempre che i fatti siano confermati…». Conosciamo il ritornello.
Affidi Illeciti, l’Avv. Polacco: i tribunali per i minorenni vanno soppressi. Avv. Edoardo Polacco su Meridiana notizie 5 agosto 2019. I gravissimi fatti di Bibbiano sui minori strappati alle famiglie , sugli affidi dei minori gestiti più dalle Associazioni ed Educatori di vario genere che dai Giudici ci porta ad un approfondimento dell’organizzazione e della validità dei Tribunale per i Minorenni. Lo scandalo di Bibbiano , secondo i maggiori mezzi di informazione che seguono le vicende giudiziarie , ha come fulcro alcune associazioni/onlus, alcuni professionisti tra assistenti sociali e psicologi e , per adesso, un Sindaco che avrebbe concesso i servizi sociali ad associazioni , affermano attualmente i giudici, senza appalto pubblico .Specificatamente , una delle assistenti sociali , agli arresti domiciliari ed indagata per falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione, ha confessato dinanzi i PM che si occupano dell’inchiesta, di essere stata obbligata a falsificare i verbali per l’affido dei minori , dai suoi superiori .Ma fino ad oggi nessun ha ancora verificato o affondato il bisturi su chi realmente supervisiona tutte queste condotte su chi definitivamente decide e decreta la sottrazione del minore da una famiglia affidandolo ad una associazione/onlus : Il Tribunale per i Minori. Si, perché in tutte le operazioni sociali ed amministrative chi decreta, chi appone la propria firma definitiva è un Giudice o meglio un collegio giudicante del Tribunale per i Minori .Ed allora è mai pensabile che in tutti questi anni il Tribunale per i Minori di Bologna non abbia mai svolto una indagine su quello che accadeva sul suo territorio, è mai pensabile che nonostante le decine e decine di esposti presentati da numerose famiglie contro i metodi dei servizi sociali, il Tribunale non abbia mai aperto un’inchiesta ma abbia avvalorato le relazioni sociali? Appare sconcertante la notizia secondo cui la Procura della Repubblica di Reggio Emilia aveva informato il Tribunale per i Minori di Bologna della falsità di alcune relazioni sociali e quindi dei relativi Decreti di affidamento di alcuni minori ma, come afferma la stessa Procura, il Tribunale per i minorenni di Bologna non tenne mai conto di questa informazione giudiziaria. A questo punto è bene verificare come svolge il proprio lavoro il Tribunale per i Minorenni e come sono composti e da chi i Collegi giudicanti. Orbene, pochi sanno che il Collegio giudicante del Tribunale per i Minorenni è composto da due Giudici Togati e da due Giudici Onorari, Giudici Onorari con pieni poteri che vengono nominati ( senza concorso), attraverso un Bando pubblico ai sensi della L. 24/2010 a cui possono partecipare, cosi come prevedono le delibere del CSM , “ i cittadini benemeriti dell’assistenza sociale e cultori di biologia, psichiatria, antropologia, pedagogia e psicologia “. Quindi non si prevede neanche una laurea ma esclusivamente una “benemerenza” o un titolo di studio specialistico senza laurea. Ecco la prima immensa stortura. Un Giudice, seppur onorario ma sempre Giudice, neanche laureato, assunto senza nessun concorso se non con un bando per titoli, senza prove selettive, che dovrà giudicare, l’affido , l’ adozione ed altri fatti importantissimi per famiglie e minori .Ovviamente quale è la categoria professionale che ottiene più posti in assoluto tra i Giudici Onorari Minorili : gli assistenti sociali .Ma poi chi ha mai controllato o controlla se questi Giudici Onorari, già assistenti sociali rappresentino o abbiano rapporti di lavoro o rapporti economici con le Onlus/Associazioni/Cooperative che poi beneficiano di finanziamenti pubblici o che gestiscono gli affidi i adozioni o altro? Nessuno. Non esiste praticamente nessun controllo ed allora ci troviamo in un “palude giudiziaria” senza precedenti in cui i compiti di mischiano con gli interessi in cui non si sa più chi controlla e chi è controllato , ma in cui gli unici a rimetterci sono degli indifesi minori e le loro povere famiglie. I Tribunali per i Minorenni vanno soppressi con una legge ed i loro compiti affidati ai Tribunali Civili con sezioni specifiche per i minori. A cura dell’Avv. Edoardo Polacco
Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. L'Inkiesta il 3 agosto 2015. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.
A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.
Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.
Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».
"Bibbiano, così Foti e Monopoli chiedevano a Carletti contatto con un giudice". Giuseppe Leonelli per Redazione La Pressa 08 Agosto 2019. Ecco il ruolo della Buccoliero, direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. E il gruppo torinese Abele, fondato da don Ciotti, ha una casa editrice che ha pubblicato anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel. Sui rapporti tra la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e gli indagati dell'inchiesta Angeli e Demoni, era intervenuto pubblicamente nei giorni scorsi il capogruppo Lega in Regione Stefano Bargi chiedendo la sospensione della magistrato dal ruolo di direttore. Sul caso è intervenuto anche ufficialmente il presidente della Fondazione stessa Carlo Lucarelli. Si tratta in particolare di Elena Buccoliero (non indagata), giudice onorario presso il Tribunale dei Minorenni, nel cui curriculum stesso sono citati i rapporti con Hansel e Gretel e anche col gruppo Abele. Va sottolineato infatti come il gruppo Abele, fondato a Torino da don Ciotti, abbia una casa editrice che nel 2012 pubblicò anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel di Torino. Oggi, nella 12esima puntata della lettura dell'ordinanza del Gip che La Pressa propone, ci soffermiamo sui rapporti appunto tra gli indagati e alcuni magistrati. Citando, come sempre, in modo pedissequo e senza commenti le carte. Claudio Foti e Francesco Monopoli pensano in particolare al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti per avere un contatto con un giudice minorile di Bologna “al quale richiedere aiuto e sostegno quantomeno a livello culturale e di immagine, ma non può escludersi nemmeno ad altro livello”. In una intercettazione del 21 dicembre 2018 in particolare 'Foti chiede a Monopoli di dargli un titolo per il quale possa fare intervenire questo giudice al convegno di febbraio e Monopoli dice che potrebbe intervenire sul tema 'Il Tribunale per i minorenni ed il penale' oppure “quando l'imputato viene assolto e il bambino continua a dire che è successo, cosa succede e quali sono i tempi di cura”. Foti dice che se hai dei giudici che si occupano di questo vuol dire che c'è una prospettiva... che la verità non è morta... che c'è una conclusione psicologica molto forte'. E ancora riguardo a Carletti: "Si manifesta in concreto che il Carletti abbia la possibilità di intrattenere contatti all'esterno per ottenere collaborazione nel proprio interesse al fine di dare copertura alle attività illecite e la capacità di influenza e i contatti a diversi livelli politico-amministrativi quantomeno a livello provinciale, nei settori di competenza (ad esempio l'Asl), ma anche l'autorità giudiziaria minorile". Ma Carletti non era l'unico ad avere contatti con un giudice. Scrive il Gip: 'Contatti simili con almeno un giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni possono, d'altro canto, vantare anche l'Anghinolfi e Monopoli: si tratta della dottoressa Buccoliero, tra l'altro direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. La stessa manifesta una sicura amicizia e pieno sostegno (anche nelle camere di Consiglio continuamente rinnovando la stima per la Anghinolfi e il suo operato). A questo punto l'ordinanza del Gip prosegue con la lunga trascrizione dell'ottobre 2018 tra la Anghinolfi e la stessa Buccoliero, ricordiamo non indagata. "La Anghinolfi ringrazia Elena Buccoliero per il suo intervento al convegno. Si danno del tu e con tono confidenziale". "La Anghinolfi le riferisce dei tre rinvii a giudizio ed altre indagini... La Anghinolfi riferisce che il Pm sta entrando in un ambito metodologico su cui non ha competenza. Elena riferisce di non capire poichè loro, cioè i servizi, stavano applicando un decreto del Tribunale. La Anghinfoli parla degli avvisi ricevuti dai vari operatori uno per calunnia, uno per violenza privata, uno per abuso di ufficio". E ancora: "La Anghinolfi che quanto sta avvenendo è frutto della incompetenza di magistrati in buona fede che non si intendono della materia minorile. La Buccoliero risponde "Tu sei buona, io lo sono un po' meno, nel senso che se tu devi valutare l'operato di un servizio e c'è un decreto che ti dice di fare quelle cose non ti puoi inventare un abuso d'ufficio"". Anche Monopoli, in base a quanto scrive il Gip “risulta essere in buoni rapporti col magistrato Buccoliero”. E viene riportata una telefonata nella quale Monopoli parla di "Un decreto di allontanamento mamma con bambino abbastanza tosto. Monopoli dice che loro hanno fatto una missiva inoltrata al Tribunale dove avevano scritto che al momento non avevano strutture libere e quindi ne ritardavano l'esecuzione". Poi chiede alla Buccoliero se "tale missiva è sufficiente" aggiungendo il nome del Giudice minorile del caso. “Occorrerebbe chiamare la cancelleria del giudice (e fa il nome) lunedì” - è la risposta della Buccoliero. Giuseppe Leonelli
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 ottobre 2015 - Ricorso n. 52557/14 - S.H. c. Italia. Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico. Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO QUARTA SEZIONE CAUSA S.H. c. ITALIA (Ricorso n. 52557/14)
SENTENZA STRASBURGO 13 ottobre 2015
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa S.H. c. Italia, La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente, Guido Raimondi, Ledi Bianku, Nona Tsotsoria, Paul Mahoney, Faris Vehabović, Yonko Grozev, giudici, e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione. Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 22 settembre 2015, Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 52557/14) proposto contro la Repubblica italiana con cui una cittadina italiana, la sig.ra S.H. («la ricorrente»), ha adito la Corte l’11 luglio 2014 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. M. Morcavallo del foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
3. La ricorrente lamenta in particolare una violazione del suo diritto al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione.
4. Il 23 ottobre 2014 il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 8 della Convenzione è stato comunicato al Governo e il ricorso è stato dichiarato irricevibile per il resto, conformemente all’articolo 54 § 3 del Regolamento della Corte.
IN FATTO. I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. La ricorrente è nata nel 1984 ed è residente a Sacile.
6. I fatti di causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.
7. La ricorrente è madre di tre bambini: R., P. e J., nati rispettivamente nel 2005, 2006 e 2008.
8. All’epoca dei fatti la ricorrente viveva con il padre dei bambini, soffriva di depressione e seguiva una terapia farmacologica.
9. Nell’agosto 2009 i servizi sociali informarono il tribunale per i minorenni di Roma (di seguito «il tribunale») che i minori erano stati più volte ricoverati per avere ingerito accidentalmente dei farmaci e fu avviato un procedimento d’urgenza dinanzi al tribunale. Con un provvedimento emesso l’11 agosto 2009 il tribunale ordinò l’allontanamento dei minori dalla famiglia disponendo che fossero collocati in un istituto, e incaricò i servizi sociali di elaborare un progetto in favore dei minori stessi.
10. Il 20 ottobre 2009 la ricorrente e il padre dei minori furono sentiti dal tribunale. Essi ammisero che, a causa dello stato di salute della ricorrente e degli effetti secondari dei farmaci che assumeva per curare la depressione, essi avevano delle difficoltà ad occuparsi dei figli. Tuttavia, affermarono che potevano occuparsi in maniera adeguata dei bambini con l’aiuto dei servizi sociali e del nonno. La ricorrente indicò che seguiva una terapia e che gli effetti secondari inizialmente indotti dai farmaci non si erano più manifestati. I due genitori chiesero di prevedere un progetto di sostegno elaborato dai servizi sociali allo scopo di permettere il ritorno dei minori in famiglia.
11. Il 3 dicembre 2009 la psichiatra depositò il proprio rapporto relativo alla ricorrente. Da quest’ultimo risultava che essa seguiva una terapia farmacologica, che era disposta a seguire una psicoterapia e ad accettare l’aiuto dei servizi sociali, e che aveva un legame affettivo molto forte con i figli. Alla stessa data, il Gruppo di lavoro integrato sulle adozioni («G.I.L.») depositò il proprio rapporto indicando che, nonostante le difficoltà famigliari, i genitori avevano reagito positivamente, avevano partecipato agli incontri organizzati ed erano disposti ad accettare il sostegno dei servizi sociali. Di conseguenza, il G.I.L. proponeva il ritorno dei minori presso i genitori e la realizzazione di un progetto di sostegno famigliare.
12.; Con un provvedimento emesso il 19 gennaio 2010 il tribunale, tenuto conto dei rapporti dei periti e del fatto che il nonno paterno era disposto ad aiutare il figlio e la ricorrente ad occuparsi dei bambini, ordinò che questi ultimi tornassero presso i genitori. Il 24 marzo 2010, tuttavia, il progetto di riavvicinamento genitori-figli fu interrotto e i minori furono allontanati nuovamente dalla famiglia in quanto la ricorrente era stata ricoverata in seguito all’aggravarsi della sua malattia, il padre aveva lasciato l’abitazione famigliare e il nonno era malato. Il tribunale stabilì allora un diritto di visita per i due genitori, fissato nel modo seguente: per la ricorrente un’ora ogni quindici giorni; per il padre dei minori due ore a settimana.
13. Nel marzo 2010 la procura chiese che fosse avviata una procedura di dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori.
14. Il 10 giugno 2010 i genitori furono sentiti dal tribunale. La ricorrente affermò che si stava curando, sottolineò che il padre dei minori era disposto ad occuparsene e che, di conseguenza, questi ultimi non si trovavano in stato di abbandono. Il padre assicurava che, anche se lavorava, poteva occuparsi efficacemente dei minori, con l’aiuto di suo padre, e che aveva assunto una collaboratrice domestica che poteva aiutarlo.
15. Nell’ottobre 2010 il tribunale dispose una perizia per valutare la capacità della ricorrente e del padre dei minori di esercitare il ruolo di genitori. Il 13 gennaio 2011 il perito depositò un rapporto dal quale risultava:
che il padre non presentava alcuna patologia psichiatrica, che aveva una personalità fragile ma era in grado di assumersi le proprie responsabilità;
che la ricorrente era affetta da un «disturbo della personalità borderline che interferiva, in misura limitata, con la sua capacità di assumersi delle responsabilità legate al suo ruolo di madre»;
che i bambini erano iperattivi, e che una parte importante di questa sintomatologia poteva essere l’espressione delle difficoltà famigliari.
Nelle sue conclusioni, il perito osservò che i due genitori erano disposti ad accettare gli interventi necessari al fine di migliorare il loro rapporto con i figli e formulò le seguenti proposte: mantenere l’affidamento dei bambini all’istituto, predisporre un percorso di riavvicinamento tra i genitori e i figli e intensificare gli incontri. Fu proposta anche una nuova valutazione della situazione della famiglia dopo sei mesi.
16. Con una sentenza emessa il 1° marzo 2011, tuttavia, il tribunale dichiarò i minori adottabili e gli incontri tra i genitori e i minori furono interrotti. Nelle motivazioni, il tribunale considerò che nel caso di specie non fosse necessaria una nuova valutazione della situazione famigliare. Esso sottolineò le difficoltà dei genitori a esercitare il loro ruolo genitoriale, difficoltà che erano state indicate dal perito, e fece riferimento alle dichiarazioni della direttrice dell’istituto, secondo la quale la ricorrente soffriva di «gravi disturbi mentali», il padre «non era capace di dimostrare il suo affetto e si limitava a interagire con gli assistenti sociali in modo polemico» e i genitori «non erano in grado di dare ai figli le attenzioni e le terapie di cui avevano bisogno ». Tenuto conto di questi elementi, il tribunale dichiarò i minori adottabili.
17. La ricorrente e il padre dei minori interposero appello avverso tale sentenza e chiesero la sospensione dell’esecuzione della stessa. Essi affermavano:
che il tribunale aveva erroneamente dichiarato l’adottabilità in assenza di una «situazione di abbandono», condizione necessaria ai sensi della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità;
che la dichiarazione di adottabilità doveva costituire soltanto una extrema ratio e che, nella fattispecie, essa non era necessaria in quanto le loro difficoltà famigliari, legate soprattutto alla malattia della ricorrente, erano di natura transitoria e avrebbero potuto essere superate con il sostegno degli assistenti sociali.
Gli stessi sottolinearono infine che il tribunale non aveva tenuto conto della perizia depositata nel gennaio 2011 che ordinava la realizzazione di un percorso di sostegno e il riavvicinamento dei minori ai loro genitori.
18. Nel luglio 2011 il tribunale ordinò che ciascuno dei figli fosse dato in affidamento a una famiglia diversa.
19. Con una sentenza resa il 7 febbraio 2012 la corte d’appello di Roma rigettò l’appello della ricorrente e confermò l’adottabilità.
La corte d’appello osservò che le autorità competenti avevano compiuto gli sforzi necessari per garantire un sostegno ai genitori e preparare il ritorno dei bambini presso la loro famiglia. Tuttavia, il progetto non era andato a buon fine, il che dimostrava l’incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale e l’assenza di carattere transitorio della situazione. Basandosi sulle conclusioni dei servizi sociali, la corte d’appello sottolineò che il fallimento del progetto aveva avuto conseguenze negative per i minori e che l’adottabilità mirava a tutelare il loro interesse ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata, cosa che la loro famiglia di origine non era in grado di fare a causa dello stato di salute della madre e delle difficoltà del padre. La corte d’appello osservò che vi erano stati sviluppi positivi della situazione, come la presa di coscienza della madre dei suoi problemi di salute e la sua volontà di seguire un percorso terapeutico, nonché gli sforzi del padre per trovare delle risorse per occuparsi dei figli o la disponibilità del nonno ad aiutare il figlio. Tuttavia, secondo la corte d’appello, questi elementi non erano sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei due genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale. Tenuto conto di questi elementi e allo scopo di salvaguardare l’interesse dei minori, la corte d’appello concludeva perciò confermando l’adottabilità.
20. La ricorrente e il padre dei bambini presentarono ricorso per cassazione. Con una sentenza depositata il 22 gennaio 2014, la Corte di cassazione respinse il ricorso della ricorrente, considerando:
che la corte d’appello avesse correttamente valutato l’esistenza di una situazione di abbandono morale dei minori e l’irreversibilità della incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, tenuto conto del fallimento del primo progetto di sostegno messo in atto dai servizi sociali;
che la dichiarazione di adottabilità avesse debitamente tenuto conto dell’interesse dei minori a essere accolti in una famiglia capace di occuparsene efficacemente.
21. Nel febbraio 2014 la ricorrente chiese al tribunale per i minorenni di Roma la revoca della dichiarazione di adottabilità (sulla base dell’articolo 21 della legge n. 184 del 1983). A sostegno della sua domanda, la ricorrente produsse diversi documenti medici che attestavano che il suo stato di salute nel frattempo era migliorato, allo scopo di dimostrare che le condizioni previste dall’articolo 8 della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità erano ormai venute meno. Con una sentenza resa in data 14 maggio 2014 il tribunale per i minorenni di Roma rigettò la domanda della ricorrente.
22. L’esito della procedura di adozione dei minori non è ancora noto.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
23. Il diritto interno pertinente è descritto nelle cause Akinnibosun c. Italia, (n. 9056/14, § 45, 16 luglio 2015) e Zhou c. Italia, (n. 33773/11, §§ 24-26, 21 gennaio 2014).
IN DIRITTO. I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE
24. La ricorrente contesta alle autorità interne di avere dichiarato l’adottabilità dei suoi figli mentre, nella fattispecie, non esisteva alcuna situazione di abbandono, bensì soltanto delle difficoltà famigliari transitorie, legate alla sua patologia depressiva e all’interruzione della sua convivenza con il padre dei minori, difficoltà che avrebbero potuto essere superate attuando un percorso di sostegno con l’aiuto dei servizi sociali. Essa sottolinea che le autorità interne hanno tagliato ogni legame con i suoi figli mentre la perizia aveva stabilito che nel caso di specie potevano essere adottate altre misure volte a salvaguardare il legame famigliare. Pertanto, essa ritiene che le autorità interne si siano sottratte al loro obbligo positivo di fare ogni sforzo necessario per salvaguardare il legame genitori-figli, inerente all’articolo 8 della Convenzione, che recita: «1.; Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
25. Il Governo contesta questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
26.; La Corte, constata che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre peraltro in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
1. Tesi delle parti a) La ricorrente
27. La ricorrente sottolinea anzitutto che le condizioni previste dalla legge per dichiarare l’adottabilità dei suoi figli non erano soddisfatte nel caso di specie, e a tale proposito osserva che i giudici nazionali hanno basato la dichiarazione di adottabilità soprattutto sulla sua malattia e sull’interruzione della convivenza tra i due genitori. Considerando che queste difficoltà famigliari erano di natura temporanea, la ricorrente ritiene che, preferendo tagliare il legame di filiazione materna piuttosto che adottare le misure necessarie per sostenerla ed aiutarla, i giudici nazionali siano venuti meno agli obblighi positivi derivanti dalla Convenzione.
28. La ricorrente fa osservare che se inizialmente fu attuato un percorso di sostegno, esso è stato nondimeno interrotto a causa dell’aggravarsi del suo stato di salute. Essa sottolinea che tale aggravamento era soltanto di natura temporanea, e pertanto non poteva giustificare la cessazione definitiva di qualsiasi tentativo di salvaguardare il legame famigliare.
29. La ricorrente rammenta che era consapevole delle difficoltà causate dalla sua malattia e sottolinea che aveva seguito un percorso terapeutico e chiesto varie volte ai servizi sociali e alle autorità competenti un sostegno e un accompagnamento per soddisfare al meglio le necessità dei bambini. Essa considera che la situazione di difficoltà di un genitore non può bastare, di per sé, a giustificare la rottura del legame genitore-figlio ma impone allo Stato di adottare le misure necessarie per fornire un’assistenza effettiva e preservare il legame famigliare. A questo riguardo la ricorrente fa riferimento alla giurisprudenza Zhou c. Italia, sopra citata.
30. La ricorrente non contesta che le autorità nazionali godano di un ampio margine di apprezzamento per determinare le misure da adottare al fine di tutelare l’interesse superiore dei bambini. Tuttavia, essa fa osservare che l’allontanamento dei minori dalla madre ha avuto effetti negativi sul loro equilibrio psicofisico e si riferisce a questo proposito ai rapporti dei periti (si veda il paragrafo 15 supra).
31. La ricorrente richiama l’attenzione sul fatto che la decisione di dichiarare i minori adottabili è stata presa senza tenere conto dei rapporti dei periti, secondo i quali il legame genitore-figli doveva essere preservato. La stessa rammenta a questo riguardo che, in un primo momento, i periti avevano auspicato che i bambini tornassero dai loro genitori. In seguito, quando il suo stato di salute si era aggravato e la convivenza tra i due genitori era stata interrotta, il perito nominato dal tribunale aveva proposto l’affidamento famigliare temporaneo dei minori e la realizzazione di un percorso di sostegno. I giudici nazionali, tuttavia, hanno contravvenuto a queste indicazioni, hanno dichiarato i minori adottabili e li hanno dati in affidamento ciascuno a una famiglia diversa.
b) Il Governo
32. Il Governo afferma che le autorità italiane competenti hanno agito nell’intento di proteggere l’interesse superiore dei minori e hanno adottato tutte le misure necessarie per salvaguardare il legame famigliare. La dichiarazione di adottabilità è stata pronunciata nell’ambito di una procedura equa, dopo un esame approfondito della situazione psicologica e fisica dei genitori e dei figli.
33. Il Governo rammenta che i minori vivevano in una situazione di precarietà e di pericolo, il che aveva giustificato l’intervento dei servizi sociali e la loro collocazione in un istituto.
34. La dichiarazione di adottabilità, intervenuta dopo vari tentativi di riunire i minori e i loro genitori, si basava sulle indicazioni dei periti ed era giustificata dall’esigenza di salvaguardare l’interesse superiore dei minori. Il Governo rammenta al riguardo il contenuto dei rapporti peritali che evidenziano i limiti della capacità della ricorrente di esercitare il ruolo di genitore nonché i disturbi comportamentali dei minori legati alla situazione famigliare difficile (si veda il paragrafo 15 supra).
35. Il Governo ritiene che la proposta dei periti di effettuare una nuova valutazione della situazione famigliare prima di dichiarare i minori adottabili non poteva essere accolta dai giudici nazionali. L’analisi attenta degli elementi di fatto e di diritto operata dai giudici nazionali aveva evidenziato l’esistenza di gravi motivi che giustificano la dichiarazione di adottabilità e non lasciava dubbi circa l’impossibilità di un cambiamento positivo della situazione famigliare. La volontà dei genitori di occuparsi dei figli e di accettare un sostegno da parte dei servizi sociali non era sufficiente per superare le difficoltà oggettive della presente causa e ad assicurare ai minori un buono sviluppo psicofisico.
36. Il Governo richiama l’attenzione sul fatto che la ricorrente aveva dichiarato dinanzi ai giudici nazionali di non essere in grado di occuparsi dei figli e aveva chiesto di essere aiutata o che i minori fossero affidati al padre. Tenuto conto di queste difficoltà, riconosciute dalla stessa ricorrente, e del fatto che il percorso di sostegno non era andato a buon fine, i giudici nazionali hanno adottato l’unica decisione che potesse tutelare l’interesse dei minori. Il Governo rammenta a questo riguardo la giurisprudenza della Corte, secondo la quale deve essere garantito un giusto equilibrio tra gli interessi dei figli e dei genitori. Tuttavia, l’interesse superiore del figlio può prevalere su quello dei genitori (Johansen c. Norvegia, 7 agosto 1996, § 78, Recueil des arrêts et décisions 1996 III).
37. Il Governo afferma che l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare era prevista dalla legge e perseguiva lo scopo di proteggere i minori. Esso considera infine che i motivi indicati dai giudici nazionali per fondare le loro decisioni sono pertinenti e sufficienti, e che le autorità nazionali non hanno oltrepassato il margine di apprezzamento di cui al paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione.
2. Valutazione della Corte
a) Principi generali
38. La Corte constata in via preliminare che non viene messo in discussione che la dichiarazione di adottabilità dei minori costituisca una ingerenza nell’esercizio del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare. Essa rammenta che una tale ingerenza è compatibile con l’articolo 8 solo se soddisfa le condizioni cumulative di essere prevista dalla legge, di perseguire uno scopo legittimo e di essere necessaria in una società democratica. La nozione di necessità implica che l’ingerenza si basi su un bisogno sociale imperioso e che sia in particolare proporzionata al legittimo scopo perseguito (si vedano Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 50, CEDU 2000 IX, Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 237, 1° luglio 2004 e Pontes c. Portogallo, n. 19554/09, § 74, 10 aprile 2012).
39.; La Corte rammenta che, al di là della protezione contro le ingerenze arbitrarie, l’articolo 8 pone a carico dello Stato degli obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita famigliare. In tal modo, laddove è accertata l’esistenza di un legame famigliare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi (si veda Olsson c. Svezia (n. 2), 27 novembre 1992, § 90, serie A n. 250; Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 140, CEDU 2010; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 75). Il confine tra gli obblighi positivi e negativi derivanti dall’articolo 8 non si presta a una definizione precisa, ma i principi applicabili sono comunque comparabili. In particolare, in entrambi i casi, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da garantire tra i vari interessi coesistenti, tenendo conto tuttavia che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante che, a seconda della sua natura e gravità, può prevalere su quello del genitore (Sahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 66, CEDU 2003-VIII; Kearns c. Francia, n. 35991/04, § 79, 10 gennaio 2008; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 60). In particolare, l’articolo 8 non può autorizzare un genitore a veder adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio (si vedano Johansen c. Norvegia, sopra citata, § 78, e Gnahoré, sopra citata, § 59). In tal modo, in materia di adozione, la Corte ha già ammesso che possa essere nell’interesse del minore favorire l’instaurarsi di legami affettivi stabili con i suoi genitori affidatari (Johansen, sopra citata, § 80, e Kearns, sopra citata, § 80).
40. La Corte rammenta anche che, nel caso degli obblighi negativi come nel caso degli obblighi positivi, lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento (si veda W. c. Regno Unito, 8 luglio 1987, § 60, serie A n. 121), che varia a seconda della natura delle questioni oggetto di controversia e della gravità degli interessi in gioco. In particolare, la Corte esige che le misure che conducono alla rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia siano applicate solo in circostanze eccezionali, ossia solo nei casi in cui i genitori si siano dimostrati particolarmente indegni (Clemeno e altri c. Italia, n. 19537/03, § 60, 21 ottobre 2008), o quando siano giustificate da un’esigenza primaria che riguarda l’interesse superiore del minore (si vedano Johansen, sopra citata, § 84; P., C. e S. c. Regno Unito, n. 56547/00, § 118, CEDU 2002 VI). Tuttavia, un tale approccio può essere scartato a causa della natura della relazione genitore-figlio quando il legame è molto limitato (Söderbäck c. Svezia, 28 ottobre 1998, §§ 30-34, Recueil 1998 VII).
41. Spetta a ciascuno Stato contraente dotarsi di strumenti giuridici adeguati e sufficienti per assicurare il rispetto degli obblighi positivi ad esso imposti ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, e alla Corte cercare di stabilire se, nell’applicazione e nell’interpretazione delle disposizioni di legge applicabili, le autorità nazionali abbiano rispettato le garanzie dell’articolo 8, tenendo conto in particolare dell’interesse superiore del minore (si vedano, mutatis mutandis, Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 141, CEDU 2010, K.A.B. c. Spagna, n. 59819/08, § 115, 10 aprile 2012, X c. Lettonia [GC], n. 27853/09, § 102, CEDU 2013).
42. A tale riguardo, e per quanto attiene all’obbligo per lo Stato di decretare misure positive, la Corte afferma costantemente che l’articolo 8 implica il diritto per un genitore di ottenere misure idonee a riunirlo al figlio e l’obbligo per le autorità nazionali di adottarle (si vedano, ad esempio, Eriksson c. Svezia, 22 giugno 1989, § 71, serie A n. 156, e Margareta e Roger Andersson c. Svezia, 25 febbraio 1992, § 91, serie A n. 226-A; P.F. c. Polonia, n. 2210/12, § 55, 16 settembre 2014). In questo tipo di cause, l’adeguatezza di una misura si valuta a seconda della rapidità della sua attuazione, in quanto lo scorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sui rapporti tra il minore e il genitore che non vive con lui (Maumousseau e Washington c. Francia, n. 39388/05, § 83, 6 dicembre 2007; Zhou c. Italia, sopra citata, § 48; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 63).
b) Applicazione di questi principi
43. La Corte considera che la questione decisiva nella fattispecie consista pertanto nel determinare se, prima di sopprimere il legame di filiazione materna, le autorità nazionali abbiano adottato tutte le misure necessarie e appropriate che si potevano ragionevolmente esigere dalle stesse affinché i minori potessero condurre una vita famigliare normale all’interno della propria famiglia.
44. La Corte osserva che le autorità italiane hanno preso in carico la ricorrente e i figli a partire da agosto 2009, quando i servizi sociali informarono il tribunale che i minori erano stati ricoverati a causa dell’ingestione accidentale di medicine. I minori furono allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto.
45. La Corte osserva che inizialmente fu attuato un primo progetto di sostegno alla famiglia e che, nel gennaio 2010, i minori tornarono presso i genitori. La decisione del tribunale si basava sull’attestazione, da parte dei periti, di una reazione positiva dei genitori al percorso di sostegno famigliare elaborato dai servizi sociali e sull’esistenza di un legame affettivo molto forte tra la ricorrente e i minori.
46. Nel marzo 2010 il padre dei minori lasciò il domicilio famigliare e la ricorrente fu ricoverata a causa dell’aggravamento del suo stato di salute. Alla luce degli sviluppi intervenuti, i minori furono perciò nuovamente allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto, e fu avviata una procedura di adottabilità.
47. La Corte osserva che il perito nominato dal tribunale aveva previsto un percorso di riavvicinamento genitori-figli, con una intensificazione degli incontri e un riesame della situazione dopo sei mesi. La soluzione proposta si basava sull’esistenza di legami affettivi forti tra genitori e figli, nonché sulla valutazione complessivamente positiva della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo e sulla loro disponibilità a collaborare con i servizi sociali. La Corte osserva che la perizia in questione fu depositata in cancelleria il 13 gennaio 2011 e che solo due mesi dopo, ossia il 1° marzo 2011, il tribunale, contrariamente alle indicazioni del perito, ha dichiarato i minori adottabili e ordinato l’interruzione degli incontri. La decisione di interrompere immediatamente e definitivamente il legame materno è stata presa molto rapidamente, senza un’analisi attenta dell’incidenza della misura di adozione sulle persone interessate e nonostante le disposizioni di legge secondo le quali la dichiarazione di adottabilità deve rimanere l’extrema ratio. Pertanto il tribunale, rifiutando di prendere in considerazione altre soluzioni meno radicali praticabili nel caso di specie, come il progetto di sostegno famigliare previsto dalla perizia, ha scartato definitivamente qualsiasi possibilità, per il progetto, di andare a buon fine e per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.
48. La Corte rammenta che, per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita famigliare (Couillard Maugery c. Francia, sopra citata, § 237) e che delle misure che portano a una rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia possono essere applicate solo in circostanze eccezionali. La Corte sottolinea anche che l’articolo 8 della Convenzione impone allo Stato di adottare le misure idonee a preservare, per quanto possibile, il legame madre-figlio (Zhou c. Italia, sopra citata, § 59).
49. La Corte osserva che, in cause così delicate e complesse, il margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali competenti varia a seconda della natura delle questioni sollevate e della gravità degli interessi in gioco. Se le autorità godono di un’ampia libertà per valutare la necessità di prendere in carico un minore, in particolare in caso di urgenza, la Corte deve comunque avere acquisito la convinzione che, nella causa in questione, esistevano circostanze tali da giustificare il fatto di allontanare il minore. Spetta allo Stato convenuto accertare che le autorità abbiano valutato accuratamente l’incidenza che avrebbe avuto sui genitori e sul minore la misura di adozione, e abbiano preso in esame soluzioni diverse dalla presa in carico del minore prima di dare esecuzione a una tale misura (K. e T. c. Finlandia [GC], n. 25702/94, § 166, CEDU 2001 VII; Kutzner, c. Germania, n. 46544/99, § 67, CEDU 2002 I).
50. A differenza di altre cause che la Corte ha avuto occasione di esaminare, i figli della ricorrente nella presente causa non erano stati esposti a una situazione di violenza o di maltrattamento fisico o psichico (si vedano, a contrario, Y.C. c. Regno Unito, n. 4547/10, 13 marzo 2012, Dewinne c. Belgio (dec.), n. 56024/00, 10 marzo 2005; Zakharova c. Francia (dec.), n. 57306/00, 13 dicembre 2005), né ad abusi sessuali (si veda, a contrario, Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 104, 9 maggio 2003). La Corte rammenta che ha concluso per l’esistenza di una violazione dell’articolo 8 nella causa Kutzner c. Germania, (§ 68, sopra citata) nella quale i tribunali avevano revocato la potestà genitoriale ai ricorrenti dopo avere constatato in questi ultimi un deficit intellettivo e avevano collocato i due figli in famiglie affidatarie distinte (§ 77, sentenza sopra citata). La Corte ha osservato che, se i motivi invocati dalle autorità e dai giudici nazionali erano pertinenti, gli stessi motivi non erano sufficienti per giustificare questa grave ingerenza nella vita famigliare dei ricorrenti (§ 81, sentenza sopra citata). Essa ha anche constatato la violazione dell’articolo 8 in una causa (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, 18 dicembre 2008) in cui l’affidamento dei figli dei ricorrenti era stato motivato dalla incapacità di questi ultimi di garantire loro condizioni di vita adeguate (la mancanza di risorse economiche e di qualità personali degli interessati mettevano in pericolo la vita, la salute e l’educazione morale dei figli). Lo stesso è avvenuto nella causa Zhou c. Italia (§§ 59-61, sopra citata), nella quale la Corte ha considerato che le autorità non si fossero sufficientemente impegnate per mantenere il legame madre-figlia e si fossero limitate a constatare che sussistevano delle difficoltà che invece avrebbero potuto essere superate per mezzo di una assistenza sociale mirata. La Corte ha invece concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8 nella causa Aune c. Norvegia (n. 52502/07, 28 ottobre 2010), osservando che l’adozione del minore non aveva di fatto impedito alla ricorrente di continuare ad intrattenere una relazione personale con il minore e non aveva avuto la conseguenza di allontanarlo dalle sue radici. Anche nella causa, sopra citata, Couillard Maugery c. Francia, in cui l’affidamento dei minori era stato disposto in ragione di uno squilibrio psichico dei genitori, la Corte ha concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8, tenuto conto della mancanza di collaborazione da parte della madre con i servizi sociali, del rifiuto di vederla da parte dei figli e soprattutto del fatto che il legame materno non era stato interrotto in maniera definitiva, in quanto l’affidamento, nel caso di specie, costituiva soltanto una misura temporanea.
51. Nella presente causa, la procedura di dichiarazione di adottabilità dei minori è stata avviata in seguito all’aggravarsi della malattia della ricorrente, che aveva condotto al ricovero di quest’ultima, e del degrado della situazione famigliare, a seguito della separazione della coppia dei genitori.
52. La Corte non dubita della necessità, nella situazione della presente causa, di un intervento delle autorità competenti allo scopo di tutelare l’interesse dei minori. Essa dubita tuttavia dell’adeguatezza dell’intervento scelto e ritiene che le autorità nazionali non abbiano fatto abbastanza per salvaguardare il legame madre-figli, e osserva che, in effetti, erano praticabili altre soluzioni, come quelle suggerite dal perito, e in particolare la realizzazione di un’assistenza sociale mirata di natura tale da permettere di superare le difficoltà legate allo stato di salute della ricorrente, preservando il legame famigliare assicurando comunque la protezione dell’interesse supremo dei minori.
53. La Corte guarda con attenzione il fatto che la ricorrente varie volte aveva chiesto l’intervento dei servizi sociali per essere aiutata a occuparsi dei figli nel migliore dei modi. A suo parere non può essere accolto l’argomento del Governo secondo il quale le richieste della ricorrente mostrerebbero la sua incapacità di esercitare il ruolo di genitore e giustificherebbero la decisione del tribunale di dichiarare i minori adottabili. La Corte ritiene che una reazione delle autorità alle richieste di aiuto della ricorrente avrebbe potuto salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame materno. Per di più, una soluzione di questo tipo sarebbe stata conforme alle raccomandazioni del rapporto peritale e alle disposizioni della legge secondo le quali la rottura definitiva del legame famigliare deve rimanere l’extrema ratio.
54. La Corte ribadisce che il ruolo di protezione sociale svolto dalle autorità è precisamente quello di aiutare le persone in difficoltà, di guidarle nelle loro azioni e di consigliarle, tra l’altro, sui mezzi per superare i loro problemi (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, § 57, 18 dicembre 2008; R.M.S. c. Spagna n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013). Nel caso di persone vulnerabili, le autorità devono dare prova di una attenzione particolare e devono assicurare loro una maggiore tutela (B. c. Romania (n. 2), n. 1285/03, §§ 86 e 114, 19 febbraio 2013; Todorova c. Italia, n. 33932/06, § 75, 13 gennaio 2009; R.M.S. c. Spagna, n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013; Zhou, sopra citata, §§ 58-59; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 82).
55; La Corte osserva che la sentenza della corte d’appello di Roma aveva riconosciuto una evoluzione positiva dello stato di salute della ricorrente e della situazione famigliare complessivamente considerata. In particolare, la corte d’appello aveva tenuto presente il fatto che la ricorrente seguiva un percorso terapeutico, che il padre dei minori si era mobilitato per trovare risorse per occuparsi di loro e che il nonno paterno era disposto ad aiutarlo (paragrafo 19 supra). Questi miglioramenti, tuttavia, non sono stati considerati sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, e la corte d’appello confermò la dichiarazione di adottabilità, basandosi in particolare sull’esigenza di salvaguardare l’interesse dei minori ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata.
56. La Corte rammenta che il fatto che un minore possa essere accolto in un contesto più favorevole alla sua educazione non può di per sé giustificare che egli venga sottratto alle cure dei suoi genitori biologici; una tale ingerenza nel diritto dei genitori, sulla base dell’articolo 8 della Convenzione, di godere di una vita famigliare con il loro figlio deve altresì rivelarsi «necessaria» a causa di altre circostanze (K. e T. c. Finlandia [GC], sopra citata, § 173; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 95; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 75). La Corte osserva che, nel caso di specie, pur essendo disponibili soluzioni meno radicali, i giudici nazionali hanno dichiarato i minori adottabili senza tenere conto delle raccomandazioni contenute nella perizia, provocando in tal modo l’allontanamento definitivo e irreversibile della madre. Inoltre, i tre minori sono stati dati in affidamento a tre famiglie diverse, cosicché non vi è stata solo una scissione della famiglia ma anche una rottura del legame tra fratelli e sorelle (Pontes c. Portogallo, § 98, sopra citata).
57. Secondo la Corte la necessità, che era fondamentale, di preservare, per quanto possibile, il legame tra la ricorrente – che si trovava peraltro in situazione di vulnerabilità – e i figli non è stato preso debitamente in considerazione (Zhou, § 58, sopra citata). Le autorità giudiziarie si sono limitate a prendere in considerazione le difficoltà della famiglia, che avrebbero potuto essere superate per mezzo di un’assistenza sociale mirata, come indicato peraltro nella perizia. Se è vero che un primo percorso di sostegno era stato realizzato nel 2009 ed era fallito a causa dell’aggravarsi della malattia della ricorrente e della cessazione della convivenza con il marito, queste circostanze non erano sufficienti per giustificare la soppressione di ogni possibilità per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.
58. Alla luce di queste considerazioni e nonostante lo Stato convenuto goda di un margine di apprezzamento in materia, la Corte conclude che le autorità italiane, prevedendo come unica soluzione la rottura del legame famigliare, benché nella fattispecie fossero praticabili altre soluzioni al fine di salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame famigliare, non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per fare rispettare il diritto della ricorrente di vivere con i figli, e di conseguenza hanno violato il diritto di quest’ultima al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione.
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
59. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
A. Danno
60. La ricorrente chiede somma di 300.000 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito a causa della violazione dell’articolo 8.
61. Il Governo si oppone a questa richiesta.
62. Tenuto conto delle circostanze della presente causa e della constatazione secondo la quale le autorità italiane non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i figli, in violazione dell’articolo 8, la Corte ritiene che l’interessata abbia subito un danno morale che non può essere riparato con la semplice constatazione di violazione della Convenzione. Essa ritiene tuttavia che la somma richiesta sia eccessiva. Considerati tutti gli elementi di cui dispone e deliberando in via equitativa, come prevede l’articolo 41 della Convenzione, essa ritiene opportuno fissare la somma da accordare all’interessata in riparazione del suddetto danno morale nella misura di 32.000 EUR.
B. Spese
63. La ricorrente non chiede alcuna somma per le spese. La Corte ritiene dunque che non sia opportuno accordare somme a questo titolo alla ricorrente.
C. Interessi moratori
64. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo all’articolo 8 della Convenzione;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione;
Dichiara, che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 32.000 EUR (trentaduemila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;
che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 13 ottobre 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.
Fatoş Aracı Cancelliere aggiunto
Päivi Hirvelä Presidente
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 21 novembre 2006 - Ricorso n. 10427/02 - Roda e Bonfatti c/Italia
CAUSA RODA E BONFATTI c. ITALIA (Ricorso n. 10427/02)
SENTENZA STRASBURGO 21 novembre 2006
La presente sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire delle modifiche nella forma.
Nella causa Roda e Bonfatti c. Italia, La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da: J.-P. COSTA, presidente, A.B. BAKA, I. CABRAL BARRETO, A. MULARONI, nominata a titolo dell'Italia, E. FURA-SANDSTRÖM, D. JOCIENE, D. POPOVIC, giudici, e da S. NAISMITH, cancelliere aggiunto di sezione, Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 7 novembre 2006, Pronuncia la seguente sentenza, adottata in quest'ultima data:
PROCEDURA. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 10427/02) presentato contro la Repubblica italiana e con cui due cittadini di tale Stato, la Sig.ra Daniela Roda e il Sig. Matteo Bonfatti ("i primi due ricorrenti"), che agiscono anche in nome di S.B., loro figlia e sorella, hanno adito la Corte rispettivamente il 21 e il 23 gennaio 2002, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali ("la Convenzione"). I ricorrenti sono rappresentati dall'avv. D. Paltrinieri del foro di Mirandola (Modena). Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo co-agente, F. Crisafulli. Il 13 dicembre 2004 la seconda sezione ha deciso di informare il Governo del ricorso. Avvalendosi delle disposizioni dell'articolo 29 § 3, essa ha deciso che sarebbero state esaminate nel contempo l'ammissibilità e la fondatezza della causa.
IN FATTO. Le circostanze della presente causa. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1962, 1979 e 1988. Sono residenti a Finale Emilia, Massa Finalese e Mirandola. La presa in carico di S.B. Il 23 ottobre 1998 M., cugina di S.B., confermò dinanzi al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Bologna ("il tribunale per i minorenni), le dichiarazioni fatte ai servizi sociali nell'ambito del programma psicoterapeutico cui era sottoposta dalla primavera dello stesso anno. Essa affermò di avere subito - come il fratello e altri bambini, tra i quali S.B. -, degli abusi sessuali in un'abitazione privata e durante riti satanici in un cimitero, da parte dei suoi genitori e di altri adulti, tra cui la sorella della prima ricorrente e il marito, nonché M.B., marito della sig.ra Roda e padre dei suoi figli. Il 27 ottobre 1998, tenuto conto della "necessità di procedere ad esami approfonditi" sulla minore, la procura chiese al tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 330 del codice civile ("CC"):
di ordinare l'allontanamento di S.B. dai genitori, il padre "presunto colpevole di abuso" e la madre "come minimo gravemente complice";
di ottenere le informazioni necessarie sui genitori;
di ordinare che i bambini, per il tramite dell'azienda sanitaria locale ("AUSL") di Mirandola, fossero affidati ad una struttura di accoglienza "protetta", e di far procedere quanto prima alle visite medico-legali e agli esami psicologici allo scopo di verificare se la minore aveva subito abusi sessuali. Il procuratore pregò infine il tribunale di dichiarare gli atti del fascicolo coperti da segreto a causa dei procedimenti penali pendenti.
Deliberando sulla base dell'articolo 336 CC, il 6 novembre 1998 il tribunale per i minorenni dispose, tra l'altro, la sospensione della potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente e del marito, e nominò la AUSL di Mirandola tutore di S.B., incaricando l'ente di affidare la minore ad una struttura "protetta" e di avviare un'indagine psicologica. Esso autorizzò inoltre la AUSL a ricorrere alla forza pubblica per procedere all'allontanamento della bambina.
Il tribunale considerò attendibili le dichiarazioni di M., poiché la minore aveva iniziato a farle una volta allontanata dalla famiglia e posta in un luogo "protetto"; i risultati delle visite medico-legali avevano confermato gli abusi sessuali, e le sue dichiarazioni coincidevano con quelle di altri bambini. L'allontanamento di S.B. diventava dunque urgente, dato che il padre, alla luce di dette dichiarazioni, sembrava direttamente implicato nei fatti, e la madre per lo meno incapace di offrire la protezione necessaria alla figlia. Il tribunale per i minorenni rilevò anche che, oltre al padre di S.B., altri membri della famiglia della sig.ra Roda erano implicati: la sorella e il marito, nonché il padre di quest'ultimo.
La decisione fu eseguita il mattino del 12 novembre 1998. I ricorrenti affermano che l'allontanamento ebbe luogo alle 6 del mattino. S.B. e la madre furono accompagnate al commissariato di polizia, dove S.B. fu affidata ai servizi sociali e la sig.ra Roda ricevette la notifica della decisione del tribunale per i minorenni. Lo stesso giorno, il tribunale dichiarò gli atti del fascicolo coperti dal segreto.
Il 21 dicembre 1998 furono effettuate due perizie medico-legali in presenza del perito nominato da M.B. Depositate il 13 febbraio 1999, le relazioni concludevano, per quanto riguarda la visita ginecologica, per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati"; per quanto riguarda l'altra visita, per "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali che hanno interessato la regione anale".
Il 3 marzo 1999 il perito nominato da M.B. depositò la sua relazione nella quale criticava sotto alcuni aspetti le due relazioni, ma considerava "molto probabile che vi fossero stati abusi sessuali".
I servizi sociali depositarono due rapporti l'8 e il 9 marzo 1999: nel primo, veniva affermato in particolare che, nel corso degli incontri quasi settimanali con S.B., quest'ultima appariva molto chiusa e si rifiutava di eseguire i test e i disegni proposti. Essa parlava spesso della sua famiglia e dei violenti litigi nel corso dei quali il padre percuoteva la madre. Quanto ai risultati delle visite medico-legali, essa aveva dichiarato all'inizio che il medico si era sbagliato, poi che suo padre era l'autore delle violenze, e poi aveva ritrattato. Il secondo rapporto riferiva la presa in carico di S.B. e l'affidamento della stessa a una struttura di accoglienza. S.B. si era inserita velocemente nel nuovo ambiente; tuttavia, dopo le visite medico-legali, aveva iniziato a manifestare dell'aggressività. Sua madre aveva telefonato regolarmente per avere sue notizie. Essa considerava l'allontanamento della figlia come un grave errore, poiché le dichiarazioni di M. erano secondo lei "il frutto della fantasia di una bambina infelice, con dei genitori incapaci (&)". Pur ammettendo che M.B. non era stato un buon padre, essa non lo credeva capace di "fare del male alla figlia".
Il 31 marzo 1999 il tribunale per i minorenni revocò la misura del segreto. Il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale penale di Modena delle diciassette persone imputate degli abusi sessuali denunciati da M. risale a questa stessa data.
Il 2 aprile 1999 la prima ricorrente chiese al tribunale per i minorenni, in via principale, di affidarle la custodia della figlia o, in subordine, il ritorno della bambina a casa sua o, in caso contrario, la possibilità di incontrarla.
All'udienza del 7 aprile 1999 i genitori di S.B. smentirono categoricamente le affermazioni dei servizi sociali; la sig.ra Roda ribadì la sua convinzione secondo la quale le perizie medico-legali erano errate. Il 14 aprile la prima ricorrente chiese di nuovo di poter incontrare la figlia.
Il 14 maggio 1999, ritenendo che i genitori di S.B. non avrebbero potuto fornire a quest'ultima la protezione necessaria in una situazione così grave, in attesa dell'esito dell'inchiesta penale in corso, il tribunale per i minorenni considerò impraticabile il ritorno della bambina presso la madre. Esso ordinò una perizia per "verificare la personalità dei genitori e il rapporto tra questi ultimi e la bambina" e di valutare anche l'opportunità di un ritorno di S.B. in famiglia.
Il 25 maggio 1999 la procura espresse un parere sfavorevole alla possibilità di incontri tra padre e figlia, ma favorevole a quelli tra S.B. e la madre, a condizione che avessero luogo in un luogo protetto e in presenza di assistenti sociali. La procura dichiarò tuttavia di opporsi all'affidamento della bambina alla madre, che non era in grado di fornirle la sua "protezione".
Il perito prestò giuramento il 24 giugno 1999.
Il 28 gennaio 2000 il tribunale per i minorenni ricevette un'altra relazione di controllo della situazione redatta dai servizi sociali. Gli assistenti sociali avevano incontrato gli interessati varie volte: una volta la sig.ra Roda insieme al figlio, dodici volte la sig.ra Roda, sette volte il figlio e quattro volte M.B. (dopo la sua scarcerazione). La conclusione della relazione era la seguente: "Risulta con ogni evidenza da questa prima parte della valutazione della situazione che, pur avendo vissuto anni di conflitti tra loro, con accuse gravi e reciproche riguardo al loro comportamento in famiglia, i genitori concordano nel ritenere ingiustificate le decisioni delle giurisdizioni investite della causa in quanto gli elementi di fatto non basterebbero ad affermare che S.B. ha subito un qualsiasi maltrattamento, ad eccezione di una forte sofferenza derivante dalla situazione famigliare, situazione a cui i genitori hanno del resto già posto rimedio separandosi. Su questo punto, i genitori ricevono il sostegno di Matteo."
Il 31 gennaio 2000 il perito ottenne, "in ragione della complessità e del carattere dell'inchiesta", una proroga di quarantacinque giorni per compiere la perizia.
Il 30 marzo 2000 la prima ricorrente reiterò dinanzi al tribunale per i minorenni la propria domanda volta a ottenere la ripresa dei contatti con la figlia, poiché quest'ultima aveva dichiarato il 22 febbraio 2000 dinanzi al tribunale penale di Modena di voler rientrare a casa.
Il 12 aprile 2000 il giudice delegato dal tribunale per i minorenni accordò al perito una nuova proroga di novanta giorni per permettergli di esaminare la videoregistrazione dell'audizione di S.B. del 22 febbraio nonché il nuovo rapporto dei servizi sociali.
Il 7 giugno 2000 il perito consegnò al tribunale per i minorenni le proprie considerazioni relative all'audizione di S.B.: "Credo che S.B. sia stata obbligata a crescere in fretta in un ambiente violento e caratterizzato da una mancanza di affetto, in cui i ruoli dei genitori si sono rapidamente irrigiditi con, da una parte, (il ruolo) di persecutore (il padre) e, dall'altra, (quello) di vittima (la madre). Questa situazione ha facilmente potuto portare una bambina matura e sensibile a diventare protettrice di una madre debole, che ha un bisogno estremo di tenerezza e di riconoscimento narcisistico, come mi è sembrata la sig.ra Roda fino ad oggi. (&) Credo pertanto che, allo scopo di valutare meglio (&) la qualità dei rapporti affettivi attuali tra (madre e figlia), potrebbe rivelarsi molto utile programmare degli incontri tra le interessate (anche in mia presenza), organizzare una serie di incontri con esse, da sole o insieme".
Il 10 luglio 2000 i servizi sociali fecero pervenire al tribunale per i minorenni il loro rapporto sulla situazione psicologica di S.B. Secondo tale rapporto, la bambina si era dimostrata più spontanea e aperta solo poco prima dell'estate del 1999. Essa aveva iniziato a raccontare alla psicologa che la seguiva che suo padre l'aveva maltrattata, "che lo temeva molto, che egli le aveva davvero fatto male là dove il ginecologo l'aveva visitata (cosa che aveva in seguito ritrattato affermando di non ricordarsi di averlo detto)". S.B. non voleva rientrare a casa almeno finché "tutto non fosse sistemato", ma non spiegava mai per quale motivo poiché non voleva che "sua madre andasse in prigione". Dopo l'audizione del 22 febbraio 2000, S.B. aveva affermato di avere paura di ritornare a casa della madre. La bambina aveva raccontato di aver pianto di rabbia alla notizia della condanna del padre e delle altre persone a causa di ciò che aveva subito da parte loro; essa diceva di "odiare" tutti gli uomini poiché aveva imparato ad avere paura di suo padre. All'esito dell'incontro con la cugina M., S.B. aveva detto alla psicologa che temeva che M. non l'amasse più perché non riusciva a raccontare ciò che era successo loro quando vivevano a Massa Finalese, e che aveva molta paura.
Il 19 luglio 2000 il perito depositò la sua relazione. Egli riferiva di avere esaminato i documenti pertinenti, incontrato e discusso con gli assistenti sociali competenti, e incontrato varie volte M.B e la sig.ra Roda, assistita da un perito privato. Giudicando questo materiale sufficiente per portare a termine il suo lavoro, egli non aveva ritenuto necessario parlare con S.B., evitando in questo modo "una nuova e gratuita situazione traumatizzante". Le considerazioni fatte dai servizi sociali nel loro rapporto del 10 luglio 2000 l'avevano convinto dell'inutilità di organizzare degli incontri tra la madre e la figlia. Il perito concludeva che nessuno dei due genitori aveva. "le attitudini sufficienti e le competenze necessarie per esercitare adeguatamente le funzioni di genitore (&). Pur avendo due personalità diverse, essi dimostra(va)no entrambi di essere troppo presi dai loro bisogni per potere riconoscere e occuparsi validamente di quelli, estremamente dolorosi e delicati, della figlia".
Il tribunale per i minorenni accordò poi venti giorni al perito della prima ricorrente per presentare le sue osservazioni sulla relazione peritale del 19 luglio 2000.
Il 4 ottobre 2000 la sig.ra Roda depositò le osservazioni del suo perito e chiese di essere sentita dal tribunale o dal giudice delegato e di poter ottenere la custodia della figlia o la ripresa dei contatti con la fissazione di un calendario di incontri. Il perito criticava apertamente le conclusioni del perito d'ufficio e la sua decisione di non incontrare S.B., sostenendo, tra l'altro, che la situazione psicologica della bambina era il risultato della separazione.
In un rapporto del 16 ottobre 2000, i servizi sociali affermavano che la situazione di S.B. non aveva subito importanti cambiamenti: la bambina era ben integrata nella sua scuola e i suoi risultati scolastici erano soddisfacenti; essa si dimostrava più attiva di quanto fosse di solito. La madre aveva telefonato regolarmente (ogni due o tre settimane) per avere "notizie riguardanti le condizioni psichiche e fisiche della figlia e aveva portato dei vestiti, dei regali e degli articoli scolastici". A parte l'invio di piccoli regali attraverso la madre, "gli zii e la cugina paterni" non avevano mai contattato i servizi sociali per avere informazioni o per parlare di S.B.
Il 17 e il 18 ottobre 2000 il tribunale per i minorenni sentì i responsabili del centro a cui era stata affidata S.B.; secondo gli stessi, la bambina temeva sempre di "aprirsi", "ha(aveva) bisogno di carezze e di contatto fisico ma non riesce(iva) a dimostrare affetto".
Il 20 novembre 2000 il tribunale per i minorenni sentì la sig.ra Roda, che chiese di poter rivedere la figlia "con l'assistenza di persone idonee ad aiutarla" e affermò di non ricevere fotografie o lettere da parte sua. Essa dichiarò, tra l'altro, che se S.B. "avesse subito delle cose, glielo avrebbe detto, ma che non le era stato permesso di parlare alla figlia". Alla prima ricorrente fu accordato un termine di quindici giorni per il deposito di una memoria e di un attestato che dimostrasse che essa seguiva una psicoterapia. Nella sua memoria del 5 dicembre 2000, la prima ricorrente ribadì la propria convinzione che la situazione di chiusura quasi totale della figlia derivasse solo dall'allontanamento che perdurava da due anni.
Anche M.B era stato sentito dal tribunale per i minorenni il 27 novembre 2000. In una memoria dell'11 dicembre 2000, il suo avvocato suggeriva di affidare la custodia di S.B. alla madre o almeno al fratello.
Il 17 gennaio 2001 il secondo ricorrente chiese la ripresa dei contatti con la sorella e la possibilità di ottenerne la custodia.
Con sentenza in data 29 gennaio 2001 il tribunale per i minorenni decise che la custodia di S.B. avrebbe continuato ad essere affidata alla AUSL di Mirandola affinché tale ente "la ponga in un ambiente protetto, preferibilmente di tipo famigliare", "organizzi, dopo aver previamente preparato la madre e la figlia, la ripresa dei rapporti tra le stesse, che dovranno aver luogo, fintanto che ciò sia necessario, in un ambiente protetto e in presenza degli (assistenti sociali)".
Nella sua decisione il tribunale per i minorenni, alla luce degli elementi raccolti sia nel corso dell'inchiesta dallo stesso condotta che nell'ambito del procedimento penale contro il padre di S.B. e altre sedici persone, valutò "che si (poteva) considerare dimostrato che S.B. ha(aveva) effettivamente subito dei gravi abusi". "(&) la condanna del padre (sebbene la sentenza non (fosse) ancora definitiva), ma soprattutto le caratteristiche della personalità di quest'ultimo, evidenziate in particolare dal perito d'ufficio, nonché il vissuto di paura e di incomunicabilità nutrito nei confronti dello stesso da S.B., porta(va)no a ritenere che M.B. non sia(fosse) decisamente in grado di esercitare adeguatamente il ruolo di padre (&)". Ciò giustificò la decadenza dalla potestà dei genitori disposta nei confronti del padre e il mantenimento dell'interruzione dei rapporti tra quest'ultimo e la figlia. Per quanto riguarda il rapporto madre-figlia, il tribunale si pronunciò in questi termini: "Il vissuto di S.B. verso la madre è più complesso, così come la personalità di quest'ultima. Pur rilevando che l'azione penale non ha dimostrato che la sig.ra Roda fosse implicata negli abusi, S.B. ha tuttavia un vissuto molto ambivalente nei suoi confronti; essa ha dichiarato di voler tornare a vivere con lei, ma ha poi chiesto che ciò avvenga il più tardi possibile; ha manifestato dei sentimenti confusi e, come ha sottolineato il perito d'ufficio, in ogni caso non ha manifestato un affetto profondo (&). Se S.B. non si è mai confidata con la madre a proposito degli abusi, nemmeno dopo la separazione dei genitori (&), ciò è dovuto al fatto che non si è sentita protetta. L'allontanamento della bambina e l'interruzione dei rapporti con la madre risultano dunque giustificati poiché la madre non era e non poteva sembrare vicina all'esperienza della bambina e pronta a tutto per proteggerla. Queste considerazioni portano a ritenere che la madre non è ancora in grado di aiutare S.B. a elaborare le sue esperienze e le sue sofferenze. La situazione personale della bambina è troppo complessa e il percorso di analisi della madre sul suo ruolo di genitore è in fase troppo embrionale". Il tribunale per i minorenni non pronunciò la decadenza dalla potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente. La giurisdizione non fissò un limite temporale per l'affidamento di S.B. a causa della necessità di seguire "l'evoluzione della situazione complessa" della bambina.
Infine, il tribunale per i minorenni rigettò la domanda volta a ottenere la ripresa dei rapporti tra il secondo ricorrente e la sorella, "(poiché) Matteo ha sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di qualsiasi possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al difficile rapporto tra i genitori. Del resto, egli vive con il padre, e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello, anche (sotto la vigilanza dei servizi sociali), potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione. D'altra parte, Matteo non si è più rivolto ai servizi sociali allo scopo di avere notizie della sorella. I servizi sociali potranno peraltro convocare Matteo e determinare se sussistono le condizioni che permettano di elaborare, se egli lo desidera, un programma di controllo destinato a fargli comprendere le esigenze e il difficile vissuto della sorella. Se egli è pronto a farlo, i servizi sociali potranno allora valutare, tenuto conto delle esigenze della minore, l'opportunità di organizzare tali incontri."
L'8 marzo 2001 la prima ricorrente impugnò la sentenza dinanzi alla corte d'appello di Bologna affermando, tra l'altro, che vi era stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento dalla figlia e che ogni bambino ha il diritto di essere educato nell'ambito della sua famiglia (articolo 1 della legge n. 184/1983 sull'adozione e l'affidamento dei minori).
Il 6 giugno 2001 i servizi sociali depositarono una relazione di controllo della situazione di S.B. Da tale relazione risultava in particolare che il secondo ricorrente aveva chiesto informazioni dopo l'ultima decisione del tribunale per i minorenni e che la madre telefonava ogni quindici giorni e aveva consegnato regali e lettere per la figlia. I servizi sociali segnalavano anche "la loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore poiché quest'ultima aveva un rifiuto totale per il mondo esterno."
Il 7 giugno 2001 la corte d'appello rigettò la domanda della prima ricorrente, ritenendo corretta l'analisi della situazione fatta e le conclusioni che il tribunale per i minorenni ne aveva tratto. Tuttavia, tenuto conto della gravità della situazione della bambina, la corte ritenne che fosse necessario "cercare, prima che sia troppo tardi, di percorrere anche la via del riavvicinamento tra madre e figlia (&) non è(era) più possibile lasciare crescere la bambina in uno stato disperato di abbandono e di isolamento. È(era) necessario che i servizi sociali si attivino immediatamente per eseguire in maniera equilibrata le decisioni del tribunale per i minorenni".
Il 18 settembre 2001 la prima ricorrente informò il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni che i servizi sociali non avevano ancora proceduto all'organizzazione degli incontri con la figlia.
Il 5 novembre 2001 i servizi sociali, ritenendo necessario incontrare la prima ricorrente e la sua psicologa prima di eseguire le decisioni giudiziarie pertinenti, ebbero un colloquio con la psicologa della sig.ra Roda.
In una relazione di controllo del 10 gennaio 2002, i servizi sociali affermarono che la situazione di S.B. non aveva subito alcun cambiamento. Essa era stata informata che l'11 luglio 2001 la corte d'appello di Bologna aveva assolto il padre ma condannato le altre persone, riconoscendo che aveva subito violenze sessuali. S.B. aveva allora dichiarato di voler essere data in affidamento a una famiglia di accoglienza. Allo scopo di preparare gli incontri, i servizi sociali avevano ricevuto la prima ricorrente e la sua psicologa. I padre e il fratello di S.B. non avevano più ricontattato i servizi.
L'11 febbraio 2002 la sig.ra Roda chiese al procuratore di autorizzare la videoregistrazione del futuro incontro con la figlia e la presenza del perito che la assisteva dall'inizio della causa. Informati della domanda il 18 febbraio, i servizi sociali si dichiararono perplessi e affermarono che S.B. aveva espresso il proprio rifiuto per quanto riguarda la registrazione e la presenza di altre persone durante l'incontro. Il 9 marzo 2002 il procuratore autorizzò la registrazione ma considerò inopportuna la presenza del perito della sig.ra Roda.
Il 12 marzo 2002, il giorno prima dell'incontro, i servizi sociali informarono la prima ricorrente che sarebbe stato impossibile procedere alla registrazione. Il 13 marzo, la sig.ra Roda comunicò la notizia al procuratore indicando che si rifiutava di partecipare, e poi il 18 e il 22 marzo 2002, essa gli fece pervenire i dati di alcuni centri presso i quali l'incontro poteva essere registrato.
Il 27 marzo 2002 il giudice tutelare, accogliendo la domanda presentata il giorno precedente dalla prima ricorrente, ordinò ai servizi sociali di procedere all'incontro e di registrarlo; egli autorizzò la prima ricorrente a ottenere una copia della registrazione.
Il primo incontro ebbe luogo il 28 marzo 2002, e fu seguito da altri incontri il 28 maggio, il 10 luglio, il 23 settembre e il 18 novembre 2002, e il 14 gennaio, il 29 aprile, il 17 giugno, il 26 luglio, il 7 ottobre e il 25 novembre 2003.
Il 23 aprile 2002, accogliendo la domanda della prima ricorrente, il giudice tutelare ordinò alla AUSL di depositare rapidamente la videocassetta dell'incontro del 28 marzo. Nel luglio 2002, lo stesso giudice fissò un termine di tre giorni per il deposito delle registrazioni degli incontri. Il 31 luglio la sig.ra Roda si rivolse a detto giudice allo scopo di ottenere la fissazione degli incontri in date più ravvicinate, la consegna di un telefono cellulare alla figlia, il mantenimento degli incontri a Modena, nonché la possibilità di restare sola con la figlia per una buona parte degli incontri.
L'11 settembre 2002 il giudice tutelare prese atto che la AUSL avrebbe mantenuto gli incontri a Modena e autorizzava la corrispondenza tra madre e figlia, e rigettò per il resto le domande della sig.ra Roda.
L'11 dicembre 2002 la AUSL comunicò a quest'ultima il calendario degli incontri con scadenze bimestrali, poi il 17 dicembre 2002 informò l'avvocato della sig.ra Roda che S.B. era stata data in affidamento ad una famiglia da circa una settimana.
Il 18 dicembre 2002 la AUSL depositò una relazione di controllo relativa agli incontri registrati e un'altra sull'aiuto psicologico fornito a S.B. e alla madre. Secondo il primo documento, "La scena che ci troviamo di fronte è quella di una ragazza chiusa nella sua verità, verità che risulta da espressioni fisiche e non da parole, una ragazza che sembra subire silenziosamente gli incontri con la madre, il che rappresenta un (comportamento) duro ma forse protettivo nei confronti di una madre ancorata nella sua idea di una grande ingiustizia commessa verso sua figlia e verso la sua famiglia". I servizi sociali ritenevano che l'utilizzo del cellulare non fosse di natura tale da agevolare la comunicazione, tenuto conto delle difficoltà relazionali osservate, e raccomandavano il proseguimento degli incontri "protetti" e il supporto psicologico di preparazione agli incontri.
Il rapporto sull'assistenza psicologica indicava che S.B. "ha(aveva) sempre espresso disappunto e disinteresse verso la madre, (che) si è(era) lamentata che la madre le pone(va) con insistenza molte domande, e (che) essa l'ha(aveva) a volte criticata per il suo comportamento in questi momenti". Da detto rapporto risulta anche che S.B. seguiva dei corsi di equitazione e che aiutava la sua istruttrice nell'ambito di sedute di ippoterapia destinate a bambini handicappati. Quanto alla sig.ra Roda, la psicologa incaricata di seguirla, che non faceva parte dei servizi sociali, osservava che l'interessata aveva mantenuto un atteggiamento difensivo praticamente nel corso di tutti e cinque gli incontri (dal 7 gennaio al 2 febbraio 2001), "un atteggiamento caratterizzato dalla convinzione formale che la figlia non ha subito abusi, pur evidenziando la contraddizione tra le perizie d'ufficio e quelle del suo perito, sottolineando in tal modo l'esistenza di un'altra verità. (La sig.ra Roda) ha affermato nuovamente che la causa principale del malessere di S.B. è l'impossibilità per lei di sostenerla, poiché è convinta che con lei la figlia avrebbe senza dubbio parlato di ciò che era successo (&)". Il 19 dicembre 2002 il giudice tutelare autorizzò S.B. a utilizzare il cellulare per chiamare la madre in presenza di un assistente sociale, subordinò al consenso di S.B. (da esprimere davanti alla madre) la registrazione dei futuri incontri e invitò la AUSL a tenere costantemente informata la sig.ra Roda sull'affidamento in famiglia di S.B., e a rispettare le date degli incontri senza rinviarle. Secondo le informazioni fornite dalla ricorrente, i servizi sociali hanno continuato a rinviare gli incontri già previsti e, in particolare, quello fissato per il 10 giugno 2003 si tenne solo il 17 giugno, e quello previsto per il 25 novembre 2003 fu annullato lo stesso giorno in mancanza delle chiavi che permettono di accedere al locale di videoregistrazione.
Il procedimento penale contro il padre di S.B. e altri 16 imputati. Con sentenza in data 5 giugno 2000 M.B. e la sorella e il cognato della prima ricorrente furono condannati dal tribunale di Modena, insieme ad altre persone, per abusi sessuali su minori. Nella sentenza dell'11 luglio 2001, depositata in cancelleria l'8 ottobre 2001, la corte d'appello di Bologna affermò l'attendibilità generale delle dichiarazioni fatte da tutti i bambini relativamente agli abusi subiti in ambiente domestico. Essa ritenne che le deposizioni dei minori, che confermavano le dichiarazioni di M., dovevano essere considerate attendibili e indipendenti da qualsiasi pressione o influenza da parte dei servizi sociali, dei magistrati coinvolti nella causa o delle famiglie d'accoglienza. Sulla base di tali considerazioni e delle prove raccolte, la corte d'appello confermò in particolare la condanna dei genitori di M., la madre della quale è la sorella della prima ricorrente, rispetto agli abusi commessi nel loro domicilio su M., suo fratello e altri quattro bambini. La corte d'appello assolse le stesse persone per quanto riguarda gli abusi presumibilmente commessi in un cimitero in quanto i fatti non erano dimostrati. Su questo punto la corte d'appello affermò che le dichiarazioni riguardanti i riti satanici traevano origine dalle deposizioni alterate di D.G., uno dei bambini implicati, che aveva evocato una tale situazione nel 1997 in seguito ad una ricostruzione artificiale delle esperienze di abusi realmente subiti. Tali dichiarazioni erano state poi riprese, grazie anche al contesto provinciale e alla mediatizzazione della causa, generando così negli altri bambini suggestioni e falsi ricordi collettivi e portandoli ad amplificare le violenze effettivamente subite. La corte d'appello non condivise dunque le conclusioni dei periti relativamente alla credibilità dei bambini al riguardo. Anche M.B. fu assolto in quanto le dichiarazioni di M. che lo riguardavano non avevano trovato alcun riscontro valido.
Il 19 novembre 2001 la procura di Bologna presentò ricorso per cassazione. Con sentenza in data 26 novembre 2002 la Corte di cassazione confermò la sentenza della corte d'appello di Bologna per tutti gli imputati ad eccezione di uno solo di essi.
Il procedimento relativo alla reintegrazione della potestà dei genitori avviato dal padre di S.B. In data non precisata M.B. chiese al tribunale per i minorenni la revoca della decisione del 29 gennaio 2001 con cui gli era stata tolta la potestà dei genitori su S.B. Con decisione provvisoria in data 13 marzo 2002 il tribunale per i minorenni ordinò che fosse compiuta una perizia allo scopo di stabilire se il richiedente fosse in grado di iniziare un percorso di comprensione e di riflessione sul vissuto e sui bisogni della figlia. Il tribunale osservava che la corte d'appello penale non aveva ritenuto sufficientemente dimostrato che gli abusi erano stati commessi anche dal padre di S.B., che la decisione del 29 giugno 2001 non si basava sulla responsabilità penale di M.B. ma sul pesante vissuto della bambina nei suoi confronti, sulla personalità di M.B. e sul suo comportamento di fronte alla sofferenza della figlia.
Il 12 giugno 2002 il tribunale rigettò la domanda di ricusazione del perito presentata da M.B. La prima ricorrente depositò una memoria chiedendo l'affidamento di S.B., e l'organizzazione di incontri con lei e con il secondo ricorrente.
Nella sua decisione del 7 luglio 2004, il tribunale per i minorenni osservò che dalla relazione peritale, depositata il 21 gennaio 2003, risultava chiaramente che M.B. "non era ancora capace di comprendere le esperienze profonde della figlia, né quelle (della sua vita attuale) di adolescente, né quelle del suo difficile passato di bambina oggetto di abusi sessuali". Stando così le cose, la reintegrazione della potestà dei genitori e l'organizzazione di incontri erano impossibili. Le domande di M.B. avrebbero potuto essere prese nuovamente in considerazione se l'interessato avesse dimostrato di essere riuscito a iniziare il percorso psicoterapeutico e psicopedagogico indicato dal perito. Quanto alle richieste della prima ricorrente, tenuto conto dei risultati incoraggianti dell'affidamento di S.B. in una famiglia di accoglienza, il tribunale decise di confermarlo per un periodo non inferiore a due anni, poiché S.B. non era ancora "in grado di affrontare un ritorno in famiglia, presso la madre, in quanto i sentimenti relativi al suo passato erano ancora troppo carichi di dolore inesprimibile". Considerati gli innegabili progressi compiuti dalla prima ricorrente nel suo lavoro di riavvicinamento alla figlia, il tribunale optò per il proseguimento degli incontri con cadenza mensile e invitò i servizi sociali a prevedere anche degli incontri in occasione di alcune festività (compleanni, Natale, ecc.) e a valutare la possibilità di organizzare degli incontri con il secondo ricorrente. La prima ricorrente interpose appello il 2 settembre 2004.
In data non precisata, ritenendo che l'interesse di S.B. fosse in conflitto con la domanda della madre, la AUSL chiese al giudice tutelare di nominare un curatore speciale ai fini del procedimento di appello.
Il 4 novembre 2004 il giudice adito rigettò la domanda a causa della sua incompetenza ratione materiae, come la sig.ra Roda aveva rilevato nella sua memoria.
Il 9 novembre 2004 il tribunale di Modena nominò, su richiesta della AUSL, un curatore speciale a S.B. nella persona del direttore della AUSL. Il 22 novembre 2004 la prima ricorrente si oppose alla nomina.
Il 26 novembre 2004 la corte d'appello confermò la decisione del 7 luglio 2004 per quanto riguarda la presa in carico di S.B. da parte della AUSL e invitò i servizi sociali di Mirandola a realizzare per un periodo di prova il ritorno di S.B. presso la madre solo di giorno. Lo stesso giorno, la AUSL informò la prima ricorrente che l'incontro con S.B. già fissato per il 21 dicembre 2004 era stato anticipato al giorno prima a causa dell'indisponibilità del locale attrezzato per la videoregistrazione.
Il 16 e il 18 dicembre la prima ricorrente chiese ai servizi sociali di applicare la decisione della corte d'appello, e successivamente, il 22 dicembre, essa si rivolse al giudice tutelare chiedendo in particolare che la figlia fosse accompagnata dai servizi sociali per passare a casa sua il giorno di Natale o un altro giorno prima del 31 dicembre 2004.
Il giudice fissò per il 30 dicembre 2004 l'udienza di comparizione di S.B. e della madre e ordinò ai servizi sociali di fissare un incontro tra le due al fine di discutere e di valutare insieme il programma di ritorno.
Il 28 dicembre 2004 la prima ricorrente chiese al giudice tutelare di fare in modo che gli incontri non fossero così vicini tra loro e che l'incontro previsto per il giorno dopo si svolgesse senza S.B., poiché desiderava conoscere "le vere intenzioni della AUSL circa il ritorno a casa della figlia". Il giudice rigettò la domanda lo stesso giorno.
S.B. non partecipò all'udienza del 30 dicembre 2004 e il giudice fissò per il 16 febbraio 2005 la nuova data dell'audizione della minore.
Nella sua decisione del 28 febbraio 2005 il giudice tutelare approvò il calendario degli incontri proposto dalla AUSL fino al 30 settembre 2005, affermò nuovamente che tali incontri erano destinati a valutare la possibilità del ritorno di S.B. a casa della madre solo di giorno e fissò per il 15 maggio 2005 la data del deposito della relazione di controllo da parte dei servizi sociali.
In precedenza, il 26 gennaio 2005, i servizi sociali avevano segnalato alla procura presso il giudice tutelare le difficoltà incontrate nell'applicazione della decisione della corte d'appello.
Il 18 febbraio 2005 la procura presso il tribunale per i minorenni chiese al tribunale di "sospendere l'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore". S.B. aveva infatti dichiarato di non volere ritornare a casa della madre, e che preferiva continuare a incontrarla una volta ogni due o tre mesi.
Il 14 marzo 2005 il tribunale per i minorenni accolse la domanda della procura, incaricò i servizi sociali di proseguire gli incontri mensili in luogo "protetto" per tre mesi e convocò la sig.ra Roda all'udienza del 27 maggio 2005.
Secondo le informazioni fornite dalle parti nel maggio e nell'agosto 2006, il secondo ricorrente ha incontrato i servizi sociali più volte. Il 13 marzo 2006 egli ha anche chiesto al tribunale per i minorenni l'affidamento della sorella, l'organizzazione di incontri con quest'ultima, da solo o con la madre, nonché l'autorizzazione a telefonare alla sorella. Il 15 maggio 2006 il tribunale per i minorenni rigettò tali domande e incaricò i servizi sociali di valutare se la ripresa dei contatti di S.B. con il secondo ricorrente fosse nell'interesse della minore.
La sig.ra Roda continua a vedere la figlia in presenza di assistenti sociali. Essa ha presentato almeno tre domande volte a ottenere il deposito della videoregistrazione degli incontri.
Il diritto interno pertinente. Ai sensi dell'articolo 330 CC: "Il giudice può pronunciare la decadenza dalla potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza famigliare." La legge n. 149 del 28 marzo 2001 ha modificato alcune disposizioni del libro I, titolo VIII, del codice civile e della legge n. 184/1983.
L'articolo 333 del codice civile, come modificato dall'articolo 37 c. 2 della legge n. 149/2001, dispone quanto segue: "Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall'articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza famigliare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento".
L'articolo 336 CC, come modificato dall'articolo 37 c. 3 della stessa legge, prevede che: "I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge."
Ai sensi dell'articolo 4 c. 4 della legge n. 149/2001, nei provvedimenti di affidamento famigliare deve essere indicato il periodo di presumibile durata dell'affidamento, che non può superare i due anni. Il tribunale per i minorenni può tuttavia decidere di prorogare il periodo se la sospensione dell'affidamento reca pregiudizio al minore. I provvedimenti adottati dai tribunali per i minorenni, ai sensi degli articoli 330 e 333 CC, rientrano nella volontaria giurisdizione. Essi non hanno un carattere definitivo e possono pertanto essere revocati in ogni momento. Inoltre, contro tali provvedimenti non è possibile interporre appello, ma le parti in causa possono presentare un reclamo dinanzi alla corte d'appello.
IN DIRITTO.
I - SULL'ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO. Il Governo sostiene che, nelle cause concernenti l'allontanamento di un minore dalla sua famiglia d'origine, i genitori di quest'ultimo non possono presentare un ricorso in suo nome, poiché gli interessi degli uni e degli altri sono in questi casi distinti, se non addirittura contraddittori. Se tutte le persone interessate hanno lo stesso diritto al rispetto della loro vita privata e famigliare, tale diritto si concretizzerebbe per i genitori nell'interesse a riprendere con sé il minore, mentre per quest'ultimo l'interesse potrebbe benissimo consistere nel mantenimento della situazione di allontanamento dalla sua famiglia. In un simile contesto, non si può accettare l'idea che una sola di queste due posizioni venga portata all'attenzione di un organo giudiziario e che venga impedito all'altra posizione di esprimersi. S.B. ha ultimamente formulato in maniera molto chiara il suo parere sul modo in cui essa concepisce i propri rapporti con la madre e con il fratello. Orbene, sarebbe inaccettabile che la Corte prenda una decisione che, direttamente o indirettamente, possa ledere i diritti di S.B., senza avere sentito la sua opinione. Il Governo ritiene che sarebbe ragionevole invitare la famiglia di accoglienza di S.B. a intervenire, o che la Corte dovrebbe nominare una persona incaricata di rappresentare S.B. dinanzi ad essa. In conclusione, il ricorso presentato in nome di S.B. dalla madre e dal fratello, che difendono il loro interesse e non quello della ragazza, sarebbe , per questa parte, inammissibile. Quanto al secondo ricorrente, il Governo sostiene che egli non si è mai costituito parte nel procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni di Bologna. L'affermazione contenuta nel riepilogo dei fatti del ricorso (paragrafo 34 supra) secondo la quale tale tribunale, nella sua decisione del 29 gennaio 2001, ha rigettato "in queste circostanze la domanda del secondo ricorrente volta ad ottenere la ripresa dei rapporti di quest'ultimo con la sorella", non sarebbe esatta. Tale domanda in realtà fu presentata dal padre di S.B., che non aveva tuttavia alcun locus standi per presentare domande in nome del figlio. Il secondo ricorrente, da parte sua, non presentò alcuna domanda sul merito della causa e si limitò a sollecitare il deposito della decisione. Di conseguenza vi sarebbe, nella fattispecie, un mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Facendo riferimento alla sentenza Nielsen c. Danimarca del 28 novembre 1988, serie A n. 144, i primi due ricorrenti affermano che la loro qualità di madre e fratello biologici conferiscono loro il diritto di presentare il ricorso in nome di S.B. allo scopo di proteggerla. Il secondo ricorrente contesta poi l'eccezione di mancato esaurimento sollevata nei suoi confronti facendo notare che egli si è ben costituito parte al procedimento il 24 gennaio 2001, e che ha chiesto di riprendere i contatti con la sorella. Nella decisione di rigetto, il tribunale non rilevò del resto alcun motivo di inammissibilità legato allo scadere dei termini o alla capacità processuale. Infine, nonostante la sua disponibilità, i servizi sociali non lo avrebbero mai convocato per "l'inizio degli incontri". La Corte ricorda che, in linea di principio, una persona che non ha, a livello interno, il diritto di rappresentare un'altra persona può comunque, in alcune circostanze, agire dinanzi alla Corte in nome di quest'altra persona (v., mutatis mutandis, le sentenze Nielsen c. Danimarca, già cit., pp. 21-22, §§ 56-57, e Scozzari e Giunta c. Italia (GC), n. 39221/98 e n. 41963/98, § 138, CEDU 2000-VIII). Dei minori possono adire la Corte anche, e a maggior ragione, se sono rappresentati da una madre e da un fratello in conflitto con le autorità, di cui essi criticano le decisioni e la condotta alla luce dei diritti sanciti dalla Convenzione. Secondo la Corte in caso di conflitto, riguardante gli interessi di un minore, tra il genitore biologico e la persona investita dalle autorità della tutela dei minori, vi è il rischio che alcuni interessi del minore non vengano mai portati all'attenzione della Corte e che il minore venga privato di una tutela effettiva dei diritti che gli derivano dalla Convenzione. Di conseguenza, le qualità di madre e fratello biologici di S.B. sono sufficienti per conferire agli stessi il potere di agire dinanzi alla Corte allo scopo di tutelare gli interessi di S.B. La Corte osserva inoltre che nei confronti della sig.ra Roda non è mai stata pronunciata la decadenza dalla potestà dei genitori. Per quanto riguarda la seconda parte dell'eccezione del Governo, la Corte rileva che il fascicolo del ricorso contiene l'atto di costituzione in giudizio del secondo ricorrente, datato 7 gennaio 2001 e depositato presso la cancelleria del tribunale per i minorenni di Bologna il 24 gennaio 2001. Tale documento reca sulla prima pagina il mandato firmato dal ricorrente in favore dello stesso rappresentante legale del padre. Inoltre, anche se, nella sua decisione del 29 gennaio 2001 (paragrafo 34 supra), il tribunale per i minorenni diede ai servizi sociali la possibilità di convocare il secondo ricorrente e di decidere, all'occorrenza, di elaborare con lui un programma di controllo destinato a fargli "capire le esigenze e il difficile vissuto della sorella" e che poteva portare all'organizzazione di incontri con S.B., i servizi sociali non diedero alcun seguito a ciò fino al 2006. Nella stessa decisione, il tribunale per i minorenni aveva inoltre motivato il rigetto della domanda del secondo ricorrente sottolineando, da una parte, che quest'ultimo aveva sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di ogni possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al rapporto difficile tra i genitori e, dall'altra, che egli viveva con il padre, "e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello (&) potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione." In considerazione di quanto sopra esposto, l'eccezione del Governo non può essere accolta.
II - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 § 1 E 13 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti si lamentano per l'impossibilità di avere accesso al fascicolo della procedura di presa in carico di S.B., e per l'assenza nel diritto interno di un ricorso effettivo per ottenere una decisione definitiva fino al gennaio 2001. La Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita solo dopo che siano state esaurite le vie di ricorso interne e entro un termine di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva. Quando la violazione presunta consiste in una situazione continua, il termine di sei mesi inizia a decorrere solo dal momento in cui questa situazione continua viene a cessare (v., mutatis mutandis, Hornsby c. Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-II, p. 508, § 35 e Marinakos c. Grecia, (dec.) n. 49282/99, 29 marzo 2000). Nella fattispecie, i ricorrenti hanno presentato questi due motivi di ricorso nel modulo ufficiale di ricorso pervenuto in cancelleria il 22 gennaio 2003, mentre la situazione di cui essi si lamentano si era conclusa, da una parte, con la revoca, in data 31 marzo 1999, della misura che dichiarava gli atti del fascicolo coperti dal segreto e, dall'altra, con la decisione del tribunale per i minorenni di Bologna del 29 gennaio 2001, che confermava in particolare l'affidamento di S.B. e ordinava la ripresa dei contatti tra la bambina e la madre (paragrafi 12 e 32 supra). Di conseguenza questa parte del ricorso è tardiva ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, e deve dunque essere rigettata conformemente all'articolo 35 § 4 della Convenzione.
III - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 4 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti affermano che S.B. segue un programma di ippoterapia in un centro equestre, e che la stessa è anche obbligata a lavorare tutti i pomeriggi, assistendo la sua istruttrice nell'ambito di un altro programma di ippoterapia destinato a persone handicappate. Si tratterebbe di una attività il cui scopo reale e celato sarebbe quello di ottenere manodopera gratuita. Essi sostengono che da ciò deriva una violazione dell'articolo 4 della Convenzione, da solo o combinato con l'articolo 3. La Corte ritiene necessario esaminare questo motivo di ricorso solo sotto il profilo della prima disposizione. Essa deve determinare se la situazione denunciata dai ricorrenti rientra nell'articolo 4 e, in particolare, se essa può essere definita lavoro "forzato o obbligatorio". Ciò evoca l'idea di una costrizione, fisica o morale. Si deve trattare di un lavoro "richiesto (&) sotto la minaccia di una pena qualsiasi" e, inoltre, contrario alla volontà dell'interessato, per il quale quest'ultimo "non si è offerto spontaneamente" (v. la sentenza Siliadin c. Francia, n. 73316/01, § 117, CEDU 2005-&). La Corte osserva che, nella fattispecie, nulla permette di affermare che siano state esercitate costrizioni fisiche o morali su S.B., né che l'aiuto prestato all'istruttrice possa passare per un lavoro imposto contro la volontà dell'interessata. Di conseguenza, questo motivo è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
IV - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro prime lettere alla Corte del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti sostenevano che vi era stata violazione dell'articolo 10 della Convenzione in quanto le autorità pubbliche non avrebbero preso in considerazione la volontà, espressa da S.B. durante la sua audizione da parte del giudice penale, di tornare a casa con la madre. Pertanto, sarebbe stata violata la libertà di espressione di S.B. I ricorrenti non hanno ripreso questo motivo di ricorso nel modulo di ricorso pervenuto alla cancelleria via fax il 15 gennaio 2003, e poi per posta il 22 gennaio 2003. Questa circostanza dispensa la Corte dall'esaminare questo motivo di ricorso.
V - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 3 E 8 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro lettere del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti si lamentavano anche per una violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento di S.B. dalla famiglia e dell'assenza di contatti con la bambina per quasi quattro anni, e ciò senza "alcuna necessità giuridicamente fondata". Il 22 gennaio 2003 i ricorrenti hanno sollevato nuovi motivi di ricorso. Invocando l'articolo 3 della Convenzione, essi si lamentavano che la presa in carico e il mantenimento dell'affidamento ai servizi sociali senza alcuna previsione sul ritorno in famiglia esponevano la vita di S.B. a un grave pericolo. Sulla base della stessa disposizione, il secondo ricorrente si lamentava per il fatto che le azioni da lui intraprese al fine di avere contatti con la sorella non erano state minimamente prese in considerazione. Secondo i ricorrenti, i servizi sociali non agirebbero in favore del ritorno di S.B. presso la sua famiglia. La Corte ritiene che sia opportuno esaminare questi motivi unicamente sotto il profilo dell'articolo 8 della Convenzione. Essa constata che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e non si scontra con nessun'altra causa di inammissibilità. È pertanto opportuno dichiararla ammissibile.
Sul merito. Ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, "1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita (&) familiare (&). 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (&) alla protezione dei diritti e delle libertà altrui."
Sull'esistenza dell'ingerenza. Secondo il Governo, vi è stata certamente ingerenza delle autorità nella vita famigliare della sig.ra Roda e di S.B. Invece, vista la situazione concreta della famiglia, non vi è stata ingerenza nella vita privata e famigliare del secondo ricorrente, che non abitava più con la sorella. La Corte ricorda che la nozione di vita famigliare "comprende per lo meno i rapporti tra parenti, che possono svolgere un ruolo importante nell'ambito della stessa", ad esempio tra nonni e nipoti (Marckx c. Belgio, sentenza del 13 giugno 1974, serie A n. 31, § 45, e Bronda c. Italia, n. 22430/93, sentenza del 9 giugno 1998, Raccolta 1998-IV, § 51). In una causa riguardante il rifiuto di accordare l'accesso del ricorrente al nipote mentre questo era in affidamento presso una famiglia di accoglienza, la Commissione europea dei Diritti dell'Uomo si era posta il problema di stabilire se questo tipo di rapporti potessero essere inclusi nella nozione di "vita famigliare" ai sensi dell'articolo 8 (Boyle c. Regno Unito, n. 16580/90, rapporto della Commissione del 9 febbraio 1993). La Commissione sottolineò anzitutto che la convivenza non era una condizione sine qua non del mantenimento dei legami famigliari e, considerati i frequenti contatti tra il ricorrente e il nipote, nonché il fatto che il minore aveva passato molte volte il fine settimana presso lo zio, essa concluse che il legame fondamentale esistente tra i due rientrava nel campo di applicazione della nozione di "vita famigliare".
Nella fattispecie, la Corte osserva che dal fascicolo risulta che il secondo ricorrente ha vissuto in famiglia con la sorella fino alla separazione dei suoi genitori, quando egli ha deciso di seguire il padre. È vero che, almeno a partire dalla presa in carico di S.B., non vi è stato alcun contatto tra i due, ma questa circostanza non deriva solo dal suo comportamento; gli indugi dei servizi sociali vi hanno notevolmente contribuito. Pertanto, la Corte ritiene che il legame tra il secondo ricorrente e la sorella rientri nella nozione di vita famigliare e che vi sia stata ingerenza nella vita famigliare del primo. La Corte ricorda che qualsiasi ingerenza nella vita famigliare comporta una violazione dell'articolo 8 della Convenzione, a meno che essa non sia "prevista dalla legge", non persegua uno o più degli scopi legittimi di cui al paragrafo 2 di tale articolo, e non possa risultare "necessaria in una società democratica".
Sulla giustificazione dell'ingerenza. Secondo il Governo, l'ingerenza in questione era manifestamente prevista dalla legge. Il tribunale per i minorenni ha scrupolosamente rispettato le disposizioni di legge vigenti adottando misure provvisorie urgenti per la tutela della minore, conformemente all'articolo 336 c. 3 del codice civile. Poi il tribunale ha operato per chiarire i diversi aspetti della situazione, estremamente delicata e complessa, limitando per quanto possibile la portata dell'ingerenza. Per fare questo, ha riservato un trattamento diverso a ciascuno dei genitori di S.B. "in funzione delle differenze non solo nel grado di responsabilità per quanto riguarda gli abusi, ma anche e soprattutto in funzione di una valutazione attenta e differenziata delle rispettive attitudini all'esercizio dei doveri dei genitori e delle possibilità che offrivano l'uno e l'altro (&) di poter assolvere un giorno positivamente tali compiti."
I ricorrenti non contestano il fatto che l'intervento delle autorità nazionali fosse conforme al diritto nazionale. La Corte osserva che l'ingerenza in questione era prevista dalla legge e perseguiva uno scopo legittimo, ossia la tutela dell'interesse del minore ("la tutela dei diritti e delle libertà altrui"). Resta da stabilire se tale ingerenza potesse essere considerata una misura "necessaria in una società democratica". Secondo il Governo, la necessità di adottare delle misure urgenti per la tutela di S.B. e lo scopo legittimo perseguito da tali misure sono fuori discussione. I fatti eccezionalmente gravi emersi dall'inchiesta penale basterebbero a spiegare la presa in carico della minore. Il Governo sottolinea che il compito del tribunale per i minorenni non consiste nell'infliggere a dei genitori una sanzione rispetto a dei comportamenti riprovevoli, ma nell'"intervenire nelle situazioni famigliari patologiche allo scopo, da una parte, di assicurare per quanto possibile il benessere fisico e psicologico dei minori, il loro sviluppo armonioso e sereno, la loro educazione corretta, e dall'altra di aiutare gli adulti della famiglia, nella misura in cui questi ultimi sono disposti a collaborare (&), a risolvere i loro problemi (allo scopo di) permettere loro di esercitare i loro diritti di genitori in maniera positiva (&)". Anche un genitore condannato per abusi o che ha mantenuto un comportamento semplicemente negligente potrebbe dimostrare di avere una capacità di riflessione così grande e delle risorse morali e psicologiche tali da poter recuperare un ruolo di genitore positivo. Al contrario, un genitore riconosciuto innocente all'esito di un procedimento penale non è necessariamente idoneo a occuparsi dei figli e potrebbe dimostrarsi a tal punto restio a qualsiasi sostegno psicologico e pedagogico che le speranze di recupero del ruolo di genitore potrebbero essere vane o richiederebbero un lavoro paziente dall'esito incerto. Le autorità nazionali intervengono su due fronti per tutelare l'interesse del bambino. Da una parte, esse affidano quest'ultimo a un ambiente idoneo a proseguire la sua educazione e a offrirgli la protezione e le cure materiali, psicologiche e affettive di cui ha bisogno, per il tempo necessario per permettergli di elaborare positivamente il suo vissuto di sofferenza. D'altra parte, esse svolgono un lavoro di preparazione sia nei confronti del minore che degli adulti della sua famiglia, per ristabilire le relazioni che risultano ancora potenzialmente positive. Difficile e delicato, questo lavoro sarebbe difficilmente realizzabile in maniera precipitosa, tale da comprometterne il risultato finale. Il Governo fa notare che, nella fattispecie, tenuto conto degli elementi in suo possesso - ossia il risultato dell'istruzione penale, la perizia d'ufficio e l'osservazione quotidiana della personalità di S.B. da parte dei servizi sociali -, il tribunale per i minorenni ha ritenuto che la ragazza avesse bisogno di un periodo di allontanamento dalla madre e dal resto della sua famiglia, durante il quale doveva essere affidata ad una famiglia di accoglienza. Inoltre, vengono tenuti degli incontri regolarmente, in ambiente protetto, per permettere alla figlia di ricostruire una relazione positiva con la madre, considerata dal tribunale come "potenzialmente capace di recuperare il proprio ruolo grazie ad un lavoro psicopedagogico appropriato". Inoltre, gli incontri non protetti al domicilio della prima ricorrente, previsti dalla corte d'appello ma impraticabili per il momento, in particolare a causa del rifiuto di S.B., non sarebbero per questo esclusi. Quanto al secondo ricorrente, sarebbe inevitabile, secondo il Governo, che in occasione di incontri con la sorella egli possa, anche involontariamente, trasmettere messaggi ispirati dal padre, il che produrrebbe immancabilmente un effetto destabilizzante per S.B. Per questo motivo il tribunale ha interrotto i contatti tra il secondo ricorrente e la sorella, pur non escludendone in alcun modo la ripresa in futuro. Infine, le autorità giudiziarie avrebbero condotto i vari procedimenti in maniera rapida ed efficace, avendo cura di sentire anche l'opinione di S.B. Inoltre, i servizi sociali avrebbero svolto e continuerebbero a svolgere un lavoro notevole assicurando un controllo costante dell'evoluzione della situazione. In definitiva, le decisioni adottate dalle autorità italiane rientrerebbero nell'ambito del secondo paragrafo dell'articolo 8 e sarebbero conformi ai principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte in materia. I ricorrenti contestano gli argomenti del Governo. L'assenza di contatti tra essi e S.B. per un lungo periodo e lo svolgimento degli incontri tra i due ricorrenti non avrebbero prodotto altro effetto che quello di rendere difficile qualsiasi tentativo di ricostruzione di relazioni serene. Le autorità italiane non avrebbero dovuto allontanare S.B. dalla madre e dal fratello, che erano in grado di proteggerla e di sostenerla in attesa dell'esito delle indagini. La prima ricorrente afferma di avere sempre collaborato con i servizi sociali e disapprova l'assenza di un vero progetto terapeutico destinato a riavvicinarla alla figlia. Secondo lei, S.B. avrebbe dovuto essere affidata a lei, in particolare, dopo l'insuccesso dell'affidamento al centro di accoglienza, ma le autorità hanno deciso diversamente affidando la bambina a una famiglia. Infine, si sarebbero verificati importanti ritardi nell'esame della causa da parte dei giudici nazionali colpevoli, ad esempio, di avere permesso che il perito d'ufficio depositasse la propria relazione un anno dopo aver accettato il mandato, di non aver saputo controllare più efficacemente i servizi sociali che avrebbero spesso omesso di rendere conto dell'evolversi della situazione di S.B. La Corte ricorda che, se mira essenzialmente a proteggere l'individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, l'articolo 8 della Convenzione genera nondimeno degli obblighi positivi inerenti un "rispetto" effettivo della vita famigliare. In questo contesto, la Corte ha dichiarato molte volte che l'articolo 8 implica il diritto di un genitore a misure idonee a riunirlo al figlio e l'obbligo per le autorità nazionali di adottare tali misure (v., ad esempio, Ignaccolo Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 94, CEDU 2000-I, e Nuutinen c. Finlandia, n. 32842/96, § 127, CEDU 2000-VIII). Tuttavia, questo obbligo non è assoluto. La natura e la portata dello stesso dipendono dalle circostanze di ogni singolo caso, ma la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate ne costituiscono sempre un fattore importante. Se le autorità nazionali devono adoperarsi al fine di agevolare una simile collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e libertà di tali persone, e in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti riconosciuti a quest'ultimo dall'articolo 8 della Convenzione. Nel caso in cui dei contatti con i genitori rischiano di minacciare tali interessi o di pregiudicare tali diritti, le autorità nazionali hanno il compito di garantire un giusto equilibrio tra essi (Ignaccolo-Zenide, già cit., § 94). La linea di demarcazione tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato a titolo dell'articolo 8 non si presta ad una definizione precisa; i principi applicabili sono tuttavia equiparabili. In particolare, in entrambi i casi, bisogna avere riguardo al giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti; allo stesso modo, in entrambe le ipotesi, lo Stato gode di un certo margine di valutazione (v., ad esempio, le sentenze W. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 27, § 60, B. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 72, § 61, R. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 117, § 65, Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 52, CEDU 2000 IX, e Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 239, 1° luglio 2004). La Corte osserva che la questione decisiva, nella fattispecie,è quella di stabilire se le autorità nazionali hanno adottato tutti i provvedimenti che ci si poteva ragionevolmente attendere dalle stesse. Per quanto riguarda l'allontanamento di S.B. e la sua presa in carico - che i ricorrenti giudicano infondati -, la Corte osserva che il tribunale per i minorenni ha giustificato la sua decisione del 6 novembre 1998 (paragrafo 7 supra) facendo riferimento ai forti sospetti che la bambina avesse subito degli abusi sessuali da parte di membri della famiglia dei ricorrenti e ai dubbi sulla capacità di protezione della prima ricorrente. Considerando attendibili le dichiarazioni di M., il tribunale sospese la potestà di entrambi i genitori, poiché il padre sembrava direttamente implicato nei fatti denunciati e la madre incapace di offrire alla figlia la protezione necessaria. Il ricorso ad una procedura di urgenza per allontanare S.B. rientra perfettamente tra le iniziative che le autorità nazionali hanno il diritto di intraprendere nei casi di sevizie sessuali che rappresentano incontestabilmente un tipo odioso di misfatti che indeboliscono le vittime. I bambini e altre persone vulnerabili hanno diritto alla tutela dello Stato, sotto forma di una prevenzione efficace che li metta al riparo da forme così gravi di ingerenza in aspetti fondamentali della loro vita privata (v. le sentenze Stubbings e altri c. Regno Unito del 24 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, § 64, mutatis mutandis, Z. e altri c. Regno Unito (GC), n. 29392/95, § 73, A. c. Regno Unito del 23 settembre 1998, Raccolta 1998 VI, § 22, e Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 103, 9 maggio 2003). In queste condizioni, la Corte è del parere che la presa in carico e l'allontanamento di S.B. possono essere considerate misure proporzionate e "necessarie in una società democratica" per la tutela della salute e dei diritti della minore. Il contesto delittuoso veramente complesso che vedeva tra i protagonisti dei membri dell'ambiente famigliare vicino ai minori vittime di abusi poteva ragionevolmente portare le autorità nazionali a considerare che il mantenimento di S.B. a casa della madre poteva nuocere alla bambina. Pertanto, la Corte ritiene che non vi sia stata violazione dell'articolo 8 su questo punto. Quanto all'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e all'organizzazione degli incontri, la Corte ricorda anzitutto che qualsiasi presa in carico deve, in linea di principio, essere considerata una misura temporanea, da sospendere non appena le circostanze lo permettono, e che qualsiasi atto di esecuzione deve concordare con un fine ultimo: riunire il genitore e il figlio (v., tra le altre, le sentenze Olsson c. Svezia (n. 1) del 24 marzo 1988, serie A n. 130, § 81, e Covezzi e Morselli c. Italia già cit., § 118). Una interruzione prolungata dei contatti tra genitori e figli o degli incontri troppo distanziati nel tempo rischierebbero di compromettere qualsiasi possibilità seria di aiutare gli interessati a superare le difficoltà sopravvenute nella vita famigliare (v., mutatis mutandis, la sentenza Scozzari e Giunta c. Italia (GC) già cit., § 177). Pertanto, anche se la misura di allontanamento era giustificata, la Corte ha il compito di esaminare se le ulteriori restrizioni fossero conformi all'articolo 8, in applicazione del quale dovevano essere tutelati gli interessi dei ricorrenti. Se le autorità hanno l'obbligo di operare per agevolare il ricongiungimento della famiglia e i contatti tra i suoi membri, qualsiasi ricorso alla coercizione in materia è ovviamente limitato dalla preoccupazione per l'interesse superiore del figlio. Quando dei contatti con i genitori sembrano minacciare questo interesse, sono le autorità nazionali a dover trovare un giusto equilibrio tra gli interessi dei minori e quelli dei genitori (v., tra le altre, la sentenza K. e T. c. Finlandia (GC), n. 25702/94, § 194, CEDU 2001 VII). La Corte osserva che, nel novembre 1998, il tribunale per i minorenni ordinò l'interruzione dei rapporti tra la sig.ra Roda e la figlia considerando la prima per lo meno incapace di offrire una protezione sufficiente alla bambina. La necessità di mettere quest'ultima al riparo affidandola ad un ambiente protetto si imponeva in maniera evidente. Il 19 maggio 1999, tenuto conto poi del risultato delle due perizie d'ufficio - che avevano concluso per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati" e "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali" -, e alla luce delle prime relazioni di controllo depositate dai servizi sociali, il tribunale per i minorenni ritenne necessario non modificare la situazione di affidamento di S.B. I suoi genitori non erano in grado di fornirle la protezione di cui aveva bisogno e il ritorno presso la madre non era possibile in quel momento. La Corte osserva che le relazioni di controllo dei servizi sociali - depositate all'esito di molteplici incontri con i quattro membri della famiglia Bonfatti-Roda -, nonché le due relazioni del perito nominato il 19 maggio 1999, evidenziarono una grave sofferenza da parte della bambina, che i genitori attribuivano alla situazione famigliare e alla decisione presa nel 1998 di allontanare la bambina. La Corte osserva che le due proroghe del termine fissato il 19 maggio 1999 accordate dal tribunale al perito (che depositò le sue prime conclusioni su S.B. il 7 giugno 2000 e la sua relazione finale il 19 luglio 2000) hanno causato un ritardo notevole nella procedura (più di un anno e un mese a decorrere dal 24 giugno 1999, data in cui il perito aveva prestato giuramento). Pur riconoscendo che, per la sua delicatezza, questo tipo di inchiesta deve essere condotto in modo rigoroso e senza fretta, la Corte ritiene che fosse necessaria una maggiore diligenza. Al contrario, la Corte non considera irragionevole la decisione del 29 gennaio 2001, con la quale il tribunale per i minorenni confermò l'affidamento della minore ad un ambiente protetto preferibilmente di tipo famigliare, pronunciò la decadenza del padre dalla potestà dei genitori, considerati in particolare la personalità di quest'ultimo e il vissuto di paura della figlia nei suoi confronti (paragrafo 32 supra), e considerò prematura la ripresa dei contatti tra i ricorrenti, poiché la prima ricorrente non sembrava ancora in grado di venire in aiuto alla figlia e il secondo ricorrente poteva generare dei sentimenti di confusione in S.B. (paragrafi 33 e 34 supra). La Corte osserva ancora che il 7 giugno 2001, essendo stata informata dai servizi sociali della loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore, che rifiutava completamente il mondo esteriore, la corte d'appello di Bologna esortò i servizi ad attivarsi immediatamente allo scopo di far uscire la bambina dalla sua situazione di abbandono e di isolamento e di cercare di avvicinarla alla madre. Tuttavia, il primo incontro tra la madre e la figlia ebbe luogo solo il 28 marzo 2002. Era certamente necessario un lavoro di preparazione adeguato da parte dei servizi sociali, ma tale esigenza non spiega perché siano trascorsi cinque mesi prima che essi incontrassero la psicologa della sig.ra Roda, e poi gli interventi della procura e del giudice tutelare che, su richiesta della prima ricorrente, ordinarono ai servizi sociali di procedere al primo incontro e di registrarlo. In seguito, gli incontri ebbero luogo a intervalli quasi regolari. Il giudice tutelare, tuttavia, dovette essere sollecitato più volte dalla sig.ra Roda per ottenere il deposito rapido della videoregistrazione degli incontri, il diritto di intrattenere una corrispondenza con S.B., la consegna a quest'ultima di un cellulare e una informazione costante sull'affidamento famigliare della bambina (paragrafi 41-46 supra). Quanto al secondo ricorrente, la Corte osserva che, nonostante la possibilità lasciata ai servizi sociali dal tribunale per i minorenni di valutare l'opportunità di organizzare degli incontri con la sorella dopo un periodo di preparazione adeguata e accettata dall'interessato, non furono intraprese iniziative in tal senso, cosicché il tribunale, il 7 luglio 2004, (paragrafo 63 supra) reiterò il suo invito ai servizi sociali. Secondo le ultime informazioni fornite dall'avvocato dei ricorrenti, il secondo ricorrente avrebbe partecipato a dei colloqui con i servizi sociali. Nella sua decisione del 7 luglio 2004, alla luce dei risultati incoraggianti dell'affidamento famigliare, il tribunale prorogò di almeno due anni tale affidamento, e optò per il proseguimento degli incontri in luogo protetto anche in occasione di alcune festività. Tale decisione fu confermata in appello il 26 novembre 2004. La Corte constata che, se tutti questi interventi delle autorità giudiziarie sono stati adottati dopo una matura riflessione e sulla base delle indagini condotte dai periti e dai servizi sociali, non si può trascurare il fatto che il tempo trascorso a partire dalla ripresa dei contatti tra la madre e la figlia non ha agevolato il riavvicinamento tra i ricorrenti. In effetti, S.B. ha manifestato la sua volontà di non piegarsi alle decisioni giudiziarie che prevedevano un contatto più frequente e meno rigido con la madre. Informata dai servizi sociali, la procura chiese nel febbraio 2005 la sospensione dell'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore. Il tribunale accolse la domanda e, nel marzo 2005, ristabilì il principio più severo di incontri mensili in luogo protetto. Questa situazione non si è evoluta positivamente. In queste condizioni, e alla luce di quanto precede, anche tenendo conto delle reticenze manifestate da S.B., è opportuno concludere che le misure adottate per trovare un giusto equilibrio tra gli interessi della figlia e i diritti dei primi due ricorrenti ai sensi dell'articolo 8 non sono state completamente sufficienti. Pertanto, vi è stata violazione di questa disposizione a causa del protrarsi dell'interruzione dei rapporti e dell'organizzazione lacunosa degli incontri tra i primi due ricorrenti e S.B.
VI - SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione, "Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa."
Danno. I ricorrenti chiedono, per il danno materiale: 2.910,68 euro (EUR) corrispondenti al costo della psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, 60 EUR relativi alle spese per gli incontri del secondo ricorrente con i servizi sociali e 200 EUR per l'acquisto di un telefono cellulare. Quanto al danno morale, i primi due ricorrenti chiedono che venga loro accordata la somma di 100.000 EUR ciascuno e la somma di 200.000 EUR per S.B. Secondo il Governo, le somme richieste per il danno materiale non hanno alcun rapporto con le presunte violazioni, ma sono legate a una situazione oggettiva che non è di per sé contraria alla Convenzione. In effetti, le eventuali violazioni che la Corte potrebbe constatare riguardano aspetti particolari della situazione controversa, ma non mettono in discussione la decisione iniziale di allontanamento della minore o la necessità di preparare in maniera adeguata il suo reinserimento nella famiglia di origine, che non può essere negato. In particolare, la psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, opportuna per aiutarla a recuperare il suo ruolo di genitore e superare le difficoltà che le impediscono di avere un rapporto costruttivo con la figlia, non costituirebbe né una violazione della Convenzione né una conseguenza diretta di una tale violazione. Lo stesso varrebbe per gli incontri del secondo ricorrente con gli assistenti sociali. Quanto all'acquisto di un telefono cellulare per S.B., non si comprende bene il legame con la situazione controversa. Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché essa determini equamente il danno morale, precisando che le somme richieste sono eccessive e prive di qualsiasi giustificazione. In particolare, la somma chiesta dal secondo ricorrente non ha alcun rapporto con la vera sofferenza che egli può aver provato. Quanto alla somma richiesta in nome di S.B., si dovrebbe tenere conto del fatto che quest'ultima continua a manifestare il proprio benessere nella situazione attuale di affidamento in famiglia. Sarebbe dunque sorprendente che la Corte le accordasse una somma per compensare una presunta sofferenza che essa evidentemente non prova. In conclusione, il Governo ritiene che una eventuale constatazione di violazione costituirebbe un'equa soddisfazione sufficiente per tutti i ricorrenti e che, in ogni modo, le somme richieste dovrebbero essere contenute entro limiti più ragionevoli. La Corte non percepisce alcun legame di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale addotto e rigetta tale domanda. In compenso, deliberando equamente, essa ritiene opportuno accordare a ogni ricorrente la somma di 3.000 EUR per il danno morale.
Spese. La prima ricorrente chiede 8.700 EUR per l'assistenza della sua psicologa durante gli incontri, 18.035 EUR per le spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni interne e 21.930 EUR per quelle sostenute dinanzi alla Corte. Il secondo ricorrente chiede 10.965 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte. Il Governo afferma che le spese sostenute nell'ambito dei procedimenti interni non sono dovute, in assenza di qualsiasi rapporto con le presunte violazioni. Secondo lo stesso, tali spese erano necessarie per le esigenze della "difesa" dinanzi alle autorità giudiziarie. Quanto alle spese relative al procedimento ai sensi della Convenzione, esse sarebbero eccessive rispetto alla "natura e alla relativa semplicità della causa, nonché alla consistenza dell'attività di difesa effettivamente svolta e realmente necessaria". Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché tali spese siano liquidate in misura ragionevole e conforme alla sua pratica. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui sono stabilite la realtà, la necessità e la ragionevolezza dell'importo delle stesse. Nella fattispecie, e tenuto conto degli elementi in suo possesso e dei criteri sopra menzionati, la Corte considera ragionevole la somma di 6.000 EUR per le spese e la accorda ai primi due ricorrenti congiuntamente.
Interessi moratori. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL'UNANIMITÀ,
Dichiara il ricorso ammissibile per quanto riguarda il motivo relativo all'articolo 8 della Convenzione e inammissibile per il resto;
Dichiara che non vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda la presa in carico e l'allontanamento di S.B.;
Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda l'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e l'organizzazione lacunosa degli incontri;
Dichiara che lo Stato convenuto deve versare, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione,
3.000 EUR (tremila euro) a ciascun ricorrente per il danno morale,
6.000 EUR (seimila euro) ai primi due ricorrenti congiuntamente per le spese,
più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;
che a decorrere dallo scadere del termine suddetto e fino al versamento, tali somme dovranno essere maggiorate di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto. Fatto in francese, e poi comunicato per iscritto il 21 novembre 2006 in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
S. NAISMITH Cancelliere aggiunto
J.-P. COSTA Presidente
Affidi: Pm avvisò su relazioni false. A novembre tentò di fermare provvedimento contro un genitore. Ansa il 27 luglio 2019. La Procura di Reggio Emilia avvertì il Tribunale dei minori di Bologna che le relazioni che avrebbero portato alla revoca dell'affidamento ai propri genitori di un bambino coinvolto nell'inchiesta 'Angeli e Demoni' sugli affidi in Val d'Enza non erano corrette. Nonostante questo il bambino fu mandato in comunità, dove è rimasto fino agli arresti delle settimane scorse. Il caso risale a novembre quando la Pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione, a quanto si apprende, preceduta da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura Reggiana, infatti, dimostrò, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre non aveva condotte penalmente rilevanti tali da giustificare un provvedimento come l'affido del bambino in comunità. Che però fu eseguito comunque.
Bibbiano, il giudice minorile ignorò l'allarme del magistrato. Valentina Errante Domenica 28 Luglio 2019 su Il Messaggero. La procura di Reggio Emilia aveva avvertito il Tribunale dei minori di Bologna che alcune relazioni sui bambini sottratti alle famiglie della Val d’Enzapo tessero presentare anomalie. In particolare l’alert del pm riguardava un bambino coinvolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni” che venne affidato ugualmente a in comunità, dove è rimasto fino agli arresti dei 18 indagati dello scorso giugno delle settimane scorse. Vanno avanti le indagini sul caso di Bibbiano, dove quattro dei sei piccoli coinvolti nelle false perizie, e sottratti alle famiglie sulla base di abusi e maltrattamenti mai subiti, sono tornati dai genitori naturali. Lo scorso novembre la pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, che aveva avviato le verifiche sulla base di un numero spropositato di affidi nella Val D’Enza, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione preceduta anche da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura reggiana, infatti, dimostrava, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre, al quale stava per essere sottratto il bambino, non aveva condotte penalmente rilevanti, comunque tali da giustificare un provvedimento come l’affido del figlio a una comunità. Il Tribunale, però, non avrebbe tenuto conto di quelle preoccupanti segnalazioni, tanto che il piccolo, poi, era comunque stato allontanato dai genitori. Dalle intercettazioni emerge anche che Federica Arginolfi, dirigente del servizio sociale della Val d’Enza, agli arresti domiciliari, avrebbe valutato per alcune coppie di associazioni lgbt di una città del Sud Italia un affido a tempo indeterminato, a fronte della manifestazione, da parte degli aspiranti genitori omosessuali, di potersi affezionare ai piccoli. La donna li rassicurava sostenendo che il perdurare di una valutazione negativa sui genitori, ritenuti inadeguati dalle relazioni degli stessi servizi sociali, avrebbe di fatto reso l’affido a tempo indeterminato, come una sorta di adozione.
AFFIDI FANTASMA. Dagli atti emergono anche casi di affidi fantasma. Come emerge dalla testimonianza di una donna, cuoca in una struttura per ragazzi. «Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori. Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri». Agli atti, invece, risultava affidataria di una bambina: «Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in “affido sostegno” tale bambino». Secondo la signora, la Arginolfi, senza spiegarle il motivo, le avrebbe chiesto di diventare il tramite delle spese per la psicoterapia. Un modo, secondo gli inquirenti per creare false retribuzioni.
Intanto pochi giorni fa è stato rinviato l’incontro tra uno dei minori coinvolti nell’inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali.
Affidi illeciti: “Il Tribunale minorile di Bologna sapeva”. Maria Cristina Fraddosio su Il Fatto Quotidiano 28 luglio 2019. Il Tribunale dei Minori di Bologna sapeva che uno degli affidi autorizzati dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza, finito nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, per cui sono indagate 29 persone, era illecito. La Procura di Reggio Emilia aveva comunicato che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. A novembre scorso il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi si era rivolta al giudice minorile Mirko Stifano. Lo aveva prima chiamato, annunciandogli l’urgenza di interrompere l’iter di allontanamento, e poi gli aveva inviato gli atti, dimostrando che quanto riportato dai servizi sociali non era vero. Il Minore doveva essere portato via a causa delle condotte penali di suo padre riscontrate dal servizio sociale. Condotte che, come avrebbe riferito la pm Salvi a Stifano, non risultavano tali da procedere. Ma la sua richiesta è caduta nel vuoto. Il bambino è finito ugualmente nel centro “La Cura” di Bibbiano, dov’è rimasto fino all’ordinanza del giudice Luca Ramponi, che ha disposto gli arresti domiciliari per sei persone, tra cui il fondatore del Centro Hansel & Gretel Claudio Foti (la misura per lui poi è stata attenuata). Il minore in questione è uno dei dieci finiti nel giro degli affidi illeciti. Potrebbe trattarsi del ragazzino di origine straniera la cui abitazione veniva descritta dai servizi sociali come “spoglia” e “priva di giochi”. Dettagli poi contraddetti da un sopralluogo dei Carabinieri. Secondo l’accusa, Federica Alfieri, psicologa Asl, e Annalisa Scalabrini, assistente sociale, riportavano nella relazione, poi trasmessa dalla dirigente del servizio sociale, Federica Anghinolfi (personaggio chiave nell’inchiesta), al Tribunale dei Minori, il falso. “Lasciavano intendere uno stato di denutrizione del bambino”, poi smentito dal pediatra. Descrivevano il minore come “depresso”, a causa di suo padre soggetto dedito al consumo di alcolici e violento. “Pare che il padre abbia un atteggiamento molto aggressivo e che sia stato coinvolto in diverse risse”, avrebbero dichiarato. Alla figura paterna avrebbero imputato anche una cattiva gestione del denaro, “basando tale assunto esclusivamente sul dato del mancato pagamento di alcune rette scolastiche”. Notizia poi dimostratasi falsa. Per l’accusa, è vero che il padre era stato fermato 2 volte per guida in stato di ebbrezza, ma 10 anni prima e con un livello modesto di positività al test. Infatti, i giudici considerano un’esagerazione ritenere che fosse dipendente da alcool. Per questo minore, i servizi sociali avevano richiesto il collocamento in luogo protetto assieme alla madre. Il decreto di allontanamento del Tribunale dei minori di Bologna veniva eseguito dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza il 22 novembre 2018. Presumibilmente, qualche giorno prima la pm Salvi aveva cercato di impedirne l’attuazione, rivolgendosi direttamente al giudice minorile. Ma viene allontanato ugualmente e portato presso “La Cura” di Bibbiano. La madre lo segue e l’assistente sociale, Francesco Monopoli, avrebbe commentato così la sua presenza: “Gli dirà guai a te se parli”. Influenzato dalla madre, il minore avrebbe negato gli abusi (mai avvenuti). Non si esclude invece, che abbia assistito ad aggressioni del padre nei confronti della madre.
La Sardegna colpita dal "metodo Foti". Si riapre il caso della bidella suicida. Sardiniapost.it il 27 luglio 2019. Due anni, un percorso diventato un calvario insostenibile per una ex bidella di Sestu che, dopo 42 anni di lavoro, si trova coinvolta in una vicenda giudiziaria con un’accusa terribile: reato di violenza sessuale. A riportare alla luce la storia di Agnese Usai, 62 anni, collegandola ai fatti di Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli sulle pagine del Fatto Quotidiano in cui viene descritto un percorso pieno di dubbi che ha portato a un epilogo tragico per la bidella che, nel 2018, si è tolta la vita lasciando un biglietto con scritto “sono innocente”. Tutto inizia nel 2016 quando la donna scopre di essere indagata dalla Procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. È dal giorno che un filo rosso lega la Sardegna a Claudio Foti e ai suoi seguaci. I fatti risalgono al 2014 quando Agnese lavora in una scuola materna frequentata da una bimba di 4 anni: i genitori della piccola hanno notato negli ultimi tempi dei comportamenti strani. La piccola non vuole fare il bagnetto e ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. Una sera la piccola – riporta il quotidiano – ammette che non vuole lavarsi perché ha paura dei mostri e racconta che la signora Agnese, in bagno, le accarezza la patatina e le lecca la faccia. È a questo punto che i genitori si rivolgono a una psicologa della Asl di Cagliari che ha spesso partecipato a incontri del Cismai (associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali di Massa Finalese a Bibbiano) e di Hansel & Gretel ed è esperta nella terapia Emdr, quella della macchinetta dei ricordi. Appuntamenti in cui c’erano, il alcune occasioni, Claudio Foti e Nadia Bolognini (coinvolti nella vicenda Angeli e Demoni). La psicologa, dopo aver ascoltato il racconto dei genitori conferma che i sintomi sono riconducibili a un possibile abuso. La bimba, nel frattempo inizia a frequentare una nuova scuola, mentre tra il 2015 e 2016 vengono interrogati il preside e alcune maestre. Nessuno ha avuto segnalazioni sul comportamento della bidella, una maestra si limita a dire che la bambina non ha mai manifestato segnali di disagio e un’altra sostiene che “Agnese era la collaboratrice ideale e qualche bambino era anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Nel frattempo per Agnese il tempo passa senza perquisizioni, non vengono messe telecamere nell’asilo e il suo telefono verrà intercettato solo dopo il 2016 ma senza alcun esito. Eppure la bambina racconterà che la bidella la riprendeva in bagno con il cellulare, ma quello di Agnese è un modello vecchio che non fa video e non naviga in rete. Dopo due anni e mezzo, nel 2017 per l’incidente probatorio, viene chiamata dalla psicologa cagliaritana una consulente di parte Cleopatria D’Ambrosio, che fa parte del direttivo dell’associazione "Rompere il silenzio" di Claudio Foti. Anche per lei i segni dell’abuso sono presenti, nonostante la per la consulente del giudice la piccola è parsa senza particolari segni post traumatici. Passano il tempo e dopo due anni di percorso con le psicologhe, un giorno il fratellino della piccola racconterà che la sorellina “ha provato a infilarmi un dito nel culetto”. Crescendo, i ricordi della minore si fanno più nitidi, tanto che chiama in causa anche un’altra maestra che “c’era sempre quando Agnese mi faceva del male, sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina”. Un’accusa gravissima sulla quale, però, nessuno ha indagato. Infine quando il giudice ha chiesto alla bimba di descrivere Agnese la risposta è stata ha i capelli gialli e lunghi sino alle spalle, ma la bidella aveva i capelli cortissimi e bianchi. Tanti i dubbi e le dichiarazioni contraddittorie attorno a questa vicenda, anche perché la bimba non è mai stata portata da un ginecologo per una visita. Per la bidella si profilava un processo, troppo per lei che il 6 maggio del 2018 ha deciso di togliersi la vita, perché non sopportava più le accuse.
Inchiesta Angeli e demoni, pista sarda: avvocato Concas smontò le tesi di Foti. Sardiniapost.it il 17 luglio 2019. L’inchiesta "Angeli e Demoni" che ha scoperchiato un vaso di Pandora sugli affidamenti illeciti dei minori ha rami molto lunghi, che arrivano fino alla Sardegna. Il filo che collega alcuni eventi è nelle mani di Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri, agli arresti domiciliari perché coinvolto nell’inchiesta. Foti, come ricorda il settimanale Panorama, fu perito di parte in un processo del 2001 ai danni di un orologiaio cagliaritano, accusato di aver abusato sessualmente dei figli, abusi ai quali avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo e un amico. Accuse crollate in tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione, ma con un intermezzo in cui Foti fu chiamato per una perizia sulle presunte vittime. A difendere l’imputato fu il decano dei penalisti sardi, l’avvocato Luigi Concas, che non è sorpreso del coinvolgimento del consulente di Moncalieri nella vicenda: “Aveva la tendenza ad assumere il ruolo di accusatore, quasi da Pubblico ministero travestito da consulente”. Il comportamento di Foti era chiaro: “Aveva un orientamento preciso e quello condizionava tutte le sue scelte. Secondo me non era ambizione ma proprio una convinzione sbagliata”. A evidenziare come la linea da seguire fosse solo una c’è un fatto, anche marginale, che riguarda un disegno chiesto da Foti a una delle presunte vittime. “Era un disegno che sarebbe servito ai consulenti del Pubblico ministero”, racconta Concas. Il disegno fu interpretato come un organo genitale maschile con una serie di punte, ma l’intuizione di Concas permise di capire che il bambino aveva disegnato Goku, un personaggio dei cartoni animati in voga in quel periodo. “Lui dava dei fatti un’interpretazione particolare. Ricordo che ci furono molte polemiche e tante affermazioni gli furono contestate”. Un’onta pesante che superò indenne tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione. E in Sardegna c’è anche un’altra vittima delle forzature, un professore che ora vive a Oristano e che, nonostante la piena assoluzione dalle accuse, ha perso il dono più grande di poter riabbracciare le figlie. Questi sono due casi ‘sardi’ ma simili ad altri che in tutta Italia si sono verificati e che sono stati condizionati da forzature nelle perizie. Foti fa parte di un sistema che ha coinvolto operatori e politici nella zona di Reggio Emilia: l’inchiesta "Angeli e Demoni", infatti, ha svelato un sistema perverso, in cui i bambini venivano ingiustamente sottratti alle proprie famiglie con motivazioni gravi ma figlie di forzature.
Agnese, la bidella suicida di Sestu e il filo rosso con Bibbiano. Youtg.net il 27 luglio 2019. Compaiono anche nomi di psicologi collegati al caso Bibbiano nell'inchiesta per presunti abusi si una bimba di 4 anni che aveva portato al suicidio di Agnese Usai, bidella appena andata in pensione, che si era tolta la vita a maggio del 2018, sotto il peso di accuse pesantissime. "Sono innocente", aveva scritto su un biglietto. Qualche mese prima aveva ricevuto un avviso di conclusione dell'inchiesta per pedofilia condotta dalla Procura di Cagliari nei suoi confronti. Un'indagine scaturita da accuse partite da una bimba che aveva raccontato di essere stata toccata da lei, nelle parti intime, nel bagno della scuola materna nella quale lavorava. Aveva detto tante altre cose, la bimba, nel corso del tempo. Alcune vicende raccontate contraddicevano altre dichiarazioni. Ma il fascicolo del pm si è riempito. Tra i protagonisti spuntano "nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia". Come? A ricostruire la vicenda, e a tracciare una linea rossa tra Sestu e Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli: due pagine su Il fato Quotidiano che partono da lontano. Fino al tragico epilogo.
Questo il testo dell'articolo uscito oggi su Il Fatto Quotidiano del 27 luglio 2019a firma di Selvaggia Lucarelli (ripreso dal post della pagina Facebook della stessa giornalista). Quando mi sono avvicinata a questa recente storia tragica e incredibile che racconto oggi sul Fatto non sapevo che ancora una volta avrei trovato dei nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia. E invece leggete in quale morsa orribile di accuse campate in aria è finita Agnese, questa povera bidella sarda che alla fine un anno fa si è tolta la vita in un bagnetto, con un braciere, per la vergogna e la spietate certezze di certe psicologhe. (per non parlare delle indagini).
I carabinieri le bussano a casa, a Sestu, la vigilia di Natale del 2016. Agnese Usai ha 62 anni e quello è il suo primo Natale da pensionata dopo 42 anni di lavoro nelle scuole come bidella. Lei, che da giovane era stata bellissima, non si è mai sposata. Come tante donne della sua famiglia ha scelto di dedicare la sua vita al lavoro e quel lavoro nelle scuole è stato la sua vita. Mai una macchia, mai un problema. Sì, qualche discussione con i colleghi perché Agnese certe volte è un po’ scorbutica, ma è amata e rispettata. “Che ho fatto?”, domanda ai carabinieri che le chiedono di firmare. “Ah, se non lo sa lei…”, le rispondono con un velato sarcasmo. Agnese scopre di essere ufficialmente indagata dalla procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. Da questo momento, quel tratto di penna che unisce in tutta Italia tante storie di accuse false, assurde o zoppicanti di minori e che riconducono con un’impressionante frequenza a Claudio Foti e ai seguaci del suo metodo, arriva anche lì, in Sardegna, e disegna un nuovo intreccio, oltre che il destino di Agnese. Un destino breve, perché la bidella si toglierà la vita due anni dopo gridando la sua innocenza. La storia inizia nel 2014. Agnese lavora da un paio di mesi in una scuola materna frequentata da una bambina di 4 anni che chiameremo Stella. Una bambina di cui lei neppure si ricorda, quando scopre la denuncia. I genitori della piccola, entrambi non giovanissimi e profondamente religiosi, vicini all’ambiente neocatecumenale, da qualche tempo hanno notato che Stella ha dei comportamenti strani. Non vuole fare il bagno, corre nuda per la casa, ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. “Fa salti troppo alti per la sua statura” e “Si arrampica sui mobili”, racconterà poi la mamma ai carabinieri. Quelle cose che nessun genitore ha mai visto fare ai propri figli, insomma. Stella cerca anche di baciare altri bambini o le mani dei genitori. Vuole lavarsi spesso la patatina, dice che la sua patatina ha bisogno di bere. Il 10 novembre la mamma la va a prendere a scuola e la trova bagnata di pipì. Le dice che deve fare la pipì in bagno, che trattenendo lo stimolo si può ammalare. La sera, ancora agitata, la madre torna sul discorso e la bambina ammette che non va in bagno perché ha paura dei mostri. “I mostri del cartoncino di signora Agnese”, spiega. Interrogata con insistenza, afferma anche che la signora Agnese in bagno le accarezza la patatina e le lecca la faccia. Dunque la bambina si farebbe la pipì addosso per non vedere più Agnese che in effetti qualche volta accompagna i bambini in bagno e li aiuta a pulirsi. Quello che fanno i bidelli, insomma. Quell’Agnese che in effetti potrebbe averle “accarezzato la patatina”, ma magari per asciugarle la pipì. Che magari l’ha sgridata in modo un po’ brusco perchè forse Stella ha sporcato il bagno. Quell’Agnese che le lecca la faccia. Una perversione bizzarra per una bidella con 42 anni di attività senza mai un’ombra. I due genitori, allarmati, si fanno suggerire dagli amici della parrocchia una psicologa a cui rivolgersi. La psicologa è Elisabetta Illario della Asl di Cagliari, il cui curriculum racconta un profondo e continuativo legame sia nella formazione professionale che in qualità di relatore ad incontri del Cismai e di Hansel e Gretel. Il Cismai (la cui metodologia non è riconosciuta dalla comunità scientifica) è l’associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali che sono stati al centro dei casi più contestati, da Rignano Flaminio a Massa Finalese fino ad arrivare a Bibbiano. E al Cismai è stata iscritta per un lungo periodo anche l’associazione Hansel e Gretel. La Illario è anche esperta in terapia Emdr e il suo nome è su varie locandine di incontri con Claudio Foti, Nadia Bolognini (Angeli e demoni), Federica Anghinolfi (Angeli e Demoni), Andrea Coffari (avvocato di Foti), Pietro Forno (pm del caso Lucanto), Cleopatra D’Ambrosio (caso Sorelli, Brescia) e così via. La psicologa Illario ascolta il racconto dei genitori e afferma che i sintomi sono compatibili con un possibile abuso. Senza neanche vedere la bambina. Fa una segnalazione alla Procura. Stella non va più a scuola. Nei giorni successivi, diranno poi i genitori, a casa la bimba comincia a sfregarsi la patatina contro i mobili o a toccarsi per poi smettere improvvisamente. Tutto questo accade sempre e solo in loro presenza. Nessuno, né a scuola né altrove, la vedrà mai fare cose simili. L’indagine parte da qui, da fatti che sarebbero accaduti nell’ottobre del 2014. Fino a luglio 2015 la Procura non si muove. Intanto però la psicologa Illario “accompagna” i due genitori e la bimba nel percorso, vedendo Stella senza registrare gli incontri. La bambina, secondo genitori e psicologa, aggiungerà alcuni particolari, tra questi uno piuttosto inquietante: Stella ha raccontato alla maestra Tania le molestie di Agnese, la maestra Tania le ha detto: “La spedisco nel sistema solare” ma poi non ha fatto niente. Questa maestra non sarà mai interrogata sulla grave questione. Stella comunque sembra riprendersi presto, dopo un mese dalla rivelazione inizia già a frequentare una nuova scuola. Tra il 2015 e il 2016 vengono interrogati (con l’obbligo di segretezza) il preside e alcune maestre. Il preside afferma che non ha mai ricevuto alcuna segnalazione sulla bidella Usai da genitori e personale. Viene interrogata la maestra Carla, che si limita a dire che Stella non ha mai manifestato segnali di disagio. L’altra maestra dice che Stella si era fatta un paio di volte la pipì addosso e che “Agnese era la collaboratrice ideale, qualche bambino si era dimostrato anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Agnese intanto è ignara di tutto. Non subisce perquisizioni. Non vengono messe telecamere nell’asilo. Nulla. (verrà a lungo intercettato il suo telefono solo dopo il 2016, senza alcun esito) La bambina, in seguito, affermerà che Agnese in bagno la riprendeva col cellulare e le faceva fare dei balletti, ma Agnese ha un cellulare vecchio che non fa video e non ha la linea per navigare. Il bagno è 1 metro e 50 di larghezza, difficile anche muoversi. L’incidente probatorio inizia nel 2017, due anni e mezzo dopo i fatti oggetto di denuncia riguardanti una bambina che ai tempi aveva 4 anni, dunque in piena età evolutiva. E qui subentra un personaggio interessante. La psicologa consulente di parte della famiglia di Stella, nel momento in cui inizia l’incidente probatorio, è Cleopatra D’Ambrosio, già citata perchè relatrice a vari incontri con la psicologa Illario, colei che ha raccolto la denuncia dei genitori di Stella, e che è nel direttivo di “Rompere il silenzio”, associazione del fondatore di Hansel e Gretel Claudio Foti. Ma c’è di più. Cleopatra D’Ambrosio entrò in contatto con alcuni genitori del famoso caso Sorelli a Brescia, organizzando incontri per aiutare le mamme dell’asilo. Nel 2003 un prete, sei maestre e un bidello furono accusati di pedofilia ai danni di 23 bambini. La D’Ambrosio ai tempi fornì (a pagamento) libricini tipo “fumetti” ai genitori con indicazioni su come interrogare i bambini. Durante il processo spuntarono fuori questi libretti, l’avvocato della difesa chiese al consulente del pm Marco Lagazzi: “E’ corretto dire che consegnare questi libretti in mano ai genitori è come chiedere a un genitore “ti consegno un bisturi, fai tu l’operazione di appendicite?”. Il consulente rispose: “Questo non è un bisturi, è una sega elettrica”. Lo stesso consulente chiese quei libretti al giudice “per mostrare ai miei studenti all’Università cosa non si deve fare nell’ascolto del minore”. Il nome della D’Ambrosio nei verbali di quel processo compare 600 volte. Prete, maestre e bidello furono tutti assolti. Le accuse dei bambini erano false. Ma non finisce qui. La D’Ambrosio è anche quella che afferma: “E’ comprovato scientificamente. Un trauma non elaborato può essere trasmesso nel DNA fino a quattordici generazioni”. In pratica un bambino potrebbe soffrire per un abuso subito da un suo trisavolo, a sentir lei. Dopo il disastro dell’asilo Sorelli, la D’Ambrosio arriva anche qui. Nella materna di Sestu. Viene chiamata addirittura da Brescia, visto il curriculum. Durante l’incontro della consulente del giudice Patrizia Cuccu con Stella per una perizia, la D’Ambrosio fa entrare nella stanza da cui lei (e solo lei, come si era stabilito) poteva assistere, anche i genitori di Stella. La bambina entra in quella stanza, trova i genitori, c’è un’accesa discussione tra il perito del giudice e la D’Ambrosio. Quest’ultima afferma “Sono stata io a farli entrare, non capisco perché non debbano essere autorizzati a guardare dal vetro” e nella confusione il papà di Stella urla: “Hanno stuprato mia figlia!”. Cosa che Stella potrebbe aver udito. L’esito della perizia è che ci sono segnali di “invischiamento", che la bambina presenta disagio e non particolari sintomi post-traumatici ma che la sua famiglia potrebbe aver diminuito la severità delle conseguenze dell’abuso. E comunque, i segnali dell’abuso sono stati rivelati dalla bambina alla psicologa Illario e ai genitori. Insomma, la psicologa crede alla psicologa. La D’Ambrosio, nella sua consulenza, evidenzia che Stella ha un contenimento del trauma perché la psicologa Illario ha saputo ascoltare e guidare lei e i genitori. Che il trauma comunque perdura anni (non erano secoli?), che se alla consulente del giudice Stella è parsa senza particolari segni post-traumatici è perché ci vuole l’ascolto empatico da parte degli adulti. E quindi, nella consulenza, cita i suoi riferimenti nel campo dell’ascolto dei minori: Claudio Foti, Pietro Forno (pm titolare dell’inchiesta nel caso Lucanto, quella finita con la condanna in primo grado di un padre innocente ricostruita nella fiction con la Ferilli), il Cismai. Molte chiacchiere. Manca solo una cosa: uno straccio di prova. I genitori non hanno mai portato Stella dal ginecologo per appurare se ci sia stata deflorazione, e questo nonostante nell’agosto del 2016, quando ormai la bambina usufruisce dell’ascolto empatico della psicologa Illario da due anni, il fratellino Sandro corra dalla mamma dicendo: Stella ha provato a infilarmi un dito nel culetto! La bambina verrà interrogata sulle ragioni di tale gesto e dirà che l’ha fatto perché le andava e poi perchè si annoiava cambiando versione più volte finché col linguaggio tipico di una bambina, affermerà: “Ero gelosa di Sandro perché a lui la maestra Agnese non aveva fatto male, avevo una grande tristezza e rabbia dentro, pensavo andassero via toccando il culetto a lui ma invece sono aumentate”. Insomma, nel 2016, dopo due anni dalla denuncia, a ridosso dell’inizio dell’incidente probatorio, le accuse diventano più gravi, la memoria della bambina anziché più flebile si fa più nitida: la bidella Agnese non la accarezzava più. Le infilava le dita nella patatina e nel culetto. Il giudice ascolta la bambina nel marzo del 2017 e l’audizione aggiunge nuovi pezzi all’assurdo puzzle di accuse. Stella dice che Agnese la toccava e la leccava ma che lei non doveva leccare Agnese come invece precedentemente affermato. Non si ricorda più che in bagno c’erano i mostri “nel cartoncino di Agnese”. Poi - e questa è l’assurdità più grossa - aggiunge: “Maestra Carla c’era sempre quando Agnese mi faceva del male. La maestra di religione, proprio quella che insegna a amare Dio, dovrebbe essere licenziata! Sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina!”. Quindi la bambina accusa una maestra di partecipare all’abuso descrivendo porte con oblò che in quella scuola, badate bene, non esistono. Un’accusa gravissima, eppure nessuno indaga su quella maestra o la convoca per appurare se sia la verità. Infine il giudice chiede alla bimba di descrivere Agnese. Stella risponde che ha i capelli gialli e lunghi fino alle spalle. E’ clamorosamente falso. Agnese aveva i capelli cortissimi e bianchi. Non solo. In un’udienza il difensore della Usai, Walter Pani, fa notare come nel 2014, l’anno in cui la bambina denuncia il fatto (e manifesta i disagi elencati dai genitori), il fratellino subisca un’importante operazione a la famiglia debba trasferirsi per un po’ a Roma. Lo stesso anno muore il nonno di Stella. Inoltre Stella è nata prematura e i primi tre anni di vita non ha potuto frequentare il nido e altri bambini. La mamma quando lei ha due anni e mezzo deve subire una lunga ospedalizzazione. Insomma, i genitori sono certi che nel 2014 Stella sia cambiata per una bidella cattiva, anziché per una situazione familiare complessa. Senza una prova, nonostante le tante dichiarazioni false o contraddittorie di una bambina che all’epoca dei fatti aveva 4 anni e viene interrogata due anni e mezzo dopo, senza una visita ginecologica, ma con perizie e consulenze che suggeriscono l’abuso in base a sintomi che nessuno oltre la famiglia e le psicologhe ha mai notato, il pm Gilberto Ganassi non archivia e il 2 maggio 2018 la Usai si vede notificare la chiusura delle indagini. Capisce che si va verso un processo. Efisio, il fratello di Agnese, mi racconta che lui e suo fratello avevano sempre cercato di proteggerla dall’iter giudiziario: “Ci occupavano noi delle questioni legali per tenerla fuori, eravamo sicuri che avrebbero archiviato, ci sembrava tutto così sciatto, campato in aria. Purtroppo quella notifica è arrivata nelle sue mani e lei non ha più sopportato le accuse”. Il 6 maggio del 2018, quattro giorni dopo, Agnese si chiude in un piccolo bagno che dà su un cortile dove c’è la sua casa. Prova a far arrivare il fumo della marmitta di uno scooter tramite un tubo nel bagno ma non ci riesce. Allora usa un braciere, lo accende, lascia che l’aria si consumi e muore. Scrive “Sono innocente” in alcuni biglietti che ha in tasca. La troveranno suo fratello e suo nipote, distesa per terra. Uccisa dal fumo. Quello denso, irrespirabile, del sospetto. “In un biglietto aveva chiesto che ai suoi funerali non ci fosse nessuno a parte la famiglia. Invece era pieno di gente, tutti sapevano che era innocente”, mi dice il fratello Efisio, con un filo di voce.
"STO VIVENDO UN INFERNO". Anticipiamo ampi stralci della storia di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Stefania racconta che gli assistenti sociali di Reggio Emilia sono entrati in casa sua con l’inganno, portando via sua figlia. A cento giorni di distanza, ancora non ha notizie della sua bambina. Articolo di Terry Marocco pubblicato da “la Verità” il 31 luglio 2019. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest'anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell' Enpa, l'Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all' esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti.
Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L' avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l' hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l' hanno portata, se è in una comunità o affidata a un' altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l' inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. []Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell' educazione. []Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». []Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent' anni. Iniziai a fumare l' eroina. [] Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all' incontro con l' uomo sbagliato. [] Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione».
L' inizio del dramma. Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L'ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all' ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi []». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». []Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni». Spiega l'avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C' è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d' affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». [] Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l' avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l' assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova [].La settimana scorsa c' è stata l' udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l' intervento di un consulente tecnico d' ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare.
«Ho diritto a essere una mamma [...]».
Bibbiano. "Così mi hanno portato via mia figlia". Marco e Stefania raccontano la storia della loro figlia, portata via da casa 5 mesi fa da Polizia ed assistenti sociali, e di una vita da allora nell'inferno. Terry Marocco il 6 agosto 2019 su Panorama. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest’anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell’Enpa, l’Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all’esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti. Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L’avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l’hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l’hanno portata, se è in una comunità o affidata a un’altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l’inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. La casa è pulita, arredata con semplicità, le vetrinette con i bicchieri, foto di famiglia e un gigantesco elefante di pezza abbandonato sul divano. Accanto al tavolo c’è il seggiolone con tre bavaglioli e i giochini appoggiati sul piano. «Abbiamo ritirato molti dei suoi peluche, non riuscivamo più a guardarli». Al piano superiore, nella camera dove dormivano tutti e tre, Stefania apre i cassetti dell’armadio blu. Prende in mano i piccoli golfini, lavati e stirati con cura. «L’hanno portata via in pigiama senza neanche vestirla». Accanto c’è la camera della nonna e poi la stanza dei giochi: un gufo, la lavagnetta con i colori e una mini Vespa rosa. «È un regalo di compleanno. Il 29 marzo aveva compiuto due anni. Non l’ha mai usata». Si scende nel salotto che dà su un giardinetto, scivolo, altalene, il girello. Sembrano irreali, come in una foto di Luigi Ghirri, appoggiati sull’erba ad aspettare il ritorno della bambina. «Avevamo fatto una gita lungo il torrente Crostolo, lei trovò un coniglietto e lo teneva qui a casa. È morto la settimana dopo che è stata portata via». Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell’educazione. «Ero troppo timida, non ce la facevo a continuare». Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». Vicino al letto si è costruita un piccolo altare con Santa Rita e Sant’Antonio, candele e disegni di angeli. Sul comodino i Decreti di Saint Germain. «Quando cala la notte mi ritrovo qui da sola. Marco spesso resta al piano di sotto. Io guardo il lettino vuoto, ai piedi del nostro. Il cuscinetto a forma di mucca da cui non si separava mai. Dormiva solo con quello. E penso che ho perso l’amore più grande della mia vita. Ho vissuto solo per crescerla, per stare con lei ogni attimo. Era un rapporto totalizzante, incondizionato. E ora non c’è più. Di giorno mi alzo e combatto, ma nel buio sale una tristezza profonda, il dolore mi attanaglia dentro. Resto sveglia, in silenzio. Medito, prego». Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent’anni. Iniziai a fumare l’eroina. Non sapevo neanche bene cosa fosse, quella stagnola scaldata riempiva il vuoto che avevo nel cuore. Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all’incontro con l’uomo sbagliato. «Lo conobbi in una clinica a Parma, dove ero andata per disintossicarmi, allora lo chiamai amore, non era così. Ci sposammo appena usciti, rimasi incinta, ma all’inizio della gravidanza lo lasciai». Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione». Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L’ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all’ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi. Ripensandoci oggi è come se cercassero dei bambini “predestinati” a essere tolti alle madri». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni, c’è un padre, una casa dignitosa, perché non avrei dovuto crescerla lì? Loro insistono. Una mamma con un bambino collocati in una comunità significano molti soldi pubblici per la struttura che li riceve». Spiega l’avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C’è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d’affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». Stefania parla e piange, sfoglia le foto e i video sul cellulare: «Cerchiamo di rimuovere i ricordi felici. Per tirare avanti». Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l’avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l’assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova: «A volte era lei, così piccola, a darmi forza, mi vedeva piangere e veniva a prendermi la mano, me la stringeva come se capisse il mio terrore di perderla. È più matura della sua età. Ora spero solo che sia entrata in un suo mondo irreale, che non si renda conto di cosa le hanno fatto». La settimana scorsa c’è stata l’udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l’intervento di un consulente tecnico d’ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare. «Resisto al mio dolore. Mi aggrappo ai sogni. Stiamo per traslocare in una casa grande nel verde. Lì vorrei crescere le mie figlie. Ho diritto a essere una mamma. Non ho fatto male a nessuno».
Bibbiano, parla una mamma. C'è ancora la terribile inchiesta sugli affidi a Bibbiano al centro del numero di Panorama in edicola dal 31 luglio, con un'intervista esclusiva e drammatica. Panorama 30 luglio 2019. Panorama ha incontrato una delle mamme a cui è stata sottratta la figlia a Bibbiano; una di quelle storie presenti nell'inchiesta "Angeli & Demoni" che ha portato alla luce un sistema che avrebbe favorito affidi ed adozioni di bambini che sarebbero stati tolti in maniera illegale ai legittimi genitori.
Caso Bibbiano-Affidi. Così mi hanno rubato mia figlia. Stefania è una di quelle mamma a cui i servizi sociali di Reggio Emilia hanno portato via con l’inganno la bimba. Da oltre 100 giorni questa mamma non ha più notizie di sua figlia. E adesso aspetta giustizia.
Affidi Facili. Dopo i fatti di Bibbiano, Panorama ha fatto un giro fra i tantissimi annunci di associazioni che, attraverso Facebook e i social network, cercano famiglia affidatarie per minori in difficoltà. Scoprendo, in una faccenda così delicata e complessa, una superficialità e una leggerezza davvero sconcertanti.
Bibbiano, alla onlus dell'amica di Claudio Foti una pioggia di soldi pubblici. Da Veleno a Bibbiano, a muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sono sempre gli stessi individui. E la storia di Sara ne è la prova. Costanza Tosi, Venerdì 02/08/2019, su Il Giornale. Sara nasce a Mirandola e - come racconta LaVerità - nel 2011 viene affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord. Dopo un percorso di due anni sotto il controllo degli psicologi, la bambina, nel 2013, viene affidata ad una comunità. A prendere la decisione, con tanto di firma sull’atto dirigenziale, è Monica Benati, responsabile, al tempo, dei servizi sociali della zona. La signora Benati non è una nuova recluta del sistema degli affidi. Il suo nome infatti comparve già tra quelli dei protagonisti del llibro "Veleno" sui Diavoli della Bassa di Pablo Trincia. Monica Benati lavorava assieme a Valeria Donati, psicologa che manovrava le menti i minori in terapia fino a fargli raccontare di abusi subiti, che poi si rivelarono mai avvenuti. Eppure, la donna, ha continuato a lavorare e a ricoprire il suo ruolo, fino al 2016. A muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sarebbero sempre gli stessi individui. E la storia della piccola Sara ne è la prova. La comunità in cui Sara viene accolta si chiama Madamadorè e a gestirla vi è una signora di nome Romina Sani Brenelli assieme a suo marito. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti. La signora sarebbe stata allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come lei stessa scrive sul quotidiano online diretto da Foti. Ma c’è di più. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto a quelli di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. E così, sebbene nello scandalo emerso con l’inchiesta dei Diavoli della Bassa i servizi sociali di Modena avessero già collaborato con la Onlus dello psichiatra Claudio Foti, a distanza di anni i rapporti continuano ad essere presenti. Tanto che decidono di affidare una bambina ad una comunità gestita da un’allieva dello stesso Foti. Ma i legami con i “diavoli” di Veleno non finiscono qui. Perché l'Unione dei Comuni modenesi area nord, a partire dal 2008, entra persino a far parte del Cismai (sempre coinvolto nel caso dei Diavoli della Bassa modenese), e rimane tra i soci fino al 2018. Ad ogni modo per Sara, a settembre del 2016, arriva un altro provvedimento. Stando al racconto de LaVerità, la responsabile del centro Romina Sani invia una lettera ai servizi sociali. Nella missiva asserisce che la piccola debba essere seguita “costantemente da un centro specializzato” a seguito di una forte crisi. E poi aggiunge: “Come già proposto e discusso col servizio sociale, ci rendiamo disponibili a compartecipare nella realizzazione di un progetto di psicoterapia, in collaborazione con il Centro Hansel e Gretel di Torino, col quale da anni collaboriamo”. Dunque, nessuno scandalo negli anni prima era riuscito a bloccare la forte collaborazione tra gli enti e, di fatto, Sara viene mandata a Bibbiano, al centro «La Cura» gestito da Hansel e Gretel, e finito tra le pagine dell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia perché definito il palcoscenico dei lavaggi del cervello ai bambini strappati dalle famiglie. Ma come poteva non essere così? L’Unione dei Comuni modenesi del progetto “La Cura”era persino partner al convegno “Rinascere dal trauma”, del 2018. A parlare c’erano Nadia Bolognini, Claudio Foti, l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (tutti finiti nel registro degli indagati), il presidente del Cismai Gloria Soavi e, di nuovo, Romina Sani, dirigente della comunità alla quale era stata affidata Sara. Da quel giorno per la piccola inizia l’inferno. La bimba, dopo una serie di incontri con la psicologa Nadia Bolognini, a distanza di sei anni dall’affido ai servizi sociali, inizia a raccontare di atrocità che mai aveva svelato. “Abusi sessuali seriali da parte dei genitori” di cui lei e i suoi fratelli sarebbero stati vittime. Ma cosa era successo in quei colloqui? Sara viene trattata con le stimolazioni del metodo Emdr e, secondo la Procura di Reggio Emilia, la terapia potrebbe aver creato, nella mente della bambina, falsi ricordi. Tutto d’un tratto la piccola è assalita da forti crisi e i racconti che fuoriescono, uno dietro l’altro, sono storie dell’orrore con particolari agghiaccianti. Così, tutto d’un tratto. Tutto, dopo il trasferimento a Bibbiano. Quando, psicologi e psichiatri della Ausl che avevano seguito la bambina dal 2011 al 2018 non avevano mai accennato a violenze sessuali. Una storia che da lontano arriva fino ai giorni nostri e condanna Sara, ormai ragazza, a una vita a fianco di coloro che, per anni, hanno manipolato le menti dei più piccoli e lucrato sulle famiglie fragili. Il 3 luglio 2019, nonostante fosse da tempo scoppiato lo scandalo di Bibbiano, all'ombra delle protestaste dei genitori in piazza e tra il clamore dei media, i servizi sociali modenesi affidano, per l’ennesima volta, Sara alla comunità Madamadorè. Affidamento per il quale l’associazione ha incassato 269.354 euro dall'Unione dei Comuni modenesi.
Riceviamo e pubblichiamo: Il Consiglio direttivo del Cismai, Coordinamento italiano Servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia, riservandosi di difendere nelle sedi opportune la propria onorabilità, ribadisce la completa estraneità ai fatti riportati e precisa ancora una volta di non aver alcun procedimento in corso e tantomeno di essere mai stato oggetto di indagini della magistratura. Il consiglio direttivo del CISMAI.
Vuoi un bambino in affido? Vai su facebook. Sono tantissimi gli annunci di associazioni che cercano famiglia per i loro bambini attraverso i social con una superficialità preoccupante. Maurizio Tortorella il 9 agosto 2019 su Panorama. Gli annunci occhieggiano dalle pagine di Facebook. All’inizio commuovono. Poi sconcertano, lasciano esterrefatti. Alla fine indignano. «Dario, che ha cinque anni, cerca una famiglia affidataria che lo accolga…». «Cerchiamo una famiglia che accolga nella propria casa Gioele, un ragazzino di 12 anni e mezzo, desideroso di imparare e fare esperienze nuove…». «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità (…) cercasi famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli….». Nei giorni dello scandalo di Bibbiano, il comune emiliano dove la magistratura sospetta un osceno mercato di bambini strappati illecitamente alle loro famiglie, si deve proprio leggerli due, tre, quattro volte questi messaggi in bottiglia lanciati nel mare di Internet, per convincersi che sono veri. Ma è così. E su Facebook sono tanti, più di quanti sia possibile immaginare. A pubblicarli, con insistenza, assiduità e frequenza, sono associazioni del volontariato e organizzazioni contro l’abbandono minorile. Tutte hanno qualche collegamento con i servizi sociali e gli stessi Tribunali dei minori che gestiscono la delicata materia dell’affido familiare. Perché altrimenti non si capirebbe come possano essere in possesso di casi dettagliati, con nomi, età e caratteristiche dei bambini da collocare. Il contatto con le istituzioni è certificato, a volte, dal fatto che gli annunci terminano con l’invito a rivolgersi alle cancellerie dei tribunali. Non è certo un male che ci siano associazioni che fanno di tutto per trovare una famiglia ai bambini sottratti dai servizi sociali ai loro nuclei familiari. Anzi, è uno sforzo meritorio. L’affido familiare, infatti, è preferibile al trasferimento del minore in una struttura d’accoglienza: si suppone che il calore di una famiglia, per quanto temporanea, sia da preferire a un’esperienza generalmente più fredda e traumatica come l’inserimento in una comunità. Lo stesso Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano che il 27 giugno è finito agli arresti domiciliari perché accusato di abuso d’ufficio e di falso ideologico nell’inchiesta «Angeli e Demoni», tre anni fa vantava il fatto che il suo comune puntasse proprio sugli affidi: «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità, che pure sono fondamentali ma dove per seguire un bambino servono 50 mila euro l’anno. Gli affidi costano molto meno». È vero: un bimbo piazzato in casa famiglia costa agli enti locali da 70 a 400 euro al giorno, mentre le famiglie affidatarie ottengono rimborsi da 400 a 700 euro mensili per minore. Le associazioni, quindi, svolgono un compito utile anche per prevenire il business improprio delle case famiglia. Quello che sconcerta, però, è il metodo, e soprattutto il mezzo. È possibile che i 29 Tribunali minorili e i servizi sociali degli 8 mila comuni italiani si debbano ridurre a usare Facebook, per trovare qualcuno cui affidare i bimbi sottratti alle famiglie d’origine, piccoli che si presume siano stati maltrattati o in difficoltà, o giovanissimi immigrati senza padre né madre? La magistratura minorile, soprattutto, non ha un bacino di soggetti a disposizione, già verificati e controllati, cui rivolgersi? Non ci sono albi, elenchi? E come vengono valutati i soggetti che si propongono per un affido familiare? Dato che alcuni annunci su Facebook parlano di un «affido urgente», il sospetto è che in certi casi le pratiche siano accelerate. In quei casi i controlli sono forse semplificati? È così? Se è così, è un sistema sgangherato, che non può che fare danni e creare abusi. Cristina Franceschini, l’avvocato veronese che cinque anni fa ha fondato la onlus «Finalmente liberi» contro l’eccessiva facilità degli allontanamenti dei minori dalle rispettive famiglie, è giustamente scandalizzata: «Facebook è un sistema improprio, sbagliato. Ho scoperto forum dove c’è chi si propone come affidatario “per qualche settimana”; dove coppie senza figli cercano bambini “per farci compagnia”. L’affido familiare non è questo: è una cosa seria, difficile, impegnativa. Bisogna sacrificarsi per bambini traumatizzati, con problemi gravi». Quel che turba, in effetti, è proprio la superficialità del mezzo. Certi annunci per l’affido ricordano quelli utilizzati per trovare una casa a randagi e cucciolate. Avete presente, no? «Mi sono appena nati otto gattini, carini e tutti sani come pesci. Chi li vuole?». E infatti anche le bacheche sugli affidi animali sono su Facebook, soltanto un po’ più in là. La logica è parallela, il paradigma è simile, si sovrappone. È un confronto che fa male al cuore, ma viene spontaneo. E non va scordato che Facebook è il bosco informatico infestato da lupi cattivi, pedofili e maniaci. Non si può usare un social network con tanta superficialità. Eppure le schede dei bambini sono lì, a centinaia. E commuovono, e sconcertano. «Help, mi volete in affido?» grida Miriam, cinque anni, sulla pagina Facebook del gruppo Cerco famiglia, dove viene descritta così: «Benvoluta sia dalle insegnanti che dagli altri bambini grazie al suo atteggiamento timido e dolce». Sulla pagina Facebook di Cicogne, cavoli e telefoni, una comunità che si propone di «fare conoscere l’affido familiare in modo semplice, parlando di vissuti, di emozioni e di momenti di vita vera», gli annunci sono tanti. «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità con la madre», si legge in un post. In poche righe sono elencate le caratteristiche dei due bimbi, poi arriva l’appello: «Cercasi una famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli offrendo loro affetto, stabilità e serenità (…). Per saperne di più, contatta…». Seguono telefoni ed email del Servizio affido familiare di Azienda comuni insieme, il consorzio di alcuni municipi lombardi. A leggere, qua e là, viene da pensare a che cosa debba passare per la mente di un padre o di una madre che riconoscono un post che parla del proprio figlio. O che riconosca sé stesso nella descrizione di «genitore fragile» o «inadeguato». Un altro appello, del 15 luglio: «Dario è un bambino dolce e in cerca di riferimenti affettivi costanti e calorosi (…). Per Dario stiamo cercando una famiglia con figli che lo accolga a tempo pieno, accompagnandolo e stimolandolo nel suo percorso di crescita». Seguono numeri ed email del Servizio per l’affido familiare del Legnanese. L’uso di Facebook, va detto, non è nuovo. Sul Forum dell’Aibi, l’Associazione amici dei bambini, ci sono annunci antichi. Questo è del 2012: «Il Tribunale dei minori di Milano cerca una coppia che possa accogliere Anna, una tredicenne originaria dell’Europa dell’Est, in Italia da tre anni e orfana di entrambi i genitori (…). Anna desidera fortemente una famiglia che l’accolga, che la ami e che la sappia aiutare a superare il dolore della perdita dei suoi familiari. Chi fosse interessato è pregato di inviare un fax alla Cancelleria adozioni del Tdm di Milano, all’attenzione della dott.ssa…». «C’è un altro problema» suggerisce l’avvocato Franceschini: «Analizzando i forum, spesso si avverte l’idea o il suggerimento che l’affido possa essere la via “veloce” per arrivare a un’adozione strisciante, senza i giusti controlli delle adozioni vere. La stessa Commissione parlamentare per l’infanzia due anni fa disse che troppi affidi erano senza fine». Così si creano sistemi malati, conclude l’avvocato, con bambini che potrebbero e dovrebbero tornare a casa loro, invece finiscono per sempre altrove. È un’anomalia grave. Un altro scandalo italiano.
L'incubo di una madre: "E se ci fosse un metodo Bibbiano?" La madre chiede aiuto agli assistenti sociali, dopo che il padre ha abbandonato in strada sua figlia, ma la bambina viene affidata ai servizi sociali e poi spedita in una casa famiglia. Costanza Tosi, Domenica 11/08/2019 su Il Giornale. “Volevo salvare mia figlia e invece me l’hanno portata via”. Sara è ancora incredula quando, al telefono, ci racconta di cosa le è successo da quando decise di chiedere aiuto ai servizi sociali, dopo che sua figlia era stata abbandonata in strada dal padre. “Io cercavo aiuto e invece sono finita in una trappola infernale”. La storia di Sara inizia circa nove anni fa. Quando lei, madre di Giulia (nome di fantasia ndr), decide di divorziare da suo marito, con il quale viveva a Roma. Inizialmente, tutto procede bene e i due genitori riescono a gestire la bambina con serenità, mantenendo dei buoni rapporti. “Il mio ex marito mi chiamava spesso anche per chiedermi dei consigli, eravamo veramente diventati amici e confidenti”, racconta Sara. Fino a quando il padre conosce un’altra donna, che diventa la sua compagna. “Da quel giorno ha iniziato a non curarsi più della bambina, non la vedeva quasi mai, l’ha completamente abbandonata”. Tanto che, una sera, il papà arriva persino ad abbandonare in strada la piccola di appena appena 8 anni. “Io lo scoprii solo il giorno seguente, quando andai a prendere mi figlia a scuola e lei, in lacrime, iniziò a raccontarmi cosa le era successo”, racconta la mamma. Sara è preoccupata e vedere sua figlia stare male la spinge a chiedere aiuto. “Decisi di andare dai carabinieri e quando spiegai cosa era successo mi dissero che dovevo denunciare tutto ai servizi sociali.” Da quel giorno per Sara inizia la battaglia. Una lotta estenuante, fatta di pianti e sofferenze, di avvocati e tribunali per riuscire a rivedere sua figlia. I servizi sociali si presentano un paio di volte a casa del padre e, dopo dei brevissimi incontri, richiedono un provvedimento d’urgenza. La bambina viene affidata a loro. Immediatamente. Una decisione basata su motivazioni risultate poi false. Secondo la relazione della CTU (consulenza tecnica d’ufficio): “Il padre non è persona all’altezza del compito di prendere in carico da solo la figlia”. Mentre per la madre nel decreto si evidenzia “una sospetta Sindrome di Munchhausen per procura”. Secondo i servizi sociali la mamma soffriva di una sindrome che la spingeva a fingere di stare male per attirare l’attenzione su di sé. Sospetto che viene subito smentito, quando Sara decide di sottoporsi a tutte le analisi del caso per eliminare i sospetti. “Io sono affetta da Fibromialgia. Ho dolori in tutto il corpo e ho fatto la CTU sotto morfina. Ma gli assistenti sociali lo sapevano…”, racconta Sara. Dopo gli accertamenti Giulia viene trasferita dalla madre che, nonostante avesse dato prova di non soffrire di nessuna patologia psicologica, non ottiene l’affido della sua bambina, ancora a carico dei servizi sociali di Roma. Intanto la piccola vive con la mamma e le due vanno d’amore e d’accordo. Poi, la madre decide di cercare di riavvicinare Giulia anche al suo papà. “La forzo a riallacciare rapporti con il padre dal momento che lui chiude la sua relazione, anche indotto dalla CTU, che gli fa capire che avevano individuato in questa donna, un deterrente per vedere la figlia", spiega mamma Sara. Loro cominciano a rivedersi. La bambina adesso ha 12 anni. Passano un po’ di mesi e inizia ad avere atteggiamenti aggressivi con la mamma. “Io inizialmente cercavo di comprenderla, nella mia testa era tutto normale. Davo la colpa all’adolescenza”, racconta Sara. Fino a quando la situazione non inizia a peggiorare. Giulia smette di prendersi cura di se stessa. Non si lava più, non esce, non vuole neanche andare a scuola e inizia a rinchiudersi per ore nella sua stanza, dove arriva persino a tagliarsi e farsi del male da sola. “Un giorno vidi che aveva dei tagli sui polsi - racconta mamma Sara - ero distrutta dal dolore”. La madre segnala la situazione agli assistenti sociali, facendo presente le problematiche. Ma da loro nessuna risposta. Né, tantomeno, un accenno di collaborazione tanto che la psicologa che segue Giulia arriverà persino chiedere di cessare la sedute “vista la scarsa interazione e collaborazione da parte dei servizi in questa situazione”. La situazione sembra essere irrecuperabile e la madre non sa più a chi chiedere aiuto. “Non sapevo che altro fare. Avevo mandato continue segnalazioni ai servizi sociali, ma nessuno riusciva a fare niente. Mai una risposta. Il padre non collaborava e da quando la bambina aveva riiniziato a vederlo, con me non c’era più dialogo.” Fino a quando, un giorno, Giulia cade nell’ennesima crisi, dove dice di non voler più vedere né la madre né il padre. Ma quando si rende conto che la cosa non è possibile, decide di andare a vivere con il papà. Perché, come ammetterà lui stesso agli psicologi, a casa non c’è mai. “Non ci sono mai; non posso occuparmene; non credo alle regole; sono un mollaccione e Giulia sa che da me può ottenere tutto quello che vuole”, aveva dichiarato il papà alla psicologa, come si legge nell'esposto di Sara contro i servizi sociali. Dopo la decisione di Giulia, il padre va a prenderla a casa e da lì, per un anno, non la farà più vedere alla madre, negandole persino gran parte delle telefonate con continue scuse. “Mi diceva che mia figlia non voleva parlare con me al telefono, oppure che l’aveva chiamata ma era impegnata. In realtà una sera sentii dall’altra parte della cornetta mi figlia gridare contro il padre: “sei tu che non vuoi che io le parli”. Lui voleva che lei rompesse tutti i rapporti con me,” ci spiega la madre.
Sara vuole vedere sua figlia e continua a denunciare tutto ai servizi sociali. Ancora una volta, nessuno prende provvedimenti, nonostante l’autolesionismo della 13enne si ripresenti più volte e Giulia rischi di essere bocciata per le assenze a scuola. Ma, dal padre, nessuno va a verificare la situazione. Sara, non si arrende. “Decisi di fare un nuovo esposto al giudice che convocò gli assistenti sociali per comunicare che sarebbero dovuti intervenire.” Ma questo non succederà. Dunque, giudice ed Assistenti Sociali vengono informati del cambio di collocazione, eppure violano lo stesso precedente decreto che ordinava la madre come collocataria e il padre come persona non “all’altezza del compito di prendere in carico la figlia da solo”. Fino a quando Giulia, ormai 14enne, viene portata in una casa famiglia. I servizi sociali intervengono per il collocamento presso una struttura dichiarando che la richiesta è partita proprio dalla minore. Ma Sara fa fatica crederci: “Mia figlia non sapeva neanche che cosa fosse una casa famiglia…”. Sara non vede sua figlia da ottobre. “L’ho sentita solo due volte per SMS. Tecnicamente io potrei vederla, anche da decreto sono previsti incontri che gli assistenti sociali dovrebbero organizzare. A livello pratico, servizi sociali e casa famiglia, dicono che è mia figlia che non vuole vedermi. Ma nessuno mi ha mai detto il perchè, nè mi ha fornito maggiori spiegazioni”. Eppure gli ultimi incontri tra Giulia e la madre, quando ancora viveva dal padre, erano andati bene. “Era contenta, affettuosa, andava tutto bene inizialmente- racconta la mamma - secondo la psicoterapeuta pare che ci sia un delirio ossessivo poiché mia figlia sosteneva di vedermi ovunque: sotto scuola, casa famiglia.... Ogni giorno. Ma io non c'ero. Idem con i messaggi: a fronte di uno che ne spedivo lei ne vedeva dieci. Io non so cosa le sia stato fatto.” Ogni giorno che passa, per Sara, è un giorno in più lontano da sua figlia. La madre è preoccupata e ha paura che qualcuno voglia far adottare la sua bambina ormai adolescente, invece di cercare di a farla tornare da lei. A maggio di quest’anno è stato redatto un documento che modifica, completamente, le modalità di affidamento nel Lazio, permettendo sia l’affidamento che l’adottabilità di ragazzi anche maggiorenni. Un documento che è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra Cismai e Movimento delle Famiglie Affidatarie, lo stesso movimento affidatario che fa capo e ha sede legale nella casa famiglia in cui vive Giulia e che ha, tra le sue partnership, il municipio degli assistenti sociali che si sono occupati del suo caso. Ma non basta. Tre membri dell’associazione delle famiglie affidatarie hanno partecipato ad aventi e convegni sulla tutela dei minori, presieduti dal Cismai e da Claudio Foti, psicoterapeuta a capo della Onlus Hansel e Gretel ora agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” sullo scandalo degli affidi. Sara ripete ancora che continuerà a lottare ma, prima di finire la nostra telefonata, non riesce a trattenere quella è che è la sua paura più grande: “E se anche qui ci fosse un “metodo Bibbiano”? ”.
Bibbiano, violenza di Stato su quelle famiglie. Ecco perché Panorama ha deciso di dedicare la copertina ed una grande inchiesta allo scandalo degli affidi. Maurizio Belpietro il 5 agosto 2019 su Panorama. Era il 27 giugno quando, su mandato della Procura di Reggio Emilia, i carabinieri hanno bussato alla porta del sindaco di Bibbiano e a quelle di alcuni assistenti sociali della Val d’Enza, notificando un mandato di custodia cautelare. In principio sembrava la solita storia di abusi d’ufficio, con annessa qualche ruberia. Roba ordinaria insomma, a cui neppure le amministrazioni della placida Emilia potevano sottrarsi. Invece, più ci si addentrava nelle motivazioni che avevano indotto i magistrati a intervenire e ad arrestare amministratori e operatori sociali e più si capiva che questa faccenda era diversa da tutte le altre. Niente tangenti, niente opere pubbliche realizzate con cemento scadente, niente clientelismo in cambio di voti. E allora a Panorama ci siamo chiesti: ma che cos’è questa storia che ha per protagonisti bambini e assistenti sociali? E sin dall’inizio, in redazione, ci siamo resi conto di essere davanti a qualche cosa di orribile: figli sottratti con l’inganno ai legittimi genitori, disegni falsificati per sostenere abusi mai esistiti, relazioni aggravate da fatti inventati, pressioni sui minori affinché dichiarassero ciò che non era accaduto, blitz militari per rapire i bambini. In pratica, l’orrore perpetrato da funzionari dello Stato contro degli innocenti. Già questo era sufficiente per indurci ad approfondire, dedicando all’inchiesta una copertina del vostro settimanale. Così, mentre la maggior parte dei giornali abbandonava al suo destino di cronaca nera l’inchiesta, abbiamo cominciato a scavare, scoprendo che lo scandalo di Bibbiano era la punta dell’iceberg, perché quei dieci bambini sottratti senza motivo ai genitori potevano essere molti di più. A Bologna, dove ha sede il Tribunale dei minori che ha competenza su Reggio Emilia, i magistrati sono al lavoro per riesaminare 70 casi, tutti di figli allontanati con strani pretesti. Alcuni bambini sono già stati restituiti ai propri genitori, altri probabilmente lo saranno. Nel frattempo, però, si è scoperto che il guru di quella scuola di psicoterapia che ha formato molti degli educatori coinvolti nello scandalo di Bibbiano, non soltanto è indagato dai pm di Reggio Emilia, ma è anche stato iscritto nel registro della Procura per maltrattamenti su moglie e figli. C’è di più. Il suo nome, in qualche modo, ricorre in moltissime inchieste di abusi sui minori che nell’arco degli ultimi vent’anni hanno fatto discutere e diviso l’Italia. Da Mirandola a Rignano, da Biella a Milano fino a Salerno: arresti, accuse, famiglie distrutte. Ma quasi sempre, dopo, è arrivata l’assoluzione dei tribunali. Dietro questo orrore però ci sono mamme e papà che si sono visti portare via i figli senza sapere perché. E ci sono anche bambini prelevati all’insaputa dei nonni o dei genitori, spesso con escamotage e con inaudita durezza. Un video, che pubblichiamo sul sito di Panorama, mostra un’operazione di polizia: 11 persone per distrarre una mamma e portarsi via una bambina di due anni. Alle famiglie private senza ragione di quei minorenni non era consentito neppure un contatto mensile, né era possibile recapitareun regalo o una lettera. Una violenza di Stato, per di più abusiva, di cui in questo numero vi diamo conto. Una delle mamme alla quale è stata sequestrata la figlia non solo ha deciso di raccontare ciò che le è accaduto, ma ha deciso di metterci la faccia per denunciare l’abuso. Stefania è una donna fragile, che nella vita ha anche commesso errori, ma quella bambina l’ha fatta diventare forte e l’ha indotta a rinunciare alla droga. Tuttavia, essersi disintossicata, aver messo su una famiglia normale, tenere in ordine la casa e la cameretta della figlia non è bastato, perché un giorno, come ha raccontato alla nostra Terry Marocco, alcuni operatori presentatisi come funzionari dell’Enpa, l’ente per la protezione degli animali, con una bugia si sono introdotti nel suo appartamento e le hanno portato via la bimba.
Un sequestro. Anzi, un agguato. La storia di Stefania - che ancora attende chela figlia le venga restituita - fa piangere. Ma il suo è solo uno dei tanti casi. Il giorno in cui avremo composto le molte drammatiche testimonianze di mamme e papà a cui è stato ingiustamente tolto un figlio, avremo il quadro di uno scandalo che forse da decenni sta avvelenando la vita di decine di famiglie. Uno scandalo che, per quanto ci riguarda, di sicuro non dimenticheremo.
Caso Bibbiano, la testimonianza shock di Stefania: "Così mi hanno portato via la mia bambina". “Io non so neanche dove sia. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata". Costanza Tosi, Domenica 04/08/2019 su Il Giornale. “Hanno rapito mia figlia”. Inizia così la conversazione con Stefania che, al telefono con la voce rotta dal dolore, ci racconta di come i servizi sociali di Reggio Emilia le hanno strappato via la sua bambina di appena due anni. ”Una mattina - dice - mentre ero sola in casa, sento dei rumori venire dal giardino. Dopo poco qualcuno inizia a bussare forte alla porta”. Era il 3 aprile. Stefania va a controllare chi è. Sono un uomo e una donna. Si presentano e le dicono di essere dell’Enpa, l’Ente Nazionale Protezione Animali, e affermano di essere intervenuti dopo una segnalazione del vicino di casa: “I cani abbaiano troppo”. Ma Stefania non si fida. Come erano arrivati in giardino i due? E perché volevano entrare con la forza in casa sua alle 10 del mattino? “Ero perplessa - continua - e ho chiesto spiegazioni, ma loro mi continuavano a dire che dovevo aprire”. Marco, il compagno di Stefania, aveva installato alcune telecamera nel giardino dopo aver subito un furto. È proprio dalle immagini di quei monitor che la madre comincia a sospettare che ci sia qualcosa di strano, quando si accorge che stanno arrivando anche altre persone. Poi il buio. “Tutto d’un tratto mi accorgo che le telecamere si erano spente - spiega in lacrime Stefania - mi avevano staccato la corrente. Ero terrorizzata.” Stefania decide di chiamare sua madre, che subito raggiunge la figlia a casa e riattiva immediatamente la luce. Da quel momento le telecamere riprendono a registrare. Nel frattempo, però, erano arrivati anche i poliziotti: “Era surreale, non capivo cosa stesse succedendo”. Così Stefania si ritrova cinque persone dentro casa. “Mi chiedono i libretti dei miei cani. E io inizio a cercare per darglieli", spiega la mamma. Ma mentre Stefania cerca di soddisfare le richieste della polizia qualcuno inizia a salire le scale della sua casa. Al piano di sopra dormiva la bambina. Passano pochi minuti e Stefania sente piangere la piccola. Un pianto di terrore. La mamma si precipita a vedere cosa è successo: “Mia figlia era tra le braccia di un uomo che la teneva come un pacco. A testa in giù. E intanto correva per le scale.” La mamma allora inizia a rincorrere l’uomo e cerca di strappargli via la piccola. “Ho iniziato a correre più forte che potevo. Nessuno può capire cosa scatti nella mente di una madre in una situazione simile. Non capivo più niente - continua la mamma -. L’avevo quasi raggiunta, ma loro sono stati più veloci. L’hanno caricata sulla macchina e se ne sono andati”. L’auto dei servizi sociali si allontana dalla casa mentre Stefania, in lacrime, guarda sua figlia sparire tra i palazzi. Da quel giorno i due genitori non hanno più visto la loro bambina. “Io non so neanche dove sia - grida al telefono la madre -. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata. Tutto questo mi sta uccidendo.”
Ma facciamo un passo indietro. Tutto inizia molti anni fa, quando Stefania all’età di vent’anni cade nel tunnel della droga. “I miei - ci confessa - si erano da poco separati. Stavo vivendo una situazione difficile. Ho iniziato a fumare eroina. In realtà non sapevo neanche cosa stessi facendo.” Ma la donna capisce subito che quella strada le avrebbe rovinato la vita, e così inizia a curarsi: “Dopo poco decisi di smettere e mi rivolsi al Sert”. Ed è proprio lì, tra medicinali e crisi di astinenza, che la donna conosce un uomo. I due si incontrano a Parma, nella clinica in cui lei si stava disintossicando. Usciti dalla struttura i due si sposano e, dal matrimonio, nasce una bambina. Dopo due anni e mezzo la mamma decide di tornare in una clinica. Questa volta per liberarsi dalla dipendenza di Subutex, un farmaco molto invasivo che le avevano dato per curare la dipendenza dagli oppiacei. “Mentre ero in clinica - aggiunge - la bambina stava con mia madre, che per starle dietro aveva chiesto aiuto a mia zia.” Ed è da lì che iniziano i problemi. La zia sostiene che la nipote non sia in grado di gestire la figlia. E, tramite alcune conoscenze, decide di far intervenire gli assistenti sociali. Con un provvedimento d’urgenza la bambina viene affidata ai servizi sociali e collocata presso la zia. Ma, al tempo, Stefania, lontana da casa, decide di subire questa situazione: “Ero troppo giovane e non avevo le risorse economiche per difendermi nelle sedi opportune. Ho sbagliato, ho lasciato correre.” Per lei da quel giorno inizia un’altra vita. Conosce Marco e, dopo poco, esce definitivamente dalla droga. Nel 2016 Stefania rimane incinta della sua seconda figlia. Una gravidanza felice, questa volta, accanto all’uomo che l’ha aiutata ad uscire da ogni tipo di dipendenza. Una mattina la madre, che da giorni non riusciva a dormire, decide di andare al pronto soccorso. E lì, per la mamma, inizia l’inferno. La struttura ospedaliera avverte il reparto di psichiatria e si rivolge agli assistenti sociali. Gli stessi che già avevano agito contro di lei dopo le segnalazioni della zia con la prima figlia e che, questa volta, chiedono esplicitamente di essere richiamati quando la madre verrà ricoverata per il parto. E così è stato. “Dopo il parto mi hanno chiesto di sottopormi alle analisi tossicologiche. Io non capivo perché. Erano già tre anni che ero pulita. Non c’era nessun motivo per controllarmi ancora", racconta. Ma Stefania decide di collaborare, ha paura che il gioco-forza non giovi alla situazione. Le analisi sono negative, sia per lei che per la bambina: “Ero contenta, pensavo che a quel punto mi lasciassero stare. Credevo che finalmente mi sarei goduta la mia bambina”. Racconta la mamma. Ma non fu così. Le analisi non bastarono. I servizi sociali obbligarono la madre ai controlli domiciliari: “Le assistenti venivano da me ogni giorno. Mattina e pomeriggio.” Nonostante le continue pressioni, le visite giornaliere e il dispiacere di essere considerata una madre inaffidabile dopo tutti gli sforzi e gli obiettivi raggiunti per rimettere in piedi la sua vita, la mamma non si oppone e fa tutto quello che le viene chiesto. Fino a quando non le annunciano che dovrebbe andare in una casa famiglia insieme a sua figlia: “Mi rifiutai. Non potevo accettare una cosa del genere. Non c’erano motivazioni valide per allontanarci da casa. Sono anni che sto bene. Vivevamo felici, tutta la famiglia insieme, nella nostra casa. Mi stavano togliendo tutto, senza spiegarmi perchè. Dovevo lottare per la mia felicità.” Una battaglia estenuante. A ottobre del 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio. Le motivazioni, a suo dire, sono false: “Dichiaravano che vivevo in uno scantinato, cosa assolutamente non vera. Ribadivano la mia tossico dipendenza, ormai superata da anni.” Con quel decreto la piccola sarebbe stata strappata dalle braccia dei suoi genitori. Non ci sta ad essere stata raggirata. E Stefania, oggi, rivuole sua figlia.
Bibbiano, gli tolsero il figlio ma non ci furono abusi. Il gip archivia il caso della coppia accusata di abusi sessuali nei confronti del figlio. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Corruzione di minorenne e abuso sessuale. I genitori di Paolo (nome di fantasia), furono accusati di questi due reati nell’ormai lontano 2015. Reati che, oggi si scopre, non hanno mai commesso. Ma che sono costati alla famiglia l’allontanamento del proprio bambino e un calvario durato anni. Era il 30 aprile di quattro anni fa quando, dopo una segnalazione dei servizi sociali, il Tribunale dei Minori di Bologna decise che il bambino doveva essere allontanato dai suoi genitori. Il piccolo viene affidato e preso in carico dai servizi sociali, poi, nell’inverno del 2016, collocato in una nuova famiglia. Passano circa altri due anni. I genitori non stanno più con il piccolo Paolo, le accuse nei loro confronti li constringono a vivere nella speranza che, un giorno, venga fatta giustizia. Una giustizia che, per il momento, rimane soltanto la loro verità. La indagini proseguono, ma la parola fine è ancora lontana. Loro non la vedono. Riabbracciare il proprio bambino diventa una speranza sempre più inverosimile. Fino a quando, l’ 8 marzo del 2018, il pm Stefania Pigozzi scova, nelle carte processuali, alcune stranezze, al punto da chiedere che venga archiviato il procedimento a carico dei due genitori. Da quel giorno passerà ancora un anno e mezzo prima che succeda qualcosa. Per fare chiarezza sul caso, vengono chiamati a relazionare l' assistente sociale Francesco Monopoli e la sua responsabile, Federica Anghinolfi, entrambe ora indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti della Val d’Enza. I due scrivono in un documento presentato il 14 maggio del 2018 di aver scoperto, durante i colloqui con Paolo, di abusi sessuali che il piccolo avrebbe subito da parte del padre, come riporta Il Resto del Carlino. Ora la situazione prende un’altra piega. Forse le cose stanno iniziando ad andare nel verso giusto. Gli assistenti sociali che seguivano Paolo vengono accusati di falsità ideologica, violenza privata, falsa perizia e frode processuale. Secondo quanto riportato nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia, Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Paolo e ex moglie di Claudio Foti, finita agli arresti domicialiri per i fatti di “Angeli e Demoni”, durante un’incontro con il piccolo si travestì persino da lupo cattivo. Un “circo” che sarebbe servito a plagiare la mente del minore attraverso l’associazione della figura spaventosa con il padre del bimbo. Secondo la magistratura, Monopoli avrebbe persino cercato di facilitare l’affido del piccolo presentando relazioni distorte rispetto alla verità dei fatti a un giudice onorario. Dove avrebbe omesso il fatto che ci fosse stata una richiesta di archiviazione del procedimento a carico del papà di Paolo. A giochi fatti, parlando con un altro giudice, Monopoli avrebbe anche confermato la buona riuscita dell’intervento sulla famiglia. Dichiarando che l’allontanamento dai propri genitori naturali era stato un tocca sana per il bimbo. Ora, il gip Luca Ramponi ha disposto l’archiviazione della vicenda. Una decisione che fa intravedere la luce in fondo al tunnel in cui, per tutti questi anni, sono stati costretti a vivere i genitori di Paolo. Vittime di un sistema perverso che li ha intrappolati con finte relazioni a false accuse. La strada per riabbracciare il proprio figlio sembra, da oggi, essere più in discesa. Paolo forse potrà tornare a casa, il tribunale ha già predisposto una consulenza tecnica per valutarlo, e chiudere per sempre un capitolo della sua vita che gli è costato anni di sofferenze incancellabili.
La testimonianza shock di Valentina: "Così Foti mi convinse degli abusi di mio padre". "Al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Aveva confessato, Valentina. Era stata lei che, durante le sedute con il metodo Foti, aveva ammesso di aver subito abusi da suo padre quando era molto piccola. Ma, le accuse rivolte al proprio papà, le ha poi smentite davanti ai magistrati che dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" indagavano su Bibbiano. Adesso la ragazza ha compiuto i suoi diciotto anni, ma fino all’anno scorso era una delle minori seguite dagli psicologi e dai servizi sociali della Val d’Enza. Anche con lei, lavaggi del cervello, violenze psicologiche per far confessare violenze che, non sarebbero mai avvenute. Secondo le carte, che riportano anche le intercettazioni degli indagati, pare che il terapeuta piemontese abbia “alterato lo stato psicologico ed emotivo della minore (...) sottoponendola come cavia alla psicoterapia effettuata in occasione del corso di formazione per operatori dell' azienda sanitaria di Reggio Emilia”. Su di lei fu utilizzata la “macchinetta dei ricordi”, come veniva chiamata dagli psicologi che spiegavano ai piccoli come, attraverso il sistema Emdr, avrebbero cancellato dalla testa le tracce dei brutti ricordi. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia emergono le intercettazioni di un incontro, del 27 ottobre del 2018, al Centro di Igene Mentale. Si trattava di una lezione tenuta da Foti e rivolta ad alcuni terapeuti. A dimostrazione pratica delle sue teorie una seduta osservabile da un vetro. Protagonista la piccola Valentina. Proprio in quell’occasione il terapeuta piemontese, avrebbe posto alla ragazzina una serie di domande con lo scopo di far emergere abusi sessuali subiti in famiglia. Per ripescare dai ricordi della piccola i fatti dell’infanzia Foti utilizzava la tecnica dell’Edmr: “Con tali modalità - si legge nell' ordinanza - l’ indagato convinceva la minore dell' avvenuta commissione dei citati abusi ai suoi danni durante l' infanzia, una circostanza fino a quel momento non presente nei suoi ricordi, e che l' abusante fosse suo padre”. Un’opera di convincimento per estrapolare dalla testa della bambina fatti a cui lei non avrebbe mai accennato. Tutto questo anche con l’ausilio di un macchinario, certamente suggestionante per Valentina che, in quel momento, si trovava rinchiusa in una stanza a vetri per essere utilizzata come cavia per le dimostrazioni ai seguaci di Foti. Tre mesi dopo la seduta - come riporta Il Resto del Carlino - Valentina viene interrogata e racconta di quel giorno. “Foti - spiega la ragazza al pm - mi sottopose personalmente anche alla terapia che lui mi disse chiamarsi Emdr. Mi chiedeva di guardare il suo dito muoversi a destra e a sinistra, invitandomi a ritornare con la mente indietro nel tempo”. Mentre eseguiva queste manovre, il terapeuta faceva “domande su quello che la mia mente immaginava, e al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Le intercettazioni della seduta, riportate dalla Procura, raccontano anche di quelle domande che in realtà con l’idea di quesito avevano poco a che fare. Si trattava più di frasi incalzanti, suggerimenti, convinzioni da inculcare nella mente dell’interlocutore. “Tu vieni al mondo e come tutte le bambine provi ad avere fiducia nel mondo dei grandi - dice Foti alla minore - ma sei tradita...Già l' impatto con tuo padre ti rende incerta, Perché un po' ci credevi... Come ogni bambina credevi a tuo padre, e vivi e impatti con l' esperienza pesante e vio lenta, che ti fa perdere fiducia... Non credi in tuo padre... ci credevi.., non ci credi”. La piccola tace. Quasi per tutto il tempo. Aggiungendo solo un secco “no” dopo alcune frasi dello psicologo. Ma l’uomo insiste, incalza, sempre con lo stesso ritmo. Parla dei ricordi di Valentina e intando descrive il suo papà. Il medoto esistenziale che il padre aveva trasmesso alla piccola, secondo il terapeuta, era “rovinoso e servile”. La bambina non parla, ma con le pupille, immobile su un sedia, segue il dito dell’uomo che continua con i racconti. Una danza ipnotica da film degli orrori. Dopo la famiglia, ecco che Foti arriva ad affrontare l’argomento “sesso”: “Io penso che nella tua esperienza di vita hai avuto paura dei fidanzati...e le cose sono andate sul modello della relazione violenta con il maschile, pericolosa…” dice alla paziente. Poi, torna a parlare del padre: “tuo padre ti aveva proposto sesso e violenza, da quel che sappiamo. Tua madre non ti ha assolutamente proposto sesso e violenza, ma comunque ti propone anche lei un modello di vita…” Il dialogo prosegue. La musica è sempre la stessa. L’obiettivo ben chiaro: si doveva tagliare ogni tipo di legame tra Valentina e la sua famiglia d’origine. La bambina doveva staccarsi totalmente dai suoi genitori. Anche la madre della minore, durante l’interrogatorio, ha ammesso di aver notato “la consequenzialità tra la psicoterapia praticata da Foti e l' emersione delle rivelazioni su presunti abusi o fatti similari, e anche la sua animosità nei confronti del padre”. Come riporta Il Resto del Carlino. “Prima della psicoterapia - racconta - Valentina non mi aveva mai riferito di alcuna problematica rispetto al padre. Dopo la psicoterapia con Foti, non so con quale modalità, si era convinta di avere subito abusi sessuali quando era molto piccola, e che la sua memoria aveva rimosso quel ricordo che era venuto fuori grazie alla terapia”. Un percorso che, secondo quanto racconta la mamma, avrebbe cambiato la vita di sua figlia che, dopo la “macchinetta dei ricordi”, è diventata un’altra persona. “Convintasi che il padre l'aveva abusata, poco dopo la psicoterapia (...) ha iniziato a fare uso di stupefacenti, è diventata aggressiva e violenta nei miei confronti, e ha iniziato a odiare il padre” spiega la madre. Schiava di una convinzione che le era stata inculcata attraverso lavaggi del cervello e racconti inventati, la piccola aveva cambiato personalità. Durante l' interrogatorio con il pubblico ministero, Valentina, conferma con certezza che il papà non l’ha mai abusata. Nei racconti davanti al pm, la ragazzina, racconta con estrema lucidità, che gli assistenti sociali di Bibbiano la consigliavano su come affrontare le audizioni davanti ai giudici minorili: “Partivano sempre dal presupposto che io, da piccola, avevo subito una violenza sessuale (...) e tentavano in ogni modo di farmi raccontare tali episodi, che io assolutamente non ricordavo”. Bambini plagiati, famiglie distrutte, un oceano di sofferenze incancellabili. Se le accuse della Procura di Reggio Emilia venissero confermate in aula di tribunale, il caso Bibbiano sarebbe prima di tutto questo: un sistema degli orrori che ha cambiato la vita a decine di persone.
"Non dovete temere la divisa". I demoni provarono a sviare le indagini. "Non fatevi intimorire dalla divisa". Ecco come gli assistenti sociali di Bibbiano cercavano di sviare le indagini. Costanza Tosi, Domenica 28/07/2019 su Il Giornale. A Bibbiano ad essere plagiati dagli assistenti sociali non erano soltanto i bambini. A finire nelle grinfie dei “demoni” di Reggio Emilia anche i genitori affidatari, manovrati dagli assistenti sociali. Si sentivano il fiato sul collo, braccati dagli investigatori e, i “demoni” avevano bisogno di sviare le indagini. Lo facevano attraverso pressanti e ripetute telefonate ai genitori affidatari. “Non fatevi intimorire dalla divisa”, dicevano. Una divisa che indagava, che cercava di vederci chiaro. È quanto emerge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, che ha smascherato il presunto giro d’affari illecito che si nascondeva dietro il sistema degli affidi dei minori della Val d’Enza.
Il depistaggio. La madre affidataria di due bambini, seguiti dai servizi sociali, viene chiamata dai carabinieri e convocata per un colloquio con la richiesta di portare le fatture e tutta la documentazione necessaria a certificare i pagamenti per le sedute di psicoterapia a cui erano tenuti ad andare i due minori. Una telefonata che coglie di sorpresa la donna e la insospettisce. Lei e il marito, in effetti, erano stati i primi a chiedere spiegazioni sul metodo di pagamento degli incontri con gli psicologi. I due si domandavano come mai i soldi destinati a pagare gli psicologi dovessero passare da loro. Il denaro, infatti, veniva prima caricato sul conto corrente della famiglia affidataria che, poi, lo versava agli psicologi della Onlus “Hansel e Gretel”, finita al centro dell’inchiesta. Un giro contorto, che ha insospettito la coppia. Più volte, infatti, i due genitori affidatari hanno provato a chiedere spiegazioni ma nulla. Nessuno era in grado di dare risposte chiare.
Le intercettazioni. “Non capisco nemmeno il passaggio.. Perchè devi dare a me questi soldi e poi io te li devo dare…” chiede al telefono il papà affidatario a Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali finito nel registro degli indagati: “Questioni amministrative” risponde e taglia corto. I dubbi erano tanti e le domande degli investigatori pressanti. Dopo la telefonata ricevuta dai carabinieri, la madre affidataria decide di chiamare nuovamente l’assistente sociale Francesco Monopoli per informarlo dei fatti. Era lui che seguiva il loro caso. L’assistente sociale le confida che “i carabinieri stanno facendo delle verifiche su tutti gli affidi, e che lui non ne sa niente.” Ma la pressione si faceva sentire. Il cerchio stava per stringersi attorno ai “demoni” di Reggio Emilia e loro lo sapevano. Francesco Monopoli esorta la donna ad andare all’incontro con i carabinieri assieme al marito. La madre risponde di no, spiegando che i carabinieri avevano chiamato solo lei e quindi sarebbe andata da sola ma l’assistente sociale ribatte con un forte “no!”. A quel punto la donna accetta di andare all’incontro con il marito, a cui passa la cornetta del telefono per proseguire la conversazione. Ed è proprio con il marito che l’assistente sociale inizia l’opera di persuasione e convincimento. “Non lasciarla andare da sola”, insiste. Ma la telefonata continua e l’assistente sociale comincia a dare al padre consigli dettagliati su come comportarsi di fronte alle autorità. “Se gli fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordina l’assistente sociale - sopratutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ripete più volte gli stessi concetti durante la conversazione Monopoli, quasi a far sembrare di essere preoccupato dalla notizia. Tanto che, ad un certo punto, sottolinea: “Menomale che me lo avete detto va…diciamo così… - e poi aggiunge - ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Insomma, l’assistente sociale sperava che la famiglia facesse muro persino ai carabinieri. Niente doveva uscire da quell’incontro. Bocche cucite. Pure con le forze dell’ordine. Le intercettazioni che ilGiornale.it ha potuto visionare parlano chiaro. Eppure, in questa vicenda, dei dubbi restano. Perchè tanta preoccupazione per le risposte alle domande degli investigatori se Francesco Monopoli non aveva niente da nascondere? In realtà, secondo le carte, gli indagati “erano ben consapevoli delle irregolarità della situazione (se non della sua completa illegittimità)” e, tra le pagine dell’ordinanza, il procuratore sottolinea che ciò si evince anche “dal tentativo di Monopoli, in corso d’indagine, di orientare le dichiarazioni degli affidatari.” Secondo la Procura tutti sapevano cosa stavano facendo e, a quanto pare, erano consapevoli pure di essere finiti nell’occhio del mirino. Ma niente fermava i protagonisti del losco giro d’affari. D’accordo, fino alla fine, nel nascondere la sabbia sotto il tappeto. Anche a costo di plagiare, con l’inganno, persone che avrebbero voluto solo fare del bene, come i genitori affidatari. Ignari di tutto. Anche loro vittime dell’orribile “sistema” di Bibbiano.
Affidi illeciti, assistente sociale rivela: "Feci report falsi". La donna ha ammesso di aver alterato alcune relazioni sotto pressione. Aveva ottenuto il trasferimento ad altre mansioni per questo motivo. La Repubblica il 28 luglio 2019. Si arricchisce di nuovi capitoli - che ondeggiano tra presente e passato - la vicenda di Bibbiano e dei presunti affidi illeciti in Val d'Enza. All'indomani del via libera del Consiglio Regionale ad una Commissione di inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia-Romagna e della scoperta dell'avvertimento - risultato inascoltato - della Procura di Reggio Emilia al Tribunale dei Minori di Bologna su relazioni non corrette, dall'indagine "Angeli e Demoni" spuntano le parole di una assistente sociale che ha rivelato di avere falsificato rapporti su alcune situazioni familiari così da indirizzare lo stesso Tribunale dei Minori ad affidare i bambini, considerati vittime di abusi, a figure terze. Il fatto - riportato dalla stampa locale di Reggio Emilia - vede al centro una assistente sociale che, alla luce del suo racconto, potrà tornare a svolgere le proprie mansioni dopo la decisione del giudice investito del caso di revocare la misura della sospensione di sei mesi dal lavoro che le era stata comminata. Revoca verso cui aveva espresso parere negativo il Pm titolare dell'indagine. La donna, viene riportato, ha collaborato ammettendo i propri addebiti e sostenendo di avere falsificato alcuni report a causa delle pressioni subite dai superiori. Una situazione che, nel tempo, avrebbe generato malessere tanto da chiedere e ottenere un trasferimento - avvenuto nel settembre 2018 - in un altro settore dei servizi sociali. In alcune relazioni l'assistente sociale aveva espresso dichiarazioni non veritiere; in un caso aveva descritto l'abitazione in cui vivevano due bimbi come fatiscente, e collegato l'atteggiamento di chiusura dei bimbi alla difficile situazione familiare e non al fatto che non sapessero comprendere e parlare italiano. Rapporti che non avevano convinto gli inquirenti tanto da integrare le accuse di falso ideologico e frode processuale.
«Pensavano solo a togliere i bambini alle famiglie»: parla la pentita di Bibbiano. Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Un clima da «caccia alle streghe» e una criminalizzazione delle famiglie in modo che fossero tolti loro i figli. È il «sistema Bibbiano» così come emerge – anche – dalle parole della “pentita” Cinzia Magrelli, assistente sociale indagata nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni, sebbene con una posizione ritenuta meno grave: per lei le autorità hanno concesso la revoca delle misure cautelari e la possibilità di tornare al lavoro. «È vero, ho modificato le relazioni ma l’ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo, ma poi non ce la facevo più. Per questo ho chiesto il trasferimento», ha spiegato la donna.
La guerra alle famiglie. Magnarelli, in un colloquio con La Verità, ha spiegato che «laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella famigliare». Ricostruzione resa anche davanti al Gip Luca Ramponi e che conferma quanto già ampiamente appreso dall’opinione pubblica su questa storia drammatica di “ladri di bambini”: per soldi, per convinzioni ideologiche, per fare favori ad amici o ex amanti i bambini venivano portato via dalle loro famiglie, facendo leva su relazioni false o falsate che poi venivano accettate da tutta la filiera di controllo e gestione di un servizio così delicato.
Il “metodo Bibbiano”. «Il clima era quello un po’ della caccia alle streghe», ha detto ancora Magnarelli, spiegando che «nelle relazioni che sarebbero state mandate alla magistratura c’era sempre una predilezione per una visione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia». Magnarelli ha poi ricostruito come si arrivava a queste relazioni, che lei stessa ha ammesso di aver «modificato»: «Io non avevo la possibilità di decidere. Avevo solo la possibilità di relazionare all’interno di una équipe che prevedeva la presenza del dirigente dei servizi sociali e poi il parere dello psicologo. Alla fine veniva fatta una relazione che comprendeva tutti i pareri e veniva mandata al Tribunale dei minori». «Il Tribunale di Bologna – ha aggiunto l’assistente sociale – decideva in base a queste relazioni. Aveva la possibilità di approfondire e sentire le parti, di valorizzare alcuni elementi anziché altri. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi». «Tutte le volte che veniva presentata la possibilità di un aiuto all’interno della famiglia, veniva cassata. Questo – ha concluso – era il metodo di intervento».
Pentita di Bibbiano confessa: "Ecco come toglievamo i bimbi". L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha ammesso di aver falsificato alcuni report sotto le pressioni dei superiori, in modo da indirizzare gli affidi. Pina Francone Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Confezionavano relazioni false per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido, il tutto sotto le pressioni pesanti e continue dei superiori. Il "sistema Bibbiano" funzionava così. E a spiegarlo agli inquirenti ci ha pensato proprio una delle assistenti sociali indagate nell’ambito dell'inchiesta Angeli e Demoni, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. Cinzia Magnarelli ha parlato al gip Luca Ramponi e grazie alla sua confessione ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia. "È vero, ho modificato quelle relazioni ma l'ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo ma poi non ce la facevo più: per questo ho chiesto il trasferimento", le parole della donna, così come riportate da La Verità. Un racconto utilissimo per le indagini, quanto agghiacciante per il modus operandi di Federica Anghinolfi e colleghi. E quando la Magnarelli ne capì l'andazzo, chiese il trasferimento, ottenendolo nel settembre 2018: "Il clima era quello un po' della caccia alle streghe…". Cinzia Magnarelli spiega al quotidiano: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E spiega: "Laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella familiare. Nel corso del tempo ho metabolizzato il funzionamento del sistema. Il lavoro che facevo all' interno dell'equipe veniva criticato dai miei superiori. Nelle relazioni che sarebbero poi state mandate alla magistratura c'era sempre una predilezione per una visione dell'educazione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia...". Insomma, i suoi superiori spingevano oltremodo per togliere quei piccoli ai propri genitori e darli così in affido, grazie a relazioni taroccate che venivano mandate al Tribunale dei Minori, che giudicava così i casi avendo in mano documenti falsificati e che spingevano i giudici a scegliere la strada dell'affido. Ecco spiegato come funzionava il crudele "sistema Bibbiano".
E adesso la pentita di Bibbiano torna a fare l'assistente sociale. Torna a lavoro l'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Pina Francone, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Insomma, report bugiardi per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido: ecco spiegato, in breve, il crudele "sistema Bibbiano" scoperto dall'inchiesta Angeli e Demoni. Lo ha spiegato agli inquirenti una delle assistenti sociali indagate, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. La Magnarelli, interrogata dal gip Luca Ramponi ha confessato le malefatte, ammettendo le proprie colpe e dichiarando di aver scritto il falso su ordine dei superiori. Ecco, grazie al suo racconto ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia, dove era arrivata nel settembre 2018 dopo aver chiesto il trasferimento da Bibbiano, non riuscendo più a tollerare i meccanismi di Federica Anghinolfi e colleghi, dopo aver eseguito gli ordini ed essere stata una pedina fondamentale negli ingranaggi del "sistema Bibbiano". Così si è spiegata a LaVerità: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E in tutto questo, invece, il sindaco Pd di Bibbiano continua a rimanere agli arresti domiciliari. Al primo cittadino dem Andrea Carletti, infatti, che non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d' Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico (per cui solitamente non è previsto il carcere preventivo), è stata negata la revoca della misura cautelare.
Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazioni telefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.
Perché (e chi sono) difendono il sindaco di Bibbiano. Il Pd, l'Anpi, Repubblica. Tutti stanno con Andrea Carletti finito nell'indagine sui finti abusi e gli affidamenti facili di bambini. Maurizio Tortorella il 29 luglio 2019 su Panorama. Ci mancava solo l’Anpi. Alla fine anche i partigiani si sono uniti al grande coro democratico: hanno offerto «piena solidarietà ad Andrea Carletti in questo momento difficile» e hanno voluto ricordarne «l’impegno nell’affermare e diffondere i valori della legalità» e quelli dell’antifascismo militante. Prima del 27 giugno, quando è piombato nell’inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia finendo agli arresti domiciliari, Carletti non era un politico di primissimo piano. Nel Pd emiliano aveva fatto una bella carriera da amministratore locale, ma le cronache nazionali quasi lo ignoravano. Oggi, invece, il sindaco di Bibbiano è il recordman italiano della solidarietà. Il suo partito, il Pd, lo celebra quale «capace amministratore, apprezzato dai suoi cittadini», e garantisce che «risponderà con serenità dei rilievi amministrativi che gli vengono mossi». Contro Carletti, del resto, lo stesso segretario del Pd Nicola Zingaretti non ha alzato un dito, attendendo fosse il sindaco ad autosospendersi. Poi Zinga, come lo chiamano i suoi, ha convocato un team di avvocati «per avviare azioni legali, fossero anche 100 al giorno», contro ogni attacco diffamatorio a Carletti e al Pd. A sorpresa, un uomo pacato come l’ex parlamentare reggiano del Pd Pierluigi Castagnetti s’è messo addirittura a contestare gli arresti domiciliari: «Carletti è perbene» ha protestato «e non merita il provvedimento restrittivo per un’ipotesi, che spero sarà rapidamente smentita, di abuso d’ufficio. Rischi di reiterazione o di alterazione prove, io, non ne vedo proprio». Quello di cui gli inquirenti accusano il sindaco e altri 26 tra amministratori locali, assistenti sociali e psicologi, in realtà, è avere foraggiato e protetto un sistema basato sull’indebita sottrazione dei bambini alle famiglie. Irretite dagli psicoterapeuti del centro torinese Hansel e Gretel, scelti senza gara dai servizi sociali di Bibbiano e retribuiti con tariffe doppie del normale (135 euro l’ora contro una media di mercato sui 60-70 euro), le piccole vittime accusavano i genitori di abusi inesistenti e così venivano affidate ad altre coppie o a strutture private. Tra gli inquirenti si sospetta sia emersa la classica punta dell’iceberg di un più ampio sistema, che va ben oltre Bibbiano e l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, i cui servizi sociali erano tutti collegati. Certo: la presunzione d’innocenza è più che un precetto costituzionale, è una regola di civiltà giuridica. Tra i suoi sostenitori, Carletti gode però di una presunzione superiore, anomala per intensità. Repubblica ha scritto che il sindaco ha soltanto «concesso degli immobili» ad altri indagati: nessun reato, insomma. Lo stesso giornale sostiene che lo scandalo di Bibbiano (cancellato dalla maggior parte dei mass media) serva solo a distogliere l’opinione pubblica dalla storia dei rubli di Vladimir Putin, che pure inguaia la Lega con un’intensità mille volte superiore. I mille sostenitori del sindaco sminuiscono, minimizzano, negano. E non è solo su Repubblica che i reati scompaiono: il Pd parla di «rilievi amministrativi», Castagnetti ammette (a fatica) l’ipotesi di abuso d’ufficio. In realtà, sia pure con ipotesi ferme al vaglio di un giudice per le indagini preliminari, e quindi lontane dal crisma di un vero processo, Carletti è accusato di abuso d’ufficio, ma anche di falso ideologico: assieme, i due reati prevedono da due a dieci anni di reclusione. Anche il ritratto Carletti, per com’è tratteggiato dall’inchiesta, non è propriamente quello di un amministratore esemplare: il giudice sostiene che il sindaco si sia «reso responsabile di episodi che costituiscono un espressivo indice del suo modo di comportarsi» e che sia «evidente la copertura politica continuativa e sistematica» offerta agli altri indagati. L’ordinanza che l’ha posto agli arresti domiciliari sottolinea «l’essenzialità del contributo» di Carletti e perfino «la sua alta capacità criminale», perché «ha ripetutamente consentito le spese in esecuzione degli abusi d’ufficio (a favore degli psicoterapeuti di Hansel e Gretel, ndr) con erogazione di contributi indebiti». Tra il 2014 e il 2018, Bibbiano ha pagato oltre 182 mila euro per sedute di psicoterapia, che secondo il giudice potevano essere «effettuate gratuitamente» da parte del Servizio sanitario locale. Si legge che Carletti «lungi a limitarsi a una mera omissione di controllo sull’attività dell’amministrazione (…) si adoperava per consentire la prosecuzione dell’attività (degli psicologi di Hansel e Gretel, ndr), ottenendo un ritorno d’immagine e un incremento dei fondi a disposizione». L’accusa di falso nasce dall’avere imputato alla voce «trasferimenti per contributi affidi» le somme che tra 2016 e 2018 venivano versate in realtà agli psicologi di Hansel e Gretel, inducendo in inganno l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, che autorizzava la spesa. Ma c’è di peggio: secondo l’accusa, il sindaco e alcuni dirigenti comunali, con una psicologa, a un certo punto avrebbero scoperto l’indagine su di loro e tentato di sistemare la situazione: «Preso atto degli accertamenti della polizia giudiziaria», si legge, «in un incontro in data 12 dicembre 2018» il sindaco, i dirigenti e la psicologa avrebbero «spacchettato» le cifre «abbassandole fraudolentemente al di sotto della soglia» dei 40 mila euro che per legge avrebbe imposto la gara. È forse per questo se il giudice il 7 luglio ha rigettato la richiesta di Carletti, che invocava la revoca degli arresti domiciliari: rischio di inquinamento delle prove. E ora chi lo dice all’Anpi?
Il linciaggio social contro Giorgia Meloni arriva a prendere di petto persino la figlia. Gloria Sabatini lunedì 29 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Si chiama Franco Cappelletti. È antifascista, ha una faccia con barbetta trasandata quanto basta per far capire che lui la rivoluzione la pratica, mica a chiacchiere. È lui, con un tweet semplicemente ributtante all’indirizzo diGiorgia Meloni, l’ultimo campione dell’esercito di odiatori seriali online, di quei leoni da tastiera che insultano “il nemico cattivo”, denigrano, istigano alla vendetta, mettono in mezzo parenti e affini. E, come nel suo caso, persino figli e nipoti di pochi anni.
“Rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano”. Che cosa scrive questo coraggioso “signore”? «Da adulta la figlia della Meloni rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano». Incommentabile. Capito? Si augura alla piccola di aver un destino peggiore dei minori vittime dell’orrore scoperchiato dall’inchiesta Angeli e demoni. Con queste due righe si è superato qualsiasi limite. Di decenza, di civiltà, di umanità nel nome di un’idiozia diffusa che genera un pericoloso tam tam di emutatori conigli. «Ecco dove siamo arrivati. È schifo» è il lapidario, e a dir poco signorile, post di risposta sulla pagina Facebook della leader di Fratelli d’Italia che non può fare a meno di riproporre sul suo profilo l’inqualificabile maledizione. Dopo le pessime esibizioni di odio, volgari e sessiste, comparse sui social nelle scorse settimane contro Giorgia Meloni, il 27 luglio alle ore 23 con il tweet di Cappelletti si è toccato il fondo del fondo.
Un mare di testimonianze d’affetto per la leader di Fdi. Ovvio che il tipo, che non ha cancellato nulla e anzi ha rilanciato il vaticinio con un vaffa, sia stato sommerso da uno tsunami di reazioni e qualche meritatissima offesa. Oltre settemila in due ore i commenti sulla pagina della Meloni. Si va da più sobri: “Giorgia, querelalo, e fagli del male” o “i figli non si toccano”, a quelli più diretti. Sono tante in queste ore le testimonianze di affetto e vicinanza a Giorgia da parte dei colleghi di Fratelli d’Italia ma anche di altre forze politiche. «Ginevra è e sarà sempre fiera di essere figlia di Giorgia Meloni, così come saranno sempre fiere di lei la sua mamma, sua sorella e le sue adorate nipoti. Noi, la sua comunità, possiamo dire con orgoglio che di donne come Giorgia non ce ne sono tante nel mondo e che questa, per nostra fortuna, è capitata a noi e non a loro!». Occhio per occhio, dente per dente? No. Sarebbe un regalo agli “odiatori” di mestiere. L’ex ministro della Gioventù guarda avanti, è abituata ad attacchi di ogni tipo, talvolta anche fisici. Ha ben altro da fare. Stavolta, però, avrà ripreso il suo lavoro, con un po’ di amarezza in più.
Affidi illeciti, la Procura di Modena riapre l'inchiesta Veleno: c'è un legame con Bibbiano? Gli interrogatori furono svolti da alcuni psicologi di "Hansel e Gretel" di Torino coinvolti ora nel caso "Angeli e Demoni". La Repubblica il 28 luglio 2019. La Procura di Modena ha aperto un fascicolo per riesaminare le vicende dei presunti pedofili della Bassa di 22 anni fa. Il riferimento è all’inchiesta Veleno che aveva portato all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli. La decisione di riaprire i fascicoli è arrivata dopo che sono stati presentati tre esposti. Il pubblico ministero Giuseppe Amara dovrà valutare se ci sono nuovi elementi che chiariscano i tanti punti oscuri della vicenda. Un caso che torna di attualità e che in qualche modo si lega all’inchiesta Angeli e Demoni perché dal centro Hansel e Gretel di Torino provenivano le psicologhe che interrogarono anche i bambini di Veleno. Il fascicolo conoscitivo è stato aperto su iniziativa del Procuratore capo Paolo Giovagnoli. Non ci sono indagati e al momento non sono previsti né interrogatori né convocazioni, ma solo un'analisi della documentazione. "Siamo in una fase iniziale - dichiara Giovagnoli alla "Gazzetta di Modena" -. Abbiamo aperto un fascicolo conoscitivo per cercare di ricostruire le vicende di allora. E' un fascicolo ancora ad ampio raggio. Trattandosi di fatti di più di vent'anni fa, può darsi pure che eventuali reati siano prescritti". "C'era un esposto dell'ex senatore Carlo Giovanardi già da tempo - dichiara inoltre il procuratore capo modenese - poi ne sono arrivati altri e noi stiamo cercando di capire cosa sia successo all'epoca dei fatti". Intanto il tema degli affidi di minori, come scrive la "Gazzetta di Reggio", è arrivato anche in centro a Modena. In 400 hanno sfilato vestiti di bianco con le fiaccole in mano fra le vie della città per tenere alta l’attenzione sul caso di Bibbiano. Fra i manifestanti che venivano da tutta Italia anche famiglie modenesi che hanno raccontato le loro esperienze. "La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo caso Veleno", aveva affermato nelle scorse settimane il giornalista Paolo Trincia, riferendosi alla sua inchiesta giornalistica dal titolo “Veleno”, realizzata proprio nella Bassa emiliana, che ha ricostruito le vicende di un gruppo di bambini allontanati per sempre dai genitori per presunti abusi e riti satanici che, secondo l'accusa, erano opera di una presunta banda di pedofili, i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”, ma di cui in realtà non sono mai state trovate prove reali. Il link "si chiama Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, di cui è stato arrestato il responsabile, Claudio Foti. Proprio le psicologhe provenienti da quel centro avevano interrogato i bambini di Veleno... Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast" ha ricordato Trincia riferendosi a una onlus torinese che aveva ricevuto l'incarico dai servizi sociali della Val D'Enza. "So che gli investigatori hanno utilizzato la nostra inchiesta come chiave investigativa per studiare il fenomeno visto che tratta la tessa tematica anche se poi hanno seguito poi le loro intuizioni".
GIU’ LE MANI DAI BAMBINI. Fabio Poletti per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Una nonna sgomita dietro le transenne e se lo bacia. Un papà gli racconta la sua odissea: «Erano anni che sapevamo di questa cosa...». Matteo Salvini, maglietta bianca con scritta Italia sulle spalle, plana a Bibbiano, profonda Emilia, un tempo allevamenti di maiali, oggi solo «angeli e demoni» dal nome dell' inchiesta che ha fatto luce su un giro di affidi illeciti, bambini strappati ai genitori con false prove e affidati ad altri genitori. «Sono qui prima di tutto come papà. E poi come ministro per dire che lo Stato qui c' è», Matteo Salvini parla senza microfono dallo scalone del Municipio dove hanno messo un paio di scarpine bianche da bambino. Il sindaco Andrea Carletti del Pd è finito agli arresti domiciliari per gli atti controfirmati. Il ministro dell' Interno non nomina lui né il suo partito. «Chi ha sbagliato deve pagare doppio. Ai primi di agosto nascerà una commissione d' inchiesta sulle case famiglia. Ho visto lucrare sulla pelle degli anziani e degli immigrati. Non avrò pace fino a che non sarà a casa anche l' ultimo dei bambini». Quattro di loro sono stati riaffidati ai genitori a fine giugno. Questa mamma coi capelli lunghi, la maglietta bianca, i jeans chiari e i sandali rivedrà sua figlia giovedì, dopo più di un anno e mezzo: «È passato così tanto tempo che ho il cuore in gola. Forse la situazione si sta finalmente sbloccando. Spero che questo primo incontro sia solo l' inizio. La rivoglio a casa. Vivo solo per questo. Ma chi ci ha strappato i nostri figli dalle braccia deve pagare». Nel mirino ci sono assistenti sociali, psicologi, un paio di avvocati. Che ci sia il sindaco del Pd di Bibbiano, coinvolto anche se marginalmente, fa da catalizzatore. Alla fiaccolata di sabato sera dietro lo striscione «Giù le mani dai bambini» c' erano mille persone. Cattolici integralisti pure da Roma, Forza Nuova, CasaPound, Lealtà e Azione, I Sentinelli ma giurano pochi bibbianesi. Il segretario del Pd Stefano Marazzi ha parole per tutti: «Siamo di fronte a uno sciacallaggio politico senza precedenti. Dei bambini non interessa niente. Il nostro sindaco che ha firmato solo atti tecnici è stato demolito. Ma la verità verrà a galla». Valterio Ferrari di una lista civica di opposizione con dentro qualche esponente dei 5 Stelle si dice molto di sinistra ed è pronto a firmare una mozione di sostegno al sindaco con tutta la maggioranza: «La situazione qui è andata fuori controllo. Ci mancano solo le cavallette.
Ma non potremmo chiudere i porti, a Bibbiano?». La battuta è efficace. Ma il paese è tutt'altro che unito. Davanti a Matteo Salvini c' è chi srotola un lenzuolo con disegnati dei mattoni. Come dire che il muro di omertà si è sgretolato. Più di una mamma giura di averla scampata bella. Come questa signora con gli occhiali e i capelli lunghi: «Ho dovuto denunciarli per evitare che portassero via mio figlio». Ma tanti son qui solo perché è Matteo Salvini e non vedono l' ora di farsi un selfie con lui. Da Roma la vicesegretaria del Pd Paola De Micheli usa parole d' acciaio: «Da Salvini solo una passerella. Meglio che ci parli di Moscopoli». Luigi Di Maio si schiera con l' alleato di governo: «Veramente vergognoso il silenzio del Pd. Sarò presto a Bibbiano con il ministro della Giustizia Stefano Bonafede». Matteo Salvini vola alto alla fine del suo comizio: «Non meritate di essere conosciuti nel mondo come la comunità degli orchi e dei ladri dei bambini». Ma basta spostarsi a Barco, al centro Polifunzionale Pietro Del Rio dove sono finiti in manette le assistenti sociali per sentire un' altra voce. Quella del barista lì a fianco: «Cosa penso del sindaco? Lo difende solo chi lo ha votato».
Leonardo Grilli per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Un lavoro sotto traccia. In silenzio, in punta di piedi. È quello dei giudici del tribunale dei Minori di Bologna che stanno esaminando in modo più approfondito decine di casi (almeno 70) e segnalazioni seguiti negli ultimi due anni dai servizi sociali reggiani finiti sotto inchiesta. E mentre i magistrati bolognesi, guidati dal presidente Giuseppe Spadaro, controllano fascicoli e cartelle, emerge come già da tempo il tribunale minorile avesse intercettato delle irregolarità nel lavoro svolto dai professionisti ora sotto indagine. Massimo riserbo Al punto che per quattro bambini sui sei inseriti nell' inchiesta Angeli e Demoni c' è già stato un lieto fine: i loro casi sono stati riesaminati dai giudici di Bologna e, viste le irregolarità emerse, è stato deciso il ricongiungimento con le famiglie di appartenenza. Su chi siano questi bambini ovviamente, a loro tutela, vige il massimo riserbo ma tanto le segnalazioni, quanto i ricongiungimenti, sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui è stata resa pubblica l' inchiesta e sono scattati gli arresti. Un retroscena che conferma quanto da sempre sostenuto dallo stesso Spadaro, ovvero che in tutta questa vicenda il tribunale minorile di Bologna sia «parte lesa» e che da tempo vi fosse più che qualche dubbio sull' operato dei servizi della Val d' Enza. Non a caso proprio le perplessità dei magistrati bolognesi hanno dato un input importante alle indagini reggiane condotte da procura e carabinieri. Così, se da un lato i minori hanno potuto riabbracciare i propri genitori, dall' altro gli inquirenti, forti anche degli elementi forniti loro da Bologna, hanno continuato a indagare fino a formulare l' ipotesi che all' interno dei servizi della Val d' Enza si fosse creata una sorta di organizzazione che, nel manipolare le testimonianze di bambini, sottraeva i piccoli a famiglie in difficoltà per assegnarli dietro pagamento (si sospetta un giro d' affari di migliaia di euro) ad amici o conoscenti ritenuti ufficialmente più idonei. Frode processuale, depistaggio, abuso d' ufficio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d' uso e lesioni gravissime sono i reati formulati a vario titolo dalla procura. Gli accertamenti Mentre l' iter processuale prosegue, Spadaro sta continuando a rivalutare, con i suoi colleghi del tribunale e della procura minorile e d' intesa con gli inquirenti di Reggio, i procedimenti al centro dell' indagine, arrivando a inviare in alcuni casi i propri giudici per verificare direttamente le condizioni dei minori coinvolti. Gli accertamenti riguardano non solo gli episodi finiti nell' inchiesta ma tutti quelli seguiti dai servizi della Val d' Enza negli ultimi due anni, segno che l' ufficio giudiziario vuole fare chiarezza su tutte le segnalazioni. Proprio per questo motivo tutti i casi sono stati affidati a un differente servizio sociale, conferendo anche incarico a consulenti e periti per far luce su ogni situazione e riesaminare le precedenti risultanze dei servizi sociali sotto inchiesta. Sentiti gli insegnanti I giudici sono stati anche nelle comunità ospitanti e hanno incontrato insegnanti nelle scuole e dagli accertamenti preliminari sono emerse omissioni e anomalie all' interno delle relazioni dei servizi. Tra l' altro, in una procedura di dichiarazione di abbandono, e quindi con sentenza di adottabilità - dove i genitori biologici si erano resi effettivamente autori di condotte estremamente pregiudizievoli nei confronti dei figli - il servizio non avrebbe comunicato al tribunale che erano state individuate coppie e già lì collocati i minori. Tutto questo nonostante l' ordine esplicito di trovare famiglie affidatarie «di concerto con i giudici». Un' attività, quindi, che avrebbe indotto in errore tanto la Procura quanto lo stesso tribunale per i minori, che ora vuole vederci chiaro.
BIBBIANO, VE LA FAREMO PAGARE. Enrico Lorenzo per “la Stampa” il 26 luglio 2019. «Muori tu e la tua famiglia», «fate bene ad avere paura state attenti in giro». È incessante il flusso di minacce che sta investendo gli amministratori e i dipendenti pubblici dei comuni della Val d' Enza dopo l' esplosione dell' inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti di minori. Ecco perché il municipio di Bibbiano, la sede locale del Partito Democratico e quella dei servizi sociali della Val d' Enza che si trova nella frazione di Barco, sono diventati da qualche giorno «sorvegliati speciali» e vigilati «notte e giorno» da pattuglie della polizia e dei carabinieri. Le misure sono in vigore da prima della visita di martedì scorso del ministro dell' Interno Matteo Salvini, incontrato poi dai sindaci che hanno lamentato lo stato di insicurezza degli uffici pubblici.
Gli uffici chiusi a chiave. Una situazione diretta conseguenza del clima di rancore che si è addensato intorno agli amministratori dopo l' inchiesta sui bimbi tolti alle famiglie dai servizi sociali. Il bersaglio prediletto delle minacce è Bibbiano. Il sindaco Andrea Carletti è ancora ai domiciliari, arrestato nell' inchiesta per abuso d' ufficio. In queste ore il vice sindaco sta valutando il trasferimento della sede di alcuni uffici per motivi di sicurezza degli operatori e per garantire il regolare svolgimento dei servizi di welfare. In municipio sono arrivate lettere al vetriolo, altre con dentro escrementi, due delle quali giunte da Bologna e due addirittura dalla Sicilia.
L' odio sui social network. Senza scordare le decine di mail e le centinaia di commenti scritti sui social network. Pochi giorni fa si sono però presentati anche i rappresentanti della cosiddetta "Banda degli Idraulici" che, casco in testa, sono entrati negli uffici comunali di Bibbiano per consegnare un pacchetto agli impiegati. Conteneva materiale organico. Alcuni dipendenti sono talmente esasperati da chiudersi a chiave negli uffici durante l' orario di lavoro. Intanto stanno raccogliendo tutte le minacce (lettere, telefonate, post) giunte in questi giorni, consegnate poi ai carabinieri di Bibbiano. «Tutti i dipendenti, quindi, non solo chi lavora nei servizi sociali, subiscono minacce quotidiane» di ogni genere, anche di persona, avvertono ora i sindacati che hanno chiesto di mettere in campo «tutti gli strumenti utili a garantire agli operatori dei servizi e al restante personale amministrativo dell' Unione la sicurezza necessaria per poter adempiere al meglio ai propri compiti». Ieri è saltato all'ultimo momento l' incontro tra una bimba e i genitori, che non si vedevano da due anni. Troppa la pressione mediatica sulla vicenda: il tutore ha preferito posticipare l'abbraccio tanto agognato dalla bimba, che scrisse una lettera accorata al padre, mai consegnata dagli assistenti sociali.
L' appuntamento rimandato. I tre dovevano trovarsi nella stessa stanza dopo anni passati senza potersi toccare né vedere. Il quadro familiare doveva ricomporsi con l' accordo del giudice che sta vagliando la causa di separazione dei due genitori. Una svolta anche sulla base dell' inchiesta, che ha messo il caso della ragazzina ora dodicenne al centro delle complesse indagini. Secondo gli assistenti sociali era stata vittima di abusi sessuali ma per la Procura di Reggio Emilia quei report che giustificavano l' affido erano in realtà falsi, accusa che ha aperto uno squarcio sul sistema di tutela della Val d' Enza.
Tutela dei minori. «Mai più bimbi strappati alle loro famiglie». Simona Musco il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. Tutela dei minori. Al centro del protocollo la proposta del Cnf di puntare sull’avvocato “dei bimbi”. Il Viminale rilancia l’invettiva contro i rom «i tribunali vadano lì a fare controlli». «Perché i Tribunali dei minori non vanno nei campi rom per tutelare quelle migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente, preferendo purtroppo in moltissimi casi introdurli alla delinquenza?» La domanda del ministro dell’Interno Matteo Salvini arriva al termine della conferenza stampa congiunta con il ministro per la Disabilità e la famiglia Alessandra Locatelli, con la quale ha firmato un protocollo d’intesa per azioni congiunte sulla tutela dei minori, intesi come soggetti di diritto. Azioni finalizzate anche e soprattutto alla revisione del sistema degli affidi, per ridurli al minimo possibile. Anche se i rom, come già evidenziato durante la sua visita a Bibbiano, da dove è partita l’indagine che ha dato il via alle task force dei due ministeri e di quello della Giustizia, per il capo del Viminale sono un caso a parte.
Sistema degli affidi in crisi. Il patto tra i due ministeri parte dalle segnalazioni già arrivate al Dipartimento per le politiche della famiglia da parte di privati e dal terzo settore su presunte criticità del sistema degli affidi, oltre che dal caso Bibbiano, attorno al quale il Parlamento ha deciso di istituire una Commissione d’inchiesta. «Il mio impegno è quello di tutelare per prime le famiglie, i minori, i più fragili – ha affermato Locatelli – Nel tentativo di fare questo ho fatto delle audizioni e ascoltato persone che hanno voce in capitolo sui temi che riguardano la tutela dei minori».
L’avvocato del minore. Dall’ordine degli assistenti sociali a quello degli psicologi, dalla polizia ai carabinieri, passando per Cnf, tavolo affidi e Garante per l’Infanzia, gli incontri hanno portato sulla scrivania del ministro diverse proposte, che verranno riversate in un documento da consegnare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con un’ipotesi di riforma del sistema. E lo spunto centrale, ha spiegato Locatelli, è quello che riguarda la figura dell’avvocato del minore, suggerita dal presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, e accolta anche da Salvini. «L’avvocato del minore è stato il fulcro dell’incontro con il Cnf e con altre realtà che ci hanno ricordato quanto un bambino non sia solo oggetto di tutela ma anche oggetto di diritti, che possono essere tutelati da una terza persona – ha spiegato Locatelli – che potrebbe essere una figura come quella dell’avvocato del minore, che si affianca a quella, che già esiste, del curatore e che possa veramente fare le parti del bambino e non le parti di chi litiga. È qualcosa che va approfondito, integrato e discusso, ma è un ottimo spunto di riflessione per tutti, per mettere al centro il bambino». Il protocollo è un punto di partenza per altri progetti mirati per la formazione, ma anche per un tavolo operativo che si occuperà di esaminare caso per caso. E il numero degli affidi in Italia, ha affermato Salvini, «è impressionante» : partendo da una distinzione tra le vere case famiglia e quegli istituti «che invece fanno business e tengono sotto sequestro migliaia di minori e grazie a loro fatturano milioni di euro», i minori ospiti in comunità sono «50mila».
I dubbi di Salvini. «Io penso che portare via un bimbo a mamma e papà sia l’ultima delle ultime scelte da fare in caso di violenze evidenti e in caso di mancanze economiche che non permettono una vita tranquilla ha sottolineato – Non penso che ci siano 50mila casi del genere». I casi di Bibbiano sono la dimostrazione «che in quel sistema qualcosa non funzionava, perché a denuncia archiviata non è corrisposto il ritorno a casa del bambino strappato alla famiglia», ha aggiunto. Il caso di cronaca è, dunque, lo spunto «per rivedere l’intero sistema del diritto di famiglia», magari introducendo «il reato di alienazione parentale», così come in altri Paesi europei. «Utilizzare i bambini come mezzo di ricatto per la risoluzione di conflitti che riguardano gli adulti è una cosa indegna di un paese civile», ha sottolineato. Una «fattispecie oggettiva», dunque, come la povertà, «che è una di quelle fattispecie che hanno permesso di portare via i bimbi alle loro famiglie – ha sottolineato – Ma se questa fattispecie riguarda una persona che lavora con il posto fisso, in ospedale, da 20 anni ( facendo riferimento al caso di una donna incontrata a Bibbiano, ndr) allora mi domando che concetto di povertà ci dovrebbe essere nei campi rom. Anche qua tutto sta nell’uomo o nella donna che applica la norma, nella scienza e coscienza degli assistenti sociali e nei giudici dei minori che decidono che fare o non fare».
Revisione della legge. La proposta di Salvini è quella di una revisione anche della legge sull’affido condiviso, così come di tutto il diritto di famiglia. Idee che partono dal protocollo, punto di partenza per un «rafforzamento della cooperazione tra i soggetti istituzionali», per definire e adottare strategie operative relative all’attività delle comunità residenziali che accolgono i minori e al sistema degli affidi familiari, ma anche per promuovere la raccolta dati e il monitoraggio sul sistema, con a corredo campagne di sensibilizzazione e informazione. Una collaborazione che dovrebbe istituzionalizzare un metodo che consenta a tutti coloro che sono in contatto con i minori di captare i primi segnali di abusi e violenze e attivare subito idonee misure di protezione. L’accordo prevede, entro due mesi dalla firma, l’istituzione di un tavolo di lavoro, con il compito di definire strategie e modalità operative.
Caso Bibbiano, la responsabile dei servizi prometteva affidi senza scadenza. Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, intercettata mentre parlava con associazioni Lgbt. E spuntano anche falsi provvedimenti. Zingaretti: "Duri coi responsabili e con gli sciacalli". La Repubblica il 26 luglio 2019. Prospettava la possibilità di dare in affido minorenni senza scadenza. E' quanto emerge da un'intercettazione agli atti dell'inchiesta Angeli e Demoni, seguita dalla Procura e dai carabinieri di Reggio Emilia: la dirigente del servizio sociale della Val d'Enza, Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, ne avrebbe parlato con coppie che fanno parte di associazioni lgbt di una città del Sud Italia. Le coppie le domandavano degli affidi temporanei, dicendosi preoccupate del fatto di potersi affezionare ai bambini e poi di perderli, se questi avessero fatto ritorno a casa. Anghinolfi li rassicurava dicendo che se i genitori continuavano a essere ritenuti inadeguati dalle relazioni dei servizi sociali, i figli potevano anche non tornare mai nelle famiglie di origine, rimanendo "sine die" con gli affidatari. Di fatto, come un'adozione. Anghinolfi è figura chiave nell'inchiesta dove si contestano anche lavaggi del cervello ai minori, abusi inventati e relazioni dei servizi sociali falsate che hanno avuto l'effetto di togliere i bambini alle famiglie di origine.
Affidi fantasma. Non solo. Emerge anche il caso di affidi fantasma, cioè bambini sulla carta affidati a una donna, che in realtà non li ha mai accolti a casa. La circostanza emerge dalle carte dell'inchiesta: ne dà notizia il Resto del Carlino. E' la donna nominata affidataria a raccontare che l'affido a suo nome fatto da Federica Anghinolfi, era falso. "Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori - la sua testimonianza - Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri", in una struttura di aggregazione giovanile dove lavorava come cuoca. "Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in 'affido sostegno' tale bambino" e "mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché". Secondo il gip con il documento falso è stata predisposta la pezza d'appoggio per far ottenere alla donna una sorta di retribuzione, inserendo la voce nel bilancio dell'Unione come "rimborso spese affido".
Clima di pressioni e minacce a Bibbiano. Ieri intanto, come riferisce Gazzetta di Reggio, è saltato, anche per la troppa pressione attorno alla vicenda l'incontro tra i genitori naturali e uno dei minori coinvolti nell'inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali che secondo la Procura non sono veritieri. Inoltre, non si attenua il clima di minacce e intimidazioni nei confronti dei dipendenti pubblici dell'Unione della Val d'Enza, segnalato dai sindacati. Per questo il prefetto di Reggio Emilia ha disposto un rafforzamento della vigilanza al municipio di Bibbiano, alla sede dei servizi sociali e a quella locale del Pd. Intanto quattro dei sei bambini coinvolti nell'inchiesta sono tornati a casa. Lo ha stabilito il Tribunale dei minori di Bologna che sta controllando tutti i casi al centro dell'indagine e degli ultimi due anni. Questi quattro ricongiungimenti sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui sono scattati gli arresti e le misure cautelari per 18 persone: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, la dirigente Anghinolfi, assistenti sociali e tre psicoterapeuti della Onlus Hansel e Gretel tra cui Claudio Foti.
Miur sospende accreditamento con la Onlus Hansel e Gretel. Dopo i fatti di Bibbiano, a quanto si apprende, il 17 luglio il Miur ha sospeso dalla piattaforma Sofia per la formazione degli insegnanti l'associazione Hansel e Gretel. Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda l'utilizzo della Carta del docente, strumento usato dagli insegnanti per comprare anche alcuni corsi di formazione.
Zingaretti: "Duri coi responsabili e gli sciacalli". Oggi Nicola Zingaretti, segretario del Pd, con una lettera alla Gazzetta di Reggio, è intervenuto sul caso degli affidi illeciti di Bibbiano: "Vigilerò perché si faccia la massima chiarezza e sia punito senza pietà ogni tipo di responsabilità. E vigileremo perché si assicuri tutta la protezione di cui hanno bisogno ai minori che stanno affrontando una prova difficilissima". Zingaretti, però, mette in guardia anche dalle strumentalizzazioni. "Abbiamo denunciato e denunceremo - prosegue - chiunque in maniera scellerata e irresponsabile sta strumentalizzando questa vicenda per raccattare voti e fare sulla pelle di bambini, campagne di denigrazione di avversari politici. Tipico di chi non ha argomenti e di tanti sciacalli che popolano oggi il palcoscenico della brutta politica. Una preghiera e un appello: stop a questa insensata spirale di odio e ogni genere di speculazione, nel rispetto dei bambini, delle famiglie, delle comunità scosse da questa vicenda". Il Pd, dice Zingaretti, seguirà l'indagine della magistratura "e si costituirà parte civile nell'eventuale processo. Siamo e saremo in prima linea per chiedere che nelle indagini vengano garantite massima velocità e chiarezza. Parallelamente ci batteremo in parlamento per migliorare il regime degli affidi, aumentando controlli e trasparenza. Nessuno scherzi con la vita dei bambini".
Bibbiano, nuovi dettagli choc: spuntano gli affidi "fantasma". Dalle carte emerge che una donna, per poter lavorare, doveva fingersi affidataria di un minore. Costanza Tosi, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. Era stata nominata affidataria di due bambini, ma la donna, quei piccoli, non li ha mai accuditi. Maria (nome di fantasia, ndr) sarebbe l'ennesima vittima dei servizi sociali della Val D’Enza. Gli stessi che, secondo la Procura di Reggio Emilia, avevano messo in piedi un presunto giro di affari illecito denunciato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma andiamo con ordine. Tutto è iniziato quando i servizi sociali approfittarono dei problemi economici della donna che, trovandosi in difficoltà, cadde nella trappola dei “demoni”, come racconta Il Resto del Carlino. Maria si era rivolta ai servizi sociali della Val d’Enza, indirizzata dal centro per l’impiego. “Feci un tirocinio di segreteria, percependo 550 euro mensili per i primi sette mesi”. Fu proprio in quell’occasione che la signora incontrò Federica Anghinolfi - dirigente dei servizi sociali, ora agli arresti domiciliari - alla quale chiese aiuto. “Le domandai di poter lavorare, e lei mi propose come cuoca in una struttura pomeridiana di aggregazione giovanile in Val d’Enza per tre volte alla settimana in cambio di 360 euro al mese. Mi disse che era necessario formalizzare la mia attività attraverso un documento”. Un semplice contratto. Che si rivelò, poi, una vera e propria truffa. Per lavorare in cucina, Maria doveva prendersi carico dell’affido di due minori. O, almeno, così era scritto sulla carta. “Mi fu consegnato un foglio dove Federica indicava che mi dava un bambino in affido sostegno”. Ma, di fatto, la donna quel bambino non lo ha mai accolto in casa sua. Una storia che si è ripetuta anche l’anno successivo. Un contratto, un bambino. Era questo l’accordo. “In realtà, né nel 2017, né nel 2018 diedi ai due minori alcuna accoglienza. Li conosco solo perché a pranzo cucino per loro e per tutti gli altri ragazzi. Non conosco le loro storie e neppure chi siano i genitori”. Ma quale era il ruolo di Maria? A cosa servivano le dichiarazioni di questi affidi fantasma? A spiegarlo è proprio lei, che racconta, riferendosi a Federica Anghinolfi: “Mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché”. Funzionava così: “Da quel momento i servizi sociali, a cui il centro ‘Hansel e Gretel’ trasmette le fatture a me intestate per la psicoterapia del minorenne, mi anticipano ogni mese la somma sul mio conto. Poi io, come da indicazioni di Federica, faccio un bonifico alla ‘Hansel e Gretel’”. Insomma, la cuoca doveva pagare le visite di psicoterapia dei bambini che non teneva in affido. Come conferma anche la madre del piccolo: “Mio figlio è sempre rimasto a casa, sotto la supervisione dei servizi sociali. Sono sbalordita, ero all’oscuro di tutto. Non conosco questa signora e mio figlio non le è mai stato affidato”. Un tranello pensato nei dettagli e tutto, per far uscire i soldi da dare alla cuoca dai fondi dell’Unione dei Comuni. Come sostengono le carte: “Attraverso il documento falso è stata predisposta la pezza d’appoggio per dare alla cuoca una sorta di retribuzione in assenza di assunzione formale, facendo inserire la voce di spesa nel bilancio dell’Unione dei Comuni come “rimborso affidò per il bambino”.
La bambina del «caso pilota»: strappata con una telefonata, ora riabbraccia nonni e papà. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Alessandro Fulloni, inviato a Bibbiano, su Corriere.it. Questa storia, che adesso ha il lieto fine, del ritorno a casa (il mese scorso) di una bimba di circa dieci anni era cominciata così, con una brusca telefonata. «Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce che proveniva dai servizi sociali della Val d’Enza. Dall’altra la sbigottita nonna di una bambina che aveva in affido: questo perché suo figlio era diventato papà assai giovane, a 17 anni. Mentre la sua compagna partorì a 14. Considerati immaturi dai servizi per crescere un figlio, è il «caso pilota» — per usare l’espressione del gip Luca Ramponi — dell’intera inchiesta condotta dalla procura di Reggio Emilia sui falsi affidi. Questo perché un disegno fatto dalla bimba (c’è lei accanto al nuovo compagno della mamma) secondo l’accusa fu modificato da una psicoterapeuta della Ausl. Due lunghe braccia della bimba andarono innaturalmente a toccare in modo ambiguo l’adulto. Un’aggiunta fatta per dimostrare abusi (inesistenti) da parte di lui. Sulle carte giudiziarie c’è scritto che i genitori-ragazzini della bimba si lasciarono dopo tre anni dalla nascita di lei. Per questo i servizi sociali la affidarono alla nonna. «Poi però ci hanno ripensato: strappandola anche all’anziana», racconta Natascia Cersosimo, 44 anni, consigliera 5 Stelle a Cavriago e capogruppo del Movimento all’Unione Val d’Enza, l’associazione di otto Comuni reggiani il cui dipartimento al sociale è stato azzerato. Natascia conosce bene la nonna della piccola, sono amiche da tanto tempo e soprattutto conosce bene la vicenda dei falsi affidi tanto da aver chiesto, un anno fa, spiegazioni per quei numeri che le suonavano strani: «Troppe denunce per violenze familiari. E soprattutto troppi affidi: oltre 1.000 nel 2016 in Val d’Enza, che conta 50 mila abitanti. Rivaleggiavano con Bologna che ha 400 mila residenti. Mi risposero che era perché il servizio funzionava». Non così deve averla pensata la nonna della piccola. Subito dopo la brutale telefonata dei servizi la donna corse dai carabinieri per denunciare ciò che le parve «una mostruosità incomprensibile». Le carte raccontano che alla piccola — prima ospite in una casa protetta, poi in affido a una coppia — venne chiesto più volte dalle psicoterapeute (con le opportune cautele nell’uso delle parole) di eventuali violenze. La bimba ha sempre negato e nemmeno la visita ginecologica alla quale venne sottoposta dimostrò alcunché. La svolta nella storia è arrivata con il via dell’inchiesta. Coordinandosi con la Procura, il Tribunale dei minori di Bologna ha ricontrollato tutti gli atti del fascicolo. Compreso il disegno, falsificato pure secondo una perizia voluta dall’accusa. Dopo il decreto firmato dai giudici minorili, la piccola è tornata a casa, dai nonni (presso i quali vive anche il padre). «L’ho vista diverse volte», racconta la consigliera Cersosimo, «mi è sembrata una bambina felice».
Verso la promozione il presidente del Tribunale per i minori di Bologna, scrive Francesco Borgonovo su La Verità il 20 luglio 2019. Giuseppe Spadaro guida il Tribunale dei Minori competente sui casi di Bibbiano e per questo ispezionata dal ministero. Per lui un ci sarebbe l’incarico di procuratore capo a Roma. Famose le sue sentenze pro adozioni arcobaleno. La lobby gay, che controlla settori della magistratura e della politica, premia il proprio benefattore.
Contro gli abusi sugli abusi. L’indagine a Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori sulla base di finti abusi è un’occasione per vaccinare l’Italia da chi trasforma i processi in caccia alle streghe. Ermes Antonucci su Il Foglio il 9 Luglio 2019. Un sano approccio garantista e il ricordo dei tanti processi mediatici poi finiti nel nulla dovrebbero indurre a esaminare con molta prudenza il caso di Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori dalle proprie famiglie sulla base di finti abusi. Angela Lucanto, Bassa modenese, Rignano Flaminio, Reggio Emilia. C’è un filo che collega alcuni casi di abusi che non lo erano L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dalla pm Valentina Salvi, ha portato all’adozione di misure cautelari per 18 persone...
Come ti plasmo il giudice antiabusi. Indagine sul Cismai, che insegna la sua ideologia inquisitoria perfino al Csm. Ermes Antonucci su Il Foglio il 24 Luglio 2019. Il Consiglio superiore della magistratura e la Scuola superiore della magistratura hanno promosso per anni corsi di formazione per i magistrati italiani incentrati sulle idee (non riconosciute dalla comunità scientifica) del Cismai, l’associazione al centro di decine di processi per presunti abusi su minori poi conclusi con clamorose assoluzioni e ora coinvolta nel caso di Bibbiano. In un precedente articolo, pubblicato lo scorso 9 luglio, abbiamo sottolineato come siano stati proprio gli assistenti sociali e gli psicologi affiliati al Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia) a svolgere le perizie su cui si sono basati numerosi processi per accuse di abusi su minori poi smentite (Angela Lucanto, i “Diavoli della Basse modenese”, Rignano Flaminio), e come ora questi stessi professionisti siano al centro dell’inchiesta di Reggio Emilia sul presunto giro di affidi illeciti di minori nei comuni della Val d’Enza. Al centro dell’indagine vi è la onlus Hansel e Gretel, diretta dallo psicoterapeuta Claudio Foti, da sempre tra i principali sostenitori del Cismai e ora indagato. La stessa onlus, come abbiamo rivelato, è stata iscritta per anni al Cismai. Lo stesso Cismai, inoltre, risulta essere tra i soggetti che hanno collaborato all’organizzazione di un convegno tenutosi il 10 e 11 ottobre 2018 a Bibbiano dedicato ai primi due anni di esperienza del centro La Cura, ora al centro dell’indagine della procura di Reggio Emilia, in cui operavano gli operatori della onlus Hansel e Gretel. Al convegno intervenne con una relazione anche Gloria Soavi, presidente del Cismai. Nelle ultime settimane anche altri giornali ha ricostruito la serie di casi giudiziari controversi che hanno coinvolto gli affiliati al Cismai. Il Fatto quotidiano ha ricordato la tremenda vicenda di Sagliano Micca (Biella) del 1996, in cui un’intera famiglia, incolpata ingiustamente di abusi sessuali, si suicidò nel garage della propria abitazione. Panorama ha rintracciato casi simili di famiglie distrutte sulla base di accuse infamanti di abusi, poi smentite dai giudici, anche a Salerno, Pisa, Arezzo e Cagliari. A prescindere dai recenti fatti di Bibbiano, su cui si esprimerà la magistratura, abbiamo fatto notare come il vero problema sia costituito dal metodo utilizzato dal Cismai, e quindi da centinaia di professionisti sparsi per il paese, per l’ascolto dei minori, che spinge a rintracciare abusi sessuali anche quando non ci sono. Una metodologia (enunciata nella “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale” del Cismai) elaborata da una commissione interna alla stessa associazione e respinta dalla comunità scientifica, che invece si riconosce in alcuni testi ben più rigorosi e frutto di in un intenso lavoro del mondo scientifico e accademico, come la Carta di Noto e le linee guida della Consensus Conference. Tuttavia, la metodologia del Cismai (tutta incentrata sulla convinzione che l’abuso sessuale sui minori sia un “fenomeno diffuso” e “in grande prevalenza sommerso”, che gli adulti non vadano ascoltati perché “quasi sempre negano” e che l’abuso debba essere rintracciato anche in assenza di rivelazioni del minore, grazie a un approccio “empatico” da parte degli operatori) ha fatto proseliti, tanto da permettere a Foti e ai vertici del Cismai di tenere negli ultimi anni convegni e corsi di formazione per psicologi, assistenti sociali ed educatori. Ma non è tutto. Il Foglio, infatti, è in grado di rivelare che sia Gloria Soavi, presidente del Cismai, sia Claudio Foti hanno avuto la possibilità di formare anche magistrati. La prima risulta essere stata tra i relatori di un corso di formazione di tre giorni (15-17 gennaio 2018) dedicato alla “pratica del processo minorile e civile”, organizzato a Scandicci dalla Scuola superiore della magistratura, alla quale dal 2006 è attribuita la formazione iniziale e permanente delle toghe, ma questo potrebbe non essere stato l’unico coinvolgimento di Soavi nei corsi della Scuola. Dall’altra parte, Claudio Foti è stato relatore di incontri di studio promossi dal Consiglio superiore della magistratura per ben sette anni (1990, 2001, 2003 e dal 2006 al 2009). Alcuni di questi corsi sono stati riservati a magistrati in tirocinio, cioè a magistrati che stavano svolgendo il loro percorso di formazione dopo il superamento del concorso, prima di essere destinati a svolgere le funzioni di requirenti e giudici dei minori.
Sappiamo anche che gli incontri di studio tenuti da Foti e promossi dal Csm sono stati incentrati proprio sulle teorie su cui si fonda la metodologia del Cismai.
Tra i materiali allegati agli incontri di studio tenuti da Foti il 4 ottobre 2007 e il 17 giugno 2008 a Roma, e promossi dal Csm, vi è ad esempio un articolo pubblicato dallo stesso Foti sulla rivista Minorigiustizia e dedicato al tema del “negazionismo dell’abuso sui bambini”, paragonato addirittura al negazionismo dei genocidi: “Non esiste storia di un genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato”. Secondo Foti, infatti, “è necessario, anche se mentalmente impegnativo, prendere atto di due penose verità: a) l’abuso sessuale sui minori è un fenomeno che ha dimensione endemiche nella nostra cultura; b) nonostante le sue dimensioni massicce, il fenomeno è destinato per molti aspetti a restare sommerso ed impensabile”. Esattamente le premesse enunciate nelle linee guida del Cismai. Foti cita anche una pubblicazione di Marinella Malacrea e Silvia Lorenzini (Malacrea è neuropsichiatra infantile e socio fondatore del Cismai), per criticare la corrente scientifica che promuove l’adozione di criteri rigorosi nell’ascolto dei minori, e che per questo contribuirebbe ad aumentare il rischio di falsi negativi, cioè di situazioni in cui l’abuso sarebbe avvenuto ma non viene rilevato: “La corrente scientifica che avvalora una giusta prudenza in vista del rischio di creare falsi positivi rischia di trasformarsi in cortocircuito che spinge a ‘diffidare’ comunque, senza possederne analiticamente le ragioni. E quindi, in definitiva, si arriva ad incrementare il numero di falsi negativi, pur nello sforzo in buona fede di evitare i falsi positivi”. Foti si spinge addirittura ad affermare che “i dati relativi alle false accuse non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie”, perché “non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tenere conto, giustamente ed inevitabilmente, del parametro delle prove ed inoltre risulta spesso condizionata vuoi da modalità d’indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici”. Insomma, se una denuncia per abusi su minori viene smentita in sede giudiziaria, significa che probabilmente la giustizia ha sbagliato. In un altro passaggio, Foti cita una pubblicazione di Paola Di Blasio e Roberta Vitali (anche Di Blasio, docente di Psicologia all’Università Cattolica di Milano, è associata al Cismai), per sostenere che “non si è mai riusciti a dimostrare in chiave sperimentale la possibilità di instillare un falso ricordo se non riguardante un episodio in qualche modo plausibile, familiare per il soggetto su cui s’intende effettuare l’esperimento. Non è dunque assolutamente legittimo affermare che le domande induttive o suggestive abbiano di per sé il potere di costruire un falso ricordo di un episodio implicante un contatto corporeo e violento in assenza di psicopatologia diagnosticabile o di intenzionalità suggestiva di colui o colei che pone le domande”. Foti scrive anche che “ogni rivelazione di abuso, anche se confusa e frammentaria, merita approfondimento”, rievocando in maniera quasi identica una delle raccomandazioni presenti nelle linee guida del Cismai (“la rivelazione va sempre raccolta e approfondita, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra”). Nel materiale allegato a un altro incontro di studio tenuto il 3 dicembre 2008 a Roma, sempre promosso dal Csm, Foti cita alcune statistiche elaborate sempre da Marinella Malacrea (socio fondatore del Cismai) per dimostrare che gli abusi sessuali sui minori sono largamente diffusi nella nostra società. Afferma pure che un problema nel contrasto agli abusi è rappresentato dagli “avvocati e psicologi specializzati nella difesa di indagati e di imputati di reati sessuali sui minori”, che “tendono a sviluppare tesi funzionali alla difesa dei loro assistiti, cercando di dimostrare essenzialmente che l’abuso sessuale è spesso presunto erroneamente, che alto è il rischio di falsi positivi e che comunque non esistono procedure psicologiche o giudiziarie per accertare con sufficiente certezza un abuso eventualmente sussistente”. E conclude, infine, affermando di nuovo che “non si può introdurre nella mente di un bambino un falso ricordo che non sia in qualche modo plausibile, già presente nei suoi script interni”. E’ sufficiente leggere i contenuti dei testi allegati a questi corsi di formazione per comprendere i rischi di una loro applicazione da parte dei magistrati, inquirenti o giudici, nel momento della valutazione delle denunce di abusi sessuali su minori. Non sappiamo quanti e quali magistrati abbiano partecipato alle giornate studio tenute da Soavi e Foti, né se le linee guida del Cismai illustrate nei corsi siano state poi effettivamente applicate dai magistrati. Ci sono però alcune coincidenze interessanti. L’unica sede distaccata da Roma in cui Foti ha svolto un corso di formazione promosso dal Csm (il 29 febbraio 2008) è Salerno, dove le idee del Cismai si sono molto diffuse tra gli operatori. Proprio a Salerno negli ultimi anni sono emerse diverse vicende di denunce di abusi su minori che, dopo aver distrutto intere famiglie, si sono rivelate infondate. Queste denunce sono state raccolte proprio da assistenti sociali, psicologi e neuropsichiatri affiliati al Cismai, e poi portate avanti da magistrati. Rosaria Capacchione su Fanpage ha notato che una delle psicologhe della onlus Hansel e Gretel, Alessandra Pagliuca, dopo essere stata tra le tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono all’inchiesta sui “diavoli della Bassa modenese” (tra queste vi era anche Cristina Roccia, ex moglie di Foti), recentemente ha raccolto le denunce dell’esistenza di presunte sette sataniche in provincia di Salerno. Nel 2007 le denunce hanno portato a un’inchiesta che poi non ha prodotto alcun risultato. Antonio Rossitto su Panorama ha raccontato la vicenda, avvenuta sempre a Salerno, di un professore accusato di aver abusato delle figlie. Il caso andava verso l’archiviazione ma fu riaperto dopo il parere di Claudio Foti. Dopo un lungo processo durato nove anni, il 13 novembre 2015 l’uomo è stato assolto dal tribunale di Salerno, che ha criticato il metodo utilizzato da Foti, definendolo “un approccio contestato dal mondo scientifico”. A questa serie di orrori giudiziari in terra salernitana siamo in grado di aggiungere almeno altri tre casi. Tutti i casi coinvolgono la neuropsichiatra infantile Maria Rita Russo, dirigente all’Asl di Salerno del servizio Not contro il maltrattamento dei minori, che, oltre ad aver condiviso con Foti la partecipazione a numerosi convegni e seminari sull’“ascolto delle emozioni” dei bambini, è stata tra i promotori (insieme anche ad Alessandra Pagliuca e alla onlus Hansel e Gretel di Foti) di un’associazione denominata “Movimento per l’infanzia”, presieduta dall’avvocato Girolamo Andrea Coffari, oggi legale di Claudio Foti.
Il primo caso riguarda un tenente colonnello dei carabinieri, accusato nel 2009 dall’ex moglie di aver abusato sessualmente del figlio di appena due anni e mezzo. A raccogliere la denuncia dell’ex moglie e ad ascoltare il minore fu proprio Maria Rita Russo, alla presenza della stessa madre del bambino, che partecipò attivamente ai colloqui. In seguito ai colloqui Russo rintracciò tracce di abusi sessuali nei confronti del minore e segnalò il caso alla procura. Il padre (difeso dall’avvocato Cataldo Intrieri) venne rinviato a giudizio ma, dopo un calvario lungo cinque anni, venne assolto in rito abbreviato dal gup di Salerno. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice sottolinea la “fragilità dell’intero impianto accusatorio, sia per l’inconsistenza dei pochi elementi d’accusa effettivamente documentati, insufficienti perfino a delineare un’effettiva notizia di reato, sia per l’incredibile approssimazione con cui, a giudizio dei periti, sono state eseguite le indagini tecniche di parte, in larga misura caratterizzate dalla clamorosa e grossolana violazione dei più elementari criteri previsti dai protocolli nazionali ed internazionali comunemente accettati, in tema di ascolto del minore”. Il giudice, infatti, nota come le modalità di svolgimento delle interviste al bambino “abbiano completamente disatteso le regole basilari individuate dalla comunità scientifica e riportate, per limitarsi ai documenti più significativi, nelle Linee Guida sull’ascolto del minore testimone, redatte all’esito della Consensus Conference del 2010, e nella cosiddetta Carta di Noto”. In particolare, afferma il giudice, “non si è minimamente tenuto conto dell’età del bambino”, che all’epoca dei colloqui non aveva compiuto tre anni e “non disponeva della capacità testimoniale”, non sono stati considerati i possibili condizionamenti derivanti dalle prime audizioni, che non erano state videoregistrate, né il fatto che a gestire le conversazioni fosse stata in larga misura proprio la madre del bambino. Inoltre, aggiunge il giudice, “le domande sono state poste con modalità guidate, incalzanti, confusive, suggestive” e “sono state più volte reiterate, talora con esplicite raccomandazioni a non dire bugie, in modo da innescare quel meccanismo di ‘compiacenza’ che solitamente si produce quando il bambino, ancora in tenera età, viene messo in condizioni di rendersi conto di aver fornito una risposta non gradita e finisce quindi per assecondare i desideri dell’interlocutore, specie quando questi sia una figura di riferimento affettivo, con inevitabile compromissione dell’attendibilità del narrato”. Per questi fatti Maria Rita Russo è stata rinviata a giudizio con l’accusa di false dichiarazioni al pm.
Il secondo caso riguarda due genitori accusati di aver costretto i loro figli ad avere rapporti sessuali con la sorella e a subire stupri di gruppo da conoscenti. Le accuse, raccolte sempre da Russo, hanno condotto a una condanna in primo grado per tutti gli imputati con pene tra i 10 e i 13 anni di reclusione. Lo scorso 12 luglio, però, il verdetto è stato ribaltato dalla Corte d’appello di Salerno, che ha assolto gli imputati dalle accuse di abusi sessuali e stupro di gruppo, dopo una nuova perizia che affermava come fossero state “violate le regole raccomandate in materia di ascolto dei minori”. Ad assistere uno degli imputati è stato l’avvocato Gerardo Di Filippo, che ora sta seguendo altri casi simili, da cui emergerebbero anche preoccupanti commistioni tra magistrati (e in particolare giudici onorari) e le case famiglia dove vengono spediti i minori. Il fratello di Maria Rita Russo, peraltro, è Michelangelo Russo, ex giudice della Corte d’appello di Salerno, che su un giornale locale ha definito “negazionisti” i giudici e i periti di Salerno che hanno riconosciuto l’infondatezza di molte accuse di abusi su minori.
Il terzo caso riguarda presunti abusi compiuti sui bambini di un asilo di Coperchia da parte di bidelli e personale amministrativo. Anche qui, nel corso del processo al tribunale di Salerno, è emersa l’assenza di alcun riscontro oggettivo sugli abusi.
Insomma, dopo la Bassa modenese e Reggio Emilia, anche Salerno pare una polveriera pronta a esplodere. Ma la principale domanda da porsi è:perché il Csm e la Scuola superiore della magistratura hanno aperto le porte a una metodologia non riconosciuta dalla comunità scientifica, permettendo ai magistrati di formarsi su questo approccio?
Caso Bibbiano: così si fabbrica il "mostro" dei bambini in affido. Denunce, pressioni, imbeccate. Ecco le carte esclusive delle inchieste che mettono sotto accusa il metodo del prof. Foti. Antonio Rossitto il 25 luglio 2019 su Panorama. «Gentile dottore, trasmettiamo quanto di nostra conoscenza circa un’ipotesi di reato sulla bambina G. Il presunto reato sarebbe stato commesso dal padre». Comincia così una delle denunce inviate ai magistrati dai fabbricanti di mostri. A corredo, c’è l’usuale e allarmante relazione, che dettaglia le violenze più turpi. Mittente: il Centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, diventato negli anni la Santa inquisizione di supposti molestatori e pedofili. Ma le inchieste scaturite da queste segnalazioni spesso non sono servite a smascherare padri incestuosi o insegnanti perversi. Si sono trasformate piuttosto in virulente gogne giudiziarie, concluse con assoluzioni e proscioglimenti. Famiglie sgominate da un sistema adulterato. Quello che ora è finito sotto accusa a Reggio Emilia. Gli orrori di Bibbiano: figli tolti ai genitori senza apparenti motivi, pressioni psicologiche sui bambini, interessi economici latenti. Agli arresti domiciliari sono finiti proprio il fondatore di Hansel e Gretel, Claudio Foti, e la moglie, Nadia Bolognini, terapeuta della onlus specializzata in psicologia infantile. «Gentile dottore» è l’incipit della missiva che, vent’anni fa, avvia anche l’inchiesta su Sergio. L’uomo viene denunciato dall’ex compagna per aver molestato la figlia di otto anni. La madre della bambina, preoccupata per un arrossamento ai genitali, si rivolge quindi a Foti. Un consulto che diventa un’istruttoria. Il dottore le suggerisce di partecipare allo «psicodramma», seduta collettiva con mamme e ipotetiche vittime. Una specie di teatrino per far emergere i racconti degli abusi. Gioco pericoloso e suggestivo. Ma il fine giustifica i mezzi. Sempre. Bisogna scovare gli orchi. Pazienza se la furia colpevolista travolge qualche innocente. Dopo gli incontri con il fondatore di Hansel e Gretel, la donna rafforza la sua convinzione: violenza c’è stata. Intanto, la figlia comincia a essere seguita dall’ex moglie di Foti, Cristina Roccia: la psicoterapeuta che, nello stesso periodo, viene coinvolta nelle indagini sui «Diavoli della bassa», un altro caso di falsi abusi a Mirandola. Roccia vede la giovane quattro volte in un solo mese. Poi, assieme a Foti, firma una preoccupata relazione che manda alla procura di Torino. Diagnosi netta: «Quadro più che compatibile con una situazione di rapporti incestuosi tra padre e figlia». Certo, qualcosa non torna. La bambina nega i fatti, ma è un evidente segno «del conflitto tra ricordare e dimenticare». E anche gli incubi notturni sono «segnali tipici dei minori traumatizzati». Perfino i dissapori con la madre «sono compatibili con l’abuso sessuale». Inequivocabile. La procura, dunque, proceda. Uno schema che si ripete negli anni, da un caso all’altro. Spingendo gli investigatori a strepitosi fraintendimenti. Foti, del resto, ha sempre avuto grande ascendente sui magistrati. È stato giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino, dove però imperversa anche come riverito accusatore. Lo dimostra una lettera rinvenuta da Panorama tra i corposi faldoni riesumati. Il fondatore di Hansel e Gretel scrive a un pm torinese, suggerendo accorgimenti procedurali. E non si esime da formulare «osservazioni critiche» su una decisione del tribunale: «Con i servizi sociali» lamenta «eravamo rimasti intesi su un provvedimento ben diverso». Una palese e rivelatoria ingerenza. Imbeccate, denunce, insistenze. Così Sergio, difeso da Elena Negri, finisce a processo. Viene assolto. Sentenza confermata in appello nel 2001. I giudici scrivono: «Le accuse di G. sono venute fuori dopo enormi sforzi e pressioni». Aggiunge: «Il centro Hansel e Gretel è stato il luogo in cui ha compiuto tanti incontri, ovviamente sempre mirati in un’unica direzione». Quella dell’abuso. A ogni costo. Sospetti tramutati in incrollabili certezze. L’avvocato Negri lo chiama «il pacchetto preconfezionato». Negli anni, s’è trovata a difendere almeno una decina di uomini, trascinati nell’inferno e poi assolti. «Lo schema si ripete» sostiene il legale. «Separazione burrascosa. La madre sospetta che l’ex marito molesti la figlia. La porta quindi dagli “abusologi”. Che, dopo visite orientate e domande preconcette, compilano una relazione di fuoco da inviare in procura. E i magistrati, nel dubbio, aprono l’inchiesta». Un frutto avvelenato. Lo stesso copione di un altro caso capitato a Torino. Un padre, Luciano, accusato d’indicibili sconcezze, avvenute durante una vacanza in montagna. Tutto campato per aria. «L’esame del colloquio registrato con la psicologa del centro Hansel e Gretel evidenzia modi d’ascolto della bambina non corretti, condizionanti e suggestivi» scrive lo psichiatra Mario Ancona, consulente della difesa. A maggio 2005 Luciano è assolto: non c’è «nessun indicatore di violenza sessuale». Nella sentenza, il collegio stigmatizza anche i metodi della specialista: «Ha sottoposto a un vero e proprio fuoco d’assedio» la minore. Definita, al contrario di quanto assicurato dagli esperti, «vivace, estroversa, priva di complessi e dotata di senso dell’umorismo». Vent’anni di condizionamenti e segnalazioni. Nel 2012 è ancora Hansel e Gretel a marchiare con una lettera scarlatta la fronte di Veneria, educatrice di una comunità per minori di Asti con cui il centro collaborava. Stavolta i protagonisti sono Foti e l’attuale moglie, Bolognini. Coinvolti nell’indagine «Angeli e demoni» a Reggio Emilia, sono adesso ai domiciliari per falso ideologico, frode processuale e depistaggio. Sei anni fa, furono anche loro ad accusare Veneria d’aver abusato di un’adolescente problematica: ospite della struttura di Asti e paziente della Bolognini. È proprio alla terapeuta che la turbolenta ragazza riferisce d’aver subito violenze e molestie dall’educatrice, con cui aveva rapporti conflittuali. Una ripicca? Nemmeno per sogno. Hansel e Gretel è granitica: diagnosi chiara. Affiora, pure stavolta, grazie dallo «psicodramma» inscenato da Foti. Che fa emergere, tra mimo e recitazione, la supposta scena madre del sopruso: l’educatrice entra nella stanza della ragazza, tentando un approccio sessuale. E di fronte al rifiuto, le blocca con forza i polsi. Brutalità interrotta dall’ingresso di una collega. Che però, di fronte ai pm, negherà l’episodio. Intanto, dopo la denuncia, Veneria viene licenziata dalla comunità. La sua abilitazione è a rischio. Per mantenersi fa le pulizie. Cinque anni negli inferi. Fin quando la donna, difesa dall’avvocato Aldo Mirate, viene assolta: il fatto non sussiste. Al perito nominato dal gip, la ragazza non ha confermato nessuna delle violenze denunciate da Hansel e Gretel. Non esiste «il minimo riscontro probatorio». Già. Come nel caso di un altro, sensazionale, abbaglio. Stavolta il teatro degli orrori è una scuola media di Luserna San Giovanni, vicino Torino. «La scuola dei satanisti» la ribattezzano i giornali dell’epoca. Selvaggi accoppiamenti tra professori e ragazzi. Bidelli che costringono gli alunni a bere strani intrugli. Messe nere in un santuario. Persino un prete, che obbliga quattro studentelli a uccidere un neonato e a bere il suo sangue. Nel copione c’è di tutto. Una sceneggiatura ideata da un fantasioso adolescente, pure lui paziente della Bolognini, con la complicità di una madre condizionabile. Che, a sua volta, si affiderà a Foti. Insomma: anche in questo caso, Hansel e Gretel diventano guida e supporto dell’inchiesta. Ad aprile 2005 finisce così in carcere un incolpevole insegnante di ginnastica: Gianfranco Cantù. Accusato dal ragazzino di abusi sessuali negli spogliatoi. Il professore nega disperato. Viene liberato solo tre mesi più tardi. Intanto il minore, dopo i colloqui con gli psicoterapeuti, arricchisce il suo racconto con episodi inverosimili: messe nere, ammazzamenti, orge. Versioni in parte poi confermate da due compagni di classe: isteria collettiva. Nascono, ancora una volta, gli orchi. «La scuola dei satanisti», appunto. La procura di Pinerolo indaga altri sei insegnanti, sospettati d’essere una setta di pedofili seguaci di Satana. La gogna dura due anni. Fino a quando, il 30 aprile 2007, il pm Vito Destito chiede l’archiviazione per Cantù, difeso dall’avvocato Francesco Gambino. «Gli altri minori coinvolti nei racconti hanno negato», scrive il magistrato. È inverosimile, poi, che fatti talmente eclatanti e turpi siano successi durante l’orario scolastico. Nessuno ha notato nulla. E non ci sono segni di abusi sessuali. Tantomeno riscontri. Niente di niente. Eppure «gli psicoterapeuti di Hansel e Gretel hanno ritenuto attendibile la narrazione» dello studente. Un dubbio poi insinuato ad altri compagni dai loro genitori: «Suggestionando inevitabilmente e, si spera, involontariamente i due ragazzi» considera il pm. Insomma, la cosiddetta «credenza assertiva». Un contagio, fomentato dai terapeuti. A marzo 2008 il tribunale di Pinerolo archivia l’indagine. I sette insegnanti non sono dei satanisti assetati di bambini. Ma solo le ennesime vittime dei fabbricanti di mostri.
Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019 su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazionitelefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.
INCREDIBILE MA VERO: CLAUDIO FOTI, IL "GURU" DI BIBBIANO, NON HA NEANCHE LA LAUREA IN PSICOLOGIA! Antonio Amorosi per Affari Italiani il 24 luglio 2019. Claudio Foti, il “guru” indagato per gli affidi da incubo dei bambini di Bibbiano, non ha nemmeno la laurea in Psicologia, tanto meno in Psichiatria. E’ laureato in Lettere all’Università di Torino nel 1978, dopo otto anni di studio. Nessuna laurea nelle materie della psiche. Dietro al caso Bibbiano vi è anche questo singolare tratto del profilo professionale di uno dei principali attori in causa. Il dato clamoroso risulta dai diversi curricula di Foti pubblicati in rete da istituzioni, e precisamente dall’Azienda sanitaria Ulss 9 Scaligera di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste.
Dopo “Lettere” Foti ha all’attivo solo delle “Maratone e gruppi di psicodramma” e un “tirocinio in qualità di psicologo”, presso il “servizio di Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Maggiore della Carità di Novara”. Come fa a fare un tirocinio in ospedale, in neuropsichiatria infantile un soggetto che ha solo la laurea in Lettere? E’ uno “psicodrammista”, c’è scritto nel curriculum. In seguito ha fatto tantissimi corsi ma questi non possono essere equiparabili ad una Laurea. Voi affidereste vostro figlio di 5 anni o una persona con difficoltà psichiche a uno psicodrammista con la Laurea in Lettere? Senza neanche una laurea in Psicologia o Psichiatrica? E che c’entra Dante Alighieri e Montale con la Neuropsichiatria infantile? E come mai tutti questi enti pubblici lo accreditato ad occuparsi della psiche dei più deboli? Perché sia possibile ce lo spiegano vari Ordini regionali degli Psicologi contattati e soprattutto quello del Piemonte, al quale Foti risulta iscritto dal 1989. “E’ iscritto come articolo 32”, ci dicono al telefono. “E’ ufficiale? Ce lo può confermare?”, chiediamo. “Si, è un articolo 32, Legge n. 56 del 1989”. Cosa sia questo articolo di legge lo raccontano, sul loro sito, gli psicologi del gruppo “SRM Psicologia” che dagli anni ‘80 si occupano di promozione e tutela delle scienze psicologiche: “Molti psicologi, soprattutto tra quelli iscritti all'Albo con art. 32 o con Art. 34, hanno lauree diverse, come una laurea in sociologia, biologia, filosofia, scienze politiche, giurisprudenza ecc., e ci sono alcuni che non hanno laurea ma soltanto un diploma. Questo è stato l'effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste soltanto dal 1989. Infatti prima dell'istituzione dell'Ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate. Molti psicologi art. 32 o art. 34 infatti prima di essere dei veri psicologi, erano soltanto degli psicoterapeuti spesso autodefinitisi tali. Poi grazie alla sanatoria sono diventati psicologi.” Grazie alla sanatoria del 1989, governo Dc a guida Ciriaco De Mita con alla sanità Carlo Donat-Cattin, i tanti psicoterapeuti che si autodefinivano tali hanno potuto iscriversi all’Ordine degli psicologi, se per un certo numero di anni precedenti erano stati riconosciuti come tali dagli enti pubblici. Il governo regolarizzò così un quadro caotico in cui chiunque esercitava la professione di psicologo. Claudio Foti, che si definisce “direttore scientifico del Centro Studi “Hansel e Gretel”, nel 1982 diventa “giudice onorario” per il Tribunale dei minori di Torino. Nell’89 è già docente all’Istituto di Psicoterapia psicoanalitica – Torino” e nel 1992 insegna educazione sessuale ai bambini delle scuole medie. Poi una carriera folgorante, forte nella sua collaborazione con gli enti pubblici. Nel curriculum c’è anche scritto che Foti ha sostenuto numerosi corsi, scritto saggi, è formatore e addirittura docente delle stesse materie di ramo psicologico in qualche università. Inizialmente agli arresti domiciliari per la vicenda di Bibbiano, ora ha l’obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo (Torino) dove abita. Il Tribunale del Riesame ha ritenuto che gli indizi raccolti contro di lui dagli inquirenti di Reggio Emilia non fossero così “gravi”. Sul caso Bibbiano, Foti, 68 anni, si è dichiarato innocente ed ha ripetuto a vari giornali: “Non sono un mostro. Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Mostro o non mostro di certo la sua formazione professionale è discutibile perché non ha una laurea scientifica e specialistica in Psicologia o Psichiatria, tanto più occupandosi di vicende così delicate come quelle dei minori abusati e delle loro famiglie. Per quanto iscritto all’Albo è sorprendente che questa mancanza non abbia fatto la differenza per nessuna istituzione. Abbiamo contattato l’avvocato di Foti, Girolamo Andrea Coffati per avere spiegazioni: “Lo conosco da 20 anni ed era già laureato. Non conosco il suo…. Bisogna chiederlo a lui. Immagino che se lui svolge la professione di psicoterapeuta lo faccia all’interno della legge” Certo. Ma ha una laurea in Psicologia o Psichiatria? “Sono onesto non ho idea. Bisogna chiederlo a lui. Chiamo Foti e la ricontatto se mi autorizza a darle il suo cellulare”. Stiamo aspettando la chiamata.
Il "guru" Claudio Foti, psichiatra senza laurea. Nel curriculum vitae segnalato da un lettore a IlGiornale, appare solo una laurea in lettere. Costanza Tosi, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Un luminare della materia diceva qualcuno. Peccato che, il “guru” Claudio Foti, fondatore della Onlus al centro dell’inchiesta sui diavoli di Bibbiano, “Hansel e Gretel”, finito sul registro degli indagati della Procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti, e ora accusato di maltrattamenti in famiglia, pare non abbia nemmeno la laurea in psicologia. A svelare l’anomalia il suo curriculum vitae che abbiamo letto con attenzione. Il guru Claudio Foti è accusato dalla Procura di Reggio Emilia di aver alterato, al fine di sviare le indagini, “lo stato psicologico di una minore”. Una bambina usata, si legge nelle carte, come “una sorta di cavia nell’ambito della psicoterapia specialistica”. Peccato, però, che la psicologia non l’abbia di fatto mai studiata. Almeno così sembra. Tra le sue esperienze, riportate nel curriculum caricato sul web dall’Azienda Sanitaria Ussl di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste, risulta solamente una laurea in lettere, presa in otto anni, all’Università di Torino nel 1978. Della laura in psicologia nessuna traccia. Neanche nell’albo degli psicologi che abbiamo consultato. Sempre nel curriculum del “guru” si legge: “maratone e gruppi di psicodramma”, un “tirocinio in qualità di psicologo” in un ospedale di Novara e, qualche anno dopo, una scuola di psicoterapia non identificata. Quindici pagine di curriculum, piene di seminari, corsi e ruoli d’insegnamento, ma nessuna laurea nelle materie della psiche. Né, tantomeno, in medicina, di cui psichiatria è una specializzazione. Ma come ha fatto i dottor Foti a svolgere tirocini all’interno di strutture ospedaliere senza una laurea in psicologia? Come poteva tenere lezioni di psicoterapia senza aver mai passato degli esami che certificassero la sua preparazione? Il dubbio rimane. Si sarà dimenticato di inserirlo nel curriculum? Intanto indaghiamo. Eppure, nell’albo degli psicologi del Piemonte il suo nome c’è. Foti è iscritto. Grazie all’articolo 32. Ma cosa vuol dire? “Molti psicologi, soprattutto iscritti all’albo con l’articolo 32 o 34 in realtà hanno lauree differenti”, come si legge sul sito di “SRM Psicologia”, “Questo è stato l’effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste solo dal 1989. Prima dell’istituzione dell’ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate.” Dunque, molte persone che adesso sono iscritte grazie a questi due articoli, prima, probabilmente, non erano psicologi, e magicamente lo sono diventati grazie proprio a questa sanatoria. Ne avrà approfittato pure lui, il “guru” della psichiatria?
Scandalo affidi. L'inutile "Squadra Speciale" del Ministro Bonafede. Il guardasigilli lancia una proposta di pura facciata. Per risolvere il problema serve una riforma certa, a partire dall'abolizione del Tribunale dei Minori. Daniela Missaglia il 23 luglio 2019 su Panorama. Il Ministro della Giustizia Bonafede, per i gravi fatti sugli affidi di Bibbiano, ha pensato di inviare una ‘task force’, nemmeno ci trovassimo di fronte al sequestro di una nave mercantile. Squadra speciale Alfa, azione! Di cosa si tratti non si sa esattamente, anche se c’è da augurarsi che le idee chiare le abbia almeno lui. Personalmente, penso che creare una “Squadra speciale di giustizia per la protezione dei bambini” sull’onda dell'inchiesta di Bibbiano, non sia altro che un escamotage mediatico che difficilmente farà sentire “il fiato sul collo ad ogni operatore” per evitare che fatti simili accadano ancora. Nulla contro il Ministro, sia chiaro, ma suscita sempre un sentimento di compatimento l’ardore di chi cerchi di svuotare il mare con un secchiello o si periti di contare le stelle del firmamento sdraiandosi supino sul prato di casa. Chissà se l’On. Bonafede abbia letto l’intervista su Panorama del 27 giugno 2019 al Dott. Francesco Morcavallo, ex Giudice togato del Tribunale per i Minorenni di Bologna che, schifato da un “business osceno” (ipse dixit) legato al sistema degli affidi, ha fornito - dall’interno - l’inquietante spaccato di ingerenze, conflitti d’interesse, subalternità ad indirizzi contrari agli interessi dei minori, che anima l’apparato della giustizia minorile, ripugnandolo al punto da indurlo a lasciare la magistratura. E siccome navigo anch’io, pur in altra veste, in quei mari agitati da intrighi dove lo tzunami della malagiustizia raggiunge i suoi apici, la tentazione di allontanarmi è sempre più forte. Si perché non è che Bibbiano nasce come un mostro raro, visto che parliamo dell’esatta ripetizione di quello che è successo nella Bassa modenese circa vent’anni fa dove tanti poveri cittadini vennero accusati di essere pedofili satanisti con relativo allontanamento coatto dei loro bambini e, prima ancora, a comunità per minori disagiati del Mugello finita al centro di processi per maltrattamenti e abusi sessuali che hanno coinvolto il suo fondatore e ‘profeta’, Rodolfo Fiesoli. Chissà se il nostro Ministro della Giustizia conosca nel dettaglio il meccanismo per cui i centri cui vengono affidati i bambini sottratti alle famiglie sono, in via diretta o indiretta, partecipati o diretti dagli stessi esponenti di quel tolkeniano mondo di mezzo fatto di assistenti sociali, tutori e psicologi che - spesso e volentieri - assumono le vesti di giudici onorari presso i Tribunali per i minorenni, finendo così per orientare la decisione stessa di affido etero-familiare, indirizzando il minore verso quei centri. Con buona pace di frasi mai verbalizzate o, peggio ancora, mai proferite dai bambini oggetto dei procedimenti. O di documenti che non arrivano mai sulla scrivania giusta. Per non parlare dell’enorme giro di interessi che questo sistema alimenta (si parla di un miliardo a mezzo di euro). Il Ministro Bonafede ha annunciato che nella ‘task force’ parteciperà anche il Commissario Straordinario del Forteto, di fatto creando un parallelismo che avvilisce più che rinfrancare, perché due commissioni d’inchiesta regionale ed una parlamentare hanno solo aiutato a leggere i drammi di una vicenda iniziata a fine anni settanta, senza però risolvere alcunché, come la Bassa modenese prima e Bibbiano poi hanno dimostrato.
Ciò che era, è. Ma l’Italia è il Paese delle commissioni permanenti, come quelle su Ustica anche se, a distanza di quarant’anni, ancora non sappiamo chi sia responsabile dell’abbattimento del DC9 Itavia e con chi debbano prendersela i parenti delle vittime. Paolo Coelho scriveva che quando si rimanda il raccolto i frutti marciscono, ma quando si rimandano i problemi, essi non cessano di crescere. E difatti è stato sempre così in questa nazione dove ci si è fintamente affannati di cercare soluzioni attraverso palliativi come le task force che, spesso e volentieri, hanno solo illustrato il problema, senza rimuoverlo. Se si pensa di intervenire con un mero maquillage di facciata i bambini continueranno ad essere vittime di un sistema fallato nelle fondamenta e l’Italia a violare le convenzioni internazionali e la Costituzione stessa. Va trovata la forza di fare ciò che, da troppo tempo, taluni operatori di diritto propongono, l’abolizione dei Tribunali per i minorenni, nati con una funzione che si è via via perduta, pur continuando ad operare sotto organico ed attraverso toppe - quelle dei giudici onorari - che sono peggio del buco. Il risultato è aver creato una voragine dove i fascicoli stanziano per tempo immemore e, con il gioco dei provvedimenti provvisori non impugnabili, le decisioni assunte tracciano un destino perverso insuscettibile di controllo. A complicare ulteriormente i foschi scenari che coinvolgono le famiglie italiane arriva la notizia che il Consiglio dei Ministri ha appena varato il progetto di legge delega che, se approvato dal Parlamento, nell’arco di due anni dovrebbe riformare il processo civile, oltre a quello penale, con l’intento di velocizzare le procedure ed arrivare a sentenza in tempi più rapidi rispetto a quelli attuali. Peccato che la riforma non sembrerebbe estendersi ai procedimenti legati alle crisi familiari ed ai minori, creando così figli e figliastri, un doppio binario che menoma proprio quell’ambito del diritto che imporrebbe celerità ed urgenti decisioni. La verità è che non servono task force, come non servono proposte di legge presentate all’indomani dei fatti incresciosi, per rammendare un vestito che ormai deve essere buttato via perché lacerato al punto da non poter nemmeno essere indossato. Così proprio non va, caro Ministro, Bibbiano è la punta di un iceberg purulento che va mostrato e distrutto con soluzioni decisamente più energiche di una task force. E’ ora di fare sul serio, lavorando ad una riforma strutturale della giustizia civile che restituisca fiducia ai cittadini. Perché la fiducia è il fondamento della vita sociale ed oggi sta svanendo con la stessa velocità con cui un epidemia spazza via vite umane. Caro Ministro Bonafede, temo che la sua task force dovrebbe avere la consistenza di un esercito per intervenire sui ventinove Tribunali per i minorenni sparsi per l’Italia e dunque, ciò che mi auguro è che si intervenga in tempi rapidi su una radicale riforma del sistema giudiziario che passi anche attraverso alla creazione di sezioni specializzate in ogni Tribunale, ridando alla magistratura quel lustro che si merita essendo considerata, per certi versi, la migliore al mondo.
Scandalo affidi: il business sulla pelle dei bambini. La vicenda di Reggio Emilia ricorda quella di Mirandola di diversi anni fa e racconta un mostro, anzi un sistema che ha colpito famiglie normali, come le nostre. Maurizio Belpietro l'8 luglio 2019 su Panorama. Un paio di numeri fa mi sono occupato di una vecchia storia accaduta a Mirandola, in provincia di Modena. All’improvviso, tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998, un gruppo di famiglie, quasi tutte cattoliche, venne accusato di praticare riti satanici e di molestare i figli, abusandone sessualmente. Molti furono arrestati e i bambini vennero tolti ai genitori per essere dati in affido. Il prete del paese finì sul banco degli imputati e, prima di essere assolto, morì di crepacuore. Anche gli altri accusati furono assolti, ma solo dopo molti anni, quando ormai le famiglie messe sotto inchiesta si erano sfasciate e i figli erano grandi senza esserlo diventati accanto ai loro legittimi papà e mamme. All’epoca, di questa storia si occupò solo un quotidiano, quello che dirigevo, il Giornale, mentre tutti gli altri declassarono la vicenda a pura cronaca, per giunta delle più squallide, da liquidarsi in breve. Il Giornale, invece, fin da subito cercò di dare voce alle vittime, perché le accuse rivolte contro di loro erano del tutto inverosimili. Purtroppo il nostro impegno non bastò a cambiare il corso delle cose. Ci vollero anni e una infinità di udienze perché la verità venisse a galla e solo mesi fa qualcuno, sui giornali, ha cominciato a chiedersi come sia potuto accadere. Bene, anzi male: dalla settimana scorsa abbiamo la risposta alla domanda.
A Reggio Emilia, cioè a poca distanza da Mirandola, è successo di nuovo. Assistenti sociali e psicologi hanno riprovato ad accusare di abusi sui minori una serie di famiglie, allontanando i figli dai legittimi genitori per darli in affido ad altre coppie. Questa volta però a finire in carcere non sono stati i papà e le mamme, colpevoli solo di essere persone semplici e indifese davanti alla macchina della giustizia e di quel grande business che è l’assistenza ai minori. Dietro le sbarre sono finiti gli psicologi, le «esperte di infanzia» abusata, i professionisti dell’affido. La Procura, invece di credere alle loro accuse nei confronti dei genitori, ha creduto a mamme e papà, scoprendo un sistema infernale. Altro che riti satanici nella Bassa modenese. I riti erano quelli messi in atto per indurre dei bambini ad accusare genitori innocenti. Le assistenti sociali si incaricavano di suggerire ai piccoli che cosa dire negli interrogatori, inventando abusi che non c’erano. I più riottosi tra i bambini venivano «aiutati» con una «macchina dei ricordi», ossia con uno strumento che con elettrodi applicati alle mani generava scosse elettriche. Era un vero e proprio lavaggio del cervello quello che veniva fatto e, nel caso non bastasse, si «aggiustavano» i disegni, modificando quelli dei bambini con l’inserimento di riferimenti ad atti sessuali, così da provare le violenze. Le famiglie oggetto delle attenzioni ovviamente non erano scelte a caso, ma si puntava su quelle più semplici, povera gente insomma, perché non potesse permettersi troppi avvocati.
La storia di Reggio Emilia ha una diretta connessione con quella di Mirandola, perché dietro ci sono lo stesso psicoterapeuta e la stessa struttura di vent’anni fa. «Hansel e Gretel», un centro di Moncalieri specializzato in abusi sui minori, e Claudio Foti, un professionista «esperto» nel far emergere i ricordi dei bambini, in particolare quelli in famiglia. Foti, oltre a guidare la onlus torinese, per 12 anni è stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Ma per i magistrati di Reggio che ne hanno disposto l’arresto, lui e la sua compagna suggerivano ai piccoli che cosa dire e che cosa ricordare, costruendo violenze mai esistite. Lo facevano per soldi, secondo l’accusa, facendosi pagare per servizi di cui non c’era bisogno. Ma forse lo facevano anche per motivi ideologici. Negli atti giudiziari vengono a galla problemi personali di una delle assistenti sociali, «una rabbia repressa sfociata poi negli atteggiamenti sui minori», ma anche le tendenze sessuali di un’altra esperta: omosessuale che guarda caso affidò i bambini strappati ai genitori a una coppia omosessuale. No, quella scoperta a Reggio Emilia non è una storia da liquidare come un caso di cronaca nera, una brutta faccenda che casualmente ha colpito i bambini. È qualche cosa di più: un sistema. Portato avanti per anni con la complicità di amministratori pubblici, dirigenti dell’Asl, funzionari nell’Emilia felix. Un sistema che ha distrutto numerose famiglie. Famiglie normali. Come la vostra.
Scandalo affidi: bambini rubati. Panorama ha ricostruito, dopo il caso di Reggio Emilia, i casi giudiziari che hanno coinvolto Claudio Foti e la sua onlus, Hansel e Gretel. Antonio Rossitto il 15 luglio 2019 su Panorama. Sono bastati qualche ghirigoro, un divorzio turbolento e una sequela di fantasie. L’hanno accusato d’aver abusato delle figlie, di quattro e sette anni. Giochi erotici di gruppo, filmini scabrosi, travestimenti da Biancaneve. Il 13 novembre 2015, dopo un processo lungo nove anni, il professore di matematica è stato assolto: non ha commesso il fatto. Ora ha 49 anni. Vive a Oristano, dove insegna alle superiori. «Il caso andava verso l’archiviazione» racconta. «È stato riaperto dopo il parere dello psicoterapeuta Claudio Foti». Un nome oggi alla ribalta. «Periti, pm, giudici: tutti pendevano dalle sue labbra». Già. Ma come si sopravvive a infamia e abbandono? «Cerco di non pensarci». Il professore comincia a singhiozzare: «Le mie figlie non vogliono più vedermi. Pasqua, Natale, compleanni: nemmeno mi rispondono. Una delle due ha la maturità quest’anno: io trepido, spero, sogno di ripassare accanto a lei. M’invento ogni cosa, pure gli abbracci». Si scusa per le lacrime. «Per loro sono uno zimbello. Adesso, però, magari capiranno: quello che è successo a Bibbiano è successo anche a loro». Bibbiano era un anonimo e placido paese nella Valle D’Enza. Oggi è l’inferno scoperchiato dall’inchiesta «Angeli e demoni». Quella sui fabbricanti di mostri: medici, psicologi e assistenti sociali. La procura di Reggio Emilia ha rivelato un presunto e gigantesco inganno: 16 arresti e 27 indagati. Tra cui il sindaco Pd della cittadina, Andrea Carletti: onta che s’è riversata pure sui democratici. Un corredo di orrori. Dietro cui si celerebbe il business di consulti privati e affidamenti. Quasi 200 bambini sarebbero stati manipolati con metodi da Santa Inquisizione. Per rivelare inesistenti abusi, essere allontanati dalle famiglie e venire assegnati ad altre coppie. Anche lesbiche. Ai domiciliari è finito pure lo psicoterapeuta che ha marchiato la vita di quel professore di Oristano. Claudio Foti, 68 anni, è il fondatore, a Moncalieri (To), del Centro studi Hansel e Gretel, onlus specializzata in psicologia infantile. Un assertore dell’inscalfibile assunto: i minori non mentono mai. Ogni sospetto è l’anticamera della pedofilia. Ex giudice onorario del Tribunale dei minori a Torino, Foti è acclamato consulente di decine di uffici giudiziari. Le sue perizie hanno istruito decine di processi. Molestie, sette, incesti. Racconti fagocitati da colloqui e terapie con i bambini. E ora avvocati di mezza Italia meditano vendetta, sperando di riaprire fascicoli ormai sepolti. Un sistema. Che l’inchiesta, coordinata dal reparto operativo dei carabinieri di Reggio Emilia, potrebbe cominciare a scardinare. Il Tribunale dei minori di Bologna ha deciso di rivalutare cinque adozioni dettagliate nell’ordinanza di custodia cautelare. La procura di Modena, invece, potrebbe riaprire il caso dei «diavoli della Bassa», andato in scena tra 1997 e 1998 a Mirandola. Quando un gruppo di famiglie viene accusato di abusare dei figli e di altre nefandezze: riti satanici, orge cimiteriali, corpi arsi vivi e cadaveri nel fiume. Sedici bambini vengono allontanati da casa per sempre. Una storia che ora si ricollega allo scandalo reggiano: vent’anni fa furono proprio le psicologhe di Hansel e Gretel a interrogare quei bambini di Mirandola. Tra cui l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia. Mentre l’attuale coniuge, Nadia Bolognini, pure lei psicoterapeuta, è oggi tra gli arrestati dell’inchiesta di Reggio Emilia. E la procura di Torino avrebbe aperto un’indagine su una dubbia perizia firmata dalla dottoressa. È però Foti il fulcro ideologico da cui tutto discende. Bisogna seguire le sue orme per capire come, all’ombra di clamorosi abbagli giudiziari, è fiorita la fabbrica dei mostri. «Fanatismo persecutorio» sostiene l’ordinanza. «Gli indagati erano pregiudizialmente convinti che i minori fossero vittime di abusi». Vulgata che ha segnato clamorosi processi, sgominato famiglie, lasciato indelebili onte. Metodo dettagliato anche nella sentenza che, nel 2015, assolve il professor di Oristano, difeso dall’avvocato Simona Sica. Il Tribunale di Salerno, nella sentenza, enuncia la teoria di Foti: «Le emozioni delle bambine diventano elemento di validazioni della credibilità». E affonda: «Un approccio contestato dal mondo scientifico perché esistono molte ipotesi alternative che giustificano le stesse emozioni». Uguale conclusione a cui era arrivato il consulente di parte, Corrado Lo Priore. Il tribunale, poi, entra nel dettaglio del caso: le supposte violenze del professore sulle figlie. Il parere vergato da Foti, perito di parte civile e teste del pm, è inficiato: «Inutilizzabile». Più radicale il giudizio sul professionista che ha in cura la madre accusatrice e le due bambine. Ovvero: Mauro Reppucci, già discepolo di Foti, oggi seguace del discusso metodo Hamer per la cura del cancro e marito di Alessandra Pagliuca. Anche lei psicologa. Anche lei tra gli inquisitori dell’inchiesta sui «diavoli della Bassa». Altri corsi e ricorsi. «Fin dal primo momento» scrivono i giudici di Salerno «l’intento del dottor Reppucci è stato quello di cercare una verifica dei presunti abusi sessuali sulle minori». La sentenza aggiunge: «Per questo, coadiuvato dalla madre e dalla zia, ha sottoposto le bambine a un esame sempre più stringente, con una tecnica scorretta: il ricorso continuo a domande, blandizie e prospettazioni di mali futuri». Così, alla fine, il professore è assolto. Procura e parte civile accettano il verdetto. Nessun appello. Ora è un uomo libero. Ma la sua vita è ormai in frantumi. Gli stessi protagonisti ricompaiono in un’altra inchiesta, ancora a Salerno. Esplode a dicembre del 2007. Con un canovaccio da film horror, che riecheggia quello modenese. Orge sataniche. Minori violati che violentano coetanei. Una catena di sevizie, organizzate da incappucciati e satanisti. Vengono identificate le presunte vittime: tre fratellini. E l’ipotetico carnefice: il padre. Partono le indagini e la centrifughe terapeutiche. Stavolta la madre dei bambini, che sostiene anche di essere stata malmenata dal marito, si fa seguire dalla dottoressa Pagliuca. Foti invece guida il collegio di esperti del pm. Un ipotizzato conflitto d’interesse denunciato pure dal perito della difesa, Camillo De Lucia: «Appare davvero originale che la scelta del sostituto procuratore sia caduta su professionisti appartenenti al centro Hansel e Gretel, lo stesso dove la dottoressa Pagliuca ha riferito di essersi formata». Ma la strenua offensiva colpevolista non convince comunque i giudici. A luglio 2017 il padre viene assolto. Pagliuca, annota la sentenza, ha suggestionato uno dei ragazzini «su fatti non narrati spontaneamente». Mentre, riguardo Foti, i giudici segnalano «numerosi fenomeni di induzione diretta e suggestione. Insomma: «I bambini non hanno mai fatto dichiarazioni spontanee». Il fuoco di fila dei fabbricanti di mostri viene dispiegato pure a Pisa. Un’indagine nata nel 2006, dalla denuncia di una donna all’ex marito: avrebbe abusato della loro figlia. Foti, stavolta, è il perito del gip. La moglie dello psicoterapeuta di Moncalieri, Nadia Bolognini, comincerà invece a seguire la minore. Il primo ad andare in scena, dopo la richiesta d’incidente probatorio, è il fondatore di Hansel e Gretel. La ragazzina, di appena sei anni, può testimoniare al processo? Certamente. Per Foti non ci sono dubbi: «Esistono indicatori rilevanti e diffusi dell’esperienza incestuosa subita, che può essere ipotizzata come coinvolgente e sconvolgente». E il rapporto conflittuale tra i genitori? La madre potrebbe aver suggestionato la figlia? Macché: è un’evenienza «ampiamente falsificata». La bambina è credibile. Liviana Vizza, legale dell’indagato, in una memoria difensiva, attacca: il metodo dello psicoterapeuta, scrive, rappresenta una violazione di quanto la letteratura internazionale consiglia. Il legale dettaglia: «Ha tenuto una modalità d’interrogatorio fortemente orientante: domande chiuse, suggestive e incalzanti». L’uomo viene dunque rinviato a giudizio. E a ottobre 2012 arriva la sentenza. Il tribunale di Pisa lo assolve per non aver commesso il fatto. Il caso è definitivamente chiuso, anche questa volta. La procura, che aveva chiesto 10 anni, decide di non fare appello. Come la parte civile. Per il resto, i genitori hanno divorziato. La piccola, diventata ragazza, è stata affidata a entrambi. Ma di suo padre non vuole sentir parlare: crede ancora di essere una vittima. Così, assieme al suo legale, l’uomo adesso vuole andare a fondo. «L’indagine di Reggio Emilia ha confermato quella che fino a ieri era una mia supposizione» spiega Vizza. Ossia? «La manipolazione sistematica e continua dei bambini da parte di Hansel e Gretel. Anche per ottenere in cambio incarichi privati. Addirittura, in uno dei colloqui Foti dice alla bambina: “Queste cose, che tu voglia o no, le devi dire al giudice”». Così l’avvocato attende sulla riva del fiume l’eventuale rinvio a giudizio. «A quel punto, scatterà una denuncia per manipolazione di minore». Foti e Bolognini. Marito e moglie. Compagni di tante battaglie. Il fondatore e la psicoterapeuta di Hansel e Gretel. La procura emiliana li accusa di falso ideologico, frode processuale e depistaggio. I loro inganni avrebbero contribuito a causare danni psichici a cinque ragazzini. È lei, per esempio, a usare «l’inquietante macchinetta dei ricordi»: elettrodi collegati a mani e piedi dei piccoli. Serve, secondo la dottoressa, a ripescare i ricordi degli abusi. È lui, invece, a scegliere una bambina in cura come cavia, da esibire in un corso di formazione. E poi c’è il sospetto lucro. Le terapie private: «Un ingiusto profitto di 135 euro l’ora per minore, a fronte dei 70 euro medi di mercato, nonostante l’Asl locale potesse usare gratuitamente i propri professionisti». La procura reggiana tratteggia un ritratto poco lusinghiero di Foti: «Soggetto con ruolo di guida» e «un alto tasso potenziale di criminalità». Emerge, annotano i magistrati, «una personalità violenta e impositiva». Anche con i familiari: moglie, ex congiunta e figli minori. La procura indugia pure sulla consorte: Bolognini. «Il marito le rilevava una latente omosessualità, motivo di tensione da parte della donna». E poi la psicoterapeuta «risulta aver subito maltrattamenti dal padre quando era piccola». Come accaduto a Foti, aggiunge l’ordinanza. Così la dottoressa avrebbe riversato le sue angosce in una «rabbia repressa, sfociata negli atteggiamenti con i minori». Eppure il curriculum di Hansel e Gretel è denso e prestigioso. Seminari, corsi di formazione, master universitari. Alle lezioni del fondatore accorrevano tutti: psicologi, docenti, magistrati e assistenti sociali. Un blasone che ha attratto tribunali e procure, pronti a chiedere servigi per i casi spinosi. Chi meglio di lui poteva avallare e argomentare ogni turpe ipotesi? Foti è stato chiamato persino per una delle più clamorose cantonate giudiziarie degli ultimi anni: gli ipotizzati abusi nell’asilo «Olga Rovere» di Rignano Flaminio. Ventuno bambini, fomentati dai genitori, raccontano di aver subito ogni crudeltà. Cinque persone finiscono a processo, due sono difese da Roberto Borgogno. Vengono assolte per la prima volta nel 2012. Dopo anni d’indicibili accuse. Durante i quali la procura di Tivoli s’era rivolta anche a Foti. Tre consulenze, vergate con due colleghi. La prima è del 17 luglio 2007. Arguisce: «Siamo giunti alla conclusione che le famiglie e i bambini non manifestano un disagio dovuto a fantasticherie o a costruzioni immaginarie, frutto di suggestioni o psicosi collettive. La loro sofferenza, estesa e profonda, è del tutto compatibile con l’ipotesi che abbiano impattato con una vicenda traumatica gravissima: abusi sessuali di gruppo in ambito scolastico». Alcuni anni più tardi, dopo altre vite frantumate, due sentenze diranno l’esatto contrario. Un contagio psichico. Lo stesso che sarebbe avvenuto in una scuola materna dell’aretino. A fine 2011 viene arrestato un bidello. È accusato d’aver molestato 12 bambini, costretti ad atroci porcherie nei bagni della scuola: toccamenti, giochi erotici, fellatio. Una storia, anche in questo caso, nata dalle inquietudini dei genitori. Scorgono nei figli comportamenti inconsueti. Che successivi pareri psicologici reputano «compatibili con l’abuso». Partono le indagini. I carabinieri piazzano telecamere nella materna: nessun riscontro. A febbraio 2015 il bidello, difeso dall’avvocato Raffaello Falagiani, è rinviato a giudizio. In aula sfilano genitori, maestri ed esperti. Come Foti, consulente tecnico dell’accusa. O meglio, capo del collegio peritale del pubblico ministero. Che conclude: «Altissima compatibilità con l’ipotesi di un evento traumatico di natura sessuale, avvenuto in un certo contesto temporale e associata a una certa figura». II 14 aprile 2016 viene sentito in tribunale. Lo psicoterapeuta, anche stavolta, propala incrollabili certezze. Una bambina si fa la pipì addosso nel tragitto da casa alla fermata del bus? «Indicatore significativo di maltrattamento intrascolastico» spiega Foti. Un’altra si sveglia di notte urlando? «È inseguita dall’evento traumatico». Un altro disegna denti. O non riesce a evacuare. Oppure ha paura di andare in bagno. Tutte conseguenze di atti sconvolgenti. Il copione però si ripete. Il 30 novembre 2016 il tribunale di Arezzo assolve il bidello: il fatto non sussiste. I periti nominati dal giudice fanno cadere il castello eretto dai professionisti dell’abuso: «Le capacità testimoniali specifiche dei bambini risultano compromesse in modo considerevole, con la conseguenza che nessuno di loro può essere ritenuto attendibile». E poi: «I disagi che hanno manifestato, insonnia notturna, unghie rosicchiate e opposizione alla scuola, non possono essere qualificati come indicativi di uno stress di natura sessuale». Incesti terribili. Sempre e ovunque. I fabbricanti di mostri non tentennano. Nemmeno a Cagliari, nel caso dell’orologiaio accusato di abusi sessuali sui tre figli. Nefandezze a cui avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo, veterinaria, e un amico. Tutti assolti, nel 2001, in primo grado. Nel processo d’appello, Foti è nominato consulente tecnico d’ufficio. Ma i tre sono nuovamente scagionati. Fino alla Cassazione. Il decano dei penalisti cagliaritani, Luigi Concas, che ha difeso l’orologiaio nei tre gradi di giudizio, ricorda: «Un giorno prendo uno dei disegni fatti dal ragazzino. Per l’accusa era un pene con dei denti. Lo mostro allora a mio nipote. Gli chiedo: “Cosa ti sembra?”. E lui, immediatamente: “Goku!”. Un personaggio dei Dragon ball. Torno in aula con quel foglio in mano. E durante l’esame del perito, a bruciapelo gli domando: “Lei sa chi è Goku?”». Vecchie storie. C’è anche quella del fotografo milanese, arrestato nel 2003 per aver abusato, durante una vacanza in Puglia, di un amichetto del figlio conosciuto in spiaggia. Tra le prove raccolte, ci sono anche alcune foto di bambini. Talmente scabrose da essere pubblicate persino sul sito internet del fotografo. Reportage da pubblicare sulle riviste, insomma. Eppure l’uomo finisce a processo dopo l’incidente probatorio del ragazzino. Svolto da Foti. E condotto, scrive il consulente della difesa, lo psicoterapeuta Giovanni Camerini, con modalità «metodologicamente scorrette»: «Ha somministrato al piccolo N. più di 50 domande suggestive e inducenti» nota nella sua relazione. Conclusione: il fotografo è assolto, sia in primo grado sia in appello. Ombre del passato che riemergono. Come quelle che si allungano sul caso di Sagliano Micca, paesino vicino a Biella. Scoppia più di vent’anni fa. Due cuginetti, loro malgrado, diventano gli accusatori di mamma e papà, nonna e nonno. Accusati di aver abusato dei due bambini. Una tesi avallata da una perizia vergata del centro Hansel e Gretel. Foti e l’ex moglie, Cristina Roccia, in 150 pagine ripercorrono supposti abusi e violenze di gruppo. Comincia il processo. Ma il peso è insostenibile. Il giorno prima dell’audizione dei ragazzini, i quattro accusati scendono nel garage. Si chiudono nella loro Uno verde: i genitori siedono davanti, i nonni dietro. Poi accendono il motore. E aspettano. Fino a quando il gas di scarico non gli riempie i polmoni. Li ritrovano avvelenati e senza vita. Sul parabrezza dell’utilitaria c’è il loro biglietto d’addio: «Moriamo per colpa della giustizia».
Francesco Borgonovo per “la Verità” l’11 luglio 2019. L'inchiesta «Angeli e demoni» condotta dalla Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un pozzo senza fondo. Una sentina da cui ogni settimana emergono vicende inquietanti di minori levati alle famiglie e dati in affidamento. Una di queste è la storia di F, una bambina di Reggio Emilia che, assieme alla sorella, è stata separata dalla madre. E che, dopo varie vicissitudini, pare essere finita in affidamento proprio alla psicologa che l' ha tolta ai genitori naturali. Questa psicologa si chiama Valeria Donati e per capire chi sia dobbiamo fare un passo indietro e ritornare alla fine degli anni Novanta: il periodo in cui, nel Modenese, è esploso il caso dei «diavoli della Bassa». Stiamo parlando della brutta storia raccontata da Pablo Trincia nel libro Veleno (Einaudi). Parliamo, dunque, di famiglie ingiustamente incolpate di abusi sui figli e pratiche sataniche. Genitori a cui sono stati tolti i bambini. Persone che, per via delle errate valutazioni di psicologi, assistenti sociali e giudici, hanno perso i loro piccini e si sono ritrovate con la vita distrutta. La grande protagonista del caso Veleno era la psicologa Valeria Donati. Arrivò al Cenacolo francescano di Reggio Emilia alla fine del 1994. Aveva 26 anni, era ancora una tirocinante e da qualche mese collaborava con l' Ausl locale. Era fresca di studi, dunque, e aveva frequentato corsi di formazione al Centro per il bambino maltrattato di Milano. Fu lei a far parlare i bimbi che raccontarono di oscuri rituali e pratiche innominabili. Scrive Pablo Trincia: «La Valeria, come la chiamavano ormai i bambini, era il passe-partout che sapeva come aprire la porta di ognuno di loro ed entrare in punto di piedi negli angoli bui del loro inconscio». Era lei che faceva emergere i brutti ricordi sepolti. Piccolo problema: quei ricordi si sono rivelati per lo più fantasie. Spiega ancora Trincia che, «mentre lavorava come psicologa a contratto per l' Ausl di Mirandola, Valeria Donati era anche diventata responsabile di una struttura indipendente a Reggio Emilia [...]: il Centro aiuto al bambino. Nel 2002 l' azienda sanitaria regionale aveva deciso di "affidare la cura e la terapia dei minori coinvolti a questo centro (il Cab), più attrezzato e specializzato sui temi dell' abuso"». In buona sostanza, la stessa persona che aveva scoperto il caso Veleno, «seguito i minori, raccolto per prima le loro dichiarazioni, scelto le famiglie a cui affidarli, informato la procura e il tribunale dei minori, fatto da testimone chiave nei processi e dato sempre parere negativo sulla possibilità di un contatto con i genitori naturali - persino quando questi erano stati assolti - ora si ritrovava anche a trarre un potenziale beneficio lavorativo ed economico da una vicenda nella quale aveva giocato un ruolo determinante». Stando ai dati forniti da Trincia, il centro della Donati otteneva tra i 1.032 e i 1.400 euro al mese per ogni bambino seguito, e nell' arco di 10 anni avrebbe ricevuto la bellezza di 2.209.400 euro di soldi pubblici. Il Cenacolo francescano di Reggio Emilia e il Centro aiuto al bambino sono parte integrante pure della storia di F, che andiamo a raccontare. Tutto inizia nel 2006. Al pronto soccorso di Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, si presenta una donna marocchina con due bambine. La più grande ha 8 anni, la più piccola - la nostra F - ne ha soltanto 5, e sono entrambe nate da un precedente matrimonio della signora con un suo connazionale. La donna marocchina, quando arriva all' ospedale, è infatti sposata a un uomo italiano, che maltratta lei e, a quanto pare, anche le bimbe. A Guastalla madre e figlie vengono visitate. Come spiega l' avvocato Francesco Miraglia, che da poco si è fatto carico del caso della donna, «i medici riscontrano nella più grande dei segni sul collo, alla piccina delle ecchimosi alla fronte e a un ginocchio». Non solo: «Trattandosi di bambine maltrattate», racconta Miraglia, «i medici sono scrupolosi e controllano anche altro: la cartella clinica riporta per entrambe "genitali intatti". Una dicitura importantissima, alla luce dell' incubo in cui cadrà successivamente questa donna». Quindi le bimbe sono state picchiate, ma fortunatamente non sembrano aver subito abusi sessuali. In ogni caso, entrambe le piccole vengono subito prese in carico dai servizi sociali. La più grande viene affidata a una famiglia. F, la più piccola, finisce al Cenacolo francescano. Cioè la struttura con cui collabora Valeria Donati. La madre delle bimbe, nel frattempo, si allontana dal marito violento, e nei mesi successivi gli assistenti sociali le organizzano incontri con le figlie. Come si apprende dai documenti ufficiali, a partire dal giugno 2007 la donna partecipa a tre «incontri vigilati» a cadenza mensile con le bambine, sotto la supervisione di una assistente sociale. Vengono fatti anche controlli sulla situazione della donna. Risulta che abbia un impiego stabile come commerciante che le frutta tra i 1.500 e i 2.000 euro al mese. La sua abitazione appare ordinata e pulita (così scrivono i servizi). I nonni materni sembrano presenti e disponibili. Tutto appare in ordine, insomma. La madre, dunque, vorrebbe riavere con sé le bambine. Ma qui cominciano i guai. Gli assistenti sociali scrivono che le piccole non vogliono più rivederla. Gli operatori dei servizi, per altro, sostengono che la donna sia troppo invadente, che cerchi di baciare e abbracciare le bimbe anche se loro rimangono un po' rigide, che non sia abbastanza attenta alle loro richieste. E sapete chi controfirma la relazione dell' assistente sociale destinata al Tribunale dei minori di Bologna? L'allora responsabile dei servizi sociali del Polo 3 di Reggio Emilia: Federica Anghinolfi. Ovvero una delle principali protagoniste dell' inchiesta «Angeli e demoni». Risultato: non solo le piccole non tornano a casa, né dalla madre né dai nonni, ma non vengono neppure organizzati altri incontri. A quel punto, la donna marocchina sembra avere un cedimento. Diventa insistente, si presenta agli uffici pubblici per protestare, s' infuria con gli assistenti sociali, diventa aggressiva. E, ovviamente, ciò non giova alla sua causa. Nel 2009, poi, succede qualcosa che cambia tutto: la donna viene accusata di aver abusato delle figlie e di averle fatte prostituire. «Dal 2006 al 2009», dice l' avvocato Miraglia, «nessuno parla di abusi sessuali. Si parla solo di incapacità della mamma. Quando la signora inizia queste pressioni per le figlie, però, salta fuori la storia degli abusi. L' assistente sociale del Comune di Reggio Emilia e Valeria Donati asseriscono davanti all' autorità giudiziaria che le bambine avrebbero riferito che la mamma le costringeva a prostituirsi». L' avvocato Miraglia è incredulo: «Dopo quattro anni? Se lo sono ricordato dopo quattro anni? Ma se alla visita del 2006 era risultato che non avessero lesioni riconducibili ad abusi di natura sessuale!». Già, in effetti le bimbe furono visitate al pronto soccorso nel 2006, e i medici scrissero che gli organi genitali erano intatti. Da allora, non avevano più vissuto con la mamma. Come può essere che, nel 2009, risultassero vittime di molestie? In realtà, la prima a fare accenno a possibili abusi è proprio la donna marocchina. Sostiene, a un certo punto, che F sia stata molestata al Cenacolo francescano. Ed è questa affermazione, secondo Miraglia, a scatenare le accuse dei servizi sociali nei suoi confronti. Nel 2010, racconta l' avvocato, «un medico legale, a posteriori e solo attraverso dei ragionamenti logici, sosteneva che probabilmente le bambine erano state oggetto di abusi sessuali». Una terapeuta sostenne poi che le bimbe apparivano attendibili. La psicologa in questione, secondo Miraglia, era legata al Cismai, ovvero il Coordinamento italiano servizi maltrattamento all' infanzia. La stessa associazione a cui faceva riferimento il Centro per il bambino maltrattato di Milano presso cui si era formata Valeria Donati. La stessa associazione attorno a cui ha gravitato il centro Hansel e Gretel di Claudio Foti. Comunque sia, la mamma marocchina viene condannata a 6 anni e 8 mesi. Direte: può essere discutibile finché si vuole, ma una sentenza è una sentenza. Vero. Infatti non è questo il punto. L'aspetto più stupefacente della storia lo affrontiamo ora. Dice l' avvocato Miraglia che entrambe le bimbe sono state date in adozione. La più piccola, F, ormai cresciuta, «viene adottata dalla psicologa Donati che, dopo aver "accusato" la madre, ha pure gestito il caso. La maggiore», prosegue il legale, «sarebbe stata adottata, invece, da una coppia che abita a pochi metri di distanza dalla residenza della psicologa». Secondo la madre delle due ragazzine, quest' ultima famiglia avrebbe addirittura un legame di parentela con la Donati. Come è possibile? La Donati risulta single, e i single in Italia possono avere bambini in affido e in adozione solo in casi molto specifici. Non solo: non è un po' strano che una psicologa che ha seguito il caso di queste bimbe tolte alla madre ne prenda poi una con sé? La scorsa settimana, gli inviati di Chi l' ha visto? sono stati a casa della Donati, nel Modenese, e le hanno chiesto lumi. Lei ha rifiutato di rispondere, dicendo che non vuole parlare dei suoi affari privati. Il fatto, però, è che queste non sono esattamente vicende private. Tutta questa brutta storia, ancora una volta, mostra che il sistema italiano di gestione dei minori è pieno di luoghi oscuri e di stranezze che sarebbe ora di chiarire una volta per tutte. Per il bene dei genitori, ma pure dei bimbi.
Brunella Giovara per “la Repubblica” il 7 luglio 2019. Angeli e demoni si agitano insieme da queste parti, tra Bibbiano e gli altri sei Comuni della Unione dei Comuni della Val d' Enza, che condividono alcuni servizi e ora una storia scandalosa, se tutto verrà confermato a processo. Un gruppo di psicoterapeuti, operatori sociali, la dirigente dei servizi sociali, sotto inchiesta per aver manipolato alcuni bambini, inducendoli a confessare di aver subito violenze e abusi non veri, distorto i loro racconti, falsificato relazioni, favorito coppie affidatarie, e messo su una macchina infernale (l' inchiesta della procura di Reggio ha il titolo "Angeli e demoni") per far soldi, o per salvare i bambini, o entrambe le cose. Gli inquirenti hanno accertato che alcuni degli indagati hanno subito violenze durante l' infanzia, maltrattamenti e abusi, e ritengono che questo abbia influenzato la loro professione, come se avessero una missione da compiere. Angeli vendicatori, più che terapeuti. L' inchiesta ha travolto il sindaco pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d' ufficio e falso in atto pubblico: è estraneo alla parte minori ma è subito finito nel tritacarne dei social come "orco". Molti politici hanno attaccato il sistema degli affidi, Salvini ha promesso una commissione d' inchiesta, Meloni si è precipitata a Reggio Emilia. Il duro lavoro di migliaia di terapeuti e assistenti sociali perbene viene messo in dubbio, denigrato. Per capire, a questo punto dell' inchiesta, già peraltro arrivata al vaglio di un primo giudice che ha accolto le tesi dell' accusa e disposto le misure cautelari, conviene chiarire almeno alcuni passaggi. Al centro di tutto, Claudio Foti, fondatore del centro Hansel e Gretel di Moncalieri, autore di molte pubblicazioni, «un angelo dei bambini che adesso deve tornare al suo posto: il paradiso», dice il suo difensore Girolamo Andrea Coffari. «Uno studioso che lavora da trent' anni, ora umiliato da una misura cautelare. Ma la sua è una posizione marginale ». Foti è uno studioso discusso, al pari della "scuola" di esperti da lui formati, che fin da suo inizio lavorò moltissimo in Piemonte, poi basta. Il motivo lo spiega Anna Maria Baldelli, procuratore capo presso il tribunale per i minori di Torino: «Ha avuto il pregio di sensibilizzare sul tema abusi e maltrattamenti». Ma trattasi di materia delicata, ripete il magistrato, «servono cautela e prudenza». Equilibrio, chiunque lavori nel settore sa quanto sia difficile. E «ci sono quelli che negano l' esistenza degli abusi, e quelli che li vedono ovunque. Sono entrambe categorie pericolose. Foti si avvicina alla seconda, credo in buona fede». E perciò «da almeno 15 anni , si è ritenuto che ci fossero altre persone a cui fare riferimento. Noi abbiamo avuto la percezione di una mente non libera. Convinto di quello che diceva, ma non libero». Quindi, niente più perizie dai giudici e consulenze dai pm. Ha però continuato a lavorare come consulente di parte, nelle cause di separazione, nei casi di figli contesi.
I falsi ricordi. Un anno fa la procura di Reggio inizia a indagare su "un aumento esponenziale anomalo delle segnalazioni di abusi sessuali su minori provenienti dal Servizio sociale dell' Unione dei Comuni della Val d' Enza, con corrispondente emanazione di provvedimenti di allontanamento", scrive il gip. Si autorizzano le intercettazioni delle sedute con i minori, che sono sempre inviati in una struttura pubblica, "La Cura" a Bibbiano, gestita da una onlus sovvenzionata dall' ente locale. Qui vengono sottoposti a terapie da parte di professionisti privati della Hansel e Gretel, come Nadia Bolognini, moglie di Foti, accomunati dalla stessa metodologia: l' emersione del ricordo dell' abuso e la rielaborazione del trauma, e non ci sarebbe niente di male, ma secondo i magistrati questo doveva avvenire a tutti i costi, anche attraverso la costruzione di "falsi ricordi", ottenuti grazie a «significative induzioni, suggestioni, contaminazioni ». Ci sono anche false relazioni: una casa descritta come fatiscente, non adatta ad accogliere un minore (ma ai carabinieri risulta il contrario), e la contraffazione di disegni. A una figura maschile vengono aggiunte le mani che si allungano minacciose sulla bambina, il grafologo incaricato della perizia non ha dubbi sul falso. Dunque i giudici del tribunale per i minori di Bologna sono stati tratti in inganno, infatti il presidente Giuseppe Spadaro ha già detto «siamo parte offesa, in quanto depistati e frodati, assieme ai minori». Ha ordinato la rivisitazione di tutti i processi in cui erano presenti gli indagati. E chi negli anni si è visto sottrarre un figlio, con la controparte assistita da Foti e dai suoi, oggi può pensare di aver subito una frode e chiedere legittimamente la revisione.
Le sedute. Più interrogatori che sedute terapeutiche, con il bambino che fa resistenza a dire quanto si vorrebbe, o che gioca svagato, ma non dice niente di interessante, o magari alla fine lo dice. Certo, il profano, il non tecnico, non sa quali siano i metodi legittimi per arrivare a un racconto genuino del trauma. Appare evidente il pressing emotivo, ma solo un terapeuta potrebbe giudicare la correttezza degli indagati, infatti tre esperti (Rossi, Francia, Scali) lo hanno già fatto per il pm, e anche sulla base delle loro relazioni l' ufficio ha chiesto gli arresti. Foti definisce la Carta di Noto, il protocollo che dà le linee guida per l' esame del minore, un "Vangelo apocrifo". Uno dei suoi l' ha definita una cosa «scritta da quattro pedofili». Chi non la pensa come loro, viene accusato di essere "negazionista" degli abusi.
La "macchinetta magica". Una sciocchezza, emersa assieme agli arresti, ripresa (non da Repubblica), rilanciata dal ministro leghista Fontana, esplosa sui social, poi smentita dal procuratore di Reggio, Marco Mescolini. Vero è che talvolta usavano il dispositivo Neurotek, che emette vibrazioni utili durante le sedute di terapia EMDR. Isabel Fernandez è presidente dell' Associazione EMDR Italia (7 mila associati): «È una terapia efficace, nata per curare il disturbo da stress post traumatico dei veterani del Vietnam, ora usata con chi sopravvive a un terremoto, con quelli del ponte Morandi Si basa su movimenti oculari destra- sinistra, gli stessi della fase Rem del sonno. Il ricordo perde la sua carica emotiva negativa, si attenua ». Ma di certo «non fa affiorare ricordi di situazioni traumatiche che non sono avvenute. Se non c' erano abusi o maltrattamenti accertati, non c' era niente da trattare. Non si può cioè far ricordare ai pazienti cose che non hanno vissuto». E poi, la "macchinetta magica", così veniva presentata ai bambini, «viene usata solo quando il paziente non riesce a seguire il movimento suggerito dal terapeuta, guarda a destra, guarda a sinistra, o con gli ipovedenti», spiega Fernandez. Può essere dannoso? «No, ma è inutile», se non ci sono ricordi traumatici. E allora perché la usavano, definendola magica?
Il panico. Colpisce infine il panico che emerge dalle intercettazioni, quando i carabinieri cominciano a chiedere informazioni e documenti. Federica Anghinolfi, dirigente del servizio assistenti sociali (e paziente di Foti) ha la paranoia di essere intercettata. Di colpo tutti cercano di rimediare alle irregolarità, di mettere ordine nelle fatture, studiano soluzioni, anche per i regali dei genitori allontanati dai figli, che non venivano mai consegnati. Talvolta i terapeuti decidono che il minore non deve avere più contatti con la famiglia, né lettere né regali, ma qui pare che fosse la prassi. A gennaio Anghinolfi chiede che vengano consegnati, dice di essere stufa degli operatori, «non hanno l' autorità di negare la genitorialità », ma ormai la situazione è fuori controllo, Anzi no, l' assistente sociale Francesco Monopoli sa cosa fare: «Via gli appunti, come sempre! Via gli appunti», dice a una collega.
“Sbarre alle finestre e ore d’aria. La vita di due figlie strappate alla madre”. Quando le era concesso di andare a trovare le figlie, la madre non poteva scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché, racconta: “Io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Costanza Tosi, Mercoledì 17/07/2019, su Il Giornale. Calci, pugni, schiaffi. Per anni, Sara ha dovuto subire le violenze e le angherie da parte del proprio compagno. Ha deciso di denunciarlo ma, gli assistenti sociali, invece di aiutarla e sostenerla, le hanno tolto le sue due bambine di 8 e 13 anni. Sara ha preso coraggio e ha deciso di contattarci per raccontare la sua disavventura. Di dirci come gli assistenti sociali le hanno strappato dalle braccia le sue figlie dopo aver denunciato il compagno. È passato poco tempo dalla denuncia e le due bambine sono state portare a Cesena, in una comunità che, dai racconti delle piccole, sembra essere la “casa degli orrori”. Così ci ha raccontato la madre che, dopo la denuncia ai carabinieri di Reggio Emilia, si è vista sotto esame da parte degli assistenti sociali. Secondo il tribunale avrebbero dovuto fare dei controlli per verificare la situazione familiare in cui vivevano le due bambine, Giada e Sole. Ma le cose non andarono proprio così. Qualche giorno dopo gli assistenti sociali di Reggio Emilia, a pochi chilometri da Bibbiano, ormai noto per l’inchiesta “Angeli e Demoni”, si presentarono a scuola dalle piccole, insieme ai carabinieri in divisa e, come si fa con i peggiori criminali, le presero davanti ai compagni increduli. Trascinate fuori dalla classe tra urla di paura e lacrime. Da quel giorno Sara non ha più vissuto con le sue piccole. Le sono state portate via. Le due sorelline furono affidate ad una coppia e, costrette dai servizi sociali, a vivere con loro, lontano dalla propria mamma. Una decisione che fa pensare che i controlli di cui parlava il tribunale di Reggio Emilia non fossero andati a buon fine. Peccato che, di quelle visite d’osservzione, non sia mai stata scritta nessuna relazione. “Vennero a casa, a controllare che fosse tutto a posto. Non dissero niente. La casa era pulita e in ordine. Infatti non mi fecero nessuna contestazione”. Racconta Sara. A giustificare la decisione di portarle via le sue bambine non una parola, nessuna spiegazione. La mamma non era idonea a crescere le proprie figlie. Lei, che pur di proteggerle aveva fatto di tutto per liberarsi del compagno violento. I giorni passavano e Giada e Sole continuavano ad incontrare la mamma di tanto in tanto, in costante contatto con la coppia che le aveva accolte e sotto la supervisione continua degli psicologi. Fino a quando, un giorno, gli assistenti sociali decisero che le bambine dovevano essere inserite all’interno di una casa famiglia di Cesena. “Non sono state prese in considerazione strutture più che idonee e libere a Reggio Emilia, né tantomeno a Bologna. Perché proprio a Cesena?” Non se lo spiega mamma Sara che, quando ha provato a chiedere informazioni ai servizi sociali, le è stato risposto: “Le fa per caso fatica andare a trovare le bambine a Cesena? Quella è la struttura migliore per loro”. Magari migliore per i servizi sociali, ma non per le due bambine che, dopo sei mesi sono scappate. “Mi hanno chiamata un giorno che dovevano essere al mare con la coppia affidataria (a loro erano concesse alcune gite fuori porta con le piccole), mi hanno chiesto di venirle a prendere, piangevano e dicevano che in quel carcere non ci volevano più tornare”. Ci racconta Sara, che ricorda alla perfezione quei momenti. Appena tornata a casa, la più grande delle due, ha iniziato a dire alla madre il perché di quella fuga. “Mia figlia mi diceva che lì dentro i bambini vengono maltrattati - spiega la mamma in lacrime mentre ci parla al telefono - addirittura mi ha raccontato di un bimbo di 8 mesi che viene legato al seggiolone per ore con la faccia rivolta verso il frigorifero mentre piange, piange in continuazione. Mia figlia mi ha raccontato anche che ad un bambino di appena sei anni gli davano delle pasticche per farlo addormentare ogni volta che piange o che non vuole mangiare. A mia figlia è rimasto impresso nella mente quel bambino perché poi dormiva per ore e ore. Giada dice che ha gli occhi persi. Sono psicofarmaci. Li imbottiscono di psicofarmaci”. Inferriate alle finestre e ore d’aria come fossero in carcere. Ai bambini è concesso di uscire poche ore al giorno e dopo il pranzo, dalle 13 alle 16, devono stare rinchiusi nelle proprie stanze. È questo quello che racconta la piccola Giada alla mamma. “Una volta sono andata a trovare le mie figlie e ho visto che la grande aveva dei lividi sulla pancia, mi disse che gliel’aveva fatti un ragazzino mentre giocavano. Ma nessuno aveva visto niente, erano soli.” Racconta Sara. Ma lei, di quei lividi, non ha mai potuto raccogliere le prove. Quando, due volte al mese, le era concesso di andare a trovare le figlie, non poteva assolutamente scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché -spiega ancora la mamma- “io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Le era proibito anche di abbracciarle troppe volte, di dimostrarsi affettuosa e di scherzare con loro. Secondo gli psicologi questo avrebbe influito negativamente sull’umore delle bambine. Oggi Giada e Sole, dopo essere scappate dalla casa famiglia, sono tornate a vivere nella propria casa, ma non dimenticano ció che dicono di aver visto con i propri occhi, per otto lunghi mesi. Ricordi che, piano piano, cercano di raccontare ai carabinieri e al legale della madre, tenendo un diario che da giorni svela scene da brividi. Fiumi di parole che un giorno, si spera, serviranno a mettere la parola fine. I racconti sono tutti da provare, ma noi ve ne rendiamo conto. Di storie simili, in redazione, ne arrivano ogni giorno. Racconti drammatici e, molto spesso, denunciati alle forze dell’ordine.
Quelle risate tra gli psicologi: così i demoni si prendono i bambini. Pazzo per gli assistenti sociali, ma capace di intendere per gli psichiatri dell'Asl. Una scusa per portargli via i bambini. Nuove ombre sul sistema degli affidi dei bambini. Costanza Tosi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Per i servizi sociali Stefano era pazzo, incapace di intendere e di volere. E così gli assistenti sociali di Castelnovo Monti, gli hanno strappato i suoi tre figli. Per sempre. Una diagnosi che poi è risultata priva di ogni fondamenta perché Stefano pazzo non lo è mai stato. Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Era troppo tardi per risparmiare a Stefano anni di lotte e sofferenze. Nel 2015, Stefano si separa dalla propria moglie. Come in molti casi i litigi non mancano e il conflitto si inasprisce tanto che la donna minaccia di portargli via i bambini. Viene chiamato un consulente tecnico d’ufficio il quale, dopo aver valutato la questione, decide di ricorrere agli assistenti sociali. Da questo momento, per Stefano, ha inizio il calvario. Gli assistenti sociali chiamano a colloquio il padre e, dopo i controlli, arriva la prima relazione (ascolta le intercettazioni). Stefano viene dichiarato “inadeguato per crescere i bambini” e mandato in cura presso un centro di salute mentale. Viene fatto passare per pazzo come lui stesso ci racconta: “Mi hanno tolto i bambini, non me li facevano più vedere se non in brevi e sporadici incontri protetti”. Costretto a fare gli accertamenti, dopo che i brevi colloqui con gli assistenti sociali avevano messo in dubbio la sua stabilità mentale, Stefano legge con sollievo la prima diagnosi positiva, che gli avrebbe permesso di riabbracciare i propri figli, emessa da un neuropsichiatra della Asl di Castelnovo Monti, piccolo paese dell’Emilia Romagna. Era lì che viveva Stefano insieme alla sua famiglia. A soli 42 chilometri da Bibbiano, la città degli “Angeli e dei Demoni”, come definita dalle carte dell’inchiesta che ha scosso l’Italia. L’incubo per Stefano non svanisce, anzi. Viene convocato nuovamente il ctu (consulente tecnico d’ufficio) presso il tribunale di Reggio Emilia e, nonostante le visite andate a buon fine, la sentenza è l’ennesimo colpo al cuore: viene infatti dichiarato inadatto a svolgere il ruolo di padre perché, secondo i medici di parte, aveva gravi problemi mentali. Una sentenza che non toglie a Stefano la forza di lottare per avere giustizia. Il papà chiede un colloquio con i servizi sociali, durante il quale decide di portare con sè un telefono per registrare la conversazione. Una conversazione che lui stesso ha reso pubblica e che è a dir poco surreale. “Volevo avere le prove di come avrebbero giustificato la loro posizione. Io ho portato loro il referto medico che certificava la mia ottima salute mentale. Era una cosa su cui nessuno avrebbe potuto controbattere. Erano spalle al muro”, ci racconta Stefano. Andato via, il padre, dimentica nella sala il proprio zaino dentro il quale c’era il registratore. Lo recupera dopo 40 minuti e scopre delle registrazioni choc. “In quelle registrazioni c’erano discorsi agghiaccianti.” Ci dice Francesco Miraglia, avvocato specializzato in diritto dei minori, legale dell’uomo. “Dicevano: “Questo è uno stronzo (riferendosi allo psichiatra che aveva fatto la prima diagnosi), come facciamo a sostenere che questo è pazzo adesso?”. E poi, ancora, lunghe risate tra le quali gli psicologi cercavano di capire il modo migliore di agire per riprendere in mano la situazione. Per non dargliela vinta. Poco dopo l’incontro, però, arriva la decisione del tribunale: bisogna ripetere la ctu. E il giudice, questa volta, cambia la sentenza. Il padre è improvvisamente diventato capace di intendere e di volere. Nessuna mancanza psichica. Nessun bisogno di cure mentali. Stefano ha estratto alcuni brani dalla registrazione, e ha deciso di denunciare il suo caso pubblicandoli sulla propria pagina Facebook. Ma invece di ricevere delle scuse, la vittima delle falsità e dei complotti di alcuni assistenti sociali, viene perfino querelato. Denunciato per diffamazione. Sia dagli operatori che dal sindaco di Castelnovo Monti che, dalla storia raccontataci da Stefano, non c’entrerebbe nulla nel caso. “Episodio assurdo e gravissimo” ha commentato il legale. “Questi costruiscono diagnosi false con le quali tolgono i bambini alle persone! Ma come lavorano? Mancano buon senso e competenza professionale. E in questo modo quante vite si sono rovinate? Bisogna fare chiarezza.” Questa che vi raccontiamo è l’ennesima storia di violenze e soprusi, che getta ancora più ombre sul sistema degli affidi in Italia. "Adesso non possiamo più dire che è pazzo..."
Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Ancora prima di nascere il destino di Chiara era già scritto: a decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 16/07/2019 su Il Giornale. Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Chiara (nome di fantasia ndr) oggi ha appena 2 anni. I suoi genitori, lei non li ha mai visti. L’ospedale in cui è nata infatti era già in contatto con gli assistenti sociali e, in sole due settimane, la bambina è stata tolta alla mamma e al papà e resa adottabile. Ancora prima di nascere, il destino di Chiara, era già scritto. A decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna, città ad un’ora di strada da Bibbiano, palcoscenico degli scandali emersi nell’inchiesta Angeli e Demoni, con una lettera inviata all’ospedale dove la madre della piccola avrebbe dovuto partorire da lì a poco. Nella mail, recapitata da un’assistente sociale del servizio ospedaliero agli operatori della struttura, ben venti giorni prima della nascita di Chiara, si segnalava, senza scrupoli, la “grave situazione sociale” della madre. Motivo per il quale, come si legge nel testo della mail, “nel caso in cui la signora dovesse partorire è necessario trasferire il neonato in neonatologia al fine di verificare le capacità genitoriali della signora e del compagno”. Per gli psicologi dunque era necessario valutare se la madre di Chiara fosse idonea a svolgere il suo ruolo di genitore senza, però, darle la possibilità di stare con la bambina. Dovevano capire l’affidabilità della mamma, la sua lucidità mentale. Una lucidità compromessa visto che avevano deciso di toglierle la figlia ancora prima che riuscisse a vedere il suo primo sorriso. Una storia che aggiunge un altro tassello al complicato giro di affidi dei minori in Italia. Una storia che, ancora una volta, fa pensare che i “demoni di Bibbiano” siano solo la punta dell’iceberg. Ma perché la madre di Chiara fu segnalata dagli assistenti sociali?
La sua storia. Vittoria segue le orme del padre e diventa medico. La sua è una famiglia piuttosto benestante. Ma, negli anni, Vittoria, soffre di problemi psichiatrici molto seri e inizia a farsi seguire da uno dottore. Ed è proprio per questo che finisce sotto l’osservazione degli assistenti sociali. Conosce un uomo sui social network, come ormai capita a molti, è di origine turca, arrivato in Italia con documenti regolari con i quali ha ottenuto il permesso di soggiorno. I due decidono di sposarsi e un giorno Vittoria rimane incinta. Chiara nasce il 25 luglio del 2017, ma già il 4 dello stesso mese all’ospedale era arrivata la fatidica lettera che segnava le sorti della piccola. Il 2 agosto il pm di Bologna presenta un ricorso. In cui, ancora una volta, viene richiesto di verificare la capacità genitoriale di Vittoria e del marito e controllare le condizioni della bambina. Il 4 agosto, due giorni dopo la richiesta del pm, i servizi sociali prelevano la bambina. In sole 48 ore senza considerare le tempistiche necessarie a fare valutazioni di questo tipo e a comprendere se fosse necessario prendere decisioni così drastiche, i servizi sociali strappano la neonata dalle braccia dei suoi genitori. Tuttavia, gli psicologi si affidano all' articolo 403 del Codice civile, che dice: “Quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. Dunque, l’articolo consente ai servizi sociali di allontanare i figli ai genitori senza dover prima passare per l’approvazione di un giudice. Una misura che però, per essere applicata, dovrebbe riferirsi a casi eccezionali, situazioni estreme. Ma nel caso di Chiara, il motivo che abbia portato alla decisione degli assistenti sociali rimane un quesito irrisolto. Un mistero. “Il pm, infatti, spiega l’avvocato Francesco Miraglia, legale della madre, aveva già fatto ricorso chiedendo di fare verifiche”. Verifiche che non sono mai state fatte. “Non si comprendono allora le ragioni di urgenza che avrebbero determinato l’applicazione del 403. Che, con tutta evidenza, è stata illegittima” aggiunge l’avvocato. Ad ogni modo la bambina è stata prelevata e affidata a una casa-famiglia. ll 10 agosto del 2017, il Tribunale di Bologna apre il procedimento di adottabilità di Chiara. Data che, secondo quanto dichiarato dal giudice, si tratterebbe di un “errore materiale”. Ma l’avvocato Miraglia non crede a questa posizione. Le cose per il legale erano già state scritte: “Sono certo che avessero già deciso tutto prima ancora che la bambina nascesse. Ci sono anche le mail inviate dai servizi sociali all' ospedale. Per di più, tra l’applicazione dell'articolo 403 e il provvedimento del Tribunale passa meno di una settimana: non c'erano proprio i tempi tecnici. Questo significa che tutto era già pronto prima”. Un decreto del Tribunale di Bologna del 21 giugno 2018 spiega che Chiara non può tornare a vivere con i suoi genitori. Secondo gli psicologi “il padre è una risorsa affettiva sufficientemente valida ma con elementi di fragilità individuati in un deficitario processo di integrazione nel tessuto socio ambientale e di una ridotta consapevolezza del problematico assetto mentale della moglie”.
La vita di Vittoria. Secondo lo psichiatra mamma Vittoria oggi sta molto meglio. È costantemente seguita e, consapevole della sua situazione, segue le cure indicate dai medici che la definiscono in gergo tecnico “compensata”. Ha ripreso a lavorare, scrive articoli scientifici per riviste importanti e conosciute. In più i due hanno una propria casa, e i genitori materni sono costantemente presenti e disponibili ad aiutare la famiglia. Il padre, accusato dal tribunale di essere poco integrato e di non conoscere bene la lingua, vive in Italia ormai da due anni e non ha problemi con l’italiano. Insomma, pare che la sua unica colpa sia vivere in un paese che non è il suo. Senza aver mai subito nessuna violenza, senza che mai i suoi genitori l’avessero maltrattata, abbandonata, molestata, Chiara è stata strappata dalla sua famiglia, e non potrà mai vivere con i genitori che l’hanno messa al mondo. Il Tribunale scrive che “secondo le linee guida per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso psicosociale di tutela dei minori del Cismai”, Vittoria e suo marito non sono idonei a fare i genitori.
Ora viene da domandarsi: ma come è possibile valutare l’operato di due genitori senza che questi abbiano vissuto con la propria figlia neanche un giorno della loro vita? Come è possibile sapere le condizioni in cui avrebbe vissuto la piccola ancor prima che venisse al mondo? Ancora una volta ci troviamo d’avanti ad un sistema che lascia spazio a troppe domande. Domande che i genitori, vittime innocenti delle scelte di psicologi, giudici e assistenti sociali, si pongono ogni giorno e a cui nessuno riesce a dare risposte. Ancora oggi tutta la famiglia di Chiara è pronta ad accogliere la bimba. Ci sono parenti, tra cui i nonni, che potrebbero tenerla in affido, ma neanche a loro è consentito stare con lei. Come i genitori, possono vederla solo un’ora al mese. ”Siamo sicuri che la Corte d’Appello di Bologna saprà valutare i fatti e alla piccola restituirà i suoi genitori e la sua famiglia”, dice l’avvocato Miraglia. Nella speranza che un giorno Chiara possa davvero conoscere la sua vera casa.
“Dicevano papà è uno str...”. Così i demoni strappavano i bimbi. Pazzo per gli assistenti sociali, ma capace di intendere per gli psichiatri dell'Asl. Una scusa per portargli via i bambini. Nuove ombre sul sistema degli affidi dei bambini. Costanza Tosi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Per i servizi sociali Stefano era pazzo, incapace di intendere e di volere. E così gli assistenti sociali di Castelnovo Monti, gli hanno strappato i suoi tre figli. Per sempre. Una diagnosi che poi è risultata priva di ogni fondamenta perché Stefano pazzo non lo è mai stato. Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Era troppo tardi per risparmiare a Stefano anni di lotte e sofferenze. Nel 2015, Stefano si separa dalla propria moglie. Come in molti casi i litigi non mancano e il conflitto si inasprisce tanto che la donna minaccia di portargli via i bambini. Viene chiamato un consulente tecnico d’ufficio il quale, dopo aver valutato la questione, decide di ricorrere agli assistenti sociali. Da questo momento, per Stefano, ha inizio il calvario. Gli assistenti sociali chiamano a colloquio il padre e, dopo i controlli, arriva la prima relazione. Stefano viene dichiarato “inadeguato per crescere i bambini” e mandato in cura presso un centro di salute mentale. Viene fatto passare per pazzo come lui stesso ci racconta: “Mi hanno tolto i bambini, non me li facevano più vedere se non in brevi e sporadici incontri protetti”.. Costretto a fare gli accertamenti, dopo che i brevi colloqui con gli assistenti sociali avevano messo in dubbio la sua stabilità mentale, Stefano legge con sollievo la prima diagnosi positiva, che gli avrebbe permesso di riabbracciare i propri figli, emessa da un neuropsichiatra della Asl di Castelnovo Monti, piccolo paese dell’Emilia Romagna. Era lì che viveva Stefano insieme alla sua famiglia. A soli 42 chilometri da Bibbiano, la città degli “Angeli e dei Demoni”, come definita dalle carte dell’inchiesta che ha scosso l’Italia. L’incubo per Stefano non svanisce, anzi. Viene convocato nuovamente il ctu (consulente tecnico d’ufficio) presso il tribunale di Reggio Emilia e, nonostante le visite andate a buon fine, la sentenza è l’ennesimo colpo al cuore: viene infatti dichiarato inadatto a svolgere il ruolo di padre perché, secondo i medici di parte, aveva gravi problemi mentali. Una sentenza che non toglie a Stefano la forza di lottare per avere giustizia. Il papà chiede un colloquio con i servizi sociali, durante il quale decide di portare con sè un telefono per registrare la conversazione. Una conversazione che lui stesso ha reso pubblica e che è a dir poco surreale. “Volevo avere le prove di come avrebbero giustificato la loro posizione. Io ho portato loro il referto medico che certificava la mia ottima salute mentale. Era una cosa su cui nessuno avrebbe potuto controbattere. Erano spalle al muro”, ci racconta Stefano. Andato via, il padre, dimentica nella sala il proprio zaino dentro il quale c’era il registratore. Lo recupera dopo 40 minuti e scopre delle registrazioni shock. “In quelle registrazioni c’erano discorsi agghiaccianti.” Ci dice Francesco Miraglia, avvocato specializzato in diritto dei minori, legale dell’uomo. “Dicevano: “Questo è uno stronzo (riferendosi allo psichiatra che aveva fatto la prima diagnosi), come facciamo a sostenere che questo è pazzo adesso?”. E poi, ancora, lunghe risate tra le quali gli psicologi cercavano di capire il modo migliore di agire per riprendere in mano la situazione. Per non dargliela vinta. Poco dopo l’incontro, però, arriva la decisione del tribunale: bisogna ripetere la ctu. E il giudice, questa volta, cambia la sentenza. Il padre è improvvisamente diventato capace di intendere e di volere. Nessuna mancanza psichica. Nessun bisogno di cure mentali. Stefano ha estratto alcuni brani dalla registrazione, e ha deciso di denunciare il suo caso pubblicandoli sulla propria pagina Facebook. Ma invece di ricevere delle scuse, la vittima delle falsità e dei complotti di alcuni assistenti sociali, viene perfino querelato. Denunciato per diffamazione. Sia dagli operatori che dal sindaco di Castelnovo Monti che, dalla storia raccontataci da Stefano, non c’entrerebbe nulla nel caso. “Episodio assurdo e gravissimo” ha commentato il legale. “Questi costruiscono diagnosi false con le quali tolgono i bambini alle persone! Ma come lavorano? Mancano buon senso e competenza professionale. E in questo modo quante vite si sono rovinate? Bisogna fare chiarezza.” Questa che vi raccontiamo è l’ennesima storia di violenze e soprusi, che getta ancora più ombre sul sistema degli affidi in Italia.
"Io, vittima delle rete dell'orrore. Così volevano strapparmi i bimbi". “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione.” Costanza Tosi, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. Si allargano i sospetti sui "demoni" di Reggio Emilia. Politici, medici, assistenti sociali e psicologi. Sono tutti coinvolti nell'inchiesta che ha scosso l’Italia. Alcuni di loro sono stati accusati di aver scritto documenti falsi per strappare i bambini dalle proprie famiglie e affidarli ad amici e conoscenti. Dietro compenso o, addirittura, dietro movente ideologico. Ma di colpevoli, in questa orribile storia, potrebbero essercene altri. Il numero delle vittime sembra infatti crescere giorno dopo giorno. Più si parla del caso è più storie vengono fuori. Storie simili a quelle che già abbiamo raccontato. Una madre, che chiameremo Giulia, perché ci ha chiesto di rimanere nell’anonimato, ci ha raccontato la sua storia. Una brutta storia. "Quando ho letto i giornali e ho visto quello che era successo sono rimasta allibita. Non potevo crederci. Le stesse persone coinvolte in questa brutta storia sono le stesse che hanno provato a portare via i miei due bambini. Per fortuna non ci sono riusciti. Ho pianto molto, ho detto ad amici che volevano portarmi via i figli a tutti i costi, ma nessuno mi credeva. Oggi, sapere che sono stati arrestati e scoperti mi fa tirare un sospiro di sollievo". Si sfoga così la madre, nella lunga chiacchierata al telefono. Un anno e mezzo fa Giulia, che vive a Bibbiano con i suoi due figli di 13 e 7 anni, ha deciso di contattare i servizi sociali. “Ero preoccupata per la situazione a casa, mio marito aveva iniziato a bere e ciò lo portava ad essere violento. Spesso con me, ma talvolta anche con i bambini. Avevo paura e mi sono rivolta a loro”, ha iniziato a raccontare la madre. Chiedeva aiuto e, invece, ha rischiato di finire nel triste e lungo elenco delle vittime. Non poteva mai immaginare che, quelle persone, di cui lei si fidava, potessero portarle via i figli. Un grido di aiuto, una speranza, la speranza di poter migliorare le cose, quella di Giulia. Che, però, si è trasformata in un incubo. “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione. Nessuno era mai venuto a casa mia". Così è iniziato il lungo calvario di Giulia, sotto la costante osservazione dei servizi sociali dell’Unione Val D'Enza tra visite degli psicologi e incontri continui. Ma nessuna spiegazione del perché volessero strapparle i bambini. “Ogni volta cercavano di incolpare me. Perchè proprio me? Io non c’entravo nulla. Io ero vittima di mio marito, eppure su di lui non hanno detto niente. Anzi, a volte, sembrava che lo giustificassero. Più volte mi sono fatta delle domande e sono entrata in crisi". Racconta Giulia, con la voce rotta dal dolore, solo al ricordo. Impaurita, ma sollevata dopo l’operazione dei carabinieri. “Un giorno sono andata ad un incontro con la neuropsichiatra e quando le ho raccontato quale era il problema mi ha detto, quasi deridendomi: 'Signora ma lei non se lo beve un goccino ogni tanto?'. Avevo i brividi. Non riuscivo a capire”. I bambini di Giulia, tenuti sotto costante osservazione, erano costretti a passare intere giornate con i servizi sociali. Tra i responsabili e incaricati di stare con i piccoli c'erano Beatrice Benati, Marietta Veltri e Maria Vittoria Masdea. Educatrici dei servizi sociali finite nella bufera giudiziaria, indagate dalla procura di Reggio Emilia. "Mi dicevano che ero io che non sapevo gestire la situazione. Che i bambini avevano dei problemi. E tutto per colpa mia. Che mi dovevo imporre per farli andare da loro anche quando i miei figli non volevano". Ma perché incolpare proprio lei? Perchè non approfondire la situazione per allontanare dal padre, alcolizzato e violento, la madre con i suoi figli? Giulia non riusciva a dare una risposta a queste domande. Forse perché ai vertici dei servizi sociali non interessava affidare quei bambini alla madre. Quello che consentiva di portare a termine il proprio “gioco d’affari” era strappare via i bambini dalla famiglia naturale e affidarli ad altri. Questo era il modus operandi dell’associazione. Solo così sarebbero riusciti a mettere nelle tasche di amici e conoscenti denaro destinato al mantenimento. Da quello che dicono le carte era questa la loro tattica. Solo in questo modo avrebbero potuto sottoporre i bambini alle continue sedute degli psicologi della Onlus coinvolta nel giro di affari illecito, il Centro studi Hansel e Gretel. Il tutto, con la complicità dei genitori affidatari disposti, in cambio di soldi, a portare i piccoli nella “sala delle torture”. Ma con Giulia qualcosa è andato storto. “I miei figli mi raccontavano che li facevano solo disegnare, che non si divertivano e non ci volevano andare. Non me la sono sentita di continuare. Era tutto troppo strano”. Ancora per Giulia la battaglia non è terminata e, per chiudere definitivamente i rapporti con i servizi sociali, si è dovuta rivolgere ad un avvocato. Lei resta ancora sotto osservazione dagli psicologi.
Angeli e demoni, l’incubo di un padre: “Mi hanno strappato mia figlia a quattro anni”. Un padre a ilGiornale.it: “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva quattro anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”. Costanza Tosi, Martedì 09/07/2019, su Il Giornale. C’è il sospetto che ci possano essere nuovi casi oltre a quelli già raccontati dall’inchiesta “Angeli e Demoni”. Nuovi medici coinvolti, nuovi psicologi corrotti, nuovi politici complici. Mentre dalle carte della procura di Reggio Emilia continuano a emergere particolari inquietanti, che descrivono il sistema illecito di affidi ad opera dei servizi sociali dell’Unione Val D’Enza, spuntano fuori altre storie, molto simili a quelli che già abbiamo raccontato. Sospetti e dubbi che hanno spinto altre famiglie a cui erano stati strappati i figli a scriverci. Famiglie, molto spesso solo padri e madri, che chiedono giustizia. Come Luigi (nome di fantasia ndr). La sua storia ha inizio dieci anni fa, quando decise di divorziare dalla moglie con cui, tre anni prima, aveva avuto la sua prima figlia. Come succede in molte famiglie, i genitori dopo la separazione andarono a vivere in due case differenti. “Da lì la mia ex moglie iniziò a non farmi più vedere la bambina. - Racconta Luigi - La teneva solo con sé e ogni volta che provavo ad andare a prenderla per passare del tempo assieme a lei, non me la faceva trovare. Porta chiusa, serrande sbarrate. Alcune volte ho passato ore ad aspettare che mi aprisse il cancello di casa. Ma niente da fare”. A quel punto Luigi decise di rivolgersi ai servizi sociali del suo paese, Montecavolo. Piccolo centro del reggiano, a pochi chilometri da Bibbiano, città finita nell’occhio del ciclone dopo l’arresto del sindaco dem accusato di abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Una richiesta d’aiuto disperata, quella di Luigi, che sperava di riuscire a rivedere presto la sua bambina, di soli tre anni, dopo mesi di sofferenze e porte chiuse in faccia. Ma non è stato così. Luigi, la sua piccola, non l’ha più rivista. Ha lottato inutilmente per nove lunghi anni. ”Dopo la mia segnalazione i vigili sono riusciti a trovare la mia ex moglie mentre usciva di casa con mia figlia. L’hanno fermata, gliel’hanno portata via e da lì è stata data in affidamento ad una casa famiglia.” Ma anche questa volta, come nelle recenti storie che IlGiornale.it ha raccontato, l’allontanamento della piccola dai propri familiari avviene senza nessuna verifica. Da un giorno all’altro la bambina viene affidata ad un centro privato. Senza prima fare chiarezza su quali siano le problematiche di quella famiglia. Senza controllare come i genitori facciano a vivere la propria figlia. E, sopratutto, senza dare spiegazioni al padre, prima vittima di questa storia. Proprio lui che aveva agito nella speranza di rivedere la sua bambina si è visto portarsela via. ”Mia moglie è stata sottoposta a TSO per ben due anni.” Continua Luigi, che prova con fatica a ripercorrere la storia. I ricordi fanno troppo male. “Era continuamente sotto controllo. La trattavano come una persona con gravi problemi psichici. Senza prima aver fatto niente per riuscire a comprendere la situazione.” Ma la madre accettò di sottoporsi alle visite. Dopo due anni, e una miriade di controlli risultati negativi, la bambina è tornata a casa con la mamma. Sempre seguita dagli assistenti sociali. E sempre lontana dal proprio papà. Senza alcun motivo apparente. Ma non era finita. Gli operatori continuavano a tenere tutto sotto controllo, a fare continui sopralluoghi e, la prima relazione che scrissero dopo che la bambina era tornata a casa, fu l’ennesima congiura. Nelle carte i servizi sociali contestarono che la mamma non portava la figlia a scuola e neanche dal pediatra. “Mia moglie lavora in ospedale, era lì che faceva fare le visite alla bambina quando ce n’era bisogno. E loro lo sapevano benissimo.” Ma non c’è stato niente da fare. Grazie a quel documento pieno di futili pretesti e false accuse, a dire del padre, la bambina è stata riportata nella casa famiglia. E da lì non è più uscita. E pensare che fu proprio il padre a chiedere aiuto. “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva 4 anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”, racconta Luigi trattenendo le lacrime dal dolore. “Abbiamo fatto di tutto per provare a tirarla fuori da lì. Nel 2014 io e la mia ex moglie ci siamo anche riavvicinati, andavamo a trovarla assieme, quelle poche volte che ci veniva concesso, per far capire agli assistenti sociali e anche a lei, che andava tutto bene. Loro ci dissero di non farlo più, che questo avrebbe creato ancora più problemi alla bimba. E che dovevamo assolutamente evitare.” Sparire. Tutti tentativi inutili quelli dei due genitori. Gli assistenti sociali non si sono spostati dalla loro decisione: la piccola doveva stare lontana dalla propria famiglia. E Luigi, ancora oggi, non si dà pace. “Posso vederla soltanto due ore ogni 20 giorni e alla mia ex moglie è consentito andarla a trovare un’ora al mese.” Ci spiega Luigi. “Qualche volta veniva affidata a mio fratello, padre di tre bambini. La portava al mare, la teneva nel fine settimana. Un giorno mi mandò alcune foto di mia figlia in spiaggia, non lo avesse mai fatto. Quando gli assistenti sociali lo hanno scoperto sono andati su tutte le furie. L’hanno tolta anche a lui. Non può più tenerla.” Oggi Luigi si è rivolto ad un legale e prega ogni giorno perché sia fatta giustizia. Nessun procedimento è stato aperto, ma adesso, dopo l’inchiesta “Angeli e Demoni” che ha portata o alla luce un presunto giro di affari sulla pelle dei bambini, Luigi vuol vederci chiaro. Troppe cose non tornano. “E se hanno lucrato anche sulla pelle di mia figlia?”, dice. Una storia, quella di Luigi, che poco si allontana da quelle delle vittime che abbiamo raccontato. Un quadro confuso che fa trapelare quell’ostinazione, a quanto pare ingiustificata, nel voler strappare una bambina ai propri genitori. Un susseguirsi di eventi che lasciano spazio a troppe domande.
Quei legami tra la consigliera Pd e i “demoni” indagati a Bibbiano. Il Partito Democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli orrori. Costanza Tosi, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Le indagini sugli scandali a Bibbiano proseguono. I punti si uniscono, dando vita a un tremendo intreccio che ha acceso i riflettori sull’assurdo meccanismo degli affidi in Italia. Dettagli che confermerebbero e coinvolgerebbero anche alcuni membri del Partito democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli affidi. Eventi nei quali, spesso, spunta un nome: Roberta Mori. Si tratta della presidente dem della Commissione Parità della Regione Emilia Romagna. È a lei che Federica l’Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (entrambi indagati e ora ai domiciliari), nel 2015, presentarono il Modello Val d’Enza. Modello che, al tempo, la Mori sponsorizzava con fierezza. Il sindaco PD e la prima responsabile degli affidi illeciti non erano i soli ad essere collegati a Roberta Mori. La consigliera pare conoscesse bene anche un altro degli indagati: Fadia Bassmaji, finita ai domiciliari assieme alla compagna. Entrambe erano amiche della Anghinolfi, vicine alla dem Mori, accusate di maltrattamenti verso la bambina che avevano preso in affido. La prova del rapporto di “amicizia” sta in tutti quei commenti pubblicati sulla pagina Facebook delle due compagne. Roberta Mori era solita seguire le due donne che, spesso, pubblicavano post con bandiere lgbt e cuori arcobaleno. Un modo per rimanere aggiornata. È lei la prima relatrice della proposta di legge regionale contro l’omotransnegatività. È lei una delle prime candidate, alle scorse elezioni europee, pro-LGBT, suggerita perfino dal sito Votoarcobaleno dell’Arcigay come candidato gayfriendly. Un candidato da sostenere e portare avanti. Ma non è tutto. Nel maggio 2016, la Mori partecipa, come relatrice, al convegno “Quando la notte abita il giorno: l’ascolto del minore vittima di abuso sessuale e maltrattamento. Sospetto, rivelazione, assistenza, giustizia.” Evento nel quale, circa la metà dei nomi che ritroviamo tra i relatori, sono gli stessi finiti nel registro degli indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. A parlare di maltrattamenti sui minori all’incontro c’erano, ancora una volta, Federica Anghinolfi e il sindaco democratico Andrea Carletti. Ma anche il luminare Claudio Foti, assieme al collega Monopoli e molti altri. Proprio il quell’occasione la Mori affermava, con soddisfazione, che per lei quello era più di un semplice incontro: “Un esempio concreto di quello che è praticare la prevenzione e il contrasto alla violenza“. E non mancava di citare l’audizione del 2015, sostenendo di voler essere, come regione, “partner e sponda rispetto ad un’esperienza che noi riteniamo esemplare per tutta l’Emilia Romagna“. La consigliera dem elogiava il sistema della Val d’Enza. Lo stesso sistema finito nel mirino della procura di Reggio Emilia. Non sappiamo se la Mori fosse a conoscenza del perverso meccanismo che muoveva le fila degli affidi, ma un fatto è certo: la Mori conosceva bene tutti coloro che, quel meccanismo, lo mettevano in atto. Ai danni dei più piccoli e delle loro famiglie. Tanto che a settembre del 2016, sempre la dem Mori partecipa, in compagnia di due sindaci del Pd (ora indagati), all’inaugurazione del centro “La Cura”. Stesso centro nel quale si svolgevano gli incontri tra le piccole vittime e gli psicologi della Hansel&Gretel. Tra i presenti all’inaugurazione anche Federica Anghinolfi. E sul proprio sito web la Mori metteva in evidenza l’evento, descrivendo “La Cura” come uno “spazio integrato a servizio di bambini e bambine vittime di abusi” nati dall’esperienza “agita su casi concreti e dai molteplici bisogni che ne sono scaturiti;” e, sottolinea, “bisogni che sono stati oggetto di una specifica audizione in Commissione assembleare Parità e Diritti delle Persone.” Un luogo dove i bambini avrebbero dovuto trovare pace. Insomma, la dem Roberta Mori, era sempre presente agli incontri organizzati dal giro della Val d’Enza. Sia che riguardassero famiglie e minori, sia che si parlasse di temi arcobaleno. Una presenza distratta, quella della consigliera, che ha per anni osservato da vicino il sistema degli affidi illeciti portato avanti dai servizi sociali della Val d’Enza, senza mai accorgersi di cosa stava succedendo, senza vedere cosa stessero facendo a quelle piccole vittime cadute nella rete degli orrori. Sebbene la Mori non risulti coinvolta nel giro d’affari di Bibbiano, è indubbio che fu lei a sostenere e appoggiare l'operato di una dei principali indagati dell'inchiesta “Angeli e Demoni”. E c’è chi non ci sta. A fine luglio la legge sulla omotransenagtività tornerà in aula e il capogruppo di Forza Italia, Andrea Galli, chiede alla presidente Pd Mori di lasciare l'incarico di relatrice. “Per la Mori, quello di Bibbiano, era addirittura un modello da esportare e in Commissione annunciò anche l’intenzione di promuovere in Val D’Enza un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema - spiega Galli -nel 2016 ribadì anche il concetto affermando proprio in un convegno a Bibbiano che quella esperienza era esemplare per tutta la Regione e si spinse ripetutamente a ringraziare pubblicamente la Anghinolfi per la sua dedizione. Ancora fu proprio la Mori a proporre di creare sul territorio un Centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all’Ausl di Reggio Emilia”. Continua Galli. “Oggi la Mori per opportunità politica e correttezza dovrebbe fare un passo indietro, non può essere lei a presentare come relatrice il disegno di legge sulla omotransegatività sostenuto dal mondo Lgbt al quale la Anghinolfi faceva apertamente riferimento. Si astenga, almeno per prudenza, almeno per poter attendere dalla giustizia una verità sugli orribili fatti che stanno emergendo a Bibbiano”. Presterà ascolto al consiglio del collega?
"Angeli e Demoni", si allarga l'inchiesta: indagati altri due sindaci dem. Il Pd emiliano elogiava l'esperienza della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema". Bignami: "Il Pd c'è dentro fino al collo". Costanza Tosi, Martedì 02/07/2019 su Il Giornale. Il Partito democratico finisce nell'occhio del ciclone nell’inchiesta sul business degli affidamenti dei minori. Non solo Andrea Carletti nel registro della pm si aggiungono altri due uomini del Pd. Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro adesso sono indagati per abuso d'ufficio. Proprio come lui, il primo cittadino di Bibbiano - Carletti, appunto - finito agli arresti domiciliari che, come scritto nell'ordinanza del tribunale di Reggio Emilia, era "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema (…) disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all'interno dei locali della struttura pubblica della Cura". Il tutto in "costante raccordo" - si legge sempre - con Federica Anghinolfi, la donna paladina delle coppie gay che dava in affido i bambini anche a donne omosessuali a lei legate. A collegare i due nomi c'è anche una certa familiarità con il mondo della sinistra. Se il sindaco era politicamente legato al Pd, anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza non sembra essere sconosciuta a quell'ambiente, vista la sua partecipazione - per esempio - alla festa dell'Unità di Bologna del 2016. "Il Pd c'è dentro fino al collo", dice senza esitazioni Galeazzo Bignami, di Forza Italia, parlando di quello che considera uno "scandalo in salsa rossa". Eppure, dopo i 18 arresti disposti dal Gip, a sentire le dichiarazioni degli esponenti del Partito democratico sembra quasi che il sindaco sia una sorta di pecora nera nel sistema del welfare della Regione. "Ciò che sta emergendo dall'operazione dei carabinieri ha contorni che, se confermati, sarebbero di una gravità inaudita", ha detto l'assessore rosso alla Sanità dell'Emilia-Romagna, Sergio Venturi. "In quel caso è chiaro che la Regione si troverebbe ad essere parte lesa". Sulla stessa linea anche il segretario regionale del Pd Paolo Calvano e il capogruppo democratico in Regione Stefano Caliandro che, in una nota congiunta, hanno dichiarato: "Se quei fatti fossero confermati, la Regione sarebbe parte lesa e in quanto tale in sede giudiziaria va presa in considerazione anche la costituzione di parte civile". Il Partito democratico sembra quindi lavarsene le mani. Si dissocia dal sindaco e lo disconosce. Spulciando tra i resoconti della Regione Emilia, però, spunta un incontro che fa discutere. Era il 2015 quando in commissione parità venivano ascoltati Federica Anghinolfi e il primo cittadino Carletti. "Ero consigliere regionale quattro anni fa, vennero e ci portarono quel sindaco e la responsabile del progetto come esempio in Regione di un sistema virtuoso di tutela dei bambini", racconta l'onorevole Bignami al Giornale.it. In tale occasione Federica Anghinolfi parlò proprio di "creare sul territorio un centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all'Asl di Reggio Emilia". La consigliera Yuri Torri, di Sel, invitava addirittura l'ente a "intervenire per mettere a sistema l’esperienza sviluppata in Val D'Enza in questo anno e a formalizzare dei protocolli". E fu proprio in quell'occasione che emerse anche che il numero di abusi su minori segnalati sul territorio era troppo alto. Ma in Commissione, Luigi Fadiga, Garante per l’infanzia e l' adolescenza dell' Emilia Romagna, a tal proposito spiegò che "l' errore più grave sarebbe etichettare l'area, perché il fenomeno non è certo circoscritto, nel reggiano semmai c'è stato il coraggio di denunciare e intervenire". E non tardò l’appoggio dell’Anghinolfi che aggiunse: “È stata molto importante”, disse, “la volontà di proseguire l'ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni”. Insomma, solo pochi anni fa, la sinistra emiliana elogiava i metodi della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema", come si legge negli atti. Oggi, invece, si dichiara "parte lesa" e fa finta di non sapere. "Federica Anghinolfi partecipava continuamente a incontri con la sinistra - fa notare però Bignami - E quello è l'esempio che il Pd ci portava". Un modello che si è rivelato un incubo. Un modello che non va certamente seguito ma condannato. “Siete stati voi, il caro Partito democratico, a rendere potente questa gente sfuggendo al vostro controllo, nella migliore delle ipotesi…” aggiunge Bignami in un video sulla sua pagina Facebook. Un controllo a cui, i responsabili degli orrori compiuti ai danni dei bambini, sono sfuggiti proprio sotto i loro occhi. Sotto gli occhi disattenti degli uomini del Pd. Come è possibile che nessuno nell’amministrazione locale del Partito democratico sia riuscito a scovare le falle di questo sistema? Sarebbe stato sufficiente non farsi sfuggire i numeri. Numeri, peraltro, riportati nei bilanci dell’Unione. Sarebbe bastato controllare quanti erano i bambini che, negli ultimi anni, erano stati dati in affido dai servizi sociali e, magari verificare anche gli importi degli assegni erogati dai centri di assistenza per minori. Come ha fatto Natascia Cersosimo, consigliere comunale del Movimento 5 stelle nell'Unione Comuni Val d'Enza. Fu lei a chiedere, a seguito di una proposta di aumentare di 200mila euro i fondi a favore delle strutture di accoglienza per minori, i documenti che giustificassero tale richiesta. Dai documenti era tutto chiaro. Chiaro e allarmante. Dal 2015 al 2018 il numero degli affidi era aumentato in maniera sorprendente. Come scrive Paolo Pergolizzi su Reggiosera.it, “i bambini dati in affidamento erano zero nel 2015, 104 nel 2016, 110 nel 2017 e 92 nei primi sei mesi del 2018”. Quindi dal 2015 al 2016 cento bambini sono stati dati in affido e, negli anni a seguire, il numero era in costante crescita. Ma c’è di più. Tutti i numeri erano in aumento. “Le prese in carico per violenza sono state 136 nel 2015, poi 183 nel 2016, fino alle 235 del 2017 e le 178 del primo semestre 2018. In sostanza, se si fosse arrivati fino a fine anno, si potrebbe dire che nel 2018 sarebbero state praticamente triplicate rispetto a tre anni prima”, scive sempre Reggiosera.it. Di conseguenza a crescere erano anche i soldi pubblici destinati all’assistenza dei minori. Più affidi, più soldi. “Si passa dai 245.000 euro del 2015, ai 305.000 euro del 2016, fino ai 327.000 euro del 2017 e, infine, a una proiezione di spesa di 342.000 euro nel 2018. Stessa cosa per quanto riguarda le spese necessarie per gli incontri con gli psicologi: dai 6.000 euro del 2015 ai 31.000 del 2017, fino ai circa 27.000 del primo semestre 2018”. Ma se le cifre destavano sospetto, gli amministratori locali della zona interessata si giustificavano e mettevano le mani avanti. Nel documento ufficiale sulla gestione dei servizi avevano scritto infatti: “I dati di grave maltrattamento ed abuso della Val d'Enza, superiori alla media regionale, non sono ascrivibili ad un fenomeno locale specifico, ma sono in linea con i dati mondiali dell'Oms e di importanti organizzazioni internazionali come Save the Children e Terre des Hommes. Tali dati dimostrano l'essenzialità di un lavoro di rete efficace e qualificato, in linea con le ottime - ma ampiamente disattese - linee guida regionali sul tema”. Un confronto, che a dirla tutta, non regge proprio. O, per meglio dire, aggrava la situazione. Infatti, con questa dichiarazione, si sostiene che i dati sugli abusi fossero in linea con quelli forniti da Ong internazionali operanti in territori di guerra o in Paesi in via di sviluppo. Non proprio una condizione ideale per un comune italiano.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 2 luglio 2019. La piccola Katia adesso è più al sicuro. La sua storia è forse la più straziante fra tutte quelle - orribili - che compongono l' inchiesta «Angeli e demoni» riguardante gli abusi su minori a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Una storia che, probabilmente, le lascerà addosso segni indelebili. Questa bambina è stata tolta ai genitori nel 2016 e affidata successivamente a una coppia di donne, Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte dell' inchiesta, la vessavano e maltrattavano. Un trattamento che, come ha scritto la Gazzetta di Reggio, «ha portato il giudice Luca Ramponi a togliere subito l' affidamento alla coppia, prescrivendo il divieto di avvicinamento a più un chilometro dalla bimba oltre al divieto di comunicare con lei». Questa vicenda contribuisce a fare luce sull' aspetto ideologico del sistema bibbianese, legato al mondo Lgbt. Leggendo quanto è accaduto alla povera Katia, non si può non pensare a ciò che scriveva un sacerdote modenese, don Ettore Rovatti. Egli ebbe a che fare con un caso per certi versi simile a quello reggiano, avvenuto anni fa nel Modenese e raccontato da Pablo Trincia nel libro-inchiesta Veleno (Einaudi). Di fronte agli assistenti sociali che ingiustamente toglievano i figli a famiglie magari difficili ma non colpevoli di abusi, don Ettore disse: «C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico. Cioè, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata». Ecco, queste parole ci risuonano in testa mentre cerchiamo di ricostruire la storia di Katia. La bimba, dicevamo, è stata tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di lesbiche. Le quali poi, assieme alla psicologa Nadia Bolognini, avrebbero tentato di inculcare «nella minore la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata presso la famiglia di origine». L' avrebbero insomma indotta a credere di essere stata abusata e molestata dai genitori naturali. A quanto pare, però, era tutto falso. Come scrive il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, «tra tutti i bimbi monitorati dalle indagini e dati in affido dai servizi sociali della Val d' Enza, Katia è apparsa quella con meno problematiche e totalmente estranea [...] a situazioni di abuso sessuale».
A maltrattarla realmente, pare, erano invece le «due mamme». La piccina viene affidata a loro grazie a una delle protagoniste principali dell' inchiesta, ovvero Federica Anghinolfi, 57 anni, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell' Unione Comuni Val d' Enza. Secondo il giudice, sarebbero «la sua stessa condizione e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell' abuso da dimostrarsi a ogni costo». Già: la Anghinolfi è a tutti gli effetti un' attivista Lgbt. Nel 2014, la nostra fu intervistata dal Corriere della Sera per magnificare l' affido arcobaleno. In quell' occasione spiegò: «Non è per forza il genere che definisce la figura paterna, ma il ruolo: è il genitore "normativo", quello che dà le regole. Mentre la figura materna è calda, "accuditiva"». In un' altra intervista, risalente al 2016, sosteneva che «in questo Paese è ancora troppo forte l' idea della famiglia patriarcale padrona dei figli». Di affido gay la Anghinolfi ha parlato nel maggio 2018 durante un convegno intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l' affido Lgbt», organizzato dall' Arcigay mantovana e sponsorizzato da Comune e Provincia di Mantova (sul caso, la Lega nord ha presentato un' interrogazione al Comune lombardo). Sapete chi altro partecipò all' incontro mantovano? La signora Fadia Bassmaji, presentata come «promotrice progetto Affidarsi e affidataria». La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell' inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un' altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una "intima amica" della Anghinolfi». Ed è proprio attorno alla figura della Bedogni che emergono i particolari più inquietanti. Costei, sostiene ancora il Gip reggiano, «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura "salvifica" a favore della minore», cioè della piccola Katia. In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d' improvviso a canti eucaristici». In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Il giudice dettaglia: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». È a costei che è stata affidata Katia. E infatti i problemi non hanno tardato a manifestarsi. In un' occasione, per esempio, la bimba viene letteralmente «sbattuta fuori dall' auto» della Bedogni «sotto la pioggia battente», mentre la madre affidataria le grida: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!». È per via di episodi di questo tipo che Katia è stata tolta alle «due mamme». Ma lei non è la sola bimba affidata a una coppia lesbica grazie alla Anghinolfi. Un' altra ragazzina viene affidata a Cinzia Prudente, amica di vecchia data dell' assistente sociale. Anche con la Prudente la Anghinolfi ha avuto una storia sentimentale. Di più: le due donne, nel 2011, hanno acquistato una casa insieme, di cui pagano ancora il mutuo metà per una, anche se nell' abitazione vive la Prudente assieme a sua moglie Paola. Secondo il giudice, sapendo che la Prudente era in difficoltà economiche, la Anghinolfi le avrebbe fatto ottenere un assegno da 200 euro mensili per il mantenimento della ragazzina in affido, anche se il suo unico impegno consisteva «nel passare un paio d' ore con la ragazza circa un paio di volte al mese per prendere un caffè insieme e fare una chiacchierata». Vantaggi economici avrebbero ottenuto anche la Bedogni e compagna, che percepivano un «contributo forfettario mensile doppio» rispetto alla cifra (620 euro) corrisposta agli altri affidatari. Qui, però, la sensazione è che più dei soldi, più di tutto, conti l' ideologia: la fissazione di voler dare in affido i bambini a coppie arcobaleno. Anche se poi li maltrattavano.
“Io accusato di omofobia per togliermi il figlio e darlo a una coppia gay”. "Mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Costanza Tosi, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Da un lato bambini traumatizzati, plagiati dagli psicologi e strappati dall'affetto dei loro cari. Dall'altro i loro genitori che non si danno pace. Tutte vittime di una rete di donne e uomini disposti a tutto, come si legge nelle carte dell'inchiesta "Angeli e demoni". Ma non solo. Incontriamo un uomo - che ci chiede di restare anonimo e che chiameremo Michele - che inizia a parlarci. La sua odissea inizia nel 2017, quando gli vengono strappati i figli per darli in adozione a una coppia gay. Tutto inizia con una denuncia per maltrattamenti (adesso archiviata dal tribunale di Reggio Emilia) fatta dalla sua ex moglie. I servizi sociali della Val D'Enza cominciano a monitorare la famiglia, come ci racconta lo stesso uomo: "Venivano a controllare in continuazione. Mi contestavano che la casa non fosse idonea a far vivere i miei figli. Mi hanno detto che la camera dei bambini era troppo pulita, quasi che loro non avessero mai dormito in quella stanza. I giocattoli erano riposti nell'armadio e anche questo a loro non tornava. Cercavano sempre delle scuse, a volte banali". Ispezioni assidue e incontri continui. Gli assistenti stilavano lunghe relazioni, spesso fantasiose, secondo Michele. Relazioni che però non corrispondevano alla realtà dei fatti in qunato falsificavano gli eventi. Tra le righe delle relazioni infatti ci sarebbero racconti di fatti che però non sarebbero mai avvenuti. Mese dopo mese, anzi, i servizi sociali aggiungevano ulteriori dettagli per creare la figura del "papà cattivo", un pretesto - per gli inquirenti - per togliere i bambini al genitore e affidarli alla madre che, dopo essere andata via di casa, viveva con la sua nuova compagna. Michele doveva quindi diventare l’orco cattivo, il padre violento sia con i figli che con la moglie. “Un giorno - racconta Michele a ilGiornale.it - mentre mi stava per salutare, mio figlio ha iniziato a piangere perché non voleva andare con la madre. Io non riuscivo a capire, ma siamo riusciti a calmarlo e tutto si è sistemato. Poi è andato via con lei". Ma non solo. Poco dopo Michele scopre dei dettagli agghiaccianti, nelle relazioni dei servizi sociali: "Scopro che Beatrice Benati, che aveva redatto la relazione, nel raccontare i fatti scriveva: 'I bambini si riferivano al padre, insultandolo'. Lì ho capito che c’era qualcosa di strano. Perché avrebbero dovuto scrivere una cosa per un'altra? A che scopo? Ancora oggi me lo chiedo". Il 15 giugno del 2018 Michele viene convocato dagli assistenti sociali. Incontra Federica Anghinolfi e Beatrice Benati (oggi agli arresti domiciliari) che gli comunicano che non potrà più vedere i suoi figli se non “in forma protetta una volta ogni 21 giorni.” La motivazione? "Lei è omofobo!", gli spiega la Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, e attivista Lgbt. "Io ero sconvolto, non volevo crederci - spiega Michele- Chiesi spiegazioni e mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Adesso, dopo un anno, Michele pensa solo ai suoi figli, soprattutto al più piccolo. A causa delle pressioni psicologiche e dei traumi subiti durante il percorso di allontanamento dal padre ora il bambino soffre di problemi psichici. "Sta soffrendo molto, questa situazione lo sta distruggendo e io ho le mani legate. Ha degli atteggiamenti preoccupanti, me lo hanno detto anche le insegnati di scuola - sospira Michele, che fa fatica a parlare e ha la voce rotta dal dispiacere - Dice spesso che non sa che farsene della sua vita, che vuole morire". Sono questi i pensieri di un bambino allontanato dalla propria famiglia. Pensieri che nessuno dovrebbe mai fare. Soprattutto un bambino.
Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi.
Reggio Emilia, lavaggi del cervello e scosse elettriche sui minori da dare in affido. Diciotto persone arrestate, anche un sindaco pd. Tutti accusati di aver alterato relazioni e ricordi dei bambini per toglierli ai genitori di origine e affidarli ad altre famiglie. Alessandro Fulloni 27 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Certificazioni false per strappare i bimbi a famiglie in difficoltà e affidarli ad altre con requisiti più idonei. Ma non solo. Man mano che i dettagli aumentano e vengono resi noti, questa indagine dei carabinieri condotta dai carabinieri di Reggio Emilia — e che prende il nome, eloquente, di «angeli e demoni» — appare sempre più sconvolgente. Si parla, in sintesi, di piccoli tolti illecitamente ai genitori per darli (dopo un giro di soldi) ad altri. Ma per costruire le condizioni necessarie a questo passaggio, ogni mezzo era lecito: comprese false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Un vero e proprio «lavaggio del cervello», insomma. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti rieletto poche settimane fa al secondo mandato, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti e psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Torino sono stati raggiunti da misure cautelari varie, che vanno dai domiciliari (come nel caso dello stesso primo cittadino) al divieto temporaneo di esercitare la professione. Una disposizione, questa, indirizzata a dirigenti amministrativi e operatori sociosanitari. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto le false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Uno sconvolgente «business» attorno all’infanzia che andava avanti da svariati anni e che coinvolgerebbe decine e e decine di minori.
«Impulsi elettrici sui bambini». Nella medesima inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Salvi ci sono anche decine di indagati. Quello ricostruito dagli investigatori è un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati ci sono frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Tra i metodi contestati, ore e ore di intensi «lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l’uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come «macchinetta dei ricordi», un sistema che in realtà avrebbe «alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari».
«Difficili situazioni sociali». La finalità del gruppo di persone sotto inchiesta, secondo la procura, era sottrarre figli a famiglie in difficili situazioni sociali, e affidarli, dietro pagamento, ad altri genitori. Per ottenere questo scopo sarebbero stati usati metodi per manipolare la memoria e i racconti delle vittime e falsificare i documenti. Appunto: ecco il perché dei falsi dossier composti da disegni dei bambini falsificati con l’aggiunta di dettagli a carattere sessuale, abitazioni descritte falsamente come fatiscenti, stati emotivi dei piccoli relazionati in modo ingannevole, travestimenti dei terapeuti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, denigrazione della figura paterna e materna.
«Ricordi pilotati». Tutto ciò serviva a «pilotare» i ricordi e i racconti dei bambini in vista dei colloqui con i giudici incaricati di decidere sul loro affido. Un particolare sconvolgente: dopo l’allontanamento dalle famiglie d’origine i minori sarebbero stati addirittura vittime di stupro all’interno delle famiglie affidatarie e delle comunità. Non bastasse, c’è anche questo: i Servizi Sociali per lunghi anni hanno omesso di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.
Le misure interdittive. Oltre al sindaco, altre cinque persone sono state sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tra queste la responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un’assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus. Ulteriori otto misure cautelari di natura interdittiva, costituite dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali sono state eseguite a carico di dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento a un minore riguardano una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e in decine di perquisizioni domiciliari.
I soldi attorno al business. Secondo i carabinieri, quello sugli illeciti affidamenti di minori in provincia di Reggio Emilia è «un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali». Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, «in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione».
Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi. Nel Reggiano scoperta una rete di medici, assistenti sociali e politici avevano messo in piedi un sistema per lucrare sugli affidi. Venti misure di custodia cautelare. Coinvolto anche il sindaco di Bibbiano (Re). La Stampa il 27/06/2019. False relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Il tutto per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Questi i contorni dell’operazione «Angeli e Demoni» condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato, in queste ore, all’esecuzione di una ventina di misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Gli indagati, secondo l’accusa, avevano messo in piedi da diversi anni un illecito e redditizio sistema di «gestione minori», il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Agli arresti anche il sindaco di Bibbiano (Re). e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’Ausl reggiana. Sono poi decine gli indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di «intensi lavaggi del cervello» intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori anche in tenera età, questa l’accusa, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le «più ingannevoli e disparate attività». Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata «aggiunta» di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come «macchinetta dei ricordi». Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento. L’operazione, senza precedenti in Italia e condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia è stata coordinata dal sostituto procuratore, Valentina Salvi.
Reggio Emilia, lavaggio del cervello e falsi documenti per allontanare bambini dai genitori. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, raggiunte da misure cautelari. Sono accusate di aver sottratto i minori alle famiglie per darli in affido retribuito a conoscenti. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop. La Repubblica il 27 giugno 2019. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l'uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come "macchinetta dei ricordi", un sistema che in realtà avrebbe "alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari". Sono alcune contestazioni che emergono dall'inchiesta Angeli e Demoni sulla rete dei servizi sociali della Val D'Enza, nel Reggiano, che ha portato a misure cautelari per diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Moncalieri, in provincia di Torino, perquisita questa mattina. Le misure cautelari sono state eseguite dai carabinieri di Reggio Emilia. Il sindaco è agli arresti domiciliari. Uguale provvedimento per la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus torinese. Ulteriori otto misure di natura interdittiva (divieto temporaneo di esercitare attività professionali) sono state eseguite a carico di altrettanti dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. L'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, ha dell'incredibile: vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D'Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. E non solo. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso. I minori venivano allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le "più ingannevoli e disparate attività". Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata "aggiunta" di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi "cattivi" delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi. Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l'illegittimo allontanamento. Alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo" evidenziano i carabinieri di Reggio Emilia, che hanno svolto gli accertamenti. Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate 2018 dopo un'anomala escalation di denunce all'Autorità Giudiziaria, da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. L'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Il vicepremier Luigi Di Maio parla di "una galleria di atrocità assolute che grida vendetta" e ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perchè "orrori simili non sono accettabili". Di Maio attacca il Pd: "Quello che viene spacciato per un modello nazionale a cui ispirarsi sul tema della tutela dei minori abusati, il modello Emilia proposto dal Pd, si rivela oggi come un sistema da incubo".
Servizi sociali, affidi illeciti: 18 misure cautelari. "Lavaggio del cervello ai bimbi". Affari con i minori tolti alle famiglie, ai domiciliari anche il sindaco di Bibbiano. L'inchiesta: i piccoli suggestionati anche con impulsi elettrici. Di Maio: "Verifiche urgenti". Benedetta Salsi il 27 giugno 2019 su Il Resto del Carlino. Diciotto persone, tra le quali il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti (video), politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino sono stati raggiunti da misura cautelare questa mattina dai carabinieri di Reggio Emilia (foto) per affidamenti illeciti di minori. L'inchiesta ‘Angeli e Demoni’ coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Sono 27 gli indagati. Sono agli arresti domiciliari il sindaco di Bibbiano e altre cinque persone (la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice dello stesso servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus). Dieci misure cautelari di natura interdittiva, il divieto temporaneo di esercitare attività professionali, sono state eseguite a carico di altre otto persone, dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine, altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento ad un minore sono state eseguite a carico di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Un giro d’affari, quello ricostruito dagli investigatori, da centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. I carabinieri che hanno svolto gli accertamente evidenziano che lcune vittime dei reati contestati dall'inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate del 2018 dopo l'anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. E l'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Secondo gli investigatori, quello svelato dall'inchiesta 'Angeli e Demoni' è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell'indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, "in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell'Autorità Nazionale Anticorruzione". Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e di decine di perquisizioni domiciliari. I bambini, stando alle contestazioni, venivano suggestionati durante sedute di psicoterapia anche mediante l’uso di impulsi elettrici, spacciato ai piccoli come “macchinetta dei ricordi”, che in realtà avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop.
"Falsificati i disegni dei bambini, lavaggio del cervello". Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Questi, secondo l'indagine 'Angeli e demoni' dei carabinieri di Reggio Emilia, erano solo alcuni dei metodi adottati nei confronti dei bambini con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi mantenerli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento di una Onlus piemontese. Il tutto durante i lunghi anni nei quali gli appartenenti ai servizi sociali indagati omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno trovato e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.
Di Maio scrive a Fontana: "Verifiche urgenti al sistema affidi". Il ministro Di Maio, a quanto si apprende, ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perché "orrori simili non sono accettabili. E non lo saranno mai!".
Terapeuti vestiti da cattivi delle fiabe e regali nascosti. Così gli psicologi e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. False relazioni, disegni "artefatti attraverso la mirata aggiunta di connotazioni sessuali", terapeuti travestiti da cattivi delle fiabe, regali nascosti e scosse elettriche. Così, gli psicoterapeuti e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini su cui il giudice avrebbe dovuto decidere se strapparli o meno alle loro famiglie di origine. L'inchiesta dei carabinieri, che questa mattina ha portato all'arresto di 18 persone e all'inserimento di un'altra decina nel registro degli indagati, racconta un quadro raccapricciante, fatto di "ingannevoli attività", messe in piedi per allontanare i piccoli dalle loro famiglie. Tra gli stratagemmi usati da medici, psicologi e assistenti sociali della onlus torinese implicata, anche quello di travestirsi da personaggi malvagi delle fiabe, "in rappresentanza dei genitori intenti a fargli del male". Inoltre, per anni, i servizi sociali hanno evitato di "consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali", accatastate in un magazzino e scoperte dai carabinieri. Tutte tecniche che, insieme ai lavaggi del cervello e alle torture con elettrodi e scosse, servivano per alterare i ricordi dei bambini e far emergere una realtà falsata. In questo modo, facevano credere ai bambini di aver subito abusi nelle famiglie di origine. In questo modo, il giudice decideva spesso per l'affidamento dei minori, che venivano affidati ad amici o conoscenti delle persone implicate nel giro.
Torture sui bambini, accertati 2 casi di stupro nelle famiglie affidatarie. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop e persone con problemi psichici. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Prima tolti ai genitori per denaro, poi sottoposti a torture e infine stuprati. È quanto emerso dall'inchiesta "Angeli e Demoni" dei carabinieri di Reggio Emilia, che questa mattina hanno arrestato 18 persone, accusate di aver messo in piedi un sistema per sottrarre i bambini alle proprie famiglie di origine, per affidarli a quelle di amici o conoscenti, in cambio di ingenti somme di denaro. Nel giro sono coinvolti politici, medici, assistenti sociale e persino il sindaco Pd di Bibbiano, che falsificavano relazioni e alteravano i ricordi dei piccoli, per convincere il giudice a dare i bambini in affido. Gli investigatori hanno intercettato ore e ore di lavaggi del cervello sui bambini, a opera di psicologi e assistenti sociali che, per alterare i ricordi dei minori, ricorrevano anche a scosse elettriche, quella che loro chiamavano "macchinetta dei ricordi". Tramite gli elettrodi venivano generati falsi ricordi di abusi sessuali, in realtà mai subiti dalla famiglia di origine e, grazie a falsi disegni e relazioni non veritiere, spesso il giudice decideva a favore dell'affido. Tra gli affidatari, figuravano anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Ma una volta arrivati nella nuova famiglia o nella comunità, non sempre l'incubo delle torture finiva. Alcuni bambini, infatti, venivano sottoposti ad abusi e le indagini hanno accertato due casi di stupro presso i nuclei e le comunità affidatari.
Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 28 giugno 2019. «Caro papà mi manchi tanto spero che ci rivedremo al più presto. Vorrei che mi portassi uno dei tuoi splendidi regali. Mi potresti scrivere un biglietto o un messaggio più spesso perché di te non ho più ricevuto nessun biglietto e quindi mi sono chiesta perché. Quando avrai finito di leggere per favore prendi immediatamente carta e biro e scrivimi una bella lettera. L' aspetto con tutto il cuore, ti voglio un bene gigante e infinito». È la lettera di una bimba allontanata nel 2016 alla famiglia naturale e data in affidamento a una coppia di due donne. Iniziato come un caso di maltrattamenti, i servizi sociali dei Comuni della Val d' Enza si erano convinti che fosse stata abusata dal padre. Non era così. Anche se quella famiglia non era perfetta, papà e mamma non erano dei mostri. Litigavano spesso, questo sì. Volevano separarsi. Ma gli assistenti sociali e gli psicoterapeuti consulenti dell' ente territoriale volevano a tutti costi dimostrare gli abusi. Hanno cercato di manipolare i ricordi della bambina, di indirizzarla sul solco dell' accusa, anche con il contributo effettivo delle due donne affidatarie. Un abominio, umano e professionale. In più, nella relazione al tribunale civile, nell' ambito della causa di separazione dei genitori, gli assistenti sociali avevano scritto che «lei non voleva rivedere il padre». Quella lettera l' avevano nascosta in un fascicolo, al fondo di un cassetto. Da questa storia si apre la sofferta misura cautelare firmata dal Gip di Reggio Emilia Luca Ramponi. Centodue capi d' imputazione. Il giudice, sviscerando le indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Reggio Emilia, ripercorre minuziosamente una decina di episodi, sfociati negli ultimi due anni in dolorose inchieste per presunti abusi sessuali e allontanamenti familiari. Le indagini sulle indagini ribaltano la realtà. Svelando il «fanatismo persecutorio» di assistenti sociali, ispirati da psicologi terapeuti venerati come oracoli. Come Claudio Foti, direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel Onlus, associazione torinese che ha fatto scuola nell' ambito delle cure alle vittime di abusi, e nell' assistenza di minori in condizioni di disagio.
Consulente di magistrati, promotore di convegni. Un' autorità. «Gli indagati - scrive il Gip - erano convinti pregiudizialmente che, a fronte di ogni minimo indizio, o anche solo sospetto, magari proveniente da voci di paese citate come fonti nelle relazioni, i minori oggetto di segnalazioni e prese in carico fossero vittima di abusi, questa era la loro convinzione circa la verità storica delle vicende riferibili ai minori». Così, stando alla procura di Reggio Emilia, si è costruita un' opera sistematica di «false relazioni» ai tribunali, con disegni di bambini manipolati ad arte per far credere ai giudici l' esistenza di violenze mai avvenute, con metodi terapeutici spinti con fervore al di là dei confini della scienza per dare la caccia ai fantasmi inesistenti, con l' impiego di «apparecchiature elettriche» spacciate per «macchina della verità». Il risultato è l' epilogo tragico. In un caso, uno dei bambini sottratti per presunti abusi, finisce per essere veramente abusato da un cugino, nell' ambito della famiglia affidataria. Anche altri nuclei familiari, compresa la coppia di donne, di cui una molto amica della responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi, sono indagati per lesioni - che il Gip qualifica in gravemente colpose e non dolose secondo l' impostazione della procura - per aver «inculcato» nei minori assistiti «falsi ricordi», alterando così il loro equilibrio fisico. Ma perché si è arrivati fino a questo punto? Lo scrive il Gip. «Erano fermamente convinti della superiorità del loro metodo di trattamento e di approccio al minore "abusato": ciò vale ovviamente per Foti e gli psicologi del suo gruppo che avevano persino pubblicato il proprio manifesto ideologico-scientifico, ma questo vale anche per gli assistenti sociali che avevano aderito a quel metodo, partecipando a convegni per supportarne la validità e preferendo, per i minori a loro affidati, le terapie di quel gruppo di professionisti, a costo di soppiantare illegittimamente gli psicologi dell' Asl». Il resto dell' inchiesta, sono abusi d' ufficio e affari «collaterali», come si legge negli atti. «L' ingiusto vantaggio economico ottenuto dal centro studi Hansel e Gretel, i cui membri Claudio Foti, Nadia Bolognini (moglie di Foti), Sarah Testa, esercitavano sistematicamente, a nessun titolo, l' attività di psicoterapia». Compensi più che raddoppiati, da 60 euro a 135. Si parla di alcune decine di migliaia di euro. Incarichi ottenuti senza gare d' appalto. Contributi d' affido gonfiati agli amici. Non sono i danni all' erario ciò che inorridisce di questa inchiesta, ma le conseguenze sulle vite dei minori e delle famiglie. Il Gip Ramponi si spinge oltre nella ricostruzione, cercando le radici di queste ossessioni professionali, seppur rivolte a nobili fini. E le trova analizzando le storie individuali dei terapeuti e degli assistenti sociali . Molti sono stati vittime di abusi e maltrattamenti familiari. «Così che il proprio vissuto personale li ha resi arrendevoli al pregiudizio».
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Anni fa Panorama si era occupato delle stranezze sugli affidi di bambini in Emilia. Alla luce dell'inchiesta di oggi sembra che nulla sia cambiato. Maurizio Tortorella il 27 giugno 2019 su Panorama. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna?
«Sono decine, centinaia? Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono».
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso».
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali».
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo».
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore».
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati»».
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili».
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla».
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché».
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato».
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare».
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca».
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna».
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3».
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica».
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà».
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più».
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti».
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani».
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce».
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti».
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura».
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete».
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
Elettrodi sulle mani e forzature: ecco come manipolavano i ricordi dei bambini «Così ci hanno portato via nostro figlio». Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Giovanni Bianconi, Elvira Serra su Corriere.it. A interrogare la bambina tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di donne, nell’ottobre scorso, c’erano le due nuove mamme e la psicoterapeuta Nadia Bolognini, che poneva le domande. La bambina, che chiameremo A., si lamentava di non avere più visto il padre, e la dottoressa le dice: «Ma non ti ricordi che hai detto che non lo volevi più rivedere?» A.: «Non ho detto questo». Le due donne affidatarie intervengono per sostenere il contrario, ma A. insiste: «Io non ho detto che non volevo vederlo». Il confronto va avanti a lungo, con le adulte impegnate a far «confessare» la bambina e A. che resiste. Anzi, spiega che le piacerebbe reincontrare i veri genitori: «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancavano gli abbracci del papà...». Più la Bolognini prova a stimolare la memoria di A.: «Avevi paura che ti facessero del male... Me lo hai detto, ti ricordi?». Ma A. non ricorda: «Quando?». È solo uno dei colloqui intercettati dai carabinieri e utilizzati dal giudice per dimostrare le pressioni e manipolazioni delle parole dei minorenni tolti alle famiglie d’origine. Una delle più innocenti, che serve al giudice per definire «destituita di fondamento e quindi certamente falsa», la paura di A., nei confronti del padre. In un’altra circostanza una psicologa del servizio di neuropsichiatria infantile della Asl di Montecchio Emilia riferisce che la bambina B. le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. A corredo della relazione allega due disegni: uno certamente fatto da B., di un uomo con la barba e senza mani; un altro in cui lo stesso uomo era «accanto a un’altra figura, con le proprie mani allungate all’altezza della zona genitale della citata seconda figura». Un’aggiunta, secondo l’accusa, fatta «personalmente» dalla psicologa per avvalorare quanto affermato nella relazione. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati al termine della prima fase di un’inchiesta complessa e complicata, dove le testimonianze dei bambini (già di per sé materia delicata), s’intrecciano con il lavoro di assistenti sociali, psicologici e affini (che pure è sempre di non facile valutazione) coincidono con quelle del perito incaricato di valutare gli interrogatori a cui fu sottoposta A.: «La bambina è considerata vittima di abusi senza che vi sia riscontro giudiziario di ciò e interferendo, quindi, con gli accertamenti di tale evenienza. Sono presenti significative e pericolose induzioni, suggestioni e condizionamenti che possono interferire significativamente con la rappresentazione mentale degli eventi, contribuendo quindi al rischio di falsi ricordi ma anche quelli al contesto familiare d’origine».
Il movente - oltre che economico attraverso incarichi, sussidi e pagamenti di rette - sarebbe secondo l’accusa anche «ideologico», a vantaggio di «scelte terapeutiche favorenti psicologi privati ai danni del servizio pubblico». Di una delle persone arrestate, la dirigente del Servizio di assistenza sociale dell’Unione Comuni Val D’Enza Federica Anghinolfi, omosessuale e già legata ad alcune donne affidatarie di minorenni, il giudice scrive che sono «la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi “ad ogni costo”». Nell’antologia dei casi analizzati dal giudice ci sono accuse di maltrattamenti nei confronti dei minorenni affidati alle nuove famiglie, o quelle accuse rivolte al padre naturale di C. - un altro bambino sottratto alla famiglia d’origine - di avere abusato sessualmente del figlio, nonostante l’indagine penale su quel vecchio fatto fosse stata archiviata. Ci sono le descrizioni di falsa indigenza e abbandono utilizzate come motivo per portare via i minorenni, come le denunce attribuite a una madre senza però dare conto dei disturbi mentali della donna. E c’è l’accusa di violenza privata rivolta alla dottoressa Bolognini (anche lei arrestata) per l’utilizzo della «magica macchinetta dei ricordi», una congegno «a impulsi elettromagnetici con cavi che la minore doveva tenere tra le mani», presentato come uno strumento utile e rievocare «le cose brutte» vissute in precedenza. Utile ad aprire «lo scatolone del passato e la cantina», senza fidarsi «delle persone che dicono di volerti bene».
Il giudice ipotizza che sulle condotte dell’indagata pesino problemi personali passati e presenti, addebitando ad essi una «insofferenza riversata in una rabbia repressa sfociata negli atteggiamenti con i minori». Tra questi c’è «l’uso degli elettrodi per indurli a ricordare abusi solo sospettati, e di cui non si potrà ormai più sapere se siano avvenuti o meno, attraverso la inquietante “macchinetta dei ricordi”». Agli arresti è finito anche il marito della Bolognini, Claudio Foti, altro psicoterapeuta accusato di «modalità suggestive e suggerenti» nelle domande rivolte a D. per farle confessare presunte violenze sessuali subite dal padre. L’obiettivo, per gli inquirenti, era sempre lo stesso: «Costruire un’avversione psicologica dei minori per la famiglia di origine». E gli indagati lo perseguivano attraverso una «percezione della realtà e della propria funzione totalmente pervertita e asservita al perseguimento di obiettivi ideologici non imparziali».
Minori in affido: «Dicevano che un disegno dimostrava le violenze». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Elvira Serra su Corriere.it. La sua faccia sorridente sbuca dalle scale. Il padre lo prende in braccio, fa le presentazioni. Il bambino non si intimidisce, però ha voglia di andare dentro per fare la merenda: è stato tutto il giorno a giocare all’oratorio, è tornato da poco a casa, la madre gli ha appena fatto la doccia e lui ora ha fame. La donna gli prende dal frigo delle merendine fresche, il figlio ne scarta una e scappa via, dietro la porta, probabilmente nella sua stanza. In cucina restiamo noi quattro: i genitori e il nonno. Non hanno voglia di parlare, sono preoccupati di quello che potrebbe ancora succedere, ma la rabbia, quella si intuisce, e il padre, in fondo, non la vuole nemmeno nascondere. «Riesce a immaginare quello che ci hanno fatto?». Lo racconta, incerto se andare avanti o fermarsi, perché l’avvocato preferisce che non parli adesso, non è il momento. Un anno fa hanno ricevuto la visita dei servizi sociali, sono andati a casa loro due volte. Poi una convocazione in questura, per lui, e dai servizi sociali per lei. «Mi hanno detto che mio marito aveva usato violenza contro il bambino. C’era un disegno che lo dimostrava. Io non l’ho mai visto quel disegno, né prima né dopo, e non ho mai visto il padre fare del male a nostro figlio», va avanti la moglie. «Mi hanno chiesto se volevo restare con mio figlio o con mio marito. Era ovvio che non avrei mai lasciato il bambino! Così siamo stati per sei mesi nella casa famiglia. Mio marito ce lo hanno lasciato vedere solo il primo mese. Non penso che abbia subito qualche trattamento strano: ha continuato ad andare a scuola, era tranquillo, e poi noi eravamo insieme, quando lui rientrava c’ero io ad aspettarlo». La loro storia replica il «sistema» applicato dal Servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Venivano individuate le famiglie più deboli e si creavano ad arte prove che giustificassero l’allontanamento dei minorenni: disegni manipolati, violenze mai avvenute. I bambini venivano poi affidati ad amici degli indagati, che in alcuni casi percepivano il doppio della diaria prevista in questi casi: 1.300 euro anziché seicento, grazie a false certificazioni, fornite dalla Onlus Hansel e Gretel, che dichiaravano come il minore fosse «problematico». Per cambiare i ricordi che i bambini avevano dei loro genitori, venivano plagiati, secondo l’accusa, con veri e proprio lavaggi del cervello. Gli inquirenti fanno notare con rammarico che tutti i genitori, adesso, nessuno escluso, hanno paura di parlare. Non si fidano della macchina giudiziaria e sperano, soprattutto, di rivedere presto i loro figli. Perché a differenza di questo bambino vispo che ricompare in cucina dicendo di avere ancora fame, gli altri non sono ancora tornati a casa.
«Facciamo un funerale a papà». Le frasi choc ai bambini in affido. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Una foto con tanti regali accatastati e mai consegnati e un disegno che ritrae un uomo mentre accarezza ambiguamente una bimba. Ma il disegno è falso perché qualcuno ha aggiunto due lunghe braccia. Sono le due immagini che raccontano, in sintesi, l’indagine sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili variabili tra i 600 e 1.300 euro al mese) ad altre coppie giudicate più adatte dagli operatori finiti sotto inchiesta. La foto è quella dei regali e delle lettere spediti ai figli da quei papà e quelle mamme che se li sono visti togliere senza che ci fossero state denunce alle forze dell’ordine. Pacchi dono ammucchiati (in genere per Natale e Pasqua ma anche per compleanni e promozioni) in una stanzetta dei Servizi sociali di Bibbiano, il comune travolto dall’inchiesta e il cui sindaco, il pd Andrea Carletti, è ai domiciliari assieme ad altre cinque persone per accuse varie tra cui abuso d’ufficio e falso. In un angolo si vedono una Barbie, degli scarpini da calcio, un pandoro, una console, altri giocattoli e dei vestiti. Una voce femminile intercettata nella stanza da una «cimice» piazzata dai carabinieri dice che «giacciono qua per mesi. Nessuno glieli consegna (ai bambini tolti e dati in affido, ndr) perché dicono che è meglio così...». «Il punto è che si voleva annichilire, direi annullare, qualunque forma di presenza dei veri genitori» è il ragionamento fatto da un investigatore che si è commosso alla lettura di lettere e bigliettini — «pensieri affettuosi e testimonianze d’amore» — mai arrivati a destinazione.
E poi c’è il disegno contraffatto, il «caso pilota» da cui è partita l’inchiesta. Tratti ingenui a matita di una bimba che si ritrae accanto all’ex compagno della madre. Compaiono anche quelle braccia innaturalmente protese verso la piccola. Una modifica fatta «personalmente» dalla psicologa della Asl di Montecchio Emilia che seguiva la bimba, scrive il gip Luca Ramponi nell’ordinanza che ha disposto 16 misure cautelari. L’operatrice riferisce che la bambina le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. L’aggiunta serviva per avvalorare quanto affermato nella relazione. Nelle carte dell’indagine coordinata dal procuratore Marco Mescolini e dal comandante dei carabinieri Cristiano Desideri c’è anche il caso di un assistente sociale che, assieme a una dirigente comunale, inserisce tra virgolette delle frasi pronunciate da un’altra bambina. Parole però «frutto dell’elaborazione dei due indagati». Per esempio: «Mia mamma non fa più da mangiare perché papà non le dà i soldi per la spesa». E ancora: in casa «cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni». Ma un sopralluogo dei carabinieri smentisce poi la circostanza. In un’altra circostanza, una psicologa dell’Asl diagnostica alla bambina una sintomatologia «seduttiva e sessualizzata». Ma omette di riferire delle precedenti crisi epilettiche della piccola, «che avrebbero consentito una diversa valutazione». Oppure due affidatarie dichiarano falsamente che la stessa bambina aveva detto loro di temere che i genitori «potessero rapirla». Non manca, infine, una singolare «terapia di elaborazione del lutto» per considerare emotivamente morto un genitore e farlo sparire dai ricordi: «Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papà non esiste più e non c’è più come papà. È come se dovessimo fare un funerale!», spiega una psicoterapeuta a un ragazzino. I sei minori — di età compresa tra i cinque e gli undici anni — tolti alle famiglie (ma i casi su cui si indaga sono «svariate decine») rientreranno a casa. Ma non subito: servono altre relazioni del tribunale e per intanto resteranno dagli affidatari.
Reggio Emilia horror. Lavaggio del cervello ai bambini. Il film dell’orrore di Reggio Emilia: in manette 18 persone, anche un ex giudice. Ai domiciliari anche il sindaco dem di Bibbiano, Andrea Carletti, coinvolta la stessa onlus dell’inchiesta “veleno” disegni e colloqui manipolati secondo il gip. Simona Musco il 28 giugno 2019 su Il Dubbio.
Reggio Emilia horror. E’ una storia così brutta che non sembra vera. Perché dentro ci sono tutti gli ingredienti giusti per dar vita ad un film horror: disegni di bambini falsificati, padri e madri dipinti come mostri, scene di violenza simulata con travestimenti, regali e lettere d’affetto tenuti nascosti. Una vera e propria manipolazione su bambini dai 6 agli 11 anni, con un unico tremendo obiettivo: togliere decine di ragazzi ai propri genitori per affidarli ad altri, per guadagnare soldi in cure private e corsi di formazione.
Inchiesta “Angeli e Demoni”. Un quadro raccapricciante descritto nell’inchiesta “Angeli e demoni”, condotta dalla procura di Reggio Emilia. Si parla di lavaggi del cervello, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per alterare «lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari». Sono 27, in totale, le persone coinvolte nell’inchiesta del pm Valentina Salvi, 18 destinatarie di ordinanza. Tra loro il sindaco Pd di Bibbiano ( Reggio Emilia) Andrea Carletti, al centro di tutto assieme alla rete dei servizi sociali dell’Unione comuni Val D’Enza. Carletti è finito ai domiciliari assieme alla responsabile e una coordinatrice del servizio sociale integrato. Un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus di Moncalieri “Hansel e Gretel”.
Docufilm Veleno. La stessa coinvolta nei casi risalenti al periodo a cavallo il 1997 e il 1998. Raccontata dal docufilm “Veleno”. Quando sedici bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie nella bassa modenese su indicazione dei servizi sociali per presunti abusi e riti satanici, ma senza prove reali. Le accuse sono a vario titolo di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso.
Arrestato anche un giudice. E in manette è finito anche un ex giudice onorario del tribunale dei minori di Torino, Claudio Foti, direttore scientifico della onlus. Secondo il gip «alterava lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale e con tali modalità convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi». A far scattare l’inchiesta alla fine dell’estate del 2018, l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali, che ipotizzavano abusi sessuali e violenze ai minori da parte dei genitori. Inchieste che, puntualmente, finivano nel nulla ma che hanno rappresentato i pezzi del puzzle di un’altra storia.
Falsificazioni e complicità. Nonostante le archiviazioni, infatti, i servizi sociali proseguivano con il percorso psicoterapeutico, attraverso falsi documentali redatti in complicità con alcuni psicologi. L’iter era sempre uguale: al bambino di turno veniva diagnosticata una patologia post traumatica e così veniva preso in carico dalla onlus, con prestazioni psicoterapeutiche senza procedura d’appalto. Gli affidatari – amici e conoscenti dei servizi sociali – venivano incaricati di accompagnare i bambini alle sedute e di pagare le fatture a proprio nome, ricevendo mensilmente rimborsi sotto una simulata causale di pagamento.
Sistema redditizio. Un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro tramite quello che per tutti rappresentava un modello istituzionale per la tutela dei minori abusati. In realtà si nascondeva uno schema di reciproci conferimenti d’incarichi. Da un lato la Onlus aveva il monopolio di tutto il servizio dell’ente, compresi convegni e corsi di formazione, mentre i dipendenti coinvolti ottenevano incarichi di docenza retribuiti, in master e corsi di formazione della onlus. Un sistema tanto solido da portare all’apertura di un Centro specialistico regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti. I servizi sociali garantivano l’assistenza legale ai minori attraverso la sistematica scelta di un avvocato, indagato per «concorso in abuso d’ufficio», con fraudolente gare d’appalto gestite dalla dirigente del Servizio, con lo scopo di favorirlo.
Creare l’inferno. Una situazione familiare normale, secondo le indagini, veniva trasformata in un inferno. A partire dai disegni dei bambini, ai quali venivano aggiunti dei dettagli inquietanti, in grado di indurre terribili sospetti. Le case di quelle famiglie venivano descritte falsamente come fatiscenti, gli stati emotivi dei bambini travisati e per convincerli della cattiveria di mamma e papà. I terapeuti utilizzavano anche dei travestimenti, interpretando i personaggi cattivi delle fiabe come rappresentazione dei genitori, intenti a fargli del male. E poi c’erano lettere e regali spediti negli anni da parte delle famiglie naturali ai figli affidati ad altri. Regali accumulati in un magazzino e mai consegnati ai bambini, che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato. Tra gli affidatari anche persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Un quadro squallido, scoperto anche grazie alle intercettazioni, dal quale sarebbero emersi anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità ed episodi di tossicodipendenza e autolesionismo.
Lavaggio del cervello. Gli inquirenti parlano di «intensi lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia. L’utilizzo di apparecchiature elettriche spacciate come strumenti per recuperare i ricordi delle «brutte cose» commesse dai genitori attraverso l’applicazione di alcuni elettrodi. Tecniche messe in pratica in prossimità delle testimonianze dei bambini davanti all’autorità giudiziaria. E a volte era proprio la terapeuta a raccontare cosa i bambini avrebbero dovuto ricordare, evocando esperienze traumatiche come abusi sessuali da parte dei genitori.
Il sindaco. Carletti, secondo il gip, sarebbe stato «pienamente consapevole della totale illiceità del sistema». Dell’assenza «di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica volta all’affidamento del servizio pubblico di psicoterapia a soggetti privati». Tanto che lo stesso «disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti», della Onlus coinvolta. «Al fine dello svolgimento, a titolo oneroso ed in assenza di qualunque titolo, dell’attività di piscoterapia con minori in carico ai Servizi sociali».
Casi sconvolgenti. Tra i casi analizzati dagli inquirenti quello di una bambina incapace di comprendere il suo allontanamento dai genitori. Insisteva per poterli rivedere. Però le psicologhe, le assistenti sociali e gli affidatari continuavano ad instillarle il dubbio di fatti atroci commessi proprio da mamma e papà. La bambina diceva: «Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere». Le sue parole, di ottobre 2018, furono captate da un’intercettazione ambientale. «Ma non ti ricordi che hai detto che ( tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo», rispondeva la psicologa. La bambina insisteva per rivederli. «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancano gli abbracci del papà».
La "paladina" delle coppie gay "regista" degli affidi dell'orrore. Dichiaratamente omosessuale, e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. Giuseppe De Lorenzo Costanza Tosi, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. Nelle carte dell’inchiesta “Angeli e Demoni” guidata della procura di Reggio Emilia, tra le persone coinvolte e agli arresti domiciliari compare anche lei: Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Omosessuale e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica finita al centro delle indagini che sconvolgono l'Emilia e l'Italia. Secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. "Sono state la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni - si legge nelle carte dell'inchiesta - ad averla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi ad ogni costo". Molto si è detto sul "caso affidi". Secondo i carabinieri, quello che emerge è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Ma forse non è tutto. "Non è solo questione di denaro", attacca Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia". Dietro il "mostruoso sistema degli affidi", dice, "si nasconde un movente ideologico, che è anche peggio". "Ero consigliere regionale quando nella rossa Emilia il Pd portò la gestione dei servizi sociali della Val d'Enza come esempio in Regione", spiega l'onorevole. "Federica Anghinolfi, individuata dagli inquirenti come vertice di questo sistema, veniva invitata dappertutto dai sinistrati ed era una bandiera per le famiglie arcobaleno in quanto esponente di quel mondo". Il profilo social della responsabile del servizio sociale ne è la dimostrazione. Online mostra foto arcobaleno, condivide articoli sulla galera per chi si macchia di omofobia, post sui Gay Pride e via dicendo. Niente di male. Solo che nelle carte dell'inchiesta, spunta anche una famiglia arcobaleno formata da due donne - "già legate alla Anghinolfi" - cui era stata consegnata una bambina. L'affido dei bambini alle coppie lgbt, infatti, é una battaglia che Federica porta avanti da diverso tempo. Non è un caso se, quando nel 2014 il Corriere dedica un lungo articolo ad una delle prime coppie omosessuali affidatarie in Italia, è lei ad essere interpellata per il suo "lavoro sulla genitorialità gay (seminari di approfondimento e corsi di formazione) fatto in questi mesi dai servizi sociali emiliani". Non solo. Nel 2014 la Anghinolfi partecipa ad un incontro al circolo Arci Colombofili. Il tema? Affettività di genere. E lì racconta, con tanto di testimonianze, il suo lavoro per assegnare i minori a coppie omosessuali. Ne andava e ne va fiera. In un video pubblicato da Rosso Parma, Federica Anghinolfi parla del sistema degli affidi. "Andiamo oltre al tema dell’identità di genere nella relazione genitoriale", la si sente dire nell'intervento video. Le battaglie Lgbt e la genitorialità gay sono un chiodo fisso. A maggio 2018 compare tra le protagoniste delle iniziative organizzate dall’Arcigay a Mantova in occasione della "Giornata di contrasto all'omofobia, alla bifobia e alla transfobia". La Anghinolfi è tra le relatrici dell'evento - guarda caso - sull'affido alle coppie omosessuali, un seminario dal titolo “affidarSI. Uno sguardo accogliente verso l'affido LGBT". Infine, nell’estate del 2018 Federica è relatrice alla Festa dell’Unitá al Parco Nord a Bologna, anche se in quell’occasione il focus é un altro: "Cura dell’infanzia, maltrattamenti e prostituzione minorile". Politica, ideologie e minori. "Di questa vicenda - sottolinea Bignami - non è tanto l’aspetto economico che colpisce. Ma quello culturale. Questa signora è legata a quel mondo, nessuno mi toglie dalla testa che in fondo, dietro a tutto questo, ci sia la teoria gender. Vogliono i bambini senza famiglie, senza identità. Come corpi eterei".
Il caso degli abusi sui bambini di Bibbiano è legato all’inchiesta “Veleno”. Vita il 27 luglio 2019. Parla Pablo Trincia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta podcast sul caso della “bassa modenese”. «I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». In manette professionisti protagonisti di entrambe le vicende: un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti. «Se abbiamo contribuito anche in minima parte a salvare dei bambini e le loro famiglie dalla tortura del ricordo indotto, una delle peggiori forme di abuso che si possa immaginare, siamo soddisfatti. I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». Queste le parole di Pablo Trincia a Business Insider Italia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta Veleno, il podcast che ricostruiva le vicende di una presunta banda di pedofili (i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”) che alla fine degli anni Novanta portò all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli, alcuni si sono suicidati, altri sono espatriati, insomma, una storia terribile sotto ogni punto di vista. Nelle sette puntate pubblicate da Repubblica.it dall’autunno 2017, Trincia e Rafanelli ricostruivano i fatti, mettendo in luce i molti dubbi sul ruolo svolto da assistenti sociali, psicologi e ginecologi durante le indagini, criticandone i metodi e ponendo pesantissime domande sulle conclusioni.
Quegli stessi professionisti finiti oggi in manette nell’inchiesta “Angeli e Demoni” condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato a 18 misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Secondo il sostituto procuratore, Valentina Salvi, gli indagati avevano messo in piedi da diversi anni un redditizio sistema di “gestione minori”, un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico. Tra gli affidatari, anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Inoltre risulterebbero anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, successive all’illegittimo allontanamento. Per i carabinieri, alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, “manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo“.
Un sistema che poggiava su false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Le indagini erano partite nel 2018, a causa dell’abnorme numero di segnalazioni di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori pervenute dai servizi sociali della Val D’Enza, nel Reggiano, alla Procura, che però si rivelavano puntualmente infondate. Da qui, l’indagine, che presto ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l’accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, “artatamente trasmessi all’Autorità Giudiziaria”.
Con un post su Facebook Pablo Trincia ha sottolineato come «La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno». «I carabinieri hanno investigato su assistenti sociali e psicologhe, quelle rimaste al di fuori delle indagini di venti anni fa, che si erano concentrate solo sulle famiglie. Del resto, in Veleno avevamo messo in evidenza il gigantesco conflitto di interessi della psicologa Cristina Roccia, la professionista che aveva scoperto gli abusi, era diventata presidente di un centro privato (Hansel e Gretel, appunto, ndr) al quale erano stati poi affidati i bambini portati via alle famiglie, per un guadagno di oltre 2,2 milioni di euro», spiega Trincia. Cristina Roccia – che non risulta indagata – è la ex moglie proprio di Foti, il quale invece è indagato, insieme all’attuale compagna Nadia Bolognini. E voci vicine agli investigatori lasciano presagire nuovi indagati a breve, tra i quali anche nomi “pesanti” della psicologia italiana. «Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast», ricorda Trincia. Il testo di quella petizione contro “Veleno”, letto oggi, alla luce della svolta investigativa, mette un brivido. Parlando delle condanne dei genitori, scriveva infatti Foti: «Questa condanna in Cassazione può essere contestata, ma non si può ignorare che è stata assunta sulla base di una valutazione della credibilità dei bambini e sulla base di una massa di informazioni, rivelazioni, documentazioni, dati clinici, testimonianze coerenti e convergenti, passati attraverso un filtro di decine di psicologi, assistenti sociali, giudici». Ma ancora peggio è il passaggio nel quale Foti attaccava direttamente i giornalisti investigativi, “rei” di aver messo in dubbio il lavoro degli psicologi: «Le vittime di questa vicenda non sono state prese in considerazione con correttezza e rispetto da questa inchiesta. I giornalisti di Veleno hanno liquidato le testimonianze di allora, come se tutti gli intervistatori fossero suggestivi e manipolativi e tutti i bambini intervistati deliranti. Non solo! Non hanno evidenziato che quei bambini alle parole fecero seguire i fatti: per lunghi anni, pur avendone la possibilità, hanno rifiutato qualsiasi contatto con la famiglia d’origine e hanno evitato anche solo di informarsi sulla vita dei propri genitori. Contestualmente è mancata la correttezza e il rispetto anche per gli operatori che furono coinvolti dalla vicenda di 20 anni fa. I giornalisti di “Veleno” continuano a ricercare lo scontro con gli psicologi e degli assistenti sociali, che operarono allora facendo credere che sia la presunta coscienza sporca di questi professionisti a tenerli lontani da un incontro con i giornalisti, e non già lo scrupolo professionale che impedisce loro di discutere in piazza del lavoro clinico e sociale svolto». Naturalmente, fino al terzo grado di giudizio, tutti gli indagati sono innocenti. Certo che i filmati degli incontri delle psicologhe con le supposte vittime, pubblicati da Veleno su repubblica.it, molti dubbi li avevano sollevati. Già due anni fa.
Pablo Trincia su Facebook il 27 giugno 2019. "Diffondete!!! La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno. Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast.
“ANGELI E DEMONI”: UNA VENTINA DI MISURE CAUTELARI ESEGUITE DAI CARABINIERI. Agli arresti un sindaco e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’ASL reggiana. Decine di indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. False relazioni e disegni artefatti per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporli ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Metodi altamente suggestivi utilizzati sui minori durante le sedute di psicoterapia, anche attraverso impulsi elettrici, strumento spacciato ai bambini come “macchinetta dei ricordi, per alterare lo stato dei relativi ricordi in prossimità dei colloqui giudiziari.
Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi.
Due casi accertati di stupro presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento.
Reggio Emilia. I Carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia, sotto il costante coordinamento della Procura Reggiana – Pubblico Ministero Dott.ssa Valentina Salvi – in queste ore stanno dando corso all’operazione “Angeli e Demoni”, con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti che, da diversi anni, avevano messo in piedi un illecito e redditizio sistema di “gestione minori”, il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Quello che insomma veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari della misura cautelare sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Il tutto durante i lunghi anni nei quali i Servizi Sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. I dettagli della complessa indagine, senza precedenti nell’intero territorio nazionale, verranno resi noti nella conferenza stampa che i vertici del Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Emilia terranno il 28.6.2019 presso il Comando Carabinieri di Corso Cairoli a Reggio Emilia".
Affidamenti illeciti di minori. Dai master al centro contro gli abusi: le attività della onlus sotto accusa. L'organizzazione Hansel&Gretel di Torino, finita al centro dell'inchiesta che ha travolto il servizio sociale della provincia di Reggio Emilia, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di violenze, era molto ricercata per la formazione degli operatori. Il suo fondatore Claudio Foti, ora ai domiciliari, era stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Stefano Galeotti il 28 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Comprendere e rispettare a pieno le emozioni significa arricchire e rivoluzionare la pratica educativa, la pratica clinica e la pratica sociale, umanizzare la relazione di cura in ambito sanitario, trasformare la dinamiche dei gruppi e i processi organizzativi”. È questo il manifesto che la onlus Hansel e Gretel, sotto accusa nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni sull’affido illecito dei minori per cui 16 persone sono state arrestate e 26 indagate, presenta come finalità di uno dei master universitari che organizza sotto l’egida della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”. Perché la Hansel e Gretel, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di abusi, era molto ricercata in Emilia nel campo della formazione. Intorno alla onlus gravitano infatti una serie di attività che vanno dall’organizzazione di convegni per addetti ai lavori alla formazione di operatori del settore fino a quella, più diretta, del personale ospedaliero, attività che secondo l’accusa della procura di Reggio Emilia sarebbero state finanziate con fondi regionali. Il tema è sempre quello d’ascolto del bambino e delle possibili modalità di curarne le sofferenze scaturite da maltrattamenti e abusi, e il motore di tutta l’organizzazione è Claudio Foti, giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino dal 1980 al 1993 e già componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Lo stesso psicologo che, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, è accusato di aver “alterato lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale” e in questo modo “convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi”. Toti è ora in carcere, mentre ai domiciliari si trova Nadia Bolognini, direttrice dell’area evolutiva del Centro studi Hansel e Gretel e docente dei master. Fondata a Moncalieri, in provincia di Torino, nel 1989, la Hansel e Gretel aveva poi allargato il suo bacino d’azione principalmente in terra emiliana, in particolare tra i comuni della Val d’Enza, il fiume che divide le province di Parma e Reggio Emilia. Nel 2016, a Bibbiano, epicentro dell’inchiesta, con l’arresto del sindaco Pd Andrea Carletti, era stata coinvolta in un progetto denominato “La Cura”, nato come un centro sperimentale a sostegno dei minori vittime di violenza e abuso sessuale, un progetto fortemente voluto dall’Unione dei Comuni della Val d’Enza in collaborazione con la AUSL di Reggio Emilia. Lì in due anni sono stati presi in carico circa 210 giovanissimi, vittime di maltrattamenti, con un modello di psicoterapia basato sull’impiego dialogico ed empatico sviluppato dalla Bolognini. A presentare questi risultati in un convegno sull’abuso infantile organizzato lo scorso ottobre era stato proprio il fondatore Foti, che dal palco del teatro Metropolis di Bibbiano spiegava ai presenti come aiutare i bambini a “Rinascere dal trauma”. Pochi mesi prima, in maggio, lo stesso Foti era a Reggio con altri nomi importanti del Centro studi Hansel e Gretel per un convegno questa volta sponsorizzato anche dal Comune di Reggio Emilia e aperto dall’allora vicesindaco Matteo Sassi, segno di un’associazione che ormai si era fatta strada e costruita un buon nome nel territorio emiliano. Ma un altro importante settore di attività della Hansel e Gretel è rappresentato dalla formazione. Per l’anno 2018-2019 il centro studi è infatti riuscito a organizzare un master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive” in tre sedi diverse, Reggio Emilia, Torino e Roma. La struttura accademica su cui si basa è quella della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”, di evidente provenienza Vaticana, mentre a livello locale il progetto aveva ricevuto di nuovo il patrocinio dei Comuni della Val d’Enza. Il corso si articola in 22 giornate complessive di seminari per un totale di quasi 200 ore di lezioni, aperto ad un massimo di 25 persone alle quali è richiesta una quota di circa 2000 euro per partecipare. A Reggio Emilia, la onlus ha lanciato anche un secondo master, una specializzazione in “Sofferenze traumatica e intelligenza emotiva”. Un importante impegno di stampo accademico a cui l’associazione affianca corsi di formazione su temi specifici, organizzati in incontri di due giornate e “rivolti a insegnanti, psicologi, educatori, assistenti sociali e tutti coloro che lavorano a stretto contatto con l’infanzia”. Al centro dell’inchiesta figurano proprio i guadagni della onlus. Secondo gli investigatori, tra alcuni dipendenti dell’Unione Val D’Enza e la onlus di Moncalieri c’erano reciproci conferimenti di incarichi. La onlus era affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente pubblico e dei relativi convegni e corsi di formazione. I tre psicoterapeuti, (Foti, Bolognini e Sarah Testa) si legge nell’ordinanza, “nella piena consapevolezza della totale illiceità del sistema creato, a loro vantaggio, in palese violazione della normativa in tema di affidamenti di servizi pubblici e nella piena consapevolezza che la loro attività professionale venisse retribuita da ente pubblico, esercitavano sistematicamente attività di psicoterapia con minori loro inviati dal servizio sociale Val d’Enza”.
L’Inferno è a Bibbiano. Dicevano di lavorare per il benessere dei bambini, ma l'inchiesta del pm Valentina Salvi sta scoperchiando un sistema perverso di relazioni, favori e conflitti d'interesse tutto a danno dei minori. Un inferno che ha sconvolto e distrutto intere famiglie. Alessandra Vio il 4 Luglio 2019 su L'Intellettuale dissidente. C’è l’Inferno a Bibbiano. Non a caso l’inchiesta da brividi coordinata dalla pm Valentina Salvi che ha coinvolto l’intero settore dell’affido della Val D’Enza porta il nome di Angeli e Demoni. Ed eccoli, i demoni: sedici le persone legate alla rete dei servizi sociali, destinatarie di misure cautelari; ventinove le iscritte nel registro degli indagati, tra cui figurano, per addebiti di misura amministrativa, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (Pd), l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli (Pd) e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani (Pd) – questi ultimi entrambi ex presidenti dell’Unione della val d’Enza. Tra i demoni finiti agli arresti domiciliari figurano: una responsabile e una coordinatrice del servizio sociale, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino) – Claudio Foti, direttore della onlus, e Nadia Bolognini, responsabile del lavoro diagnostico dell’area evolutiva. Un tremendo giro d’affari di centinaia di migliaia di euro, costruito sulla pelle degli angeli, i bambini, ingiustamente allontanati dalle famiglie d’origine, manipolati, maltrattati e dati in affido a persone prive dei requisiti necessari e poi sottoposti ad un circuito di cure private a pagamento della onlus. Un business infernale di cui beneficiavano alcuni degli indagati e con il quale venivano organizzati numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio della Hansel & Gretel, divenuta affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente e dei relativi convegni e corsi di formazione, organizzati in provincia. La Hansel & Gretel, tramite i rapporti tra il presidente Foti e Francesco Monopoli – assistente sociale della Unione Val d’Enza, anche lui indagato – aveva inoltre ottenuto la possibilità di effettuare sedute di psicoterapia su minorenni al centro La cura di Bibbiano (Re), dietro compensi da capogiro: 135 euro per colloquio, quando la tariffa di mercato è di 60 o 70 euro. Il sistema di intrecci e relazioni era talmente consolidato da arrivare a coinvolgere anche il Centro Specialistico Regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti, che è risultata essere una costola della onlus: nel centro veniva infatti garantita l’assistenza legale ai minori attraverso la scelta, da parte dei servizi sociali, di un avvocato, ora indagato per “concorso in abuso d’ufficio”.
Un losco giro di denaro, di relazioni, favori, conflitti d’interesse, quello scoperchiato a Bibbiano; tutto giocato a discapito dei bambini e delle loro famiglie, andando a calpestare brutalmente il loro benessere, che invece dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi azione all’interno dei servizi sociali. Tutto per infime ragioni d’interesse. È crollato così il tanto decantato sogno della Val d’Enza, dove la tutela dei bimbi dicevano fosse la priorità assoluta, ed anche sul sacrosanto benessere dei bambini prevale il puzzo del dio Denaro, dominatore incontrastato del mondo moderno. Si è sciolto il dolce marzapane delle pareti e la casa della strega ha rivelato la sua vera natura: una diabolica macchina che ha sconvolto e distrutto spietatamente tante famiglie e che ha visto minori sottoposti ad ogni tipo di sevizia.
Non Hansel e Gretel, ma piuttosto quello della strega cattiva era il ruolo di Claudio Foti e Nadia Bolognini; il forno, la loro onlus. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate: c’era l’Inferno lì dentro. I bambini erano sottoposti a stimolazione di falsi ricordi – che andavano dall’abbandono da parte dei genitori ai falsi abusi subiti all’interno della loro famiglia –, lavaggi del cervello, scariche elettriche dalla cosiddetta macchinetta dei ricordi… Claudio Foti avrebbe persino usato come cavia una bambina in un corso di formazione per gli operatori Asl di Reggio Emilia.
Un luogo di tortura psicologica, dove si cercava di indurre i bimbi ad odiare, disconoscere e “seppellire” i propri genitori. Raccapricciante ricordare che la Hansel & Gretel risultasse presente anche nel caso “Veleno” portato alla luce dal giornalista Pablo Trincia, autore dell’inchiesta sulla vicenda dei pedofili della Bassa modenese risalente al biennio 1996-1998. Sedici bambini vennero strappati via dalle loro famiglie tra Massa Finalese e Mirandola su indicazione dei servizi sociali perché ritenuti vittime di una rete satanica di pedofili. Nel 2014, a indagini concluse, si è giunti all’assoluzione di metà degli indagati: accuse false e famiglie distrutte. Le psicologhe che, all’epoca, interrogarono i bambini di Veleno facevano parte della Hansel & Gretel.
Altra figura cardine dell’Inferno di Bibbiano è Federica Anghinolfi, dirigente dell’Unione val d’Enza e motore dalla macchina diabolica: era lei ad esercitare pressioni sugli assistenti sociali affinché redigessero e firmassero verbali dove si attestava il falso riguardo allo stato familiare o al contesto abitativo dei bambini; lei sceglieva a chi affidare i bambini e da quali psicoterapeuti dovessero essere seguiti. Un brutale e spietato meccanismo per la demolizione di diversi nuclei familiari tramite l’ingiusto allontanamento fisico e la sospensione di qualsiasi contatto tra genitori e figli – le lettere e i giocattoli indirizzati ai bimbi dai genitori sono state ritrovate accatastate in un magazzino! -; poi i ripetuti lavaggi del cervello subiti dai piccoli. Uno scenario da incubo, degno di Orwell. Una realtà vicina alla distopia in cui la famiglia viene distrutta, i diritti dei bambini calpestati. Come se ciò non bastasse, molti degli affidatari erano privi dei requisiti necessari e nelle nuove famiglie molti bambini sono stati vittime di violenze fisiche o mentali. Inoltre, la Anghinolfi avrebbe in alcuni casi messo quest’orrenda macchina al servizio del suo essere una fanatica paladina dei diritti Lgbt: una bambina è stata ingiustamente allontanata dal padre perché giudicato omofobo, un’altra è stata affidata a una coppia di donne – vicine alla Anghinolfi – prive dei requisiti necessari all’affido e che hanno esercitato pressioni psicologiche sulla piccola. Ideologia, fanatismo isterico, interessi di varia natura: una combinazione di diabolici ingredienti che rende spietatamente ciechi, anche di fronte all’intoccabile benessere dei bambini.
Di tutta questa putrida faccenda i media hanno parlato troppo timidamente, nonostante l’assoluta gravità e tragicità della questione. Invece questa, oltre a un fatto da denunciare e condannare a gran voce, deve anche essere un punto di partenza per far luce sulle diverse problematicità del sistema degli affidi in Italia. Problematicità che sono state abilmente sfruttate dai protagonisti della vicenda affinché questa trama infernale prendesse forma. Tra di esse figurano il sottofinanziamento delle politiche sociali – di cui solo una minima parte è destinata ai servizi sociali – con la conseguente esternalizzazione dei servizi, troppo spesso basata sulla logica del massimo ribasso, che comporta una minimizzazione dei costi e della qualità del servizio. Emergono poi: la distinzione troppo spesso sfumata, se non assente, tra operatore professionale e prestatore di servizi; la scarsa vigilanza e i molli poteri sanzionatori degli ordini professionali, che andrebbero assolutamente rafforzati.
Federica Anghinolfi Occorre ricordare, infine, la frequenza con la quale i giudici onorari hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori, in cui spesso ricoprono posizioni apicali. Si tratta di psicologi, medici e assistenti sociali che da un lato sono chiamati a pronunciarsi sull’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine e che contemporaneamente sono anche titolari, dipendenti o consulenti di centri di affido o istituti di accoglienza dei minori. Finalmente liberi onlus, un’organizzazione che si batte per la tutela dei minori e che denuncia l’eccessiva facilità con cui essi spesso vengono sottratti alle famiglie di origine, ha individuato, nel 2015, 156 giudici onorari nei Tribunali e 55 nelle Corti d’appello che operano in totale e palese conflitto d’interessi: ciò equivale a dire che il 20% dei magistrati minorili italiani ha un qualche interesse a che i bambini finiscano in un centro d’affido: quest’ultimo, per quei bambini, incassa dagli enti locali una retta giornaliera a volte elevata, con casi limite in cui supera i 400 euro. Ciò dà vita a un business colossale: in Italia, i minori allontanati dalle famiglie sono tantissimi – secondo il primo e unico studio approfondito condotto dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali nel 2010, erano 39.698, mentre “Finalmente liberi” ne stima almeno il doppio -; alimentano un mercato da 1-2 miliardi di euro l’anno e sono gestiti senza particolare trasparenza.
Con ciò, naturalmente, non si vuol dire che tutte le strutture dell’affido minorile hanno caratteristiche speculative. Tuttavia, queste storture sistemiche sono terreno fertile per il proliferare di macchine infernali come quella recentemente scoperchiata in Val d’Enza e per questo motivo andrebbero al più presto corrette: per arginare il più possibile la nascita di nuovi inferni. Alessandra Vio
Fabio Amendolara per “la Verità” il 5 luglio 2019. Una delle assistenti sociali ha addirittura ammesso, dopo aver descritto la casa di una delle famiglie alle quali sono stati sottratti illecitamente i bambini come fatiscente e inadeguata, di non essere mai stata nell' abitazione. Dalla carte dell' inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia continuano a saltare fuori particolari inquietanti che descrivono quel sistema che ancora oggi qualcuno cerca di difendere. Un sistema che cercava a tutti i costi abusi sessuali che, in realtà, non c' erano mai stati. «Vi sono una serie di elementi indiziari», sottolineano gli inquirenti, «che inducono a ritenere che vi fosse una consapevole volontà da parte del servizio sociale di spingere sulla dubbia situazione di dubbio di abuso sessuale, in modo da accreditarne l' effettività, a prescindere dalle prove esistenti». Una delle testimoni, infatti, ha riferito agli investigatori che «un' assistente sociale molto vicina alla Anghinolfi (Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell' Unione di Comuni della Val d' Enza, ndr) aveva chiesto alla madre di una delle bimbe di fare denuncia contro il papà». Ecco le sue parole: «Lo so perché eravamo presenti anche noi. Quando la donna è andata da loro da sola continuava a dire che i servizi sociali insistevano perché lei facesse la denuncia». In un altro passaggio i magistrati scrivono: «Confermativi anche i ricordi sul punto della madre, in ordine alle istanze della Anghinolfi per sollecitare l' avvio di un procedimento penale riguardante i pretesi abusi sessuali». Ecco le parole della mamma: «La Anghinolfi ci ha chiesto come mai non avevamo fatto la denuncia riguardo alle dichiarazioni della bimba. Io le ho spiegato che ci era stato detto che la segnalazione avrebbe attivato un procedimento d' ufficio che sarebbe comunque andato avanti. La Anghinolfi mi disse che era grave che io non lo facessi e mi chiese se io credevo o no alle dichiarazioni della bambina. Lì i servizi sociali ci hanno chiesto di recarci da loro per notificarci l' altro decreto di allontanamento». L' assistente sociale, a quel punto, secondo l' accusa, «era perfettamente consapevole che le frasi attribuite alla bambina erano artatamente modificate». In un altro caso, dopo la solita segnalazione, l' autorità giudiziaria per i minorenni delegò i servizi sociali a verificare le condizioni in cui viveva uno dei bimbi vittima d' allontanamento. Nella relazione gli assistenti sociali scrivono: «La casa appare spoglia e le operatrici non hanno visualizzato giocattoli». Quel documento ufficiale, però, come hanno verificato i carabinieri, presentava elementi di falsità. «In un sopralluogo di pochi mesi successivi, i militari rilevavano nel domicilio una condizione positiva e assolutamente diversa da quella riscontrata e descritta nella relazione del servizio sociale». Infatti c' erano giochi di società, videogiochi di ultima generazione, un piccolo calcio balilla e molte foto del bambino durante le sue fasi di crescita in compagnia dei genitori e dei nonni (anche loro demonizzati negli incartamenti degli assistenti sociali)». Le relazioni sembrano una la fotocopia dell' altra. Si faceva leva sulle condizioni della casa, sulla salute dei bambini, sui litigi familiari e soprattutto sugli abusi sessuali. C' era una strategia, insomma, per scippare i bambini alle loro famiglie. Bugie create ad arte, come dimostrano anche i servizi mandati in onda l' altra sera da Chi l' ha visto?, tra i pochi, oltre alla Verità, a continuare a raccontare il caso. In un tweet, dall' account ufficiale, la redazione di Federica Sciarelli mostra un verbale d' interrogatorio di una delle assistenti sociali che ha ammesso davanti ai magistrati di aver riportato particolari falsi in una relazione di servizio. Dall' altro lato, però, c' è chi critica il lavoro d' inchiesta. Dopo l' associazione dei magistrati per i minorenni e per la famiglia che ha descritto le notizia di stampa pubblicate nei giorni scorsi una «semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati», è arrivato il commento del garante regionale dell' Emilia Romagna per l' infanzia e l' adolescenza Maria Clede Garavini. La difesa d' ufficio: «I servizi sociali e sanitari da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute». In Emilia Romagna secondo la Garavini, «per affrontare queste situazioni così impegnative, la Regione ha emanato fin dal 2013 il documento sulle linee di indirizzo regionale per l' accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamenti abuso, che indicano un percorso dettagliato di prevenzione, valutazione e presa in carico». E come se nulla fosse accaduto, difende «le competenze professionali maturate e sedimentate negli anni». Le stesse messe in campo dai servizi sociali in Val d' Enza, supportate dalla Onlus Hansel e Gretel, e che sono crollate sotto l' inchiesta «Angeli e demoni».
Inchiesta in val d’Enza, la Municipale “segnalò irregolari gestioni di fondi”. L'allora comandante, Cristina Caggiati, secondo quanto ha riferito il suo vice Fabbiani agli inquirenti, fece una segnalazione sui soldi gestiti dai servizi sociali. Paolo Pergolizzi il 02 Luglio 2019 su Reggio Sera. Il sindaco Andrea Carletti emerge “come un personaggio particolarmente potente e irritato in passato dalla segnalazione effettuata dalla dirigente della polizia municipale della val d’Enza, Caggiati, relativa a irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale, segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi”. Nell’ordinanza del Gip Ramponi, relativa all’inchiesta della procura di Reggio “Angeli e Demoni” che sta terremotando la val d’Enza (di oggi la notizia che, oltre al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ai domiciliari, sono stati indagati anche l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani) c’è questo passaggio in cui Tito Fabbiani, ex vicecomandante della polizia municipale della val d’Enza, sentito come persona informata dei fatti dagli inquirenti, riferisce che, appunto, Cristina Caggiati, all’epoca comandante del corpo municipale dell’Unione, avrebbe fatto una segnalazione relativa a “irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale”. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che l’ex vicecomandante Tito Fabbiani e la comandante Cristina Caggiati, sotto accusa per la loro condotta all’interno della Municipale della val d’Enza, sono stati licenziati, nell’aprile scorso (erano già stati sospesi dal servizio, ndr), in seguito a un altro grosso scandalo scoppiato in val d’Enza in cui Fabbiani è accusato di concussione, abuso d’ufficio, peculato, omessa denuncia, truffa aggravata ai danni dello Stato e mobbing, mentre la comandante Cristina Caggiati è indagata per abuso d’ufficio in concorso, oltre che per omessa denuncia. Il processo nei loro confronti è iniziato a fine maggio.
Fabio Amendolara per “la Verità” il 4 luglio 2019. C' era stata una segnalazione sulla torbida gestione dei fondi per i servizi sociali del Comune di Bibbiano scoperchiata poi dalla Procura di Reggio Emilia con l' inchiesta che hanno ribattezzato «Angeli e demoni». La ex comandante della polizia municipale della Val d' Enza, Cristina Caggiati, hanno ricostruito gli investigatori, aveva subodorato qualcosa e aveva portato quelle «irregolarità» all' attenzione del sindaco dem finito ai domiciliari Andrea Carletti, accusato di falso e abuso d' ufficio. Cosa che, a sentire un testimone, l' ex vicecomandante della polizia municipale, Tito Fabbiani, «irritò il sindaco». Fabbiani, stando al documento giudiziario che richiama le sommarie informazioni testimoniali rilasciate ai carabinieri, lo descrive come un personaggio «particolarmente potente». Fabbiani e Caggiati sono poi stati licenziati (dopo essere stati sospesi) perché finiti in un' altra inchiesta giudiziaria e ora sono sotto processo. Quella comunicazione, però, finì nel cestino. Un atteggiamento che per il giudice «è segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi». E, addirittura, sostiene l' accusa, appena avuta notizia delle indagini, «si è attivato per fornire successiva copertura all' attività svolta dai coniugi strizzacervelli per minori Nadia Bolognini e Claudio Foti (ieri erano in programma i loro interrogatorio di garanzia). Nelle comunicazioni pubbliche e finanche in un' audizione alla Commissione infanzia della Camera dei deputati il sindaco aveva fatto intendere che quella tra il Comune di Bibbiano e la onlus Hansel e Gretel di Moncalieri fosse una mera collaborazione scientifica a titolo gratuito. Pur di proteggere il sistema, il sindaco dem Carletti avrebbe «omesso di indicare il costo della collaborazione». Ma, soprattutto, avrebbe nascosto le modalità della corresponsione dei compensi. Perché, secondo l' accusa, erano «illegittime». La «copertura politica», così la definisce il giudice per le indagini preliminari che l' ha privato della libertà (il sindaco è agli arresti domiciliari), era arrivata in alto. A leggere gli atti, quella di Carletti non sarebbe stata solo una «omissione di controllo sull' attività dell' amministrazione» ma, stando all' ordinanza di custodia cautelare, «si adoperava per consentire la prosecuzione dell' attività, ottenendo anche un notevole ritorno d' immagine, oltre che un incremento dei fondi a disposizione». Insomma, Carletti, secondo l' accusa, non aveva che da guadagnarci. Il suo avvocato, all' uscita dall' interrogatorio di garanzia, ha detto ai cronisti che il sindaco ha fornito «importantissimi chiarimenti per quella che è la sua posizione e ha rappresentato in pieno la sua perfetta buona fede e l' assoluta serenità in coscienza». L' interrogatorio è durato un paio d' ore. E al termine, l' avvocato Giovanni Tarquini ha chiesto al gip la revoca della misura cautelare. Oltre al primo cittadino, sono sfilate davanti al gip Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni, coppia omosessuale affidataria di una minore, indagate per maltrattamenti in famiglia, per aver denigrato, sistematicamente, tra giugno 2016 e dicembre 2018, i veri genitori della piccola, calcato la mano sui sensi di colpa della bambina e per averle inculcato la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata dalla famiglia d' origine. Le due si sono avvalse della facoltà di non rispondere. Come Marietta Veltri, responsabile dei servizi sociali della Val d' Enza e seconda solo alla dirigente Federica Anghinolfi. Anche lei ha fatto scena muta. E mentre l' inchiesta è concentrata proprio sulla gestione dei servizi sociali, il ministro della Gustizia, Alfonso Bonafede, ha mandato i suoi ispettori al Tribunale per i minori di Bologna. Bonafede lo ha riferito rispondendo a un' interrogazione della deputata reggiana di Forza Italia, Benedetta Fiorini, definendo «inquietante» la «rete criminosa ordita in danno a malcapitati minorenni, sottoposti a veri e propri trattamenti coattivi, facendo finanche ricorso a dispositivi ad impulsi elettromagnetici». Tuttavia, prosegue il ministro, «le questioni sollevate investono solo in parte lo spettro delle competenze del ministero». In concreto i magistrati ricevono periodicamente relazioni sulla situazione dei minori dati in affidamento. Le competenze del ministero sono quelle di verificare che i magistrati facciano il loro lavoro come si deve. E, proprio per verificare dove si erano inceppati i meccanismi, ha mandato i suoi ispettori. «Quello che possiamo fare», aggiunge Bonafede, «e che stiamo già ipotizzando è incrociare tutti i dati che arrivano dai diversi uffici giudiziari per verificare in maniera più stringente l' andamento delle situazione degli affidi di minori nei territori e individuare prima e meglio le criticità». E alla fine ha annunciato: «In qualsiasi aula giudiziaria verrà accertata l' esistenza di un abuso su un minore, posso garantire che non ci sarà nessuno sconto da parte della giustizia, che sarà inflessibile». Nel frattempo, però, cinque dei sette indagati convocati finora dal gip si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. E, come sottolineato dal Secolo d' Italia, «si è alzato un muro d' omertà».
Falsi abusi per togliere i minori alle famiglie: un filo collega l’Emilia alla Campania. C’è un filo rosso che lega l’Emilia alla Campania nell’indagine che ha portato a scoperchiare un vero e proprio business sull’affidamento di minori: 16 persone indagate per aver prodotto falsa documentazione atta a strappare bambini alle famiglie per affidarli a comunità conniventi. Si tratta dell’associazione Hansel & Gretel, ponte tra l’inchiesta dei magistrati e quella di Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli. Rosaria Capacchione su Napoli Fanpage l'1 luglio 2019. C’è un nome che collega l’Emilia Romagna alla Campania, l’inchiesta sui falsi abusi subiti dai bambini di Bibbiano, Mirandola, della Val d’Enza e dell’intera Bassa alla provincia di Salerno. E c’è un altro nome, quello dell’associazione Hansel & Gretel, che porta da Torino e Reggio Emilia fino a Napoli. Non figurano negli atti dell’indagine che la scorsa settimana ha portato all’arresto di medici, psicologi, assistenti sociali accusati di aver truccato le carte e depistato i processi, torturato i minori e falsificato le prove per dimostrare violenze sessuali mai avvenute. Ma sono fatti e circostanze che, a spezzoni, compaiono in altri fascicoli, alcuni archiviati, altri ancora in corso. Anche in questo caso, i protagonisti sono bambini di pochi anni, sottratti alle famiglie e dati in adozione, con modalità assai simili a quelle documentate dalla Procura di Reggio Emilia e dai carabinieri. Un link che tiene insieme i processi sui “diavoli della Bassa” – rivisitati dall’inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli con il podcast “Veleno”, e dei quali è stata recentemente chiesta la revisione – quello della settimana scorsa e singoli casi giudiziari, sfuggiti alla grande stampa e comunque catalogati come errori giudiziari. Partiamo da “Hansel & Gretel”, associazione piemontese, una delle poche accreditate per l’assistenza ai bambini abusati. È stata fondata quasi trent’anni fa dallo psicologo Claudio Foti, uno dei nomi che contano nel suo campo, caposcuola di una teoria sull’intelligenza emotiva. È stato arrestato con l’accusa di frode processuale e depistaggio. Avrebbe usato come cavia una bambina, durante un corso di formazione dedicato ad assistenti sociali, convincendola di aver subito abusi sessuali mai avvenuti. L’associazione e Foti hanno curato a Napoli, nel 2015, un master di secondo livello sugli stessi temi. Nel 2017 hanno tenuto un corso di formazione destinato alle assistenti sociali del Comune, un seminario di due giorni “sull’attivazione cognitiva ed emotiva dei soggetti destinatari dell’intervento”.
La composizione delle onlus. Della onlus facevano parte l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia, e quella attuale, Nadia Bolognini (arrestata). La prima è la protagonista di uno dei video degli incidenti probatori dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa”, interrogatori suggestivi nei quali i bambini vengono indotti a confessare la partecipazione a riti satanici. Lorena Morselli, alla quale furono tolti i tre figli che non ha mai più potuto vedere, così li ha commentati su l’Avvenire: “Si vedono i bambini durante le audizioni protette a Modena, mentre devono rispondere alle domande del gip Alberto Ziroldi, che aveva nominato come periti proprio le psicologhe Cristina Roccia, allora moglie di Claudio Foti, Sabrina Farci e Alessandra Pagliuca, tutti di Hansel & Gretel. Uno dei miei figli parla come un automa: “in cimitero squartavamo i bambini e bevevamo il sangue”, a domanda risponde che lui stesso ne ha uccisi cinque, per tre volte a settimana. Dice che papà andava a prendere le vittime col pulmino della parrocchia e io alla fine pulivo da terra il sangue. Possibile che questo bastasse per mandare decine di persone in galera e i nostri figli in affido?”. Alessandra Pagliuca è una delle tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono con l’inchiesta. È napoletana, vive a Salerno. È sposata con un altro psicologo, Mauro Reppucci, ex giudice onorario del Tribunale dei minori di Napoli, stessa scuola di pensiero di Foti, di recente approdato alle teorie di Ryke Geerd Hamer, fondatore della Nuova Medicina Germanica, medico tedesco morto due anni fa, radiato dall’ordine professionale. Per intenderci, il teorico della causa psicologica dei tumori e dell’inutilità delle cure farmacologiche. Sandra Pagliuca è stata convocata in audizione, nella veste di esperta, dalla commissione parlamentare sull’Infanzia, appuntamento per giovedì mattina a Roma, a Palazzo San Macuto, sede di molte commissioni parlamentari. “Un appuntamento al quale non mancherò – commenta Paolo Siani, capogruppo del Pd in quella commissione. Sono proprio curioso di sapere cosa avrà da raccontarci. Anche perché bisogna studiare con attenzione le cause dell’aumento esponenziale dei casi di abusi e maltrattamenti sui minori. Non abbiamo elementi scientifici, epidemiologici, sul fenomeno. Ed è per questo che ho presentato una mozione, in discussione in aula domani (2 luglio), nella quale propongo l’istituzione di un osservatorio. Non è molto chiaro perché alcuni, tra i quali i parlamentari dei Cinque Stelle, sono contrari”.
Le sette sataniche di Salerno. Ad Alessandra Pagliuca è legata anche la denuncia dell’esistenza di sette sataniche in provincia di Salerno. La più clamorosa ha portato a un’inchiesta, che risale al 2007, che non ha prodotto alcun risultato. Protagonisti tre fratellini, che riferirono di altri tre bambini coinvolti. Nei loro racconti si parlava di adulti incappucciati e travestiti, di pozioni da ingurgitare “sennò non diventi figlio del diavolo” a base di sangue, sperma e droghe, probabilmente anfetamine. Li assisteva, nella veste di psicoterapeuta, proprio la Pagliuca. Che così commentò la vicenda: “Sono battaglie lunghe e dolorose, ma per noi la salvaguardia dei minori è una missione. Purtroppo c’è la tendenza a non dare troppo credito a quanto raccontano i bambini. Ma un esperto del settore riconosce subito un minore abusato. Lo legge perfino nel modo in cui parla o cammina. Negli ultimi tre anni mi è capitato di occuparmi di tre sette sataniche nel Salernitano. I processi sono ancora aperti e generalmente durano anni. Nel frattempo i minori soffrono e questi personaggi se la spassano”. Inchieste finite nel nulla. Sempre a Salerno, Maria Rita Russo, stessa formazione di Foti, Reppucci, e Pagliuca, neuropsichiatra infantile, dirigente del servizio Not dell’Asl, è stata rinviata a giudizio un anno fa per false dichiarazioni al pm. La professionista salernitana avrebbe forzato l’esito di una consulenza psichiatrica su un bambino di tre anni, avallando nei confronti del padre un processo per pedofilia che si è poi rivelato infondato. Il bambino è stato comunque dato in adozione. La gestione del servizio Not è stata oggetto di contestazioni e polemiche anche in tempi più recenti. A gennaio, nel corso del processo su presunti abusi ai danni dei bambini della scuola d’infanzia di Coperchia, piccola frazione di Pellezzano, il maresciallo dei carabinieri sentito come testimone ha escluso l’esistenza di elementi documentali necessari a confermare l’accusa a carico di sei bidelli e del personale amministrativo dell’asilo. Il comandante della stazione di Pellezzano ha ripercorso la lunga fase investigativa sostenendo che, dalle indagini, in particolare dalla visione dei filmati delle telecamere nascoste all’interno della scuola, non era emerso alcun elemento d’accusa a carico degli imputati. Gli avvocati Gerardo Di Filippo e Cataldo Intrieri avevano poi chiesto e ottenuto l’acquisizione di alcune sentenze scaturite da inchieste giudiziarie nata su segnalazione del Not e di Maria Rita Russo, consulente della Procura nell’ambito dell’inchiesta sugli abusi alla materna di Coperchia e in altre numerose indagini su abusi ai danni di minori. Un canovaccio sovrapponibile, quasi una fotocopia, a quello dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa” e sugli abusi in Val d’Enza.
Ora il Pd difende il suo sindaco ma si dimentica i bimbi abusati. Il Pd esprime vicinanza al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Ma si dimentica delle presunte vittime delle onlus. Costanza Tosi, Domenica 07/07/2019, su Il Giornale. Il Partito democratico si schiera a difesa di Andrea Carletti, il sindaco (dem) finito al centro dell'inchiesta "Angeli e demoni" che attualmente si trova ancora agli arresti domiciliari e che, recentemente, è stato difeso dal circolo del Pd di Bibbiano che con un lungo comunicato stampa su Facebook. La lettera - pubblicata e firmata da Stefano Marazzi, in qualità di segretario del sindaco e sostenuta da "tutta la comunità del Pd" - è un chiaro atto di vicinanza e di solidarietà verso un primo cittadino che, secondo quanto riportato dalle carte - sarebbe implicato nella terribile inchiesta che ha scosso non solo Bibbiano, ma tutta l'Italia. Per i suoi compagni di partito, Carletti sarebbe una persona "sensibile e determinata" che "ha sempre sostenuto chi nutriva paure e timori in nome di quei principi fondamentali per lui irrinunciabili". I tesserati del Pd si augurano "che venga fatta chiarezza al più presto" e proseguono mostrando tutta la loro vicinanza a Carletti e alla sua famiglia, "sicuramente duramente colpita da questi accadimenti". E aggiungono: "La certezza che questa vicenda si concluderà positivamente quanto prima con l'accertamento della sua totale estraneità". Per loro Carletti è innocente, senza se e senza ma. Comprensibilmente, dato che in Italia vige la presunzione di innocenza. Tuttavia colpisce che nel documento redatto dal Partito democratico non ci sia un pensiero, anche minimo, alle sofferenze che genitori, bambini e intere famiglie hanno dovuto sopportare in tutti questi anni. Ma c'è di più: nel testo si accenna solamente ad una semplice "vicenda giudiziaria" su cui i magistrati dovranno fare chiarezza. Nessuna parola di vicinanza per le famiglie vittime di raggiri e prepotenze, ingiustamente accusate e private dei propri figli per colpa di un meccanismo di cui Carletti avrebbe fatto parte, anche solo incidentalmente e forse a sua insaputa. Un meccanismo che consentiva, però, all’intera organizzazione di lucrare sulla pelle dei bambini. Di fare cassa. Ma il Pd non è il solo a esprimere vicinanza all'indagato. Ad esso si aggiunge anche il Comitato direttivo della Sezione Anpi di Bibbiano che, "sollecitato anche da numerosi iscritti" - come si legge nel comunicato - "ha deciso di esprimere e rendere pubblica la propria solidarietà al sindaco Andrea Carletti in questo momento difficile per lui e per la comunità". Un sostegno che, sottolineano, "deriva da anni di collaborazione (…) avendo sempre visto e apprezzato il suo impegno, in particolare verso la scuola e i giovani, nell'affermare e diffondere i valori della legalità e per non dimenticare”. Poche invece, ancora una volta, le parole dedicate alle vittime del sistema di affidi illeciti: "Siamo i primi ad esprimere solidarietà ai minori e alle famiglie coinvolte" - afferma l’Anpi di Bibbiano - che subito dopo torna a dare supporto al sindaco dem: "Siamo fiduciosi che in tempi rapidi al nostro Sindaco verrà riconosciuto di aver sempre svolto la sua attività di amministratore pubblico con disciplina ed onore". Su ciò che dovrà essere riconosciuto invece ai genitori ai quali hanno tolto i piccoli, sulla speranza che vanga fatta giustizia per le vere vittime di questa atroce storia, anche l’Anpi non si esprime. Tace. Eppure, sul sito ufficiale dell’associazione non manca l’attenzione ai bambini. Queste le parole di uno degli appelli pubblicati sul web: “Vogliamo un’Europa contraria a qualsiasi forma di discriminazione, che garantisca asilo ai rifugiati ed il rispetto dei diritti di tutti, in particolare delle donne e dei fanciulli”. Insomma, per l’Anpi prima i bambini, ma in questo caso sembrano esserseli dimenticati. Anche il garante regionale dell’Emilia-Romagna per l’infanzia e l’adolescenza Maria Clede Garavini interviene sulla questione e attacca i media impegnati nell’inchiesta: la "semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati, specie in una materia di grandissima complessità e delicatezza la cui trattazione richiederebbe un elevato livello di specializzazione". E questa volta il pensiero è volto verso gli assistenti sociali. Il ritratto dei servizi della Val d’Enza, “così come continua ad essere rappresentato dai media in questi giorni”, impone per Maria Clede Garavini “di fornire ulteriori precisazioni per evitare il diffondersi della sfiducia nei confronti dell’operato di tutti i servizi sociali e sanitari”. Garavini sottolinea in primo luogo che “i servizi sociali da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute”, lavorando “con diverse istituzioni nonché’ svariati soggetti, pubblici e privati, in un’ottica di lavoro multidisciplinare e di corresponsabilità in attuazione delle norme e delle disposizioni vigenti”. Enti che, però, in nome di questa collaborazione hanno creato un business di migliaia di euro a discapito della tanto decantata “tutela dei minori”.
Su Bibbiano Zingaretti non deve tacere. E nemmeno minacciare chi è indignato. Francesco Storace domenica 7 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Nicola Zingaretti se l’è cavata con una quarantina di parole. Il solito tweet per lavarsi la coscienza. Bibbiano, Reggio Emilia, quando il silenzio è d’oro. E un partito, il Pd, che assolda avvocati affinché “nessuno osi strumentalizzare” una vicenda che è turpe di per sé. Caro Zingaretti, non c’è strumentalizzazione da parte di chi vi fa domande. Ma si manifesta invece da parte vostra quando minacciate querele contro un popolo che è indignato per quello che è successo: bambini strappati alle loro famiglie, giro impressionante di quattrini, e un’amministrazione comunale coinvolta. Non si deve dire che il sindaco è del Pd? Basta un tweet? O un post su Facebook?
Solidali col sindaco e non con le vittime. Ha scritto Zingaretti il 27 giugno: “Schifoso e orribile quanto emerge dall’inchiesta “Angeli e Demoni” sulla gestione di minori. Si vada avanti, fino in fondo, per accertare le responsabilità, la verità e per punire i colpevoli senza esitazione. Patetici i tentativi di strumentalizzare politicamente questo dramma“. Mai la parola Bibbiano. Mai la sigla Pd. Anzi, poi, solo minacce di querelare chiunque osi parlare di Bibbiano e del Pd. E perché il Pd di Bibbiano è solidale col sindaco Carletti, che è sotto accusa? Perché anche l’Anpi si è messa in mezzo a difesa dell’amministrazione? Nuovi partigiani? E perché, caro segretario del Pd, non si sente da sinistra una sola voce di solidarietà con le famiglie di quei bambini, con le vittime?
Fa bene Fratelli d’Italia. Mille volte brava a Giorgia Meloni e ai parlamentari che venerdì sono andati a Bibbiano al sit-in di Fratelli d’Italia (nella foto sopra). Riflettori accesi, altro che querele, altro che avvocati, altro che censura. “L’inchiesta ‘Angeli e Demoni’ sta portando alla luce un ingranaggio orribile nel sistema di affidamento dei bambini ad altre famiglie. Se le accuse fossero confermate, ci troveremmo di fronte ad una inaccettabile mercificazione dell’infanzia“. Lo ha detto l’on. Ylenia Lucaselli. Querelate anche lei? E un’altra deputata di Fdi, Maria Teresa Bellucci sulle macchine che mandavano scariche elettriche ai ragazzi: contribuivano “a creare un ambiente ansiogeno e un clima emotivo inquieto“. E il sindaco Carletti “ha effettuato un affidamento diretto senza bando di una struttura comunale all’associazione che gestiva la cura dei minori allontanati dalle famiglie“. Gli facciamo un applauso, Zingaretti, e sbattiamo in galera la Bellucci al posto di Carletti? Questa sporca storia di orchi, di famiglie depredate, di figli rubati e segnati per la vita è vergognosa. E dal Pd ci saremmo aspettati piuttosto l’annuncio di volersi costituire parte civile nel caso di processo al sindaco che il suo partito non ha ancora cacciato. Invece, in preda al panico, al Nazareno non si rendono conto, evidentemente, di quanto sia turbata la pubblica opinione. Trenta persone accusate di togliere ingiustamente i minori alle loro famiglie per lucrarci sopra. Ogni anno 50mila bambini sono sottratti alle famiglie in Italia con un giro di soldi per un miliardo e mezzo. Quanto deve durare questo affare, onorevole Zingaretti? Alla politica chiediamo soluzioni e non silenzio ipocrita. Vada anche il segretario del Pd a Bibbiano, abbia il coraggio di non nascondersi e vedrà che non avrà bisogno di querelare nessun altro. Serve solo serietà. E non minacce.
Selvaggia Lucarelli sabato 6 luglio 2019. Se c’è un “caso zero” che lega il centro Hansel e Gretel e i casi di “Veleno” e oggi Bibbiano è questo: il caso Sagliano, provincia di Biella. Il primo, il più dimenticato. La storia di un’intera famiglia che si suicidó nel 1996 per atroci accuse di abusi su due bambini e con le perizie dei soliti nomi (Foti/Roccia del centro Hansel e Gretel e la Giolito del caso Veleno). E con quell’Alessandro Chionna, il pm che decise l’arresto di Gigi Sabani. Un caso così dimenticato, nonostante il clamore dell’epoca, che per avere una foto di queste 4 persone che non hanno mai avuto giustizia, sono andata io stessa al cimitero di Sagliano a fotografare le loro tombe. Ne scrivo oggi su Il Fatto. Leggete questa orribile storia, è importante. E condividete il più possibile.
Il 5 giugno del 1996, a Sagliano Micca, provincia di Biella, si suicidarono quattro persone. Insieme, dopo aver lasciato delle lettere d’addio, scesero nel garage di casa, entrarono in una Fiat Uno verde, mandarono giù qualche pasticca di sonnifero e respirarono il gas di scarico fino a morire. Erano Alba Rigolone (66 anni), suo marito Attilio Ferraro (68 anni), i loro due figli Maria Cristina Ferraro (insegnante di 39 anni) e Guido Ferraro (commesso di 36 anni). Tutti accusati di aver sottoposto alle più raccapricciati pratiche sessuali due bambini, i figli di Guido e Maria Cristina, quel giorno erano attesi in tribunale per l’udienza del processo appena iniziato. Un processo in cui l’impianto accusatorio si fondava principalmente sulle perizie di due consulenti: Cristina Roccia, una delle psicologhe coinvolte nella vicenda “Veleno” e colui che all’epoca era suo marito, ovvero quel Claudio Foti del Centro Studi di Moncalieri Hansel e Gretel, oggi agli arresti domiciliari per la vicenda di Reggio Emilia. Il caso Sagliano, nella sinistra catena che lega l’associazione Hansel e Gretel ad alcune delle storie più inquietanti e controverse di abusi su minori, può essere considerato il “caso zero”. E forse anche il più dimenticato, nonostante il suicidio, nonostante il clamore che suscitò all’epoca, tra videocassette sulla storia allegate a quotidiani, l’accorata difesa degli imputati di Vittorio Sgarbi e i pareri di noti opinionisti dell’epoca. Un’intera famiglia si tolse la vita lasciando un biglietto sul cruscotto: “Quattro innocenti sono costretti ad uccidersi perché il tribunale di Biella non ha dato la possibilità di dimostrare la loro innocenza”. Forse, oggi, alla luce di quello che sta emergendo, è possibile restituire dignità a quei morti la cui vicenda processuale fu ricostruita nel 2007, con appassionato rigore, dallo scrittore ed ex assessore di Biella Diego Siragusa in un libro, “La botola sotto il letto”, che poi fu presto ritirato per minacce di querele.
La vicenda inizia nel 1995, quando Guido e sua moglie Daniela si stanno separando tra rancori e recriminazioni. In particolare, Daniela nutre un profondo astio nei confronti della famiglia dell’ex marito. Detesta soprattutto sua suocera Alba e della bella sorella del marito Maria Cristina. A un mese dall’udienza di separazione Daniela porta il loro bambino Angelo, di 9 anni, presso il Servizio di Neuropsichiatria Infantile di Vercelli che a sua volta fa una segnalazione al Tribunale dei minori di Torino. Il bambino accusa suo padre Guido, sua nonna paterna Alba e sua zia paterna Maria Cristina di avere rapporti incestuosi in sua presenza e di abusare di lui oltre che della sua cuginetta Linda, figlia di Maria Cristina. Il Tribunale sospende immediatamente gli incontri tra Guido e suo figlio Angelo.
Successivamente Daniela presenta una querela dettagliata contro il marito e la sua famiglia in cui racconta fatti raccapriccianti. Da quando ha circa tre anni, a casa dei nonni, Angelo assiste a scene di sesso esplicito e incestuoso: Maria Cristina lecca il pisellone al fratello Guido in salotto finché lui non le fa pipì sulla mano, sua nonna Alba, 66 anni, fa lo stesso sempre col pisellone di suo figlio Guido ma in camera. Maria Cristina, la piccola Linda e sua nonna Alba leccano tutte insieme Guido e vanno a letto nudi. La nonna nuda chiede a lui, Angelo, di toccarla ma il bambino si rifiuta. Un’altra volta Guido sbatte il pisellone sulla patata della piccola Linda oppure Guido lecca il deretano della madre anziana o suo padre prova a infilargli nel sederino il suo pisello ma lui scappa e gli altri dicono “Devi farlo!” Ti prego!”. Insomma, Sodoma. Un famiglia di persone apparentemente rispettabili, nasconde un simile orrore. La bambina viene prelevata mentre è a scuola e tolta alla madre per finire in un centro per minori, il pm Alessandro Chionna della procura di Biella dà il via alle indagini con perquisizioni a tappeto a casa di nonna Alba e nonno Attilio (che non è ancora stato accusato) e di Maria Cristina. Cercano materiale pornografico, videocassette, prove degli abusi. Non trovano nulla. La nonna non ha neppure un videoregistratore.
Il 3 giugno Alessandro Chionna li fa arrestare tutti e tre con tanto di sirene e manette con un’accusa precisa e devastante: abusi sessuali su minori. Breve parentesi: il pm Chionna fu anche il grande accusatore di Gigi Sabani e Valerio Merola nel famoso caso “Varietopoli” che portò all’arresto di Gigi Sabani nel 1996, proprio dopo due settimane dal suicidio della famiglia Ferraro, con le accuse di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione. Lo aveva accusato una minorenne. Chionna fu poi rimosso dall’incarico perché si innamorò della ex fidanzata di Gigi Sabani (con cui poi convolò a nozze), che conobbe durante l’inchiesta (poi archiviata). Gigi Sabani rimase marchiato da questa vicenda e nel 2007 morì di infarto. Tornando a Sagliano, i detenuti vengono interrogati da Chionna e dal Gip Paolo Bernardini. Guido afferma che la sua ex moglie aveva detto spesso che gliel’avrebbe fatta pagare, che era gelosa di sua sorella Maria Cristina, che dal ’94 in poi aveva proibito a nonna Alba e a nonno Attilio di vedere il nipote, convinta che la nonna volesse avvelenare Angelo con lo sciroppo. Nonna Alba dice di aver sempre trattato i nipoti con amore, Maria Cristina conferma l’odio della cognata per lei e la sua famiglia. Nonno Attilio, l’unico rimasto libero, spiega di non avere rapporti sessuali con la moglie da 10 anni, altro che sesso e promiscuità in quella casa.
Il 5 giugno del 1995 Chionna e il maresciallo Santimone interrogano il piccolo accusatore Angelo. Il bambino conferma la versione orgiastica della storia, ma poi, quando gli si fa notare che il racconto è inverosimile, cambia completamente rotta e ritratta tutto. Sarà la prima di una lunga serie di ritrattazioni. “Tutto quello che ho raccontato è frutto della mia fantasia. Io ho voluto in questo modo far andare in prigione mio padre, i miei nonni, mia zia perché hanno trattato male me e mia madre. E’ stata una mia montatura in quanto vedo film in cui fanno porcate”, dice. A quel punto il bambino va via con la madre, ma dopo un po’ i due tornano in Tribunale. Angelo si era solo spaventato, vuole confermare gli abusi, dice la madre. E invece Angelo ribadisce di essersi inventato tutto. Successivamente dirà anche che nella casa degli abusi ci sono botole sotto il letto dei nonni e passaggi segreti. Si è inventato tutto di nuovo. Il 7 giugno il gip Paolo Bernardini ordina la scarcerazione dei tre indagati e in un’ordinanza molto prudente ma rigorosa, afferma che la situazione è poco chiara, che la querelante manifesta ostilità nei confronti della famiglia Ferraro, che ai bambini sono state fatte domande suggestive, che Angelo ha dei disturbi psichici mai approfonditi. Chionna, a questo punto, nomina come consulente tecnico Cristina Roccia del Centro Hansel e Gretel, la stessa che interrogherà alcuni bambini di Massa Finalese (il caso Veleno) un paio d’anni dopo. La consulente deve stabilire se Angelo e Linda sono attendibili. Linda sarà sottoposta a un vero interrogatorio, ma parlerà sempre con amore della mamma e della nonna con cui fa il gioco della principessa e dei gioielli. Nega ogni abuso, piange, le manca sua madre. Angelo, nonostante le proteste dei legali di Guido che non può più vedere suo figlio, invece continua a vivere con Daniela (se fosse stato vero che la madre lo manipolava, poteva continuare a farlo liberamente). Guido invia lettere strazianti al figlio che ormai non vede più da tempo, scrivendogli “Vorrei tanto poterti far avere dei doni ma non so come fare, ho ancora l’uovo di Pasqua che non mi hanno lasciato consegnarti!”.
Il 6 giugno Chionna chiede al consulente tecnico Maria Rosa Giolito (che risulta aver collaborato con Foti di Hansel e Gretel anche nella stesura di un libro, è anche lei coinvolta nelle perizie mediche della vicenda Veleno) di verificare se la bimba abbia subito abusi. “L’imene con bordi sottili è compatibile con la penetrazione di un dito di una persona adulta, non posso escludere né provare la penetrazione col pene”, sarà l’esito. Che in sostanza non vuol dire nulla, tanto più che il perito della difesa parlerà di normale conformazione dell’imene. La visita della Giolito al bambino Angelo darà esito negativo, tuttavia la dottoressa specificherà “I segni ritrovati non sono specifici per abuso sessuale pur essendo compatibili con tale diagnosi, va considerato però che un oggetto delle dimensioni di un dito può essere introdotto nell’ano senza troppo disagio”. Insomma, l’esito è negativo, ma si lascia una finestra aperta. Peccato che in seguito Angelo dirà chiaramente di essere stato penetrato dal padre e che quella perizia lo smentisca. La perizia tecnica di Cristina Roccia, per la cronaca, costerà al tribunale la non modica cifra di 6.417.450 lire. Quando ormai la scadenza delle indagini è imminente Chionna affida una nuova audizione del bambino Angelo a Claudio Foti. Aveva ritrattato troppe volte, l’accusa era molto indebolita. Con Foti accanto, il bambino afferma di aver ritrattato gli abusi perché minacciato dal maresciallo e conferma le violenze. Non solo. Accusa per la prima volta anche suo nonno Attilio e anticipa l’inizio delle violenze a quando aveva un anno (la cuginetta non era neppure nata!). Come potesse ricordarsi di violenze subite a un anno non è chiaro. Non solo. Aggiunge che la cuginetta non ha il coraggio di dire la verità, quindi se dovesse essere risentita lui vorrebbe essere presente, “così la aiuta a parlare”. Chionna chiede il rinvio a giudizio, il gip Bernardini fissa il giudizio immediato, ma estromette le consulenze tecniche-psicologiche affermando che non si limitano a fornire un apporto scientifico, ma esprimono dei giudizi sulla veridicità di quanto affermato dai bambini. Chionna, che senza quelle perizie ha pochi elementi, non si arrende. Chiede al Tribunale un’audizione protetta per i due bambini che, come richiesto da Angelo, saranno sentiti insieme dalla psicologa Paola Piola, già teste dell'accusa.
Alba, Attilio, Maria Cristina e Guido capiscono che se la bambina confermerà le accuse sono spacciati. E così sarà. La mattina del 5 giugno 1996, fuori dal tribunale, la sorella di Alba, Maria Rigolone e gli avvocati della difesa, attendono i Ferraro per un po’, poi allarmati dalla loro assenza chiamano i carabinieri. In casa furono trovati alcuni biglietti di addio. In uno, firmato da tutti e quattro, indirizzato al senatore Claudio Regis che li aveva sempre sostenuti c’era scritto “Violando il codice, dei bambini sono stati ascoltati come pretendeva il pm Chionna, dalla stessa psicologa chiamata dall’accusa come teste che da un anno prepara Angelo a condannare il padre e tutta la sua famiglia. La sentenza che ci aspetta è ovvia, siamo innocenti, non vale la pena continuare ad esistere”. Maria Cristina aveva scritto un’altra lettera in cui si augurava di incontrare di nuovo sua figlia nell’aldilà. Nonna Alba aveva lasciato un biglietto: “Non ho mai fatto porcherie con i figli e i nipoti che adoravo. Ho insegnato loro le cose belle e giuste della vita, chiedo perdono ai miei cari”. E poi quel biglietto sul cruscotto: “Siamo innocenti”. Morirono insieme, respirando monossido, nella Fiat Uno verde di Maria Cristina. Ai funerali parteciparono più di 1000 persone, a Sagliano in tanti credettero alla loro innocenza fino alla fine. La sentenza di improcedibilità mise fine alla vicenda. Chionna disse di aver lavorato con correttezza, Paolo Crepet sentenziò che “il suicidio è un’ammissione di colpa”, il senatore Claudio Regis affermò “Queste persone sono state uccise per un patto scellerato fra procura e tribunale dei minori”. (e per questa dichiarazione fu processato e condannato). “Ora il dolore è solo mio”, dichiarò Daniela, la grande accusatrice, ai giornali. Ma a rimbombare ancora, dopo 23 anni dalla tragedia, sono le parole della psicologa Paola Piola, una delle grandi sostenitrici dell’accusa: “In fondo le vittime sono ancora i bambini. Ora sono anche senza genitori. La vicenda giudiziaria è stata archiviata col decesso degli imputati, e forse è meglio così”. Quattro morti, una verità mai accertata e ombre antiche, che dopo 23 anni, spuntano fuori da una vecchia botola. L’unica che è davvero esistita, in questa orribile vicenda. No, non è stato meglio così.
Foti: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Elisa Sola su Corriere.it. Arrestato il 27 giugno con accuse infamanti — aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi sessuali non esistenti — Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel», da oggi è un uomo libero. Il tribunale del Riesame di Bologna ha accolto l’istanza del suo legale, l’avvocato Girolamo Goffari, revocando la misura dei domiciliari. Secondo i giudici «non vi sono gravi indizi di colpevolezza» per Foti, finito nella bufera di «Angeli e demoni», inchiesta su presunti illeciti nel mondo degli affidi.
Claudio Foti, come ha accolto l’ordinanza del Tribunale del riesame?
«Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato».
Sono queste le prove che hanno convinto i giudici?
«Sì. Se non avessi trovato i video, avrei potuto fare tutte le chiacchiere del mondo, ma sarei ancora agli arresti. Il tribunale ha preso atto del fatto che la mia terapia era basata sul rispetto empatico, che non vi erano elementi di induzione, né una concentrazione forsennata sull’abuso. Sono filmati inequivocabili: smentiscono clamorosamente le testimonianze contro di me, come quella della madre della ragazza, che ha cambiato le carte in tavola. Era stata lei a descrivere una situazione di abusi reiterati».
Al di là del processo, lei come sta?
«Non è facile stare ai domiciliari. Né sopportare la marea di fango. E mi scuso se mi commuovo mentre le parlo. Ma subire un processo mediatico così duro, quando da 30 anni porti avanti in maniera impegnata e sofferta un’attività a favore delle donne e dei bambini, è veramente difficile. Nel processo mediatico non puoi intervenire, né difenderti».
Come ha fatto a resistere, psicologicamente, per 22 giorni?
«Non saprei. Oggi ho fatto fatica ad uscire di casa. Ho fatto ore e ore di pratica meditativa. Il problema non erano tanto gli arresti, ma il senso di ingiustizia di subire il processo mediatico».
Come si spiega che le abbiano contestato accuse così pesanti?
«Ho delle idee, ma devo essere cauto. Un aspetto della “bufala” nei miei confronti, è che mi hanno indagato per aver trattato una paziente come “una cavia”. La verità è che noi avevamo vinto un bando dell’Asl di Reggio Emilia, che prescriveva un’attività di formazione di un gruppo di psicoterapeuti della stessa Asl, i quali avrebbero dovuto assistere alle sedute in una stanza con una videocamera a circuito chiuso. Una modalità che si usa in tutto il mondo. C’era il consenso della madre e di tutti gli interessati. Non so davvero perché tutto ciò sia accaduto. Sono di orientamento buddista, credo che le persone della procura che mi hanno accusato siano state animate dal desiderio di cercare la verità. Ma talvolta, la verità, la si cerca in modo sbagliato. Hanno detto a noi che eravamo verificazionisti, eppure, forse, lo sono stati loro: hanno trasformato in teorema qualcosa che non c’era».
Cosa farà, da oggi?
«Non andrò in vacanza, mi devo riprendere. Ora penseremo a un progetto di riflessione e di ripartenza. C’è un danno di immagine enorme fatto alla persona e all’associazione Hansel e Gretel. I pregiudizi si fossilizzano, sarà difficile uscirne. Ma ripartiremo certamente, prepareremo un documentario. Io scriverò un libro su questo, ho già iniziato. A 68 anni sarà il mio primo romanzo, finora ho pubblicato saggi. Proverò a tradurre cosa ho provato per un dovere di verità nei confronti di chi mi è stato vicino».
L'inchiesta shock Bibbiano. Lo psicologo scarcerato: “Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Federico Cravero il 20 luglio 2019 su La Repubblica. «Su di me c’è lo stereotipo dell’abusologo, quello che vede abusi dappertutto...». Prima di qualunque domanda è Claudio Foti a mettere le mani avanti e a dire quello che i suoi detrattori pensano di lui. Psicoterapeuta, fondatore del centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, alle porte di Torino, per tre settimane è stato agli arresti domiciliari, indagato nell’inchiesta “Angeli e demoni” della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di abusi e di affidi familiari a Bibbiano, in Val d’Enza.
L’accusa di fare il lavaggio del cervello, l’accostamento alla vicenda di “Veleno”, l’arresto... Si aspettava che un giorno la sua attività potesse passare da tutto questo?
«Su di noi è stata gettata un’ondata di fango e di fake news. La semplificazione che è stata fatta è una distorsione grave di un lavoro lungo trent’anni rigorosamente a favore dei bambini e delle donne vittime di violenza: non tutti gli abusi sono inventati».
L’hanno definita un mostro.
«Non abbiamo il controllo su quello che pensano di noi. Capisco che io possa essere scomodo e non pretendo applausi. Ci stiamo riorganizzando, sto già scrivendo un romanzo, ci riprenderemo da questa botta».
Di cosa è stato accusato?
«Ero ai domiciliari con l’accusa infamante di aver condotto una psicoterapia “suggestiva e brutale” su una ragazza, di averla usata “come cavia”, quando invece era stato firmato un consenso informato. Il mio avvocato Girolamo Coffari ha prodotto al Tribunale della libertà 20 ore di sedute videoregistrate e sono stato liberato».
E rispetto alle accuse di lucrare sui presunti abusi?
«Andavo fino a Reggio Emilia per 500 euro a giornata incluse le spese, quando in una qualunque giornata di formazione posso guadagnarne il doppio o il triplo».
Secondo lei cosa ha convinto il giudice che l’ha scarcerata?
«Era tutto nelle immagini, nessuna persona onesta avrebbe potuto dire che ho manipolato il ricordo di quella ragazza. Il mio metodo è basato sull’ascolto empatico dei sentimenti dei pazienti, che mi portano le loro sofferenze».
È il “metodo Foti”?
«Non esiste un “metodo Foti”, c’è una vasta area della psicoterapia che ha questo approccio. Naturalmente nella comunità scientifica c’è conflitto e sono stato accusato, soprattutto dagli psicologi forensi, di costruire falsi ricordi di abusi in modo aprioristico».
Invece?
«Invece il mio lavoro è solo finalizzato alla guarigione dei pazienti. Con una premessa, però. Le statistiche dicono che una bambina su cinque è abusata sessualmente prima dei 18 anni».
Così tanti casi?
«Gli abusi nell’infanzia sono un fenomeno sottostimato. La società è turbata, non lo accetta e preferisce non vederlo. È la stessa ragione per cui chi toglie i bambini ai genitori viene attaccato, dalla società e anche da alcuni partiti, in nome del valore della famiglia e si giudica un business quello delle comunità. Se i genitori hanno delle carenze vanno aiutati, ma a volte non si può e allora bisogna togliere i figli».
Non può accadere che il lavoro “clinico” degli psicoterapeuti diventi decisivo in un processo?
Certamente bisogna fare attenzione al rischio di false accuse, specie nelle separazioni, ma il nostro compito è di far emergere i “falsi negativi”, ovvero quei casi i cui i bambini non riescono a dare voce ad abusi davvero subiti e non li esternano. Se poi i magistrati abdicano al loro ruolo e si fanno suggestionare dagli psicologi, non è un problema mio. Ma di solito il quadro probatorio vede anche relazioni dei servizi sociali, delle maestre... L’importante è che ogni caso vada visto a sé, senza ideologie. Noi non siamo forcaioli, tant’è che abbiamo anche progetti di rieducazione dei sex offenders».
Ecco i verbali che inguaiano l'"uomo nero" di Bibbiano. Foti indagato anche per maltrattamenti familiari Lo sfogo della moglie: «Poi parli di tutela dei minori...» Nino Materi, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. Da un uomo che ha potere di «vita e di morte» su genitori e figli (nel senso che può decidere di togliere bambini alle famiglia in base a presunte «inadeguatezze genitorali»), ti aspetteresti che sia una persona competente, obiettiva ed equilibrata. E invece si scopre che Claudio Foti - il controverso psicoterapeuta della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell'inchiesta sugli affidi illeciti a Bibbiano - è indagato anche per «maltrattamenti familiari». Il professionista che avrebbe dovuto combattere i maltrattamenti, sarebbe a sua volta un maltrattatore. Per il gip Foti è «portatore di una personalità violenta e impositiva». Vi fidereste di uno così? Accettereste di buon grado una sua sentenza da Foti che ha fatto per anni il giudice onorario al Tribunale dei minori di Bologna? Magari una sentenza che ordina che vostro figlio venga affidata a coppia gay? È quanto è accaduto a tante famiglie cui il «sistema Foti» ha scippato i bimbi con false accuse di pedofilia. Nelle intercettazioni si sente la moglie di Foti descrivere gli atteggiamenti violenti del marito nei riguardi suoi e dei figli. Si fa riferimento a «piatti rotti», ad «aggressioni verbali» e, addirittura, a «pavimenti sporcati con escrementi di cane». Foti smentisce tutto: «Mia moglie non mi ha mai denunciato. È stato solo un momento di nervosismo. Mai alzato un dito contro nessuno. Ci siamo subito chiariti, ora i rapporti sono ottimali». In caso contrario ci troveremmo dinanzi a uno psicoterapeuta che - più che curare le menti altrui - avrebbe bisogno di dare una regolata alla propria testa. A rendersene conto è la stessa moglie di Foti: quella Nadia Bolognini, anch'essa psicoterapeuta e coinvolta fino al collo in «Angeli e demoni». Dinanzi agli attacchi d'ira del marito, la Bolognini commenta: «E poi andiamo a fare i convegni sulla tutela dei minori...». Le nuove accuse sono emerse «attraverso le intercettazioni effettuate nelle indagini per altri reati». Oggetto di esame, le conversazioni con la moglie, anche lei indagata e finita ai domiciliari: misura che doveva essere estesa a Foti, ma nei giorni scorsi la decisione è stata revocata dal Riesame e sostituita con obbligo di dimora a Pinerolo. Un'attenuazione della posizione che ha permesso a Foti di accreditarsi come vittima di una «vergognosa gogna mediatica». Sulle responsabilità penali sue e degli altri indagati deciderà la magistratura. Ma, sotto il profilo morale, le distorsioni già appaiono evidenti. Trasmissioni tv come Matrix e Quarta Repubblica le hanno denunciate in maniera circostanziata, documentando affarismi e zone d'ombra dei servizi sociali. Un grumo di ideologie Lgbt, conflitti di interessi e commistioni politiche che il Pd vorrebbe far passare per «strumentalizzazioni».
«Non sono un mostro, ho solo cercato di riavvicinare i ragazzi alle loro madri». Simona Musco il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. Intervista allo psicoterapeuta Claudio Foti, presidente della “Hansel&Gretel”. Nuova indagine sul professionista: ora è accusato di maltrattamenti sulla moglie e i figli
«Non sono un mostro». L’ultima novità dell’inchiesta “Angeli e Demoni” Claudio Foti l’apprende poco prima dell’intervista, dal tg. «Dicono che sono indagato per maltrattamenti su mia moglie», dice confuso. Tutto riconduce ad un’intercettazione, che il gip utilizza in ordinanza per descrivere la personalità dello psicoterapeuta direttore della onlus torinese “Hansel& Gretel”, coinvolta nell’inchiesta di Reggio Emilia. Ovvero «violenta e impositiva», afferma il giudice, analizzando quella telefonata in cui la donna – anche lei ai domiciliari nell’ambito della stessa inchiesta – si sfogava con delle amiche. Ma lui si difende, respinge le accuse, e si dice certo di dimostrare la sua innocenza. Con la storia degli affidi non c’entra nulla, giura, mentre quelle con la moglie erano le liti di una coppia in via di separazione. E la verità, secondo Foti, che dal 18 luglio ha il solo obbligo di dimora a Pinerolo, è una sola: «ho costruito la mia rispettabilità con 30 anni di carriera. Ma a qualcuno, forse, non sta bene. E questa nuova indagine è forse la risposta alla mia scarcerazione».
Cos’è questa storia dei maltrattamenti?
«L’ho sentita al tg. Mia moglie, parlando con un’amica, si lamentava del fatto che io trattassi male lei e i bambini. Parlava di un episodio in cui avevo rotto dei piatti. Ci stiamo separando, con qualche conflittualità, e lo facciamo usiamo termini diversi dagli insulti, ma più vicini al nostro mondo. Ma questa lite è stata spettacolarizzata. Si usa tutto, anche un normale conflitto coniugale, per distruggermi. Conosco mia moglie, sono sicuro che tutto questo finirà nel nulla».
Sua moglie ha sporto mai denuncia contro di lei?
«Assolutamente no. È stata la procura di Reggio Emilia a inviare gli atti, per competenza, alla procura di Torino. Ed è lei stessa ad ammettere pacificamente che entrambi abbiamo fatto degli errori nella nostra storia. Io mi sento attaccato, la leggo come una risposta al fatto che il Tdl abbia annullato il capo di imputazione più infamante».
Ovvero l’accusa di aver manipolato una minorenne…
«Non c’è manipolazione alcuna. La madre stessa, che in sede di sit di- ce che la figlia stava benissimo, nella prima seduta con me aveva parlato di un triplice abuso e aveva descritto in modo estremamente preciso le sofferenze che la ragazza provava prima della psicoterapia, sofferenze che io ho cercato di curare. Le registrazioni dimostrano anche i miglioramenti, seduta dopo seduta. Con quei nastri ho dimostrato che non c’è stata alcuna manipolazione».
E la frode processuale?
«Io non ho mai sentito parlare di alcun processo e in quelle registrazioni non c’è un solo accenno a procedimenti civili o penali. Io lavoro sul paziente e sui suoi problemi. E non sono mai stato chiamato a testimoniare da qualche parte».
La procura contesta le accuse sulla base di una seduta, dalla quale emergerebbe una manipolazione. Come spiega quel nastro?
«Il reato sarebbe stato compiuto tra il 2016 e il 2017, io ho portato 15 registrazioni del 2016. Rispetto al periodo in cui avrei commesso il reato non ci sono elementi di prova: gli investigatori Si sono basati su quell’unica seduta registrata nel 2018 ed è chiaro il metodo di lavoro si desume dal complesso della terapia. Io ho lavorato sul materiale che mi hanno portato la madre e la paziente. I video sono stati un colpo di fortuna per me».
Eppure, nonostante anche il Riesame abbia negato la gravità indiziaria, l’opinione pubblica è ancora contro di lei.
«Perché c’è molta confusione. Sono accusato, nel processo mediatico, di aver organizzato un giro di affidamenti retribuiti. Ma io sono uno psicoterapeuta, sono esterno al servizio pubblico, non mi occupo di affidamenti. Mi imputano qualcosa che non appartiene al mio ruolo. E non potevo incidere in quelle scelte, perché non competono me e non me ne viene in tasca nulla».
E perché crede ci sia tutto questo odio preventivo?
«Molti di coloro che mi hanno espresso odio, minacce di morte, cose terribile, vogliono bene ai bambini e sono indignati, giustamente, nei confronti della violenza sui più deboli. Ma hanno un piccolo problema: hanno già fatto il processo e si è concluso con la condanna a morte. Io dico a queste persone che il processo non si è ancora celebrato e dimostreremo che abbiamo curato correttamente dei bambini sessualmente abusati, su cui c’era una diagnosi di trauma sessuale precedente all’inizio della terapia».
Cioè?
«Una diagnosi psicosociale, fatta da psicologi, assistenti sociali ed educatori che avevano già raccolto tanti elementi. Una diagnosi di trauma sessuale non nasce dal fatto che uno è fissato con l’abuso e prende un indicatore avulso dal contesto costruendo, su un sintomo isolato, una diagnosi. Questa è una bufala. Le diagnosi da cui le terapie sono partite – e lo dimostreremo – sono una raccolta di tantissimi elementi, tra cui le dichiarazioni dei bambini, i sintomi delle loro sofferenze, le loro confidenze non solo alla rete degli operatori ma anche, a seconda dei casi, all’insegnante, ai familiari, al genitore affidatario. Dichiarazioni credibili, coerenti e ripetute».
Che idea si è fatto degli altri casi?
«Posso parlare solo dei terapeuti del centro studi Hansel& Gretel, perché conosco solo il loro lavoro. Il loro problema è che non hanno delle videoregistrazioni, perché non lo si può sempre fare. Non è facile mettere i bambini a parlare di abusi davanti ad una telecamera. Ed escludo che la selezione della trascrizione delle sedute corrisponda allo stile di lavoro di questi colleghi, non riconosco quello stile inquisitoriale. C’è sempre empatia e non si fanno mai tre domande di fila. Qualsiasi tipo di trascrizione non rende l’idea di un colloquio in cui circolano emozioni».
Condivide l’allontanamento dei minori dalle famiglie?
«Io lavoro spesso e volentieri mettendo madre e figlia insieme. Sono estreme e penosissime le occasioni in cui consiglio di stravolgere il nucleo familiare, la più straordinaria risorsa formativa. L’allontanamento è una situazione estrema».
Lei è accusato anche di concorso in abuso d’ufficio.
«Da 30 anni, con il centro studio, lavoriamo con l’ente pubblico e non ci siamo mai occupati di come lo stesso definisse le modalità di affidamento. Diamo per scontato che lo faccia seguendo le regole. Si parla di ingenti somme guadagnate tramite questi incarichi: si tratta di 135 euro a seduta che è la cifra che io, che ho 30 anni di esperienza, prendo a Torino, senza alcuno spostamento. In questo dovevo andare a Reggio Emilia, per 600 euro massimo a giornata, per due giornate al mese. Beh, in altre zone d’Italia mi pagano il doppio o il triplo e ci mettono anche il rimborso spese».
Com’è stato il giorno dell’arresto?
«Mi trovavo in vacanza, sulla Costiera Amalfitana. Non ho capito niente per un giorno o due, non mi sono reso conto di cosa si stava scatenando contro di me e contro il centro studi».
Per molti questo caso rappresenta una conferma dell’inchiesta “Veleno”, di Pablo Trincia.
«Con quella storia io non c’entro nulla, non ero presente in quella vicenda 20 anni fa. L’unica contestazione è che ho fatto una lettera aperta, firmata da 410 persone, contro quella ricostruzione. Non credo si possa contestare la libertà di pensiero. E devo dire che quell’inchiesta non rende giustizia alla vittime, che continuano ad essere fedeli e coerenti alle dichiarazioni che allora vennero prese sul serio dai giudici e in base a cui, con tre gradi di giudizio, si pervenne ad una sentenza di condanna. C’è un comitato di vittime, di cui Trincia non si è occupato, e continuano a ricordare i traumi subiti. Vittime che non hanno mai chiesto dei loro genitori naturali e non sono andati ai loro funerali».
Bibbiano, Laura Pausini si schiera: «Sono piena di rabbia nei miei pugni». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Corriere.it. «Ho appena letto un articolo sulla storia dei Bimbi di Bibbiano. Sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni, mi sento incazzata fragile impotente». Inizia così il lungo post di Laura Pausini su Facebook, che schiera la sua popolarità su una vicenda non ancora chiarita. «Ho deciso di cercare questa storia perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati. Tutta Italia». La cantante si chiede cosa si può fare e come si possa aiutare perché il caso abbia l’eco che merita: « Per chi non sa ancora di cosa parlo scrivete Bibbiano su Google e leggete. E poi scrivete su questi maledetti social che usiamo solo per le cavolate, cosa pensate di queste persone che strappano i figli alle loro famiglie. Non parlo di politica, parlo di umanità, di rispetto, di diritto alla Vita… ecco, se avete letto, ditemi sinceramente … voi non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati? Non sentite la voglia di urlare? Non sentite la voglia di punire queste persone in maniera molto dura? Scusate lo sfogo ma a me manca il fiato pensando a questi bambini e alle loro famiglie che sono stati torturati psicologicamente per sempre. Se avete un figlio pensate che improvvisamente una persona della quale per altro potreste anche fidarvi, fa un lavoro psicologico tanto grave da portarveli via e affidarli ad altre persone. Come si rimedia adesso nella testa e nei cuori e nell’anima di queste persone? Ma vogliamo fare qualcosa?».
Il legale di Foti: «Non è un mostro, ma la gente è rabbiosa e cerca teste da tagliare». Secondo Girolamo Coffari, l’indagine è zeppa di sviste ed errori grossolani: «si parla perfino di elettroshock ma quel macchinario si trova su internet e gli psicologi lo usano da sempre…» Simona Musco il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Claudio Foti non avrebbe manipolato nessuna minore, convincendola di aver subito abusi che, in realtà, non ci sarebbero stati. Una convinzione che il giudice del Riesame ha maturato guardando i nastri di 15 sedute di psicoterapia, che dimostrerebbero l’inconsistenza di teorie sul lavaggio del cervello. Un dato che emerge dalla decisione di annullare gli arresti domiciliari dello psicoterapeuta 68enne, direttore scientifico della onlus “Hansel e Gretel”, da giovedì di nuovo libero, anche se con obbligo di dimora a Pinerolo, dove risiede. E che oggi fa dire all’avvocato Girolamo Andrea Coffari che dietro l’indagine “Angeli e Demoni” ci sono «errori grossolani» e polveroni. L’inchiesta, 23 giorni fa, aveva fatto scalpore, come un film horror fatto di plagi, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per sottrarre bambini a famiglie innocenti col solo scopo di guadagnare col sistema degli affidi. Un’indagine che riguarda 27 persone e conta 101 capi d’accusa, due soli dei quali contestati a Foti. Ma nonostante la sua posizione sia marginale, forse per la sua fama o forse per via di quei vecchi casi raccontati dall’inchiesta giornalistica di Pablo Trincia, dal titolo “Veleno” ( «una mera tesi giornalistica contestata anche dall’Anm», dice Coffari),- Foti è diventato il centro di tutto. E vittima predesignata dell’ennesimo processo mediatico, sfogatoio di una rabbia sociale cieca e superficiale.
LE ACCUSE. Sono due le contestazioni mosse a Foti. La più grave è quella di frode processuale, per aver «alterato lo stato psicologico ed emotivo di una minore». Una ragazza usata come «cavia» nell’ambito di un corso di formazione, con una psicoterapia dalle modalità «suggestive e suggerenti», che l’avrebbero convinta di aver subito abusi da parte del padre. E poi un concorso in abuso d’ufficio, perché il servizio di psicoterapia dell’Unione Comune della Val d’Enza, è finito in mano, in via esclusiva, alla sua coop senza alcun bando pubblico. Ma per il giudice del Riesame, sull’accusa più infamante non sussistono i gravi indizi di colpevolezza, mentre rimane solo l’abuso d’ufficio. Che, dice Coffari, «è una sciocchezza».
IL «MOSTRO». Nel caso di Bibbiano, dice l’avvocato al Dubbio, Foti ha una posizione marginale, fin dall’inizio. Lo è nel caso dell’abuso d’ufficio, dove si contesta ad un privato cittadino di non aver controllato «se l’amministrazione pubblica abbia osservato le regole amministrative». E quindi va subito a quell’accusa che vorrebbe Foti come un demiurgo di ricordi ossessionato dalle violenze sessuali come ragione di ogni disagio. A sostegno della tesi «due pagine di sommarie informazioni rilasciate dalla ragazza, che non dicono granché – afferma Coffari – e, soprattutto, un’intercettazione ambientale del 2018». Si tratta del corso di formazione e di frasi estrapolate da una seduta, nella quale Foti parte dal presupposto della violenza subita e da lì fa delle domande alla giovane. Come se volesse indottrinarla, per l’accusa. Ma quella non era la prima seduta per i due, bensì la ventesima, ognuna documentata da una registrazione. Precedenti che «non si possono ignorare – dice il legale – Noi abbiamo avuto la fortuna di trovare le videoregistrazioni delle prime 15 sedute, nelle quali si vede la giovane parlare spontaneamente di queste ipotesi di violenza». Foti si sarebbe così limitato a ripetere le stesse parole usate in precedenza dalla ragazza, nel tentativo, sostiene la difesa, di approfondire i suoi ricordi e ricollegarli ad un malessere grave da lei stessa lamentato.
LA «CAVIA». Per i pm la sua presenza al centro di una sala, con altri psicoterapeuti ad ascoltarla nascosti da un vetro, sarebbe stata una sorta di esperimento da laboratorio e lei un oggetto da vivisezionare. Il contesto è un corso di formazione per psicoterapeuti bandito dall’Asl, con lo scopo di formare una equipe di esperti in traumi, attraverso «il trattamento di un caso specifico». Una «prassi in tutta la psicologia clinica sistemico- relazionale dell’occidente», dice Coffari, che è anche presidente del “Movimento infanzia”.
IL PROCESSO MEDIATICO. Foti diventa il modello ideale di un orrore da buttare subito sul palcoscenico, senza garanzie, senza contraddittorio. Le carte lo descrivono come un uomo dalla personalità «brutale, violenta e impositiva», arrivando ad ipotizzare maltrattamenti sulla moglie, la ex compagna e i figli. «Questo sulla base di una telefonata in cui litiga con la moglie, anche lei psicologa che tratta maltrattamenti e abusi all’infanzia da una vita». Insomma, anziché urlarsi parolacce, i due si danno dei “maltrattanti”. «E questo basta». Perché a carico di Foti non c’è alcuna denuncia per maltrattamenti. E allora com’è diventato il mostro di Bibbiano? «Fa comodo, in un periodo in cui si cercano ghigliottine, teste da ghigliottinare», dice Coffari. Perché c’è «un clima da un prefascismo, un senso di rabbia che si deve sfogare istintivamente su dei capri espiatori».
«CONFUSIONE ED ERRORI». L’indagine, conclude Coffari, magari non è tutta da buttare e, forse, è riuscita a svelare qualche orrore. Ma gli errori, afferma, non si possono ignorare. Come quando si parla di elettroshock, «mentre si ha a che fare con un macchinario acquistabile su Amazon, usato normalmente dagli psicologi». O dell’Emdr, approccio psicoterapico riconosciuto dall’organizzazione mondiale della sanità, «trattato come una specie di sabba delle streghe». Insomma, «la mia impressione è che sia stato fatto più di un errore. E con Foti ho avuto ragione».
Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.
Bibbiano, l’indagine si allarga: ricontrollati oltre 70 casi. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Settanta fascicoli ricontrollati dai giudici del Tribunale dei minori di Bologna. Accertamenti non soltanto sui sei casi, finiti nell’inchiesta dei carabinieri, dei finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili sino a 1.300 euro) ad altre coppie giudicate più adatte. L’elenco comprende tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali — con sei Comuni, tra cui Bibbiano, sede del presidio più importante, quello della struttura «La Cura» — e approdati sui tavoli delle toghe minorili. A ordinare la verifica è stato il presidente del Tribunale Giuseppe Spadaro che aveva da tempo informato la Procura di Reggio sui sospetti relativi alle tante denunce in Val d’Enza per maltrattamenti in famiglia: ma poi, senza riscontri, fioccavano le richieste di archiviazione. Il meccanismo per togliere i bambini era però già avviato con il corollario — per l’accusa — delle relazioni false per screditare i genitori «inaffidabili», i condizionamenti degli psicoterapeuti sui minori. E le modifiche ai disegni dei piccoli. Uno mostra un uomo che accarezza una bimba: ma poi si è scoperto che erano state aggiunte delle lunghe braccia. Già il primo fascicolo rivisto dallo staff di Spadaro contiene pesanti «anomalie e omissioni». In una dichiarazione di abbandono, dove i genitori naturali erano autori di violenze, il servizio non avrebbe comunicato al tribunale di avere individuato la nuova coppia affidataria. Questo contravvenendo alla sentenza che prevedeva invece un tassativo iter «concertato con i giudici». L’inchiesta — che terminerà il 26 settembre, poi si valuteranno le richieste di rinvio a giudizio — intanto prosegue: gli indagati sono saliti a 29. Tre sono sindaci o ex sindaci: uno è quello di Bibbiano Andrea Carletti. Sospeso dal prefetto e autosospesosi dal Pd «è ai domiciliari, accusato di abuso d’ufficio e falso: avrebbe assegnato dei locali a una onlus» precisa il suo avvocato Giovanni Tarquini. Sotto inchiesta per abuso d’ufficio ci sono anche gli altri due ex primi cittadini: anche loro Pd, sono Paolo Colli (Montecchio) e Paolo Buran (Cavriago), ex presidente dell’Unione Val d’Enza. Uno degli arrestati tira intanto un sospiro di sollievo. Si tratta di Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e fondatore della onlus «Hansel e Gretel» che collaborava con gli operatori reggiani. Accusato di aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi inesistenti è tornato in libertà dopo che il Riesame ha revocato i domiciliari perché «non vi sono gravi indizi di colpevolezza». Lui ora dice: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati delle sedute. Dimostrano che la mia terapia era basata sul rispetto empatico: se non li avessi trovati sarei ancora agli arresti».
Bibbiano, bimba buttata fuori dall’auto e lasciata sotto al temporale: non confessava i finti abusi. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Agostino Gramigna su Corriere.it. L’inchiesta «Angeli e Demoni», con al centro i servizi sociali della Val D’Enza accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti, si arricchisce di nuovo materiale. In nuovi audio, diffusi da un servizio del TgR Emilia-Romagna, si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla di abusi subiti (che di fatto non sarebbero mai avvenuti). «Scendi, io non ti voglio più» — grida la donna, madre affidataria, in un’intercettazione ambientale dei carabinieri. La bambina è stata tolta alla sua famiglia. In un altro audio, la stessa donna sgrida la bimba perché non racconta su un diario di abusi subiti in passato: «Tu non ci scrivi perché c’hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino». Anche in questo caso gli abusi non ci sarebbero mai stati, almeno stando agli elementi emersi dall’inchiesta. Sempre il TgR Emilia-Romagna aveva mandato in onda una delle intercettazioni ambientali raccolte nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in cui si sentono una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl reggiana, indagate, conversare tra loro. In un passaggio si sente: «Comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai...». Parole seguite da una risata. Nella conversazione le due professioniste si riferivano a un maresciallo dei carabinieri che aveva chiesto loro documenti sugli affidi di Bibbiano. Audio che aveva suscitato il commento via tweet del ministro Matteo Salvini: «Pazzesco, due dottoresse del sistema Bibbiano ridacchiano tra loro minacciando i carabinieri impegnati nelle indagini sugli affidi... Che vergogna, che schifo!». Salvini, in un secondo tweet, aveva poi aggiunto: «Spero che non ci si fermi di fronte a nulla: i delinquenti colpevoli di queste mostruosità devono pagare tutto!».
Affidi illeciti, madre affidataria intercettata: "Non ti voglio più". E lascia la bambina sotto il temporale. Sgridata perché non voleva ammettere abusi mai accaduti. La Repubblica il 18 agosto 2019. Una bambina che non capisce perché non può più vedere i genitori, martellata di frasi e domande per instillarle dubbi. La stessa bimba sgridata perché non parla di abusi subiti - ma che non sarebbero mai avvenuti - e cacciata per punizione dall'auto dalla madre affidataria mentre fuori c'è un temporale. Il quadro sui presunti affidi illeciti della Val d'Enza, il "caso Bibbiano", descritto dall'inchiesta "Angeli e Demoni" della Procura di Reggio Emilia si arricchisce di nuovi dettagli: gli audio delle intercettazioni di alcuni indagati. Dopo le due professioniste che ridono di un maresciallo dei carabinieri, ora ci sono gli aspri rimproveri di questa madre affidataria a una bimba tolta alla sua famiglia naturale. Con tanto di punizione sotto la pioggia. "Scendi, non ti voglio più. Io non ti voglio più, scendi, scendi!", così grida la donna, indagata dalla Procura reggiana, in un'intercettazione ambientale mandata in onda dal TgR Emilia-Romagna in un servizio di Luca Ponzi. La testimonianza audio amplifica la drammaticità di un episodio che era già emerso dalle carte dell'inchiesta. I giudici descrivono una bambina oggetto di vessazioni psicologiche del tutto gratuite, dettate dall'esigenza di denigrare i genitori naturali. La piccola viene sbattuta fuori dall'auto in una giornata di pioggia del 20 novembre, come punizione per il fatto che non voleva ammettere di 'pensare' quello che la madre affidataria riteneva che Anna (nome di fantasia della bimba, ndr), stesse "pensando". La donna intima alla bambina di rivelare il male fattole dai genitori naturali. "Pensi che? - dice - Anna pensa che??? (urlando sempre di più, ndr) Daii! Quando mi vedi davanti al telefono Anna pensa che??? Dai dillo!!!" La bimba dice che non riesce a parlare con la donna e che ritiene di avere ragione. A questo punto l'affidataria ferma la macchina e urla "Porca puttana... porca puttana vai da sola a piedi... porca puttana! Scendi! Scendi! Non ti voglio più". Si sente aprire lo sportello e si sente lo scrosciare della pioggia. La donna continua: "Io non ti voglio più, scendi!". La bimba appare impaurita e dice con voce tremolante: "Perché..." C'è poi un altro audio mandato in onda oggi. È la stessa donna che parla alla medesima bambina, ma stavolta le rimprovera di non mettere nero su bianco su un quaderno gli abusi che avrebbe subito in passato: "Tu non ci scrivi - dice - perché c'hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino". E dagli atti la conversazione prosegue, sempre urlando: "Anziché dire... io sono così perché mi è successo questo! Piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!". "Anziché dire sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male no... sono Michela e Andrea (nomi di fantasia della coppia affidataria, ndr) che mi sgridano... troppo comodo". Abusi che però, stando all'inchiesta, la piccola non avrebbe in realtà mai subito. La bambina è infatti protagonista di un altro dialogo intercettato e citato nell'ordinanza per spiegare come i bambini venissero di fatto plagiati, in modo da formare false relazioni. "Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere", diceva la bambina nell'ottobre 2018. "Ma non ti ricordi che hai detto che (tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo", risponde una psicologa, indagata. Ma la bambina: "Non ho detto questo". "Sì, hai detto che non volevi vederlo perché avevi paura che ti facesse del male", le rispondeva l'affidataria. L'inchiesta ha portato a fine giugno a 18 misure cautelari e si è concentrata su 6-7 casi e alcune figure chiave. Uno scandalo diventato terreno di scontro politico perché tra gli indagati, ora ai domiciliari, c'è anche il sindaco Pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d'ufficio e falso ideologico. Il leader della Lega Matteo Salvini oggi torna a gridare "vergogna", "sono dei mostri, non esseri umani. Per loro tanta galera e nessuna pietà". Il Movimento 5 Stelle, in una fase politica di equilibri sul filo del rasoio, però lo incalza e gli chiede con quale "coraggio" parli, sostenendo che con la scelta di provocare la crisi ha "mandato in fumo le speranze delle vittime di questo sistema illecito". Il riferimento è alla task force per il monitoraggio nazionale sugli affidi avviata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e ora "bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento".
Bibbiano, intercettate due psichiatre: "Anche il maresciallo ha figli, non si sa mai..." Nella conversazione la minaccia al carabiniere che aveva chiesto i documenti sugli affidi. Costanza Tosi, Sabato 17/08/2019 su Il Giornale. Non bastavano le minacce ai genitori dei bambini in affido. Gli assistenti sociali della Val d'Enza avrebbero addirittura pensato di intimidire pure i carabinieri. È quanto emerge da alcune intercettazioni - rese note dal Tg3 Emilia-Romagna - che aggiungono dettagli sempre più inquietanti al caso Bibbiano e che fanno pensare che i “demoni” degli affidi illeciti sapessero i rischi che stavano correndo e, pur di scamparla, fossero pronti a tutto. A parlare sono due neuropsichiatre. Durante la conversazione al telefono in cui discutono di un maresciallo dei carabinieri che si era rivolto a loro per richiedere alcuni documenti sugli affidi di Bibbiano, ad un certo punto, una delle due dottoresse esordisce dicendo “…E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c'ha figli, cioè non si sa mai…”. Poi una risata, probabilmente di risposta, da parte della collega. Un’intimidazione, una minaccia velata, persino nei confronti di un pubblico ufficiale. E perché proprio dopo la richiesta delle prove sugli affidi? Forse tutti sapevano l’illeicità di quello che stavano compiendo e nonostante avessero capito di essere finiti nell’occhio del ciclone perseveravano nell’errore, cercando persino di sviare le indagini. Dopo tutto non stupisce che questo fosse il modus operandi degli indagati. Lo avevano già fatto anche nei confronti di due genitori affidatari. Quando i carabinieri li chiamarono a consegnare le ricevute dei pagamenti inerenti all’affido, i due avvertirono del fatto gli assistenti sociali, che iniziarono a sommergerli di raccomandazioni. “Mi raccomando se fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordinava l’assistente sociale riferendosi al colloquio con gli ufficiali - soprattutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ancora una volta, dalle intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura, gli psicologi appaiono preoccupati per le indagini e cercano, ad ogni costo, di sviare i controlli. “Menomale che me lo avete detto va… - diceva, sollevato, l’assistente sociale ai genitori - “ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Al momento per le due neuropsichiatre non è stato contestato il reato di minacce a pubblico ufficiale, sebbene, secondo gli inquirenti, vi fossero i presupposti. Intanto le indagini continuano, e non è escluso che possa aggiungersi alle ipotesi di reato a seguito di ulteriori approfondimenti.
Business o solidarietà? Le anomalie del sistema affidi del Lazio. Letizia Giorgianni 18 Agosto 2019 su lavocedelpatriota.it. La storia che stiamo per raccontarvi non parla solo di una mamma a cui è stata portata via, senza apparente motivo, la sua unica figlia, ma suggerisce anche l’inquietante ipotesi di un conflitto di interessi nella gestione dell’affido. Non siamo a Bibbiano ma nel Lazio. La mamma, antropologo medico, seguita dall’avvocato Fernando Ciurlia, ci racconta che sua figlia da ben sette mesi, vive in casa famiglia senza motivo alcuno, tanto che presenta un esposto contro i servizi sociali, ai loro ordini regionali e nazionali che infatti aprono un’indagine di controllo. Ci racconta che, dopo la conclusione del suo matrimonio, i servizi sociali hanno permesso, non opponendosi, che sua figlia vivesse in totale stato di abbandono per oltre un anno presso il domicilio paterno, ignorando tra l’altro il decreto di un tribunale che riteneva il padre non “all’altezza del compito genitoriale”. In un anno la ragazzina, senza la vigilanza attenta del padre, diventa irriconoscibile: si infligge lesioni per ben tre volte (taglio di un polso e ustioni); il suo stato psicologico è “devastato” come riferisce la terapeuta consultata dalla madre (atteggiamenti autistici, psicosi, alienazione dalla realtà, aggressività incontrollata) arrivando persino a rifiutare ogni contatto con la mamma, che pur ha sempre provveduto attentamente a lei, come possiamo anche dedurre dal fascicolo dell’intera vicenda. “Mia figlia era una ragazzina sana e felice prima che il padre me la portasse via. Del resto lui l’aveva già abbandonata per 4 anni per il suo rancore nei miei confronti poiché scelsi di chiudere la mia relazione con lui. Di questo rancore e delle sue intenzioni, che ha persino ammesso dinanzi ai servizi sociali e agli psicologi, ne sono informati tutti, eppure gli assistenti sociali hanno permesso che mia figlia si trasferisse da lui. I tribunali sono lentissimi quando non assenti: emettono decreti che poi mancano di far rispettare o emessi in totale assenza di informazioni poiché mai relazionate, senza leggere le relazioni esistenti, senza mai ascoltare la minore o i genitori; senza vagliare le prove, o basandosi su relazioni assolutamente false.” La ragazzina adesso vive nella casa Famiglia Borgo Don Bosco, a Roma, dove lei stessa avrebbe deciso di rimanere. Stiamo parlando di una bambina che ha subito il trauma della separazione dei genitori, e che, come capita a molti minori in frangenti del genere, si è chiusa in se stessa, probabilmente accusando i propri genitori, in particolar modo la mamma, della conclusione della convivenza. Ma davvero pensiamo che una bambina di appena 14 anni, possa comprendere lucidamente e metabolizzare la fine della relazione dei genitori? e quindi decidere da sola su cosa sia più giusto per lei? Tra l’altro la madre riferisce che nel periodo in cui viene affidata alla tutela del padre, a causa del disinteresse di quest’ultimo, avrebbe goduto di una libertà eccessiva per la sua età, che l’avrebbe portata, tra l’altro, ad episodi e situazioni che non si addicono ad una ragazzina. Ovvio che tornare a vivere con la mamma avrebbe interrotto quella condotta “senza nessuna limitazione”. Ci immagineremo che il ruolo delle istituzioni fosse quello di gestire con tatto e prudenza questa situazioni delicate, sempre tenendo ben chiaro in mente che crescere in famiglia dovrebbe essere il primo diritto inviolabile per ogni bambino; lo dicono le leggi italiane. E lo Stato, le Regioni ed i Comuni dovrebbero prevenire le cause degli allontanamenti, non favorirli, almeno quando almeno un genitore sia nelle condizioni di occuparsi come si deve del proprio figlio. In questo caso invece, dopo la separazione della coppia, si è prima favorito l’affido al padre, (che un decreto del tribunale aveva dichiarato incapace di prendersi cura della figlia), per poi far decidere una bambina traumatizzata dalla separazione dei genitori, dove vivere. Ma chi sono gli attori di questo allontanamento? Il servizio sociale del Municipio di pertinenza ovviamente: il Municipio V di Roma. Abbiamo quindi raccolto informazioni su questo Municipio. L’assistente sociale che si è occupata della ragazzina, nonchè referente tecnico-amministrativo del Municipio V, partecipa spesso a convegni sull’affidamento organizzati o dove comunque partecipa” Movimento della famiglie affidatarie” una costola dalla quale nasce il Borgo Don Bosco, dove si trova la ragazzina (notizia facilmente riscontrabile anche nel sito internet della casa Famiglia. Di questi intrecci tra servizi sociali e associazioni che si occupano di affidi troviamo tracce anche nel web, dove scopriamo che il Municipio V, anni fa era coinvolto anche nella campagna ” Donare Futuro“, promossa per tutelare il diritto di bambini e ragazzi ad avere una famiglia, il V Municipio per Roma si fa proprio portavoce. Non solo: i servizi sociali del V Municipio, insieme alla casa famiglia Don Bosco e CISMAI hanno realizzato, nel marzo 2019, un nuovo piano per la regolamentazione degli affidi nel Lazio, approvato dalla Regione Lazio. Tra i firmatari come possiamo vedere la costellazione completa di tutte queste associazioni che spesso hanno collegamenti diretti con il Municipio. Sempre in rete possiamo anche scoprire l’entità dei contributi che arrivano dalla Regione: la Regione Lazio (giunta Zingaretti) ha stanziato 9 milioni di euro per la tutela dei minori. In questo modo l’ente disciplina le regole in materia di affidi, conferendo un ruolo primario ai distretti socio-sanitari che abbiamo prima elencato. A noi sembra che ci siano tutte le premesse affinché qualche magistrato decida di approfondire. Anche perchè non sembra essere l’unico caso di affido “sospetto”. Scopriamo di un altro caso simile, di cui si sta occupando l’avvocato Miraglia, in cui il giorno dopo l’emissione del decreto, i servizi sociali del Municipio V di Roma avevano già trovato una casa famiglia in cui alloggiare il ragazzino. Anche qui si tratta di un ragazzino che aveva vissuto la separazione, in questo caso abbastanza conflittuale, dei propri genitori. Ma perché tanta fretta? se lo chiede anche l’avvocato Francesco Miraglia. Che pressioni hanno avuto? “Mi meraviglio di tanta celerità – si legge in una sua dichiarazione – dimostrata in questo caso dal Tribunale dio Roma, dove io stesso ho cause pendenti da tempo per le quali non è stata ancora emessa sentenza”. Non ci meravigliamo quindi se, sempre in rete, troviamo traccia di una protesta promossa proprio dagli assistenti sociali del V Municipio contro una norma che impone agli assistenti sociali di cambiare settore ogni 5 anni, eccolo qua su Redattoresociale.it. Ed ecco subito che loro insorgono: “così si distrugge la relazione, strumento principale della professione!”. Maliziosamente ci domandiamo quali siano veramente le relazioni che rischiano, con questa norma (peraltro giustissima a nostro avviso) di sgretolarsi. Certo che questo V Municipio non è certo un esempio virtuoso, perché già che ci siamo in rete troviamo un altro episodio a dir poco indicativo dell’operato interno: permessi di soggiorno falsi e finti contratti d’affitto, nel V municipio si favoriva persino l’immigrazione clandestina, tanto che a finire nei guai sono state 13 persone. Coinvolti anche impiegati comunali. La notizia risale al 31 luglio scorso. A questo punto.. non sarà il caso di far chiarezza anche sul sistema affidi Lazio? ho come l’impressione che avremo diverse sorprese!
Bibbiano, Colosimo: «S’indaghi anche nel Lazio: serve una commissione d’inchiesta». Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Una commissione d’inchiesta sugli affidi. Anche nel Lazio. La chiede FdI, «alla luce di quanto emerge dall’inchiesta su Bibbiano». A farsi promotrice dell’iniziativa è la consigliera regionale, Chiara Colosimo, che rilancia anche a livello regionale quando già chiesto da Giorgia Melonia livello nazionale, con la richiesta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare.
La politica chiamata a fare la sua parte. «Alla luce di quanto emerge dall’inchiesta Bibbiano sugli arbitri compiuti nelle procedure di affidamento di bambini, come già proposto da Giorgia Meloni a livello parlamentare, ritengo sia indispensabile abbinare al buon lavoro del garante Jacopo Marzetti (Garante per l’Infanzia del Lazio, ndr), un serio intervento dei consiglieri regionali che, nel pieno esercizio delle loro funzioni ispettive, conducano approfondite indagini sull’operato di assistenti sociali, associazioni, operatori e comunità attive nel Lazio», ha spiegato Colosimo, nel giorno in cui le rivelazioni di una assistente sociale “pentita” hanno svelato ulteriori dettagli sul “metodo Bibbiano”.
A tutela dei bambini. «Nelle prossime ore presenterò la mia proposta di legge per chiedere l’istituzione della commissione d’inchiesta, come prevede l’articolo 35 dello statuto della nostra Regione», ha quindi annunciato Colosimo.
Bibbiano, Pd Lazio querela autori blitz circolo dem Ciampino. "Organizzato da Gioventù Nazionale con alcuni esponenti di FdI". Askanews.it Giovedì 8 agosto 2019. “Il Partito democratico del Lazio, come annunciato poche ore l’aggressione, ha depositato presso il comando dei carabinieri di Frascati la denuncia-querela contro gli autori del blitz, organizzato da Gioventù Nazionale col sostegno di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, ai danni del circolo dem di Ciampino”. Lo comunica in una nota l’ufficio stampa del segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre. I fatti risalgono alla notte del 24 luglio scorso quando alcuni esponenti di Gioventù Nazionale attaccarono di notte manifesti sulla sede del Pd di Ciampino con accuse per i fatti di Bibbiano.
Lazio, striscione "Parlateci di Bibbiano" in consiglio regionale: il Pd abbandona l’aula. Alessandro Della Guglia su Ilprimatonazionale.it il 31 Luglio 2019. Durante il consiglio regionale straordinario sulla sanità, subito dopo l’intervento del governatore Nicola Zingaretti, i consiglieri leghisti Laura Corrotti, Daniele Giannini e Orlando Tripodi, hanno esposto uno striscione con scritto “Parlateci di Bibbiano”. Uno striscione identico a quelli comparsi in tutta Italia due settimane fa, ovvero con la P rossa e la D verde. Inequivocabile dunque il riferimento alle iniziali del Partito Democratico. Rimosso quasi subito dai commessi, lo striscione (quando è stato esposto il segretario del Pd non era presente in aula) ha però scatenato una bagarre in consiglio. Il centrosinistra si è infuriato e quando hanno preso la parola i consiglieri della Lega, invece di replicare in qualche modo hanno abbandonato l’aula.
Zingaretti: “Hanno fatto bene ad abbandonare l’aula”. Zingaretti, rientrato pochi minuti dopo, ha difeso con veemenza il gesto dei suoi: “Vorrei mettere agli atti che bene hanno fatto consiglieri a uscire dall’aula, perché hanno denunciato l’impossibilità ad avere confronto quando ci sono pratiche di battaglia politica che ritengo inaccettabili. Io sono il presidente e non mi lascio scalfire da atteggiamenti di questo tipo e rimango – ha detto Zingaretti – ma reputo quanto accaduto gravissimo. Mi vengono in mente delle parole di Hannah Arendt quando denunciava in periodi difficili per le democrazie che non ci si confronta più tra idee diverse, ma si punta a demonizzare chi le idee le esprime. Io sono qui e se avete un canale diretto chiamate il vostro leader Salvini, che è atteso da circa un mese in Parlamento per parlare dei fondi russi: io non ho paura di riferire in Consiglio in quanto presidente di questa istituzione”. Eppure il confronto sul tema in questione a rifiutarlo sembrano essere proprio gli esponenti del Partito Democratico. Alessandro Della Guglia
Bibbiano, domanda di una giornalista a Zingaretti: lui ride e dà la colpa al M5S. Nicola Zingaretti ride del caso Bibbiano. Il M5S pubblica un video in cui il segretario del Pd Nicola Zingaretti scoppia a ridere quando una giornalista gli domanda del caso Bibbiano. Domenico Camodeca (articolo) e Pierluigi C. (video) su Blastingnews il 21 luglio 2019. Il caso Bibbiano - paese della provincia di Reggio Emilia dove alcuni assistenti sociali e politici del Pd sono accusati di aver strappato illegalmente diversi bambini alle loro famiglie per affidarli a coppie di amici - comincia a montare sui mass media. Dopo giorni, settimane forse, in cui i fari mediatici si erano sì accesi sul presunto scandalo dei bambini ‘rubati’, ma senza attirare l’attenzione che sarebbe dovuta, vista la gravità dei fatti, ora le continue denunce, provenienti soprattutto da M5S e Lega, stanno fungendo da detonatore per l’opinione pubblica. Prima è toccato al leader pentastellato, Luigi Di Maio, beccarsi una querela dal Nazareno per aver definito il Pd come il “partito di Bibbiano”. Poi è stata la volta di Matteo Salvini annunciare una sua imminente visita nella cittadina reggiana allo scopo di non lasciare impuniti quelli che considera senza dubbio dei “crimini”. Ora la palla ripassa nel campo del M5S che pubblica un video (guarda qui sotto) sul suo profilo Facebook ufficiale per mostrare la reazione del segretario Dem a una domanda sulla vicenda: lui ride e punta il dito contro i grillini.
Il video del M5S che mostra le risate di Zingaretti su Bibbiano. “Attenzione, ascoltate attentamente come risponde zingaretti alla giornalista sui fatti di Bibbiano. Guardate questo video e fate vedere a tutti la sua reazione vergognosa”. Sono queste le parole mostrate in sovrimpressione dal M5S per presentare il breve video, della durata di soli pochi secondi, che immortala Nicola Zingaretti mentre si abbandona a una reazione scomposta alla richiesta di una giornalista di illustrare la sua posizione sul caso Bibbiano.
M5S PD. “Mi scusi posso farle una domanda?”, chiede l’inviata della testata Prima Pagina a Zingaretti. “Su cosa?”, risponde inizialmente con aria distratta il segretario del Pd. “Bibbiano”, specifica secca la cronista. “Ahahahahah”, il governatore del Lazio esplode in una risata e cerca di divincolarsi per andarsene. Ma la donna insiste. “Segretario, una domanda su Bibbiano. Perché se ne parla così poco?”, lo incalza. “Ne parla in maniera vergognosa il M5S”, si decide allora a rispondere, sempre con un sorriso stampato in faccia, ma puntando il dito contro i rivali politici pentastellati.
Le reazioni social contro il segretario del Pd: Buffone. Una reazione talmente inaspettata e spiazzante, quella messa in scena da Zingaretti sul caso Bibbiano, da indurre il M5S a commentare così quanto appena mostrato sul web: “La sua risatina nervosa e le sue accuse al M5S dicono tutto dell’imbarazzo Pd rispetto alle drammatiche vicende in cui è coinvolto un loro Sindaco”. Insomma, l’inchiesta di Bibbiano starebbe mettendo in forte difficoltà i vertici del Nazareno che cercano quindi di scaricare la responsabilità su chiunque osi accusarli. “Voteranno no alla nostra proposta di Commissione di inchiesta sugli affidi dei minori?”, si chiedono infatti ironicamente i pentastellati. Intanto, però, il web, almeno quello colorato di gialloverde, ha già emesso la sua sentenza. “Buffone - si legge in uno delle migliaia di commenti indignati apparsi a corollario del video - hanno attaccato per mesi il papà di Di Maio per materiali nella sua proprietà. Era l’argomento di tutti i tg. E su questo fatto Zingaretti ride. Vergogna”.
Il delirio dei 5S: anche su Bibbiano accusano Salvini. L’ira della base: «Siete ridicoli». Giovanna Taormina domenica 18 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Adesso accusano Salvini anche dell’orrore di Bibbiano. «Che coraggio, Salvini. E per giunta su un tema delicato e tragico come i presunti affidi illeciti di Bibbiano». L’ultimo delirio dei 5S è comparso sul Blog delle Stelle. Sono così disperati da diventare ridicoli e confondono la politica con le indagini. E vogliono avere anche ragione. In apertura del blog c’è l’articolo dal titolo: “Bibbiano, ora Salvini ha pure il coraggio di parlare». «Peccato però – si legge – che Salvini abbia fatto cadere il governo. Lo stesso leader della Lega che, oggi, si sveglia e twitta parole di denuncia e condanna a carico delle “due dottoresse” che “ridacchiano tra loro minacciando i Carabinieri” e aggiungendo poi “che vergogna, che schifo”».
L’ultima follia dei 5S. Quello che si legge è a dir poco allucinante. «Ma Salvini, che ha fatto cadere il governo in pieno agosto esponendo tutti gli italiani a rischi gravissimi, dove trova la faccia per fare queste uscite? Ormai lo sanno tutti che con il suo gesto irresponsabile ha mandato in fumo anche la speranza delle vittime di questo sistema illecito. Non solo, Salvini ha soprattutto bruciato il prezioso lavoro che la Squadra speciale per la protezione dei minori, istituita dal ministro Bonafede e pienamente operativa, stava già facendo a ritmo serrato». E poi ancora rincarano la dose: «Un’attività di monitoraggio che, sulla base del campanello d’allarme di Bibbiano, avrebbe dovuto fare piena luce su questi sistemi, per evitare il ripetersi – in tutta Italia – di fatti di una gravità inaudita. Un’attività che adesso si è bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento». «Una cosa è certa: il MoVimento 5 Stelle continuerà a battersi in ogni sede per fare giustizia. Per noi la parola data ai cittadini ha un valore sacro. La Lega invece si porterà sulla coscienza l’aver negato una possibilità fondamentale a tutte le famiglie che chiedono giustizia! A Salvini lasciamo i suoi tweet inutili, che servono solo a una dannosa propaganda che gli italiani hanno smascherato e che non ha più senso. Noi invece facciamo i fatti», assicurano i cinquestelle.
I grillini insorgono sul web. I commenti dei grillini in risposta all’articolo sono tutt’altro che lusinghieri. Scrive un utente: «Continuare a insistere e insistere sta diventando patetico e stucchevole. Io, convinto elettore del M5S, mi sto stancando e indispettendo. Ma lo vogliamo proprio battere nel ridicolo? E poi molti articoli ripetono spesso le stesse cose. Ci avete forse presi per “dementi”? Un po’ di pacatezza e silenzio, per favore». E un altro aggiunge: «Demonizzate Salvini e coi demoni di Bibbiano vi preparate a governare, traditori». Profetico un altro grillino: «Se si votasse a ottobre Salvini avrebbe il 40% Voi invece preferite l’inciucio con il Pd. Così facendo si voterà probabilmente l’anno prossimo e Salvini sarà salito nei consensi. Chissà, forse avrebbe anche il 50%. Brutto modo di sparire. Il Pd non è e mai sarà credibile».
Bibbiano, Prodi attacca i media: "Demonizzazione folle di un paese". "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna". Costanza Tosi, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. Del caso Bibbiano sembra che non se ne parli mai abbastanza. Lo scandalo degli affidi illeciti, denunciato dalla Procura di Reggio Emilia, ha scoperchiato un giro di affari che ha distrutto, senza ritegno alcuno, intere famiglie e cambiato la vita a migliaia di bambini. Famiglie, che oggi chiedono giustizia e che sperano che nessuno lasci più cadere il silenzio sul loro dramma. Eppure, per qualcuno, il problema stà altrove. A intervenire su “Angeli e Demoni” ci ha pensato anche Romano Prodi. Il Professore ha rilasciato un intervista all’emittente locale Telereggio, accettando di parlare del caso scoppiato nel reggiano. Per Prodi , il vero problema di tutta questa storia sono i media e il loro atteggiamento. "La demonizzazione che viene fatta di un intero paese appartiene proprio alla follia, soprattutto per un problema come questo che andava ben oltre i confini", ha detto Prodi. "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna. (…) I media che schiacciano con uno slogan, tolgono ogni approfondimento di un problema, al di là di quello che possa decidere un giudice". Eppure, leggendo le carte della Procura di Reggio Emilia, non sembrerebbe che ci sia bisogno dei media per individuare i "demoni" di questa atroce storia. "Il sistema di demonizzare un' intera collettività - continua il Professore - legandola alle radici politiche è un sistema che dovrebbe essere ripudiato in ogni società con senso comune". Insomma, che chi ne parla stia "demonizzando Bibbiano" sembra essere la nuova trovata della sinistra progressista per giustificare il proprio silenzio su Bibbiano. Ci aveva già provato Nicola Zingaretti a travisare la questione attaccando la narrazione sui fatti di Bibbiano. Il leader del Pd aveva puntato il dito contro il governo, che dichiarando di voler tenere accesi i riflettori sul caso del reggiano, secondo lui, "strumentalizza e utilizza" la vicenda. Adesso si cambia musica, e anche il sindaco pd di Reggio Emilia, Luca Vecchi, aderisce al nuovo "slogan": "La demonizzazione di Bibbiano che scaturisce nella narrazione nazionale è barbara e inaccettabile", ha dichiarato alla Gazzetta di Reggio. "Una cosa è accertare responsabilità, violazioni, illeciti o addirittura abusi che se saranno accertati vanno severamente condannati. Altro è demonizzare un' intera comunità". Insomma, se si parla di Bibbiano accennando alla parola Pd è "demonizzazione". Ma trovare un altro modo per raccontare la questione non è cosa facile, dal momento che, non solo il sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, Andrea Carletti è agli arresti domiciliari e altri due sindaci dem, a capo di paesini del reggiano, sono finiti nel registro degli indagati, ma il sistema della Val D’enza, ora finito sotto accusa, è da sempre stato sostenuto dal Partito democratico, in Emilia e non solo. La sinistra portava il modello come esempio da seguire e sponsorizzava il modus operandi del gruppo degli indagati. Intanto a Bibbiano ieri è arrivato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. "Sono avvenuti fatti, che se confermati, sono molto gravi e dobbiamo avere fiducia nella magistratura», ha affermato il ministro. "Ma gli operatori devono poter lavorare serenamente e ai bibbianesi dico che si può ripartire. Si deve ripartire individuando le responsabilità. Non si riparte chiudendo gli occhi", continua Bonafede. Che promette di tenere alta l’attenzione: "Non si metterà una pietra sopra a nulla di quello che è successo perché sarebbe un grave torto ai bambini e alle famiglie che hanno subito quello che hanno subito. Quindi si riparte con gli occhi bene aperti su quello che è successo in passato e su quello che non dovrà più accadere in futuro". Per il Pd invece, parlare ancora delle famiglie vittime del sistema perverso, pare non essere la cosa più importante. A Cavriago con Bonafede era presente anche Graziano Delrio, che ha ben pensato di sfruttare l’occasione per difendendere ancora il sindaco Carletti: "Non è implicato in nessun modo nella violenza sui minori ma è indagato per un abuso d' ufficio. Non vogliamo che sia messo sotto processo un sistema che tende a proteggere i più fragili". In realtà, se i fatti fossero confermati in aula di tribunale, il sistema di Bibbiano i più fragili non li ha mai protetti.
Affidi, la Ferilli dice la sua: "Non esiste un caso Bibbiano". L'attrice "salva" il Partito Democratico e sostiene che non esiterebbe un caso Bibbiano, bensì un caso Foti, in riferimento allo psicologo. Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. "Io non credo che esista un caso Bibbiano", parola di Sabrina Ferilli. L'attrice romana ha commentato l'inchiesta Angeli e Demoni e lo fa con cognizione di causa, avendo da poco trattato la delicata e controversa tematica degli affidi dei minori nella fiction L'amore strappato, una serie che ha raccontato la storia di una bambina allontanata dalla sua famiglia per le false accuse di abusi sessuali della cugina nei confronti del padre. La 55enne, intervistata da Il Fatto Quotidiano, dice: "A Bibbiano bisogna capire chi ha sbagliato e in che termini, ma quello che è accaduto lì è quello che probabilmente è accaduto nella Bassa modenese e in tanti altri centri e tribunali d'Italia. Il problema non è il luogo, ma la metodologia utilizzata da questi psicologi per interrogare i bambini sui presunti abusi". Insomma, l'attrice, semmai, punta il dito contro gli psicologi, come Claudio Foti, psicoterapeuta della onlus torinese Hansel e Gretel coinvolto nell'inchiesta Angeli e Demoni della procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti. Per cui, per la Ferilli, sarebbe più opportuno parlare di "caso Foti". Infine, "salva" il Partito Democratico locale, non riconoscendolo colpevole: "Certo, quella è terra di sinistra, ma quando si parla di Emilia Romagna si parla pure di un territorio dove ci sono asili che funzionano, di metodi educativi che sono d’esempio per il resto del Paese, messi in piedi anche dalla sinistra. Come al solito la sinistra è incapace di prendersi i meriti e capace solo di prendersi gli schizzi di fango [....] Il Pd dovrebbe ricordare tutto quello che la sinistra ha fatto in tema di affidi, reinserimento, istruzione per i bambini e poi dire 'A Bibbiano siamo i primi che vogliono vedere puniti i colpevoli'. Ecco, serviva questo. L’Emilia è all’avanguardia su tante cose, la sinistra è ed è stata al centro di battaglie fondamentali per i diritti dell’infanzia, se ci dimentichiamo pure questo, ci resta solo il Papeete".
Il sindaco di Mantova chiama la polizia contro gli adesivi "Parlateci di Bibbiano". Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene", ha scritto Palazzi sottolineando che il Comune sta "spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città" e, pertanto, "i responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Letizia Giorgianni su 'La Voce del Patriota' fa, però, notare le reazioni polemiche dei concittadini che postano foto di striscioni abusivi esistenti da mesi e mai rimossi. “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, - scrive un utente – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco Palazzi, oggi, si è difeso dagli insulti ricevuti dai social "da diversi attivisti di Casa Pound" e ha respinto le accuse di "doppiopesismo". "Oggi lo Spazio sociale La Boje ha definito la nostra politica fascistizzazione del centro storico, perché abbiamo messo telecamere, più luci, operatori nei parchi e perché sanzioniamo chi imbratta. In sostanza sarei comunista e fascista insieme", ha scritto in un nuovo post su Facebook dove ha rivendicato l'uso delle telecamere per dare sicurezza ai cittadini nei quartieri più degradati. "Vengano nel mio quartiere e parlino con le nonne che da quando ci sono le telecamere e le luci nuove escono più sicure la sera, per andare alla tombola sociale", ha scritto con vena polemica. "Ciò detto ciascuno ha il diritto di manifestare il proprio pensiero, dissenso e anche disobbedienza civile, che in democrazia è assolutamente preziosa, se rispettosa del prossimo e dei valori costituzionali", ha chiosato dichiarando nuovamente guerra agli imbrattatori di destra e di sinistra.
“Parlateci di Bibbiano” e il Sindaco PD chiama la Polizia per qualche adesivo. Letizia Giorgianni su lavocedelpatriota.it il 24 Agosto 2019. La questione affidi illeciti provoca sempre dei gran travasi di bile tra gli esponenti Pd. Appena sentono parlare di Bibbiano partono con le minacce e le querele. L’ultimo a cui è saltata la mosca al naso è il sindaco Pd di Mantova, Mattia Palazzi che ieri, dalla sua pagina Facebook, ha promesso ferro e fuoco a chi ha imbrattato con degli adesivi i cassonetti di Piazza Virgiliana. “Parlateci di Bibbiano” c’è scritto nelle etichette incriminate, e lui tuona nevrastenico, dal suo profilo social: “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi – ha scritto nel post. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene. Stiamo spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città. I responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Solo che nella foto, oltre agli adesivi, compare in primo piano lo scarabocchio di un writer. E allora immaginiamo che, se per l’imbrattamento degli adesivi è stata allertata persino la Digos, probabilmente per il writer armato di bomboletta saranno stati chiamati di sicuro i Ros!! E non siamo gli unici a pensare che quello del “decoro” sia solo un pretesto, dal momento che non tardano ad arrivare alcuni commenti ironici, come quello di chi gli fa notare, postandone la foto, uno striscione affisso abusivamente da mesi su un vecchio edificio, senza che destasse la stessa solerzia nella rimozione. Nel caso specifico lo striscione era anche firmato, quindi, se avesse voluto, il sindaco paladino del decoro urbano, avrebbe saputo anche a chi telefonare! “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, -prosegue il commentatore – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco a quel punto, stizzito, si lancia in spiegazioni sulla differenza tra pubblico e privato, cantilenando che sugli edifici privati nulla puó fare il Comune, ma ormai non convince più nessuno: “Cerchi con le telecamere chi mette gli adesivi perchè sono contro il PD (io personalmente impiegherei gli agenti per cercare altro) e quelli che invece imbrattano firmandosi la passano liscia? boh..” chiosa il commentatore. “Il vero motivo per la sparata e l’indignazione è che gli adesivi sono contro il PD. Capisco che tu essendo di quell’area politica ne prendi le difese. Però se la legge è uguale per tutti vorrei vedere la stessa indignazione per adesivi e striscioni di qualsiasi orientamento politico. Perchè a prescindere dal contenuto, o dalla proprietà pubblica o privata, tutti imbrattano la città. Invece il messaggio che passa è che ci sono adesivi da rimuovere subito e altri che va bene rimangano. E non è un bel messaggio”. Un altro posta la foto di adesivi di “azione antifascista” chiedendo: “Se non è ipocrita, Signor Sindaco, avrà fatto la stessa cosa con queste brutture”. Il sindaco tace.
Servizio Tg1 Rai dell'11 settembre 2019, ore 13,30 di Pasquale Notargiacomo. "Le cose che mi possono dire a me è che ho fatto troppe segnalazioni, hanno ragione. Alcune le ho fatte obbligata…mi sono sentita obbligata nel senso che se non le facevo questa qua mi minacciava di denunce". C’erano le pressioni dei servizi sociali della Val D’enza dietro le segnalazioni fatte dalla ASL di Montecchio sui casi di minori presunti vittime di abusi. Relazioni forzate su violenze che poi si sarebbero rivelate false davanti ai giudici. Lo ammette la psicologa Emelda Bonaretti in una conversazione con una collega: la neuropsichiatra Flaviana Murru finita agli atti del’inchiesta “Angeli e Demoni”. Entrambe sono indagate. Quando i carabinieri la intercettano sanno delle indagini in corso e stanno parlando delle minacce ricevute da Federica Anghinolfi, la potente dirigente dei servizi sociali e dal suo braccio destro Francesco Monopoli. "Io c’ho ancora talmente tanta sofferenza su quella roba lì che io, secondo me, smonto tutta laVal D’Enza, cioè se mi metto a dire quello che penso…se mi chiedono ha subito pressioni? …cazzo se ho subito". Pressioni che riguardavano anche il percorso dei bimbi in affido che dovevano essere seguiti rigorosamente a Bibbiano, dove lavorava il centro “Ansel e Gretel” di Claudio Foti. "Per mandarla a “La Cura”, per mandarla da Foti, lei non ci voleva andare. Io non posso obligarla se lei non ci vuole andare, cosa devoao fare…Obbligala te".
Fuori dal coro, diretta prima puntata con Mario Giordano. Inizia una nuova stagione dell'acceso talk di Rete4 sull'attualità politica. Si parlerà di immigrazione, pensioni, politiche economiche e dell'inchiesta sugli affidi dei minori a Bibbiano. Ospite l'ex Sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Alessandro De Benedictis su maridacaterini.it, Mercoledì, 11 Settembre 2019. Questa sera, alle 21:30 su Rete4, torna ad animarsi lo studio di Fuori dal coro. Mario Giordano lancia la nuova stagione del talk affidandosi ai temi più caldi dell’attualità politica. Spazio al dibattito sulle politiche migratorie e a quello che è stato annunciato dalla redazione come “uno scoop” sul controverso caso degli affidi dei minori a Bibbiano. Con fare esagitato, in apertura Mario Giordano presenta i temi della serata. Si sofferma molto sul caso di Bibbiano, esprimendo il suo grosso turbamento. Ora inizia quello che è stato annunciato come il momento clou della trasmissione, dedicato al presunto scandalo di Bibbiano. Mario Giordano la introduce con un’espressione afflitta, tormentata dal dolore. “Per tutta quest’estate non ho avuto pace”, si sfoga. Non è possibile, dice, strappare i bambini dalle madre e venderli. Non si può attaccare la famiglia per soldi e ideologie, rincara. In studio ci sono Anna e Franco – i nomi sono fittizi – genitori di Camilla (altro nome fittizio), bambina di due anni. La piccola sarebbe stata sottratta alla custodia dei genitori con violenza, durante una visita di finte Guardie Zoofile dell’Ente Nazionale Protezione Animali. Va in onda un video che fa vedere i momenti in cui le finte guardie letteralmente strappano Camilla di genitori. Un video mandato in onda per la prima volta da Chi l’ha visto?, su Rai3. Ma attenzione: sia l’ENPA, sia la Polizia Locale, sia il Servizio Sociale del Comune di Reggio Emilia hanno proclamato la loro estraneità. Contestualmente hanno denunciato la coppia per diffamazione. Al momento, dunque, il video è da trattare con molta cautela. Tuttavia, sia i genitori in studio, sia il loro avvocato confermano che si trattasse di assistenti sociali. Dal quadro accusatorio relativo al caso di Bibbiano, per ora, emerge un sistema collaudato. Attraverso una serie forzature amministrative e psicologiche, decine di bambini sono stati sottratti alle loro famiglie con accuse false. Il fine era quello di affidarli ad altre persone in cambio di denaro. Il tutto, corroborato da illeciti nell’organizzazione e nella gestione del servizio di assistenza sociale.
Un caso simile a quello di Camilla è quello di Sara (nome fittizio). Mario Giordano racconta di come sia stata portata via dalla famiglia per incuria genitoriale, presunti maltrattamenti e violenza sessuale da parte del padre. Ma, secondo l’inchiesta, le accuse alla famiglia erano state costruite ad arte dagli Assistenti Sociali. Pare che le confessioni della bambina siano state estorte (o addirittura inventate) durante i colloqui con la psicologa, condotti con modalità a dir poco anomale. È uno dei casi più conosciuti dello scandalo di Bibbiano. Se ne è parlato molto perché la famiglia affidataria è composta da due donne omosessuali. Dunque, al già delicatissimo tema del caso, si è aggiunto il dibattito sugli affidamenti alle coppie omosessuali. Con l’aiuto dell’Avvocato Morcavallo, in collegamento video, Mario Giordano sottolinea come tutto ciò sarebbe avvenuto per soldi. Il sistema degli affidi muove un business milionario, tra perizie, consulenze, colloqui, gestione delle case famiglia, affidi veri e propri. Secondo Morcavallo, è questo il motivo per cui i bambini non sono stati ancora riportati alle loro famiglie. Una tesi tutta da verificare.
Una delle figure centrali dell’inchiesta è Claudio Foti. È il Direttore della Onlus piemontese Hansel e Gretel, considerata dall’accusa il fulcro del sistema illecito. Nel suo ambito, Foti è considerato un grande esperto, ma in questo caso avrebbe alterato il sistema degli affidi per soldi. Fondi pubblici, principalmente, oltre al denaro pagato dalle famiglie affidatarie per mettere in atto la sottrazione. Una fonte definita segreta, cioè un ex dipendente della Onlus, conferma procedure alquanto dubbie durante il lavoro.
Nel frattempo, un’altra mamma racconta ai microfoni di Fuori dal coro come le è stata portata via la figlia. Le modalità sono sempre le stesse e prevedono la costruzione di prove fasulle per mettere in cattiva luce i genitori naturali.
Bimba “rapita”: i genitori querelano due assistenti sociali di Reggio. “Documenti finiti nella spazzatura”. Il caso questa sera a “Fuori dal Coro” su Rete4. Affidi illegali e bambini strappati alle famiglie: non è più “il caso Bibbiano”, ma una piovra che estende i suoi tentacoli ben oltre la val d’Enza.. Reggio Report 11/9/2019. Una coppia di genitori di Reggio Emilia, Stefania e Marco, ha denunciato alla Procura della Repubblica due assistenti sociali del Polo Est di Reggio Emilia, quali responsabili del “rapimento” della loro figlioletta, portata via da casa con l’inganno lo scorso mese di aprile. Lo annuncia l’avvocato Francesco Miraglia, che tutela la famiglia: le assistenti sociali sono state querelate per abuso di ufficio, falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, sostituzione di persona, false dichiarazioni all’autorità giudiziaria e violenza privata. Del caso l’avvocato Miraglia parlerà questa sera, mercoledì 11 settembre, nel corso della trasmissione Fuori dal Coro realizzata e condotta da Mario Giordano. Miraglia chiede inoltre che le querelate “vengano estromesse da questo caso C e cessino immediatamente di seguirlo” anche perchè – sostiene l’avvocato – hanno commesso un ennesimo, incredibile e increscioso atto: hanno gettato la documentazione relativa alla bambina dentro un bidone della spazzatura lungo la strada, visibile a tutti, con i dati sensibili bene in evidenza. Li hanno trovati, passando, proprio i due genitori de piccola, che hanno scoperto così, dai documenti gettati per strada, dove fosse alloggiata la loro figlioletta. Un altro episodio di una gravità inaccettabile». La signora Stefania, che in passato aveva fatto uso di droga – aggiunge il legale – al momento di partorire la bambina si è trovata contro i Servizi sociali, che le hanno tolto la figlioletta asserendo di aver trovato tracce di sostanze stupefacenti nel suo organismo e in quello della neonata. “Nulla di più falso, come dimostrano le cartelle cliniche. Ma la bimba, incredibilmente, le è stata portata via ben due anni dopo la sua nascita, e per di più nel corso di un blitz vergognoso e agghiacciante: fingendosi volontari dell’Enpa, l’ente di protezione animali, lo scorso 3 aprile addetti dei Servizi sociali si sono presentati a casa della donna, distraendola mentre qualcun altro saliva a prendere la piccola, l’afferrava dal lettino in cui dormiva, senza vestirla, e fuggiva verso l’auto con lei tenuta a penzoloni e sballottata come un sacco. Tutto ripreso, fortunatamente, dalle telecamere di sorveglianza di cui la casa è dotata”. «Ci aspettavamo che il Comune di Reggio Emilia chiedesse scusa a questa famiglia per come ha pianificato il blitz, che neanche le teste di cuoio organizzano in maniera così abile» prosegue l’avvocato Miraglia. «Oppure che promuovesse all’antiterrorismo le due assistenti sociali che lo hanno organizzato così bene. Invece il Comune ha denunciato la famiglia per diffamazione a mezzo stampa. Se questo è il modo di gestire le vicende dei bambini e il modo di agire dei Servizi sociali, l’unica soluzione è denunciare le assistenti sociali».
Fuori dal Coro, la testimonianza di una madre di Bibbiano: "Hanno staccato la luce, poi il raid in casa". Libero Quotidiano il 12 Settembre 2019. Una testimonianza sconvolgente, piovuta nel corso di Fuori dal Coro, il programma di Mario Giordano in onda su Rete 4 alla sua prima puntata della stagione. Si parla dello scandalo di Bibbiano, a raccontare l'orrore subito sono Anna e Franco, due genitori a cui è stata presa una figlia. Il ricordo del momento in cui è accaduto è terrificante: "Si presentano come Ente protezione animali, tanto che li riprendo anche dalla finestrina: volevano entrare in casa mia, non mi fidavo. Mi dicevano: un cane abbaia, mi apre? Mi apre? Non hanno voluto mostrarmi il tesserino. Poi hanno staccato la luce, dato che ci sono le telecamere di sorveglianza. Sono entrati quando è arrivata mia madre con la spesa", ricorda Anna. E ancora: "Sento gridare mia figlia. Alzo gli occhi, sono corsa, la ho vista in mano a qualcuno che la teneva a testa in giù, come un pacco. La ho inseguita fino a che è stata buttata sulla macchina", ha concluso.
Angeli e Demoni, seconda richiesta d'arresto per il sindaco di Bibbiano. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. La Procura di Reggio Emilia non demorde. Per Andrea Carletti sono necessari gli arresti domiciliari. Il pm Valentina Salvi, a capo dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti della Val d’Enza, ha presentato - come riporta la Gazzetta di Reggio - una nuova richiesta di arresto nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Per il primo cittadino, all’inizio delle indagini, erano già stati predisposti i domiciliari, ma la misura era stata, poi, rivista dal gip Luca Ramponi il 20 giugno scorso in quanto il giudice aveva ritenuto insufficienti le motivazioni della Procura. Le accuse a cui deve rispondere Carletti per il caso riguardante i presunti affidi illeciti nel comune emiliano sono abuso d’ufficio e falso ideologico. Stessi reati per i quali sono accusati anche altri quattro indagati: l’avvocato Marco Scarpati, Federica Anghinolfi (dirigente del Servizio sociale della Val d'Enza), Nadia Campani (responsabile dell' Ufficio di Piano dell' Unione) e Barbara Canei (istruttore direttivo amministrativo del Servizio sociale dell' Unione). Anche per loro, adesso, la Procura chiede che siano disposti nuovamente gli arresti domiciliari. Secondo gli inquirenti, l’avvocato Scarpati avrebbe ottenuto guadagni ingiustificati grazie ad alcuni incarichi a lui affidati dall’Unione dei Servizi Sociali della Val d’Enza. La Salvi sostiene che sia stata “simulata l' effettuazione di una formale procedura a evidenza pubblica per l' affidamento dell' incarico di consulente giuridico a favore del Servizio sociale, procedura, in realtà, intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati”. Sotto accusa, per la stessa vicenda, anche Federica Anghinolfi, la capa dei servizi sarebbe responsabile in quanto firmataria delle determine relative alle nomine fiduciarie del legale. Canei invece, avrebbe predisposto le determine di spesa mentre, Carletti e Campani - si legge nel capo d’imputazione riportato da La Stampa - erano “in costante raccordo con Anghinolfi e pienamente consapevoli della totale illiceità del sistema, disponevano la sistematica attribuzione di tutta la materia legale relativa ai minori affidati al Servizio sociale a un singolo soggetto”. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna, cui spetta la decisione finale sulle ultime richieste avanzate dalla Procura. Per la terza volta il sindaco dem di Bibbiano dovrà difendersi per salvaguardare la propria libertà. Il Giudice per le Indagini Preliminari, infatti, ha respinto l' istanza di revoca dei domiciliari presentata da Carletti per ben due volte: i primi del mese di luglio, dopo l’interrogatorio di garanzia, e lo lo scorso 3 agosto.
Cala il sipario su Bibbiano. E gli amici di Foti salgono in cattedra. A soli tre mesi dallo scoppio dell'inchieste Angeli e Demoni si terrà a Firenze un convegno sugli abusi sui minori a cui parteciperà anche il legale di Claudio Foti. Nella scaletta, nessun accenno al "caso Bibbiano". Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Un mese, due mesi, adesso quasi tre. Il tempo passa e i media iniziano a deporre le armi. Cala il silenzio e si chiude il sipario. Dietro le quinte, le maschere dei "demoni" riprendono a muoversi. Sembra la storia di una tagedia teatrale e invece è tutto vero.
Il sindaco Pd di Bibbiano ancora nei guai. A pochi mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", lanciata dalla Procura di Reggio Emilia, sui presunti scandali scovati nel sistema di affidi della Val d'Enza, pare che il silenzio costante sulla vicenda, cui il Partito democratico ha tenuto sempre fede, stia adesso contagiando tutti. Con buona pace delle famiglie distrutte che cercano giustizia. Tra l’esultanza di tutti coloro che, a poco a poco, stanno riprendendo a fare esattemente ciò di cui si occupavano prima di finire nel registro degli indagati. Proprio ieri, Claudio Foti, terapeuta della onlus torinese finita nel mirino degli investigatori, è tornato a parlare nel piccolo schermo. Durante la trasmissione “Storie Italiane” di Rai 1, l’indagato è tornato a parlare in pubblico, dicendo di esser stato perseguitato ingiustamente. "A Bibbiano non facevo terapie ai bambini", ha dichiarato Foti. Forse lui no. Ma la sua associazione? Ricordiamo che proprio la Hansel e Gretel, onlus piemontese fondata dallo stesso Foti, era riuscita ad accapparrarsi la gestione esclusiva del centro pubblico "La Cura" di Bibbiano. Il tutto senza una regolare gara pubblica e esenti da ogni tipo di canone d’affitto. I servizi sociali della Val d’Enza infatti avrebbero mandato a “La Cura” la gran parte dei minori che avevano in carico, facendo così incasare alla associaizione di Foti 135 euro a seduta. Ma qualcuno pare esserselo dimenticato. Tanto che, persino il Movimento 5 Stelle, tornato al governo con gli alleati della sinistra, dopo aver promesso alle famiglie emiliane che sarebbero stati presi provvedimenti per fare chiarezza sul tema degli affidamenti in tutta Italia, adesso pare essere stato contagiato dal silenzio dei dem. E così spariscono dai punti del programma del nuovo governo giallorosso le commissioni d'inchiesta parlamentari sugli affidi e di iniziative governative su Bibbiano nessuno ha più fatto sapere niente. Un dietrofront ottimale per tutti coloro che dovevano riprendere a seguire i propri loschi affari e che adesso, a poco a poco, tornano a sponsorizzare i loro metodi non riconosciuti. Come avverrà a breve in Toscana. A Firenze si terrà un convegno intitolato “Proteggere i bambini e le bambine dalla violenza assistita”. Il tema centrale è, evidentemente, quello degli abusi sui minori. Ma, nella scaletta dell’evento - come riportato da La Verità - non vi è traccia di interventi per parlare degli scandali della Val d’Enza. In compenso, a intervenire al convegno sarà Andrea Coffari. Avvocato difensore di Claudio Foti, il legale fa parte anche dei componenti dell'associazione “Rompere il silenzio”, la stessa di cui fanno parte Foti e alcuni tra gli altri indagati di “Angeli e Demoni”.
Il suo intervento s’intitola così: “Violenza su donne e bambini: apologia della pedofilia, negazionismo, cattivi maestri e ddl Pillon-Camerini”. Insomma, qualche parolina per continuare a difendere le teorie di Foti sugli abusi e perseverare con la diffusione delle idee su cui si è costruito il sistema di affari illeciti a Bibbiano. Chi critica il “metodo Hansel e Gretel” e le sue teorie che, tra le altre cose, si scontrano nettamente con i principi della carta di Noto, non è altro che un “difensore dei pedofili”. Chi, invece, sostiene che quando si parla di abusi su minori è meglio andarci con i piedi di piombo, finisce per essere “negazionista”. Ma torniamo all’evento. Il convegno di Firenze è organizzato dal Consiglio regionale e dalla Commissione pari opportunità della Toscana, la stessa Regione che ha richiesto milioni di euro di risarcimento al Forteto, dopo aver silenziato gli orrori che, per anni, si consumavano all’interno della comunità toscana. La parte introduttiva dell’incontro sarà tenuta da due esponenti del Partito democratico: Eugenio Giani e Rosanna Pugnalini. Dunque, non solo nei tre mesi dallo scoppio del caso Bibbiano, il Pd è intervenuto soltanto per sottolineare che i sindaci del proprio partito, indagati nell’inchiesta, non erano ancora stati processati e che quindi non se ne doveva parlare, adesso, come se niente fosse, sponsorizza - attraverso le istituzioni pubbliche - convegni con gli amici di Foti. Ma non basta. Perché tra gli organizzatori della giornata di incontri ecco spuntare un nome conosciuto. Il Cismai. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento che ricompare in molte storie di falsi abusi e affidi ingiusti. Un organismo che, pur non essendo mai finito sotto indagine, rispunta nelle iniziative di Foti e Co. ormai dai tempi dei “Diavoli della Bassa”. A interventire, a Firenze, sarà Gloria Soavi, presidente del Coordinamento. Anche lei una veterana. Cliccando il suo nome, sul web, compaiono una serie non proprio breve di eventi e iniziative a cui la Soavi ha partecipato al fianco degli operatori della Hansel e Gretel. In più, la presidente, come riportato da La Verità, compare tra i soci l' Unione dei Comuni modenesi area nord, l'ente attualmente coinvolto nella storia della bambina di Mirandola mandata in cura a Bibbiano, per la quale è indagato dalla Procura di Modena. A supportare il Cismai è, tutt’ora, l'autorità Garante per l' infanzia, guidata da Filomena Albano che, recentemente, ha anche versato 40mila euro per supportare una ricerca dell’organizzazione.
Bibbiano, cosa è successo. Nomi e accuse dell'indagine sugli affidi. Sono 29 le persone iscritte nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e Demoni": il punto. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019. Sono finora ventinove gli iscritti nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta 'Angeli e demoni', condotta dai carabinieri di Reggio con il coordinamento del pm Valentina Salvi, i cui accertamenti stanno tuttora proseguendo. Al centro dell'indagine sono finite le complesse vicende relative ai bambini - dieci in tutto quelli confluiti nel fascicolo originario - che sarebbero stati strappati alle loro famiglie naturali ricorrendo a escamotage illeciti messi in atto da operatori dei servizi sociali di Bibbiano. Secondo gli inquirenti, questi ultimi avrebbero steso relazioni in cui erano evidenziati particolari falsi per mettere in cattiva luce i genitori naturali - ad esempio abusi da loro subiti, case in pessimo stato, scarse attenzioni verso i figli - e poter così disporre l'affidamento coatto dei minori ad altre famiglie. Dietro c'era un business: i piccoli venivano sottoposti a sedute di psicoterapia nella sede della 'Cura', struttura pubblica di Bibbiano, praticate da operatori del centro privato torinese 'Hansel e Gretel', che avrebbero percepito un compenso orario doppio rispetto a quello medio di analoghi professionisti. Altri approfondimenti sono in corso sulle vicende di possibili affidi illeciti segnalati da altre famiglie, che si sono rivolte ai legali e alla Procura per denunciare di aver vissuto situazioni simili a quelle oggetto del filone di inchiesta principale. Per alcuni indagati, inoltre, potrebbe profilarsi prossimamente la richiesta di giudizio immediato. Sei le persone che, il 27 giugno, sono finite ai domiciliari. Tra loro c'è il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti (per abuso d'ufficio e falso ideologico, ipotesi di reato legate alle procedure amministrative per l'appalto della psicoterapia): il gip Luca Ramponi ha bocciato per due volte la richiesta da lui avanzata di liberazione, e ora il primo cittadino - sospeso dal suo incarico pubblico dalla Prefettura e autosospeso dal Pd - attende il responso sulla misura cautelare dal Riesame, di fronte al quale ci sarà udienza il 16 settembre. Stessa misura per Federica Anghinolfi, la responsabile dei servizi sociali della Val d'Enza, considerata una figura-chiave nei presunti illeciti, chiamata a rispondere di molteplici accuse (tra cui falsità ideologica, frode processuale, violenza privata, peculato, depistaggio e lesione personale aggravata per i casi di alcuni bambini sottratti). Altrettanto per Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Torino e moglie di Claudio Foti - quest'ultimo alla guida di 'Hansel e Gretel' -, per il quale il Riesame ha di recente riformulato la misura in obbligo di dimora a Pinerolo. Ai domiciliari si trova anche l'assistente sociale Francesco Monopoli. Marietta Veltri, coordinatrice dei servizi sociali Val d'Enza, è tornata libera in concomitanza con il pensionamento. La sospensione per sei mesi dall'attività lavorativa riguarda nove indagati (oltre ad Anghinolfi e Monopoli) tra assistenti sociali, educatori e personale amministrativo: tra questi Cinzia Magnarelli è intanto tornata al lavoro (in un altro settore dell'Ausl dove lei aveva chiesto e ottenuto il trasferimento prima dell'inchiesta) dopo aver ammesso di aver falsificato alcuni report su pressione dei superiori. Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni hanno il divieto di avvicinamento alla minore che avevano avuto in affidamento e che avrebbe subito maltrattamenti. Tra gli indagati a piede libero ci sono l'avvocato Marco Scarpati (per l'incarico da 20mila euro per seguire legalmente i casi dei bambini, ipotesi di concorso estraneo in abuso d'ufficio) e il direttore provinciale dell'Ausl, Fausto Nicolini (concorso in abuso d'ufficio). Oltre agli ex sindaci di Cavriago Paolo Burani e di Montecchio Paolo Colli, entrambi ex presidenti dell'Unione Val d'Enza, indagati per falso ideologico.
A Genova il Pd chiede di riaprire il progetto di Foti. La richiesta dei dem è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Costanza Tosi, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. Il Pd non demorde. E a Genova propone di riaprire il "Progetto Arianna". Iniziativa creata in collaborazione con gli indagati del caso Bibbiano, tra cui Claudio Foti, padre della Hansel e Gretel, finito agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” della Procura di Reggio Emilia. A Rilanciare l’idea che, il progetto nato nel 2011 con il fine di “contrastare il maltrattamento e l'abuso di bambini e bambine”, debba essere rilanciato dal Comune, è stata Cristina Lodi, capigruppo dem a Genova. Qualche giorno fa ha presentato un ordine del giorno, firmato da altri cinque consiglieri del Partito democratico: Stefano Bernini, Alessandro Terrile, Mauro Avvenente, Alberto Pandolfo e Claudio Villa. Nel documento - come riporta La Verità - la richiesta è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Il testo, presentato giovedì, non è stato ancora discusso, ma in pochi giorni già sono state fatte manovre con cui, i dem, sembrano voler schivare le accuse. Dopo che i nomi dei consiglieri hanno iniziato a circolare, è spuntato un altro documento. Formale e senza le firme dei dem. A bloccare, in conferenza capigruppo, l’idea del Pd è stato Mario Mascia, leader dei consiglieri di Forza Italia. Che ha proposto, per contro, di istituire una commissione d’inchiesta che faccia chiarezza sul sitema degli affidi anche nella zona ligure. Nel testo, presentato in conferenza dalla Lodi, viene riconosciuta “l’ importanza del Progetto Arianna” e richiesto al sindaco, Marco Bucci, di coinvolgere “tutti gli organismi deputati che hanno competenza in materia”. La proposta è quella di ricreare una struttura che segua le linee del progetto bloccato dall' assessore alle Politiche sociali Francesca Fassio. Un’inziativa di cui, adesso, sono scomparse le tracce anche sul web. Dal sito del Comune di Genova, solo una mera spiegazione del progetto. Non compaiono nomi e il link alla pagina è stato cancellato. Poca trasparenza, per un progetto che viene considerato importante e da rilanciare. Sempre Mascia, a fine luglio e poco dopo l’uscita dello scandalo sul sitema degli affidi illeciti a Bibbiano, aveva presentato un' interpellanza in Consiglio comunale per sapere se c' erano rapporti o se fossero mai stati stipulati contratti tra l' amministrazione di Genova e gli indagati della Hansel e Gretel, Claudio Foti e Nadia Bolognini. Proprio da luglio, il Progetto Arianna è sparito dal sito del Comune. Diego Pistacchi, del Giornale del Piemonte e della Liguria, che per primo ha reso pubblico il contenuto del documento di cui è venuto a conoscenza, ha scoperto che, Claudio Foti, operava anche nella città ligure. Dal 2016 al 2018, almeno nove minori della zona sono stati affidati alle cure del terapeuta della onlus torinese. Incarichi che hanno consentito all’associazione finita sotto accusa di guadagnare ben 13mila euro. Tra questi, l’ultimo paziente preso in carico da Foti risale al 2 ottobre del 2018. In quel caso furono accordate quattro sedute della durata di tre ore l’una, per un totale di 1.200 euro. Adesso, il Comune ha deciso di fare chiarezza in merito e indagare se, anche a Genova, siano presenti storture per quanto riguarda la gestione degli affidi dei minorenni. I numeri già gettano qualche sospetto. Francesco Lalla, Garante regionale per l'infanzia, ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di circa 260 casi. Tanto che, in un comunicato dei giorni scorsi, aveva evidenziato di voler “creare un sistema rinnovato che metta insieme istituzioni e terzo settore, famiglie e loro rappresentanze”. Ora si attendono i dati ufficiali. Intanto, l'assessore Fassio ha fatto “firmare un protocollo per individuare le linee guida per operatori sociali, psicologi, assistenti sociali e tutte le figure professionali che ruotano intorno ai minori e agli affidi”.
Il post dell'onorevole leghista su Pd-Bibbiano scatena la bufera. Nell'accostare il Pd ai fatti di Bibbiano, in un post pubblicato su Facebook, l'onorevole Flavio Di Muro ha scatenato una bufera politica, ma a difenderlo è il commissario provinciale della Lega, Alessandro Piana. Fabrizio Tenerelli, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. "Ministro per la famiglia al Pd, saranno contenti a Bibbiano". È un post che ha scatenato un caso politico, quello pubblicato sulla propria bacheca Facebook dal deputato leghista, Flavio Di Muro, di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Molti gli attacchi allegati come commento allo stesso post, col Pd che naturalmente non ha gradito l'accostamento ai fatti di Bibbiano. "È vergognosa questa vostra strumentalizzazione di gravi fatti di cronaca, che non c'entrano nulla con il Pd - afferma Annalisa - per screditare gli avversari politici. Evidentemente non siete in grado di contestarli nel merito". A bilanciare i commenti contrari, c'è quello di Concetta, che scrive: "Ma scusate, quando Di Maio dice che non vuole fare un partito con quelli di Bibbiano e si sa, che si riferisce ai pidioti nessuno dice niente e solo perché un deputato, per adesso, è diventato di opposizione, bisogna contestarlo e metterlo a palo per una frase? Andate a cagher". A tenere le parti di Di Muro è il commissario provinciale imperiese della Lega (nonché consigliere regionale ligure), Alessandro Piana: "Il post pubblicato dal nostro deputato ligure Flavio Di Muro non è senz'altro lesivo della reputazione del Pd e e quindi non appare diffamatorio - afferma -. Riguardo i gravissimi fatti di Bibbiano e le persone su cui indaga la Procura, invece, aspettiamo l'esito del procedimento giudiziario. In ogni caso, i 'democratici' non possono mettere il bavaglio alle opinioni. La libertà di espressione è un diritto inviolabile ed è sacra". E aggiunge: "A questo punto, ci aspettiamo che i dirigenti del Pd querelino ministri, viceministri e parlamentari del M5s, che in particolare sui fatti di Bibbiano hanno rilasciato dichiarazioni gravi nei confronti dei loro nuovi amici di Governo. Ovviamente, credo che questo non succederà. Perché metterebbe a repentaglio la vita già breve dell'alleanza giallo-rossa e vanificherebbe la vergognosa spartizione delle poltrone, avvenuta senza nessun rispetto della volontà popolare dei liguri e degli italiani".
La retromarcia dei grillini su Bibbiano: "C'è una parte di leggenda". Nel M5s non si parla più dello scandalo degli affidi. E c'è chi come Di Stefano minimizza: "C'è una parte di leggenda". Luca Sablone, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. "Io con il partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare", dichiarava a gran voce Luigi Di Maio esattamente il 18 luglio. Ma a distanza di poco più di un mese ci si trova a governa insieme. E inevitabilmente la guerra tra le parti che si era innescata fino a pochi giorni fa, per forza di cosa, dovrà allentarsi. Una prova la fornisce Manlio Di Stefano, intervistato da Bianca Berlinguer nel corso della trasmissione Carta Bianca.
La retromarcia. L'ex sottosegretario al Ministero degli Esteri in quota Movimento 5 Stelle ha risposto alla domanda del giornalista Mario Giordano, che chiedeva giustificazioni sull'esecutivo partorito con quello che era considerato il "partito delle banche": "No no. Il racconto che viene fatto su Bibbiano e sulle banche come sempre ha una parte di verità e una parte di leggenda ovviamente". Strano, perché il Partito democratico veniva da loro descritto come quello che "in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l'elettrochoc per venderseli". E il capo politico del M5S, durante l'esperienza con la Lega, si era anche offeso per le accuse di governo al fianco del Pd: "Dire che stiamo governando col partito di Bibbiano è veramente un'accusa ingiusta e falsa".
Morelli mostra a Conte la t-shirt "Parlateci di Bibbiano" alla chiama alla Camera. Giovanni Neve, lunedì 09/09/2019, su Il Giornale. Protesta inaspettata durante la chiama alla Camera per il voto di fiducia alla nuova maggioranza. Alessandro Morelli, deputato della Lega e presidente della Commissione Trasporti alla Camera, ha mostrato al premier Giuseppe Conte la maglietta con la scritta "Parlateci di Bibbiano". E citando Luigi di Maio, che aveva detto che non si sarebbe mai alleato con il "partito di Bibbiano", ovvero il Partito democratico, ha detto: "Ho segnalato al premier Conte che allearsi col partito di Bibbiano non significa dimenticarsi dei bimbi e delle famiglie vittime di questa tragedia.
Bibbiano, Lucia Borgonzoni e lo show in Senato. La Lega interrompe la seduta più volte, fischi e applausi. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019. Video Senato, Bergonzoni cita Bibbiano e scatena il coro dei leghistiArticolo Bibbiano, cosa è successo. Bibbiano di nuovo usata come arma politica. Questa volta a sfoderare il solito slogan "Parlateci di Bibbiano" è la senatrice leghista bolognese Lucia Borgonzoni (video), peraltro anche candidata al governo della nostra Regione. Ieri la pasionaria del Carroccio, sottosegretario alla Cultura del governo appena caduto, si è presentata a Palazzo Madama con addosso una maglietta bianca con scritto "Parliamo di Bibbiano". La seduta a quel punto è stata immediatamente sospesa, come vuole il regolamento, dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati. Lo stop è durato qualche minuto durante i quali i senatori leghisti si sono alzati e si sono andati a congratulare con Borgonzoni. Subito dopo la leghista, che sarà probabilmente la sola a sfidare Stefano Bonaccini alle prossime elezioni regionali (i grillini pare non abbiano un nome pronto a scendere in campo), si è rivolta al presidente Giuseppe Conte. «Forse – ha detto slacciandosi la giacca che copriva la scritta – il presidente non è che non sa cosa è Bibbiano, è che non ne vuole parlare. Non gliene importa nulla dei bambini e delle famiglie». Uno show fortemente contestato dalla nuova maggioranza e, invece, sostenuto da cori e applausi dall’emiciclo dove siedono i colleghi leghisti. Non ha tardato a rispondere il premier Conte: «Il governo non entra nel merito delle inchieste in corso – ha spiegato rivolgendosi alla ex alleata – Per quel che riguarda la competenza del governo una misura è stata già adottata: è stata istituita presso il ministero di giustizia una squadra speciale per la protezione dei minori». Una squadra istituita proprio di comune accordo con la Lega durante le ultime settimane di vita del governo giallo-verde. «E’ urgente un monitoraggio della situazione vigente e un più efficace censimento degli affidi – ha continuato Conte – Dobbiamo creare una banca dati nazionale per gli affidi in modo da poter incrociare i dati e rilevare eventuali anomalie già dall’incrocio dei dati», ha aggiunto il premier. Che poi ha replicato in punta di fioretto alla senatrice leghista: «La protezione dei minori non ha colore politico e non può essere circoscritta territorialmente. E’ un problema che riguarda tutti». «Da Salvini e dalla senatrice leghista Bergonzoni, candidata in pectore alle regionali, su ‘Angeli e Demoni’ solo ipocrisia. E’ la Lega che ha rischiato di fermare un lavoro serio su questo tema facendo cadere il governo Conte 1». Lo dichiarano infine in una nota i parlamentari emiliano romagnoli del Movimento 5 Stelle Maria Edera Spadoni, Stefania Ascari, Davide Zanichelli, Gabriele Lanzi, Maria Laura Mantovani, Michela Montevecchi, Alessandra Carbonaro, Marco Croatti, De Girolamo.
La protesta delle madri davanti a Palazzo Chigi: "Conte parlaci di Bibbiano". Il movimento nazionale #bambinistrappati scende in piazza: "Saremo qui ogni giorno perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati". Costanza Tosi, Venerdì 13/09/2019, su Il Giornale. Striscioni di protesta, cori che gridano giustizia, magliette che uniscono la folla e fanno sentire tutti parte di un gruppo pronto a vincere. Sotto Palazzo Chigi decine di genitori protestano contro il nuovo governo giallorosso, uniti al grido di “Mai più Bibbiano”. Madri a cui sono stati tolti i figli, nonni che da anni non possono vedere più i propri nipoti, entrambe vittime di ingiustizie e soprusi, raggirate da un sistema che ha sfruttato le loro debolezze per lucrare sulla pelle di minori innocenti. Oggi, queste persone, hanno deciso di scendere in strada per pretendere che sia fatta chiarezza sul caso dei presunti affidi illeciti che ha sconvolto l’Italia. “Mai più Bibbiano” denuncia la folla scesa in piazza per la protesta organizzata dal Movimento Nazionale #bambinistrappati, associazione composta da 15mila persone e presente in numerosi Comuni d'Italia. È tempo di combattere per le famiglie distrutte perchè finite nel tunnel degli orrori. Intrappolate e manovrate dagli assistenti sociali della Val D’enza, spalleggiati dai terapeuti che violentavano psicologicamente i bambini per indurli a confessare abusi sessuali mai avvenuti. Oggi, queste persone, hanno deciso di lottare contro il silenzio delle istituzioni. Convinte, che per fare giustizia si debba denunciare e impaurite che il silenzio degli ultimi giorni porti all’insabbiamento dell’orrenda vicenda. "Abbiamo paura che questo nuovo Governo non parli più di Bibbiano", dicono i genitori. Che poi si fanno sentire e con gli occhi rivolti al Palazzo gridano: “Conte vienici a parlare di Bibbiano”. “Chiediamo commissioni regionali d’inchiesta per fare luce sugli affidi illeciti” spiegano i presenti. Dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", sono state tante le storie che, da tutta Italia, madri, papà e intere famiglie hanno deciso di denunciare. Troppe, le vicende che sembravano seguire il copione delle storie raccontate nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia. Dopo tre mesi dall’uscita dell’inchiesta, la preoccupazione è che in molte parti d’Italia ci siano altri casi Bibbiano e ciò che la popolazione si aspetta è che il governo faccia qualcosa per fronteggiare questa minaccia, per far chiarezza su questo sospetto. Prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sorpresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. E c’è chi non ci stà. "Saremo qui ogni giorno - dichiarano i partecipanti alla protesta - perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati".
Pontida, Salvini sul palco con bimba vittima di Bibbiano: "Lei ha ritrovato la sua mamma". Salvini accolto da una marea di persone a Pontida. Sul palco fa salire una bimba che da poco ha ritrovato la sua mamma. Serena Pizzi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. "Oggi qui noi abbiamo vinto". E a giudicare dalle foto, dai numeri social e dall'affetto dimostrato, viene davvero facile dire che Matteo Salvini ha davvero vinto. Ad accoglierlo a Pontida ci sono migliaia di persone, ce ne sono talmente tante che gli abitanti hanno addirittura aperto i cancelli delle proprie abitazioni. "Non ho mai visto una Pontida così", dice il leader della Lega. E in effetti, il "pratone" è davvero pieno, ma soprattutto è carico. Carico di bandiere, di ideali, di progetti, di rabbia per questo governo dell'inciucio, ma c'è anche tanto amore. "La politica senza cuore e senza passione non è politica, ma una cosa da poltronari e qua ci sono valori", urla a gran voce Salvini. L'amore per una politica sincera "fatta per il bene del Paese" si sente nell'aria, nei cori dei presenti e si legge negli sguardi di tutte quelle persone che hanno scelto di andare a Pontida. Salvini non può far altro che ringraziare tutti questi sostenitori "uomini, donne e bambini, sono io che dico grazie a voi per questo spettacolo". Vedere tutta quella gente fa davvero impressione, fa venire i brividi. La piazza è davvero piena, quella davanti al leader della Lega è "l'Italia unita nel nome del lavoro". È l'italia che non vuole il governo giallorosso, è l'Italia che ha condiviso le idee e le mosse dell'ex ministro dell'Interno dall'inizio alla fine, è l'Italia che vuole andare a elezioni perché questo governo non rappresenta il nostro Paese e "noi vinceremo". Il discorso di Matteo Salvini dal palco di Pontida è davvero carico di argomenti, di emozioni e di rabbia per "tutti quei politici che se ne stanno chiusi nel palazzo e tengono solo alle loro poltrone". E in quasi un'ora di discorso, il leader del Carroccio mette il carico da 90 su tutto. Ma è sul finale che gli occhi dei suoi sostenitori si sono riempiti di lacrime. Salvini, infatti, ha fatto salire sul palco alcuni bambini, soli o con i propri genitori. E a una in particolare ha voluto dedicare qualche secondo: a Greta. "Greta è questa spelendida ragazza con i capelli rossi dopo un anno è stata restituita alla mamma - spiega Salvini emozionato -. Mai più bambini rubati alle loro famiglie, mai più bambini rubati alle mamma e papà, mai più bimbi come merce". Queste parole sono scandite chiaramente. Gli striscioni con riferimenti a Bibbiano arrivano sul palco. Fanno rabbrividire. E Greta è una delle poche che ce l'ha fatta, una fortunata. Ma non deve essere così. Lo scandalo di Bibbiano è agghiacciante, non dovrebbe proprio esistere. Poi Salvini si interrompe chiede ai presenti di prendersi per mano perché "la giornata di oggi sia l'inizio di una pacifica, democratica, rivoluzionaria liberazione del nostro Paese nel nome del lavoro, della dignità dell'orgoglio e della sicurezza. Viva la Lega, viva Pontida e viva l'Italia". E prima di lasciare il palco il leader del Carroccio batte un "cinque" alla mamma della ragazzina e poi alla stessa Greta. Loro si sono ritrovate, ma gli altri? Quanti bambini non vivono più con i loro genitori naturali perché sono stati portati via con l'inganno? Perché il Pd sta zitto e di Bibbiano non ne parla? Anzi, minimizza. Perché? Loro non risponderanno, ma oggi la piazza ha risposto in tutto e per tutto a Salvini.
Salvini: «La bambina di Bibbiano sul palco? Chi se ne frega. Ne porterei 50. Delinque chi li ruba». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Chi se ne frega»: così il segretario della Lega Matteo Salvini a Aria pulita su 7gold ha risposto a una domanda sulle critiche che ha ricevuto per aver portato sul palco di Pontida Greta, una delle bambine di Bibbiano. «Non una ma cinquanta bambini», ha detto anche, «se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Aggiungendo: «Di storie come Bibbiano ne verranno fuori altre, non solo in Emilia». Domenica Salvini aveva portato sul palco di Pontida, nel corso del tradizionale raduno leghista, una bambina di sette anni di Bibbiano in riferimento al caso giudiziario dei presunti affidi irregolari avvenuti nel centro urbano in provincia di Reggio Emilia. Dicendo: «Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce. Chiedo a voi che siete sul prato, nel nome di questi bimbi che sono il nostro futuro, di prendervi per mano». Tra le persone coinvolte nel giugno scorso nell’inchiesta Angeli e demoni figura anche il sindaco di Bibbiano, accusato di abuso d’ufficio, e da allora il Pd è stato associato in toto a quei fatti, dalla Lega e in passato soprattutto dal M5S (Luigi Di Maio è stato per questo querelato dai dem). Dopo l’esibizione del leader leghista sul palco di Pontida di domenica, in tanti si sono tuttavia chiesti l’opportunità di esibire una minore per giunta coinvolta in una vicenda giudiziaria in corso. Carlo Calenda ha per esempio scritto via social: «Che gente siete per usare bambini su un palco. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore». «Guai a chi ruba i bambini per lucrare», ha però risposto oggi Salvini. Per l’ex vicepremier, non è questa l’unica polemica legata a minori che lo ha chiamato in causa quest’estate. Era già accaduto a Milano Marittima il 30 luglio, con l’episodio del figlio sedicenne sulla moto d’acqua di un agente di servizio all’allora ministro dell’Interno. In quel caso, Salvini aveva detto: «Mio figlio sulla moto d’acqua della polizia? Errore mio da papà», prima di aggiungere che «nessuna responsabilità va data ai poliziotti, che anzi ringrazio perché ogni giorno rischiano la vita per il nostro Paese». In seguito è stata aperta un’inchiesta e l’agente è sotto procedimento disciplinare.
Pontida, la bambina sul palco con Salvini non è di Bibbiano. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Era ormai diventata, soprattutto sui social, la bambina di Bibbiano, dopo essere apparsa sul palco di Pontida. Greta non è di Bibbiano e neanche emiliana, ma vive in Lombardia. Alla kermesse leghista Salvini, dal palco, l’ha presentata come una «bellissima bambina con i capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma». Non ha citato espressamente l’inchiesta della Val d’Enza, ma poi ne ha fatto riferimento aggiungendo: «Mai più bimbi rubati alle mamma e ai papà, mai più bimbi come merce», lasciando intendere che la piccola sul palco appartenesse al gruppo di minori di Bibbiano. Greta non è coinvolta nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti a Bibbiano e nella Val d’Enza reggiana, come risulta da fonti giudiziarie, dopo che la notizia era stata anticipata da Selvaggia Lucarelli: «Ho parlato con la madre. La bambina di Pontida non c’entra nulla con Bibbiano. Vive in Lombardia e le case famiglia a cui fu affidata erano a Varese e Como. Salvini ha strumentalizzato Bibbiano e i bambini in modo indegno», ha detto la blogger. Dal leader leghista nessun passo indietro sulla presenza della bambina a Pontida: «Chi se ne frega». Per il leader la piccola è un simbolo: «Non una ma cinquanta bambini. Se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Di storie come Bibbiano «ne verranno fuori altre — aggiunge — non solo in Emilia».
Bimba Bibbiano a Pontida, l'attacco di Calenda: "È uno schifo". L'europarlamentare del Pd critica la Lega: "Che gente siete per usare bambini su un palco? Senza onore". Luca Sablone, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini finisce nuovamente nel mirino della sinistra. La "gravissima" accusa recente è quella di aver ospitato sul palco di Pontida la piccola Greta, che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Il leader della Lega l'ha presa fieramente in braccio: "Mi pare che tra i bambini ci sia anche Greta, che è questa splendida bimba coi capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce". A guidare la protesta è Carlo Calenda, che ha criticato la scelta di coinvolgere la bimba: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore".
"Strumentalizzazione". Sui social è ormai diventato un vero e proprio caso. Diversi utenti si domandano: "Menomale che non si dovevano strumentalizzare i bambini! Vero? E allora cosa ci faceva una bimba di Bibbiano sul palco?". C'è poi chi si aggrega all'attacco e affonda: "Salvini oggi ha dato il meglio di sé, strumentalizzando il caso di Bibbiano. Ma...non a parole, bensì prendendo in braccio una bambina di quella località. Lo sciacallo leghista è sempre in prima linea". E ancora: "Credevate di aver toccato il fondo? Illusi. Salvini espone sul palco di Pontida 2019 i corpi di una madre e una bambina, presunte vittime dei fatti di Bibbiano, per fini di bieca propaganda. Abbiamo raggiunto un degrado del costume e della politica mai visto da 75 anni a oggi". Una pagina Facebook ha invece lanciato una frecciatina nei confronti dell'ex ministro dell'Interno: "Ma il Matteo Salvini che oggi ha sventolato sul palco una bimba di Bibbiano (incommentabili i genitori) è lo stesso che invitava a non strumentalizzare i bambini quando ha usato la Polizia di Stato per far giocare il suo pargolo con una moto d'acqua?".
Chef Rubio attacca Salvini: "Hai sfruttato la bimba di Bibbiano". Gabriele Rubini contro il leader della Lega: "L'hai utilizzata per la tua cazzo di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa". Luca Sablone, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Chef Rubio non risparmia l'ennesima dura critica a Matteo Salvini. Il conduttore televisivo su Twitter si è sfogato contro l'ex ministro dell'Interno, reo di aver preso in braccio la piccola Greta, bimba restituita alla mamma dopo un anno: "Sfruttare una bambina per la tua c**** di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa, è qualcosa di aberrante e il fatto che tu lo faccia dimentico delle volte in cui hai lanciato figli altrui in pasto ai tuoi haters minus habentes, fa di te una persona spregevole".
Polemiche. Ma Gabriele Rubini non è stato il solo ad attaccare il leader della Lega: nella giornata di ieri è arrivata anche la presa di posizione da parte di Carlo Calenda. L'europarlamentare del Partito democratico ha tuonato: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo?".
SI PUÒ PARLARE DI BIBBIANO SENZA FINIRE NEL TRITACARNE? Luciano Moia per ''Avvenire'' il 18 settembre 2019. Bibbiano non è solo un caso mediatico-giudiziario. Non è solo un teatro amaro di strumentalizzazioni politiche che sgomentano per la totale assenza di coerenza etica (l' ultimo episodio è andato in scena domenica a Pontida). Non è solo l' ultimo caso di una lunga serie di situazioni che mostrano come il nostro apparato di protezione dei minori fuori famiglia abbia urgente necessità di una revisione globale, puntando all'armonizzazione di leggi e competenze oggi in equilibrio instabile tra magistratura, amministrazioni locali e, addirittura, privati. È anche - e soprattutto - un' inchiesta in cui sono finiti loro malgrado nove minori che hanno subito violenze psicologiche gravissime proprio da parte di quelle istituzioni preposte alla loro protezione e sono stati sottratti alle famiglie sulla base di presunzioni che, in almeno sette casi, si sono rilevate frutto di errori intollerabili, nella migliore delle ipotesi, se non di obiettivi legati a far lievi- tare i costi delle psicoterapie, oltre ad assurde congetture ideologiche. E ora tutti questi bambini e ragazzi, in vario modo e con diverse gradualità, stanno scontando sulla propria pelle gli esiti di comportamenti di cui la magistratura valuterà le responsabilità. Ma quanto avranno inciso quelle disavventure sul loro equilibrio psicologico? E come si sta cercando di rimediare ai guasti prodotti nella loro psiche dal gruppo di assistenti sociali e di psicologhe della Val d' Enza coordinate dalla dirigente del servizio, Federica Anghinolfi, tuttora ai domiciliari? Osservando gli esiti di quanto capitato, si può dire che ci siano situazioni sotto controllo e altre che mostrano ancora ferite aperte e sanguinanti. Abbiamo più volte fatto notare come dalle intercettazioni dei carabinieri, in gran parte rese pubbliche, emergano episodi agghiaccianti di accanimento violento verso i bambini, ascoltati per ore in modo oppressivo e minaccioso, con la reiterazione ossessiva di domande finalizzate a far raccontare a piccoli abusi e maltrattamenti da parte dei genitori. In sette casi su nove questi episodi si sarebbero rivelati inesistenti. Al di là di quanto emergerà nel processo - dovrebbe iniziare entro la fine dell' anno - siamo di fronte a procedure che, come più volte sottolineato, risultano al di fuori da ogni protocollo di corretto ascolto dei minori ma anche da ogni regola di deontologia professionale, oltre che da un minimo tasso di umanità. Con quali risultati? Quattro dei nove bambini coinvolti nell' inchiesta avevano già fatto ritorno alle proprie famiglie prima che fossero resi pubblici gli esiti del lavoro della procura di Reggio Emilia. La decisione era arrivata nei mesi scorsi, in tempi diversi, grazie alle verifiche avviate dai magistrati del Tribunale dei minori di Bologna a cui va dato atto di aver eseguito, in tempi non sospetti, il lavoro di verifica sulle relazioni dei servizi sociali con scrupolo e attenzione. E infatti, a fronte di perizie risultate tutt' altro che convincenti, erano richiesti approfondimenti di merito. Quindi, visto che neppure le nuove spiegazioni erano state convincenti, i quattro bambini avevano fatto ritorno alle proprie famiglie. Come già spiegato, queste verifiche sono state decise dal presidente dei Tribunale dei minori, Giuseppe Spadaro, nonostante l' assenza di comunicazioni dettagliate sull' inchiesta in corso da parte della procura di Reggio Emilia. O, meglio, la procura aveva comunicato solo l' archiviazione dei procedimenti penali a carico dei genitori maltrattanti ma ciò ovviamente non impediva, anzi imponeva ai giudici minorili di approfondire ugualmente le situazione di pregiudizio dei minori segnalate dai servizi sociali. Un' incongruenza che non ha impedito di risolvere quattro situazioni diverse, con un lavoro di accertamento molto complesso in cui è stato per esempio necessario riannodare i fili all' interno dei vari nuclei familiari. In un caso gli assistenti sociali erano intervenuti per i maltrattamenti inflitti alla moglie da un marito alcolista a cui il figlio di cinque anni era costretto ad assistere. La procura minorile ha obbligato l' uomo a seguire un percorso di riabilitazione e, una volta accertato che il problema era stato superato, ha dato disposizione perché, con il consenso della madre, il piccolo potesse rientrare in famiglia. Per un quinto bambino era stato il Tribunale ordinario di Reggio Emilia a disporre il ritorno a casa. Anche in questo caso l' allontanamento era stato deciso sempre dai servizi sociali della val d'Enza, nel corso di una causa di separazione. Poi il giudice, già all' inizio di giugno, verificata le condizioni, aveva deciso che il piccolo potesse essere riaffidato al padre. Esistono poi due casi per cui è già stata pronunciata la sentenza di affido preadottivo. L' indagine ha permesso di accertare la correttezza dell' ipotesi di abusi, confermata implicitamente anche dal fatto che i genitori, a differenza di tutti gli altri coinvolti nel caso Bibbiano, non hanno presentato appello. Per questi due bambini si apre quindi la strada dell' adozione definitiva e, si spera, condizioni per una vita migliore nell'abbraccio di una madre e di un padre capaci di stemperare con l' affetto e con il tempo i fatti terribili di cui sono stati vittime. Tutta da definire poi la sorte degli ultimi due minori di cui si parla nell' inchiesta. Per loro il ritorno in famiglia non può ancora essere programmato, anche se il gip di Reggio Emilia ha archiviato la posizione dei genitori per quanto riguarda le accuse di abusi. Sono due piccoli che hanno comunque alle spalle situazioni familiari non semplici.
Il sindaco di Bibbiano querela 147 persone tra cui Di Maio. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio che lo avrebbe offeso definendo il Pd "il partito di Bibbiano". Francesco Curridori, Giovedì 19/09/2019 su Il Giornale. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso dal Pd, ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio. Il primo cittadino, agli arresti domiciliari per abuso d'ufficio e falso ideologico nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni", ha ritenuto lesivi, offensivi e addirittura minatori alcuni post comparsi sui social da quando è scoppiato lo scandalo. Tra questi c'è anche l'ormai noto videomessaggio del capo politico del M5S che, prima della nascita del 'governo giallorosso', assicurava:"Col Pd non voglio avere niente a che fare". E ancora: "Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". Come si legge sulla Gazzetta di Reggio gli avvocati di Carletti, Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, hanno presentato alla Tribunale della Libertà un ricorso contro i domiciliari del loro assistito e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. Ora agli investigatori spetta l'arduo rintracciare le 147 persone querelate e capire a chi corrispondono i relativi nickname.
Affidi illeciti, il sindaco di Bibbiano querela chi lo ha offeso online (anche Di Maio). Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sugli affidi della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c’è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: «Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare». Il sindaco, difeso dagli avvocati Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l’arresto, negato dal Gip, in un altro filone.
Inchiesta "Angeli e demoni", il sindaco di Bibbiano querela: c'è anche Di Maio. Segnala come offensivi o diffamatori 150 fra post e commenti. Compreso il messaggio dell'ex vicepremier. La Repubblica il 19 settembre 2019. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni" sugli affidi in Val d'Enza della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c'è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: "Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". La notizia, riportata dalla Gazzetta di Reggio, trova conferme in ambienti giudiziari. Il sindaco - ai domiciliari dal 27 giugno scorso, indagato per abuso d'ufficio e falso ideologico - è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. La denuncia di questi 147 messaggi ritenuti diffamatori potrebbe non essere isolata: i legali cui Carletti si è affidato stanno vagliando decine di altri contenuti simili. Sarà la Procura a valutare il materiale e a identificare chi si nasconde dietro i nickname.
Il sindaco di Bibbiano non è più agli arresti domiciliari, concesso l’obbligo di dimora. Il Dubbio il 20 Settembre 2019. Andrea Carletti dovrà soggiornare la notte nel Comune di Albinea ma non è più soggetto alla misura cautelare. Per i giudici comunque sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato. Dalle querele all’obbligo di dimora, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha visto attenuare la misura cautelare che lo riguarda per essere coinvolto nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui cosiddetti affidi facili di minori. Carletti non è più dunque agli arresti domiciliari ai quali si trovava dal 27 giugno scorso. Il sindaco dovrà trascorrere la notte dalle 22 alle 7 del mattino seguente nel comune di Albinea. La nuova misura non elimina però le contestazioni della stessa Procura che gli attribuisce il reato di abuso di ufficio e falso ideologico. In ogni caso secondo il collegio dei giudici Criscuolo, Oggiani, Margiocco sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato nonostante l’obbligo di dimora. Dalle pagine del verbale sul quale è trascritto l’interrogatorio di Carletti si legge della “volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”.
Il sindaco di Bibbiano torna libero. I legali: «Contro di lui una gogna». Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. La decisione del tribunale del riesame. Ventiquattro ore dopo aver querelato 147 persone per gli insulti e le minacce ricevuti dopo l’indagine a suo carico, per il sindaco sospeso di Bibbiano, Andrea Carletti, è arrivata la revoca degli arresti domiciliari, disposti tre mesi fa nell’ambito dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, della procura di Reggio Emilia, sulle presunte irregolarità nell’affido dei minori. A deciderlo il Tribunale della Libertà, che ha disposto l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, dove risiede. L’uomo diventato simbolo, per la gogna mediatica, del “metodo Pd” sugli affidi, è in realtà accusato dalla procura di abuso d’ufficio e falso ideologico. A Carletti, avevano precisato gli inquirenti subito dopo il deflagrare della notizia, viene contestata la violazione delle norme «sull’affidamento dei locali dove si svolgevano le sedute terapeutiche». Non è minimamente contestato, dunque, «il concorso nei delitti che in quei locali avevano luogo». Ma secondo l’accusa, il sindaco avrebbe avuto «un ruolo decisivo», permettendo nella sua veste pubblica, prima la destinazione senza gara alla struttura “La Cura” di un immobile pubblico a Bibbiano, poi l’affidamento a psicoterapeuti come Claudio Foti e Nadia Bolognini, entrambi indagati, della terapia dei minori affidati alla Val d’Enza. E i magistrati parlano dunque di un’adesione a quello che viene definito “Metodo Foti”, anche se determinata da mere motivazioni politiche: per l’accusa, infatti, creare un centro con esperti famosi come quelli della onlus “Hansel e Gretel” avrebbe accresciuto il suo potere politico con un forte ritorno di immagine. Secondo i il Tdl, dall’interrogatorio di Carletti emergerebbe «la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante». Ed è per questo motivo che per il collegio dei giudici «sussiste tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo». L’atteggiamento del sindaco, dunque, sarebbe rimasto immutato, «non avendo determinato il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare alcuna modifica nel suo atteggiamento», deduzione per la quale i giudici si richiamano all’interrogatorio del 12 agosto. E i rapporti politici sul territorio sarebbero rimasti intatti, rendendo dunque plausibile il rischio di poter influenzare qualcuno all’interno dell’amministrazione comunale fino a tre mesi fa da lui guidata. La permanenza coatta ad Albinea basta, perciò, a scongiurare qualsiasi rischio, secondo i giudici, non potendo, in tal modo, svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti locali territoriali a lui vicini. «L’isolamento a cui l’obbligo di dimora lo costringe – si legge nell’ordinanza appare misura adeguata e sufficiente al fine di recidere per il momento i contatti con il mondo professionale e pubblico in cui si collocava, ritenendo che anche i contatti via telefono o telematici saranno depurati di ogni possibile connotazione di reiterazione o inquinamento, alla luce della serra attività di intercettazione già svolta nel corso dell’indagine». Il ricorso per la revoca dei domiciliari, presentato dagli avvocati Giovanni Tarquini e dal professor Vittorio Manes, era stato discusso lunedì scorso. La decisione del Riesame, ha commentato Tarquini, «ha ridato un po’ di libertà al mio assistito. Avevamo chiesto la revoca della misura cautelare, questa è una decisione che l’attenua: è un miglioramento e un piccolo passo verso importanti chiarimenti». Una decisione, secondo Manes, che riporta le contestazioni «a una dimensione diversa e molto più contenuta rispetto a quella che gli effetti distorsivi della fortissima campagna mediatica avevano determinato. Ne escono ridimensionati anche i termini di gravità indiziaria e di necessità cautelare di questa vicenda». Intanto giovedì il tribunale di Bologna aveva rigettato un appello della Procura di Reggio Emilia su un’altra imputazione, per la quale la misura cautelare era già stata negata. «Su questa vicenda – ha aggiunto Manes – va tracciata una linea di distinzione molto chiara tra le presunte irregolarità amministrative che concernono l’affidamento del servizio da una parte e le modalità e le presunte distorsioni dello svolgimento del servizio di psicoterapia dall’altri». E gli i reati contestati a Carletti «si muovono solo sul primo versante ha concluso – e non hanno nulla a che vedere con i presunti abusi terapeutici» . I giudici, nel delineare la personalità di Carletti, fanno riferimento ad un episodio risalente al 2018, quando il sindaco sospeso si interessò in prima persona «circa la prosecuzione del metodo fino ad allora attuato, con cui si affidavano i minori in carico al Servizio sociale» a psicoterapeuti della Onlus piemontese “Hansel e Gretel”. Carletti si sarebbe adoperato per reperire un immobile a Bibbiano da adibire a nuova sede, dopo la dismissione della vecchia sede, oggetto di indagini per irregolarità amministrative, per far sì che la psicoterapia di Claudio Foti e dei suoi colleghi proseguisse. La scelta di cercarlo proprio nel Comune da lui amministrato, secondo i giudici, rappresenterebbe la volontà di «voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto». Dalle intercettazioni era emersa anche una sua disponibilità ad aiutare la onlus con la formazione di una comunità a Bibbiano, un centro di formazione che per il sindaco rappresentava «un buon progetto» e «un servizio alla comunità».
Bibbiano, i giudici duri su Carletti: “Spalleggiò organizzazione per ambizioni politiche”. Mattia Caiulo il 20/09/2019 su agenziadire.com dire. Il sindaco di Bibbiano è accusato di falso ideologico e abuso d'ufficio per il giro di presunti affidi pilotati a Bibbiano. Oggi gli sono stati revocati gli arresti domiciliari. Nonostante la revoca degli arresti domiciliari, sostituiti con l’obbligo di dimora ad Albinea, resta pesante la posizione giudiziaria di Andrea Carletti. Lo confermano le parole non tenere verso il sindaco sospeso di Bibbiano, accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, messe nero su bianco dal collegio di giudici del tribunale del Riesame di Bologna, Rocco Criscuolo (presidente) Mirko Margiocco e Rossana Maria Oggioni. Nell’ordinanza emessa oggi in merito al ricorso della difesa di Carletti contro la decisione del gip di Reggio Emilia di rigettare l’istanza di revoca o sostituzione della misura degli arresti domiciliari, si legge infatti in premessa che le altre persone indagate nell’inchiesta- lo psicoterapeuta Claudio Foti e gli assistenti sociali dell’Unione Comuni Val d’Enza, in primo luogo Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, oltre agli psicologici, Nadia Bolognini, moglie di Foti ed altri “in servizio presso la Asl locale”- erano “fortemente ancorati ad una visione ideologica del proprio ruolo, che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti, uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico, in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà”. Tale assioma di fondo, proseguono i giudici “era condiviso senza alcun dubbio dai protagonisti della vicenda, attuato come una vera e propria missione e intrecciato a motivazioni personali per ciascun indagato, in un misto di interessi ideologici, professionali ed economici”. In questo quadro la figura di Andrea Carletti, come sindaco di Bibbiano e delegato alle Politiche Sociali per l’Unione Comuni Val d’Enza viene descritta così: “L’adesione ideologica di Carletti al ‘metodo Foti’ era determinata da motivazioni politiche” e finalizzata a dare “lustro alla sua figura politica”. E ancora, scrivono i giudici, “il suo programma politico era impostato sulla buona riuscita della predisposizione di servizi specializzati nella cura di bambini oggetto di molestie e sul raggiungimento di risultati di eccellenza in tale campo: la buona riuscita del progetto dedicato alla tutela dei minori si riverberava sul suo successo politico”. Da ciò “la sua accettazione incondizionata delle modalità di operare dei coindagati, la condivisione delle operazioni e delle procedure poco limpide, non conformi ai parametri normativi, adottate dai responsabili dei Servizi Sociali”. Nel merito della nuova misura cautelare disposta, i giudici chiariscono poi: “Sussiste in primo luogo tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo“. E nell’ordinanza spiegano il perché in due passaggi. Il primo riguarda alcune intercettazioni tra gli indagati che, venuti a conoscenza delle indagini a loro carico, si preoccupavano del destino dell’immobile di Bibbiano sede del centro “La Cura” dove venivano svolte le sedute di psicoterapia sui minori. Il fatto che dovesse essere dismesso perché oggetto di indagini per le irregolarità relative, “non ha comportato l’abbandono del progetto da parte degli indagati ma la ricerca assidua di un altro immobile che potesse essere adibito a nuova sede per proseguire la psicoterapia da parte di Foti e colleghi”. Carletti in prima persona, si legge, “si adopera per reperire un immobile a tal fine proprio a Bibbiano, paese del quale è sindaco e che vuole evidentemente mantenere come fulcro delle politiche sociali da lui perseguite, dimostrando con estrema sicurezza di voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto”. Ebbene, si legge ancora nell’ordinanza, “tale atteggiamento del sindaco di Bibbiano permane immutato ad oggi, non avendo determinato alcuna modifica il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare”. Si cita poi un interrogatorio del sindaco del 12 agosto, in cui il primo cittadino non si dimostra affatto pentito e di fatto si dichiara pronto a rifare tutto. “Se domani semmai dovessi tornare a fare il sindaco, se venisse un soggetto, una cooperativa che si occupa di minori e di anziani e mi propone un intervento su un terreno privato e fanno l’investimento loro e io reputo che loro abbiano le caratteristiche e siano persone oneste, serie…”, dice Carletti alla Pm. Per i giudici, insomma, “emerge da questo passaggio la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo d’azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”. Con riferimento al pericolo di inquinamento probatorio si osserva invece “che non risultano ad oggi concreti comportamenti volti a tal fine”. Dopo gli arresti non ha interrotto i rapporti incriminati. Tuttavia “la sospensione dalla carica di sindaco ad opera della legge Severino e la attribuzione ad altri della delega per le politiche sociali non si reputa abbiano determinato una cesura dei suoi rapporti con l’ambiente di appartenenza, in virtù dei soli tre mesi decorsi in regime domiciliare, essendo ragionevolmente tali rapporti di amicizia e colleganza politica ben radicati nel tempo e difficilmente scalfibili”. Ciò “comporta sicuramente una possibile influenza di Andrea Carletti su persone a lui vicine nell’ambito politico-amministrativo, con possibili ripercussioni negative sulle indagini”.
È comunque necessaria una misura. La “misura cautelare adeguata- concludono quindi i giudici- appare quella dell’obbligo di dimora nel Comune dove attualmente Andrea Carletti dimora e dove già erano in corso gli arresti domiciliari” che, pur rappresentando “una misura minore degli arresti domiciliari ne assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti territoriali a lui vicini“. A margine viene infine fatto notare che con i motivi di Riesame gli avvocati di Carletti contestavano la sussistenza di gravità indiziaria, ma nell’udienza di oggi hanno rinunciato al primo motivo di gravame, insistendo esclusivamente sulla mancanza di esigenze cautelari.
Bibbiano, questa sera 20 settembre Claudio Foti a Quarto Grado: "Contro me solo fake news". Bibbiano, caso affidi illeciti: stasera Claudio Foti si difenderà davanti alle telecamere di Quarto Grado. Lo psicoterapeuta della Onlus "Hansel e Gretel" si difende e dice di non aver mai fatto l'elettroshock ai bambini. Federico Sanapo (articolo) il 20 settembre 2019 su Blasting News Italia. Continua a far parlare di sé quanto avvenuto a Bibbiano negli scorsi mesi, dove molti bambini, secondo quanto scoperto dalla Procura della Repubblica di Reggio Emilia, sarebbero stati sottratti illecitamente alle loro famiglie e dati in affido a terze persone senza alcun motivo. Per poter strappare i piccoli ai loro genitori, si sarebbero inventate le scuse più assurde, una su tutte quelle di presunti abusi che i minori avrebbero subito nelle proprie case. Ma la cosa che ha più inorridito, è stata la notizia secondo la quale ai piccoli sarebbe stato praticato anche l'elettroshock, questo in modo da poter manipolare la loro mente, facendo in modo che durante i processi potessero dire una versione dei fatti completamente differente da quella reale. Uno dei principali imputati è Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico dell'associazione Onlus "Hansel e Gretel" che ha sede a Moncalieri, nel torinese, i cui studi sugli affidi sarebbero stati "promossi" in tutta Italia. L'uomo ha rilasciato negli scorsi giorni un'intervista alla trasmissione Quarto Grado, che da questa sera 20 settembre andrà in onda su Rete 4 e sarà condotta come sempre da Gianluigi Nuzzi e da Alessandra Viero.
Foti: Su di me solo fake news. Foti si è difeso a spada tratta davanti alle telecamere di Rete Quattro, spiegando che lui non ha mai utilizzato metodi violenti sui bambini, ne tanto meno l'elettroshock. Lo psicoterapeuta ha detto che su di lui sono state diffuse false notizie, e che non capisce tutto questo clamore mediatico su di lui. Secondo quanto riporta Tgcom24, sulle sue pagine online, durante l'intervista a Quarto Grado Foti ha dichiarato che lui ha fatto sempre del suo meglio, ma poi alla fine è stato accusato di aver utilizzato i bambini come cavie. L'uomo ha riferito che da quando è scoppiato questo caso non si è più ripreso, e che vive tutto ciò come un incubo, dal quale si augura di uscire presto.
Lo psicoterapeuta ha parlato anche della sua laurea. Inoltre, Claudio Foti ha precisato che sulla sua laurea sono state diffuse altre fake news, in quanto è in possesso di un regolare titolo di studio. Nel frattempo il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, anche lui finito nei verbali dell'inchiesta "Angeli e Demoni" è stato posto in obbligo di dimora presso il comune di Albinea. Fino a poche ore fa l'uomo si trovava in regime di arresti domiciliari, ma il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso presentato dallo stesso indagato. Carletti ha anche querelato il neo ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, in quanto il pentestellato lo avrebbe diffamato in alcuni post su Facebook e nei testi di alcune mail.
Bidello accusato di aver abusato di 11 bambini viene assolto, a firmare la perizia fu Claudio Foti. Il collegio peritale affermò che i piccoli erano incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. Costanza Tosi, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. Mentre il caso Bibbiano si allarga, tanto che l’ideologia del “guru” Piemontese pare aver, negli anni, preso piede in tutta Italia, si scoprono altri indizi che individuano l’ombra del terapeuta, indagato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, anche nell’aretino.
Il "metodo Foti" sembra aver determinato l’ennesima tragedia. Circa sette anni fa, un uomo di 51 anni che faceva il bidello in una scuola materna nel Valdarno, viene accusato di aver abusato di ben 11 bambini. Nel 2012 la prima segnalazione: una bimba, di appena quattri anni, manifesta atteggiamenti sospetti, tanto che, la madre, decide di farla visitare al Meyer, l’ospedale pediatrico fiorentino. In quell’occasione, una psicologa, ipotizza che possano esserci state violenze fisiche sulla minore. Un campanello d’allarme che induce gli altri genitori della scuola e prestare attenzione sul comportamento dei propri figli e prendere provvedimenti. I casi diventano 11. Secondo l’accusa l’uomo avrebbe portato i piccoli nel bagno, dove si sarebbero consumate le violenze sessuali. Il bidello viene messo agli arresti domiciliari, sostituiti, poi, dall’obbligo di dimora. Ma l’indagato nega e le maestre escludono che sia potuta succedere una cosa simile. Continuano le indagini. La scuola viene sorvegliata dai magistrati attraverso telecamere e microspie, ma nessun elemento giustifica le accuse. I racconti dei bambini fanno pensare al peggio. Centinaia di pagine di testimonianze distruggono il cuore dei genitori. A indirizzare i giudici nelle indagini sono alcuni disegni, fatti proprio dai minori. Secondo gli psicologi, i bimbi avrebbero tratteggiato nei fogli di carta figure riconducibili agli atti sessuali subiti. Sembra di assistere ad un film già visto. L’interpretazione delle immagini astratte create dai minori valgono all’uomo un processo che durerà anni e che, ancora, non ha visto fine. Come riporta La Nazione, è fissato per il 17 ottobre, infatti, il processo d’appello nel quale, il protagonista, ora 56enne, deve ancora difendersi dall’accusa di violenza sessuale che, in primo grado, gli era valsa una condanna a 13 anni di reclusione. A indurre i pm ad aprire il caso fu proprio Claudio Foti. Il terapeuta, nel 2012 firma la perizia che pone sotto accusa il dipendente della scuola materna nel Valdarno. Il metodo è sempre lo stesso. Deduzioni sulla base di disegni e denunce da parte dei minori avvenute dopo un percorso di psicoterapia. Così, come nei casi di Bibbiano, nei quali i bambini sarebbero però, stati plagiati e indotti a confessare abusi mai avvenuti. Il terapeuta della Hansel e Gretel fu anche presente come testimone al processo, durante il quale dichiarò che i bambini erano stati abusati e che erano in grado di testimoniare su quanto era successo. Dichiarazione subito contraddetta, in aula, da un’altra consulenza d’ufficio, che era stata disposta dal tribunale allora presieduto da Silverio Tafuro. Il collegio peritale di cui era alla guida il professor Giovanni Battista Camerini - riporta La Nazione - affermò che i piccoli sarebbero stati incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. La conclusione di Foti venne definita “Sconcertante per improprietà”. Crolla la prova principale: il racconto dei minori. La sentenza è scritta. Il bidello viene assolto il primo dicembre 2016. Adesso, la corte d’appello ha disposto un’ulteriore perizia che impone che la capacità dei bimbi debba essere valutata caso per caso. I piccoli, ormai cresciuti, verranno ascoltati di nuovo. Quanto si riveleranno esatte,in questo caso, le deduzioni del terapeuta torinese? Se l’assoluzione venisse confermata saremmo, per l’ennesima volta, davanti ad una storia che ha distrutto la vita di un uomo, accusato ingiustamente di aver compiuto degli orrori e cambiato l’esistenza di bambini e famiglie costretti a vivere, per anni, con il dubbio di essere state vittime di un mostro.
BUSINESS AFFIDAMENTI. Il caso Bibbiano, a «Non è L’Arena» uno dei papà sul presunto sistema di affidi illeciti. Uno dei papà coinvolto nei presunti affidi illeciti: «Hanno stilato relazioni false su cosa si faceva e diceva». Corriere Tv il 22 settembre 2019. Il caso Bibbiano è uno dei temi affrontati nella prima puntata della nuova edizione di «Non è L’Arena» di Massimo Giletti. Parla uno dei papà coinvolti nel presunto sistema di affidi illeciti venuti alla luce nel corso dell’inchiesta ‘Angeli e Demoni’: «Hanno stilato delle relazioni completamente false su cosa si diceva e cosa si faceva all’interno degli incontri» dice l’uomo nel servizio trasmesso durante la puntata di domenica 22 settembre.
Ad Atreju la testimonianza choc di un padre di Bibbiano. "Così grazie alle mie denunce è partita l'inchiesta". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. Si parla del dramma di Bibbiano, ad Atreju, nella sessione intitolata come l’inchiesta che ha fatto indignare l’Italia sugli affidi illeciti di della Val d’Enza, Angeli e Demoni. Ma non solo, si parla anche della comunità toscana il Forteto, al centro di un altro grande scandalo di sopraffazioni e violenze. Ad introdurre il senatore Fdi Alberto Balboni, che osserva: “oggi dobbiamo chiederci perché è accaduto tutto questo”. La parola passa poi al direttore de Il Tempo Franco Bechis, il quale traccia un quadro di queste storie. La realtà di Bibbiano, spiega, “era stata dipinta da una parte della stampa come un’eccellenza, ma con 1.200 bambini affidati ai servizi sociali occorreva rendersi conto dell’anomalia”. E prosegue ricordando che “il business degli affidamenti sia maggiore, e di molto, rispetto a quello dell’accoglienza dei migranti”. E poi è il momento delle testimonianze, introdotte dalla deputata Maria Teresa Bellucci. Per Bibbiano parla Antonio Margini. “Ricordate quei bambini affidati ad una coppia omosessuale? Ecco, io sono il papà”. E racconta come un matrimonio come tanti sia stato, un bel giorno, interrotto dalla relazione di sua moglie con una donna. “E parte, contro di me, la segnalazione ai servizi sociali. Vengono ad ispezionare la mia casa, 500 metri quadri con giardino e piscina, e viene definita ‘non idonea’. Scelta incomprensibile”. E poi prosegue ricordando, forse, il momento più duro, cioè il provvedimento che gli imponeva di vedere i suoi bambini solo in “incontri protetti”. Emerge il nome della dottoressa Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza (protagonista di questa vicenda assieme allo psicoterapeuta Claudio Foti). “Mi viene detto che io non posso vedere da solo i miei figli perché sono sospetto di essere un omofobo”. Da lì comincia un ciclo di umiliazioni, in cui addirittura questo padre viene rimproverato per come parla con i suoi figli durante gli incontri. “Ho cominciato a registrare tutto, e quando sono arrivato a 7,8 pen drive le ho portate in Procura e di fatto si è creato il ‘la’ per l’inchiesta”. L’altra testimonianza, poi, è di Debora Ghillon, Toscana. Fu portata al Forteto, la ben nota comunità di Angelo Fiesoli, a 16 anni, incinta. “Arrivai lì per alcuni problemi che avevo in famiglia. Notai tutte le ragazze che avevano i capelli corti ed erano vestite tutte uguali. Mi venne subito spiegato che la prima regola, lì, era l’amore omosessuale. Per questo motivo c’erano molti ostacoli affinché il padre naturale di mio figlio, un ragazzo di 17 anni, avesse contatti con me e mi venisse a trovare. Un giorno, la mia madre affidataria lo prese a calci, fu l’ultima volta che lo vidi”. Da lì una fase da incubo. “Fui spinta a riconoscere come padre naturale di mio figlio, il figlio di Fiesoli”. Insomma, legata mani e piedi al Forteto. Fin quando, però non sono iniziate le prime denunce, degli altri accolti nella comunità, sottoposti a violenze e costrizioni. Anche Deborah si è unita a quel percorso di ricerca della verità. Ma si capisce che quell’incubo non finisce nè mai del tutto.
Milano, si lancia nel vuoto con la bambina: le avevano tolto altri due figli. La madre giù dall’ottavo piano: lei muore, salva la figlia di due anni e mezzo. Cesare Giuzzi e Gianni Santucci il 23 settembre 2019 su Il Corriere della Sera. La bambina accarezza il viso della madre. La bambina ripete: «Mamma, mamma». È inginocchiata accanto a lei. I capelli biondi della madre sono impregnati di sangue, una macchia larga sul marmo del pavimento. Le 15 di ieri passate da poco, nell’androne di un palazzo signorile al 5 di viale Regina Margherita, non lontano dal centro di Milano. La madre ha abbracciato la sua bambina, 2 anni e mezzo, e s’è buttata nella tromba delle scale, dall’ottavo piano. È morta. La bambina prova a svegliarla, in quel tempo sospeso che dura pochi secondi. Poi, una dopo l’altra, iniziano ad aprirsi le porte. Gli inquilini hanno sentito un tonfo, «come se fosse caduto un armadio». S’affacciano dall’alto. Vedono. Qualcuno perde il respiro. Qualcuno si copre gli occhi. Qualcuno urla. In sette chiamano il 118. L’impiegata di uno studio legale al piano terra esce e si trova davanti la scena. Non pensa. S’avvicina. Stacca la bambina dal corpo della madre. La tira su. Se la stringe in braccio. «Vieni con me, piccola. Vieni con me. Non stare qui». Le prime sirene attraversano il traffico. Accorrono tre Volanti della polizia. Arrivano gli specialisti della Scientifica per il sopralluogo. In pochi minuti accertano: la donna, 43 anni, ha due figli (8 e 11 anni) da una vecchia relazione con l’erede di una dinastia industriale lombarda. La bambina più piccola l’ha avuta con un altro uomo. Il palazzo per uccidersi con sua figlia l’ha scelto a caso. È entrata. Al custode ha detto: «Devo andare nello studio legale». Ha lasciato il passeggino all’ingresso, ha preso l’ascensore e ha appoggiato la borsa sul pianerottolo prima di buttarsi. «La bambina è viva, è un miracolo», bisbiglia un soccorritore. In serata, dopo un intervento all’ospedale «Niguarda», diventa una certezza: la piccola non ha lesioni cerebrali, solo fratture e violenti traumi al torace e all’addome, resta in pericolo di vita per tutto il pomeriggio, in serata i medici dicono che si salverà. Il Corriere non rivela alcun dettaglio personale della donna per proteggere i suoi bambini. Nella borsa i poliziotti trovano una convocazione dal Tribunale per i minorenni per un’udienza del 26 settembre, giovedì prossimo. La vita alla deriva di questa madre è raccontata negli atti giudiziari. Laureata in legge. Praticante senza aver mai lavorato. Molto benestante, di famiglia e di relazioni. I primi due figli affidati al padre. L’ultima perizia, di lei, diceva: «Gravi disturbi di personalità, narcisista e immatura, ma no disturbo psichiatrico». Poi ha conosciuto un altro uomo. È nata la bambina, che da sempre è affidata ai servizi sociali, ma in carico alla madre. Avrebbero dovuto vivere insieme in una comunità a Milano. Ma la madre s’allontanava di continuo. Ci sono molte segnalazioni, anche sull’uso di cocaina. Negli atti (di parte) viene accusata di avere relazioni molto ambigue, di uscire dalla comunità per andare al mare o nei locali, di lasciare la bambina da sola, di aver falsificato un certificato medico per non far vedere la figlia al papà, che avrebbe diritto a stare con lei 4 ore a settimana. Soprattutto, seguito dagli avvocati Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, da agosto l’uomo ha intrapreso un nuovo percorso legale che, più dell’affido, puntava a un obiettivo netto e urgente: la mamma è pericolosa per la bimba. Di questo si sarebbe discusso in aula tra due giorni. Alle 10 di ieri mattina la donna ha mandato un sms al suo avvocato, Federico Balconi. Diceva: «Ho scritto una piccola memoria in cui smentisco punto per punto i testimoni. Ci vediamo alle 16, vero?». Alle 15 s’è trovata per caso davanti a quel palazzo col portone spalancato su viale Regina Margherita. Ed è entrata con la sua bambina.
«La donna ha ammesso i suoi errori»: l’ultimo referto 5 giorni prima che si lanciasse dall’ottavo piano con la figlia. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Gianni Santucci. Il 18 settembre, mercoledì della scorsa settimana, i servizi sociali del Comune scrivono una stringata relazione. Il documento, non più di una ventina di righe, certifica però alcuni fatti che oggi diventano cruciali. Elementi che aprono una prospettiva ancor più nera sul suicidio della donna, 43 anni, che poco dopo le 15 di lunedì scorso, 23 settembre (cinque giorni dopo quella relazione), si è lanciata dall’ottavo piano di un palazzo portando con sé la sua bambina di 2 anni e mezzo. In quel documento i servizi sociali, che hanno in affido la piccola fin da quando è nata, prendono atto che la madre non vive da tempo nella comunità alla quale è stata assegnata e dove dovrebbe passare (almeno) tutte le notti. Sostengono di averle proposto una comunità alternativa, ma che la donna l’ha rifiutata. La signora ha detto di vivere in un suo appartamento, e lo fa come se fosse libera (e non lo è) di condurre la sua vita in piena autonomia. Come se le direttive del Tribunale per i minorenni e delle autorità fossero elastiche, poco più che suggerimenti. I servizi sociali ritengono anche che, rispetto a tutto questo, la signora si sia ravveduta, «riconoscendo di aver commesso molti e gravi errori» (appunto, una continua violazione delle prescrizioni: le regole che avrebbe dovuto rispettare per vivere in comunità e in semi-autonomia accanto a sua figlia). Ecco, di fronte a questa situazione non si accende alcun allarme, non nascono sospetti, non si ritiene di dover valutare un qualche intervento d’urgenza. Il contenuto di questo documento va letto in parallelo con le richieste affannate e accorate del padre di quella bambina, che con i suoi legali Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, dopo continue segnalazioni, a settembre ha consegnato al Tribunale un faldone di indagini difensive che contiene testimonianze, chat, foto e video: raccontano che quella madre ha istinti al suicidio, ha detto di voler uccidere la figlia, è stata denunciata per abbandono di minore, ha un giro di frequentazioni molto ambiguo. Con istanze urgenti al Tribunale del 2 settembre, 9 settembre e in un’udienza del 12 settembre, l’uomo e i suoi avvocati hanno invocato l’affido o in alternativa la protezione della bimba. L’immagine di quella donna però, dall’altra parte, è stata definita per mesi da educatori, assistenti sociali e periti, cristallizzata escludendo qualsiasi elemento di rischio. È accaduto anche con la stessa comunità di Milano che il 10 luglio, quindi due mesi e mezzo prima della tragedia, in un’altra relazione sostiene di avere il sospetto, «da settimane», che la donna non rientri neanche di notte. Si limitano a richiamarla e la invitano a riprendere gli incontri con la sua educatrice, che la donna (sempre per sua decisione) ha sospeso dalla primavera. Anche questa relazione (pur dicendo che è più serena, più sicura e che ha una ricca relazione con la bambina) dimostra che quella donna viveva di fatto in autonomia quasi totale, e senza alcuna vigilanza, o comunque con blandi richiami. L’unico elemento problematico, si ripeteva, era il conflitto col padre della bambina. La donna è morta. La piccola si è salvata, ma è ancora ricoverata in condizioni gravissime al Niguarda.
La figlia, le liti, i servizi sociali: l’inchiesta sulla madre suicida. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Giuseppe Guastella. Ipotesi istigazione a carico di ignoti: in Procura le carte del Tribunale per i minori sulla morte della madre che lunedì si è lanciata dall’ottavo piano con la figlia di 2 anni in un palazzo di viale Regina Margherita.
Affido sotto esame. L’inchiesta per istigazione al suicidio è stata aperta subito dopo la morte della madre che lunedì si è lanciata con la figlia di 2 anni e mezzo dall’ottavo piano di un palazzo in viale Regina Margherita. Ma quello che avrebbe dovuto essere un «contenitore» formale per fare tutti gli accertamenti necessari e di routine, come avviene sempre in questi casi, a breve inizierà a «riempirsi» di una mole di documenti sulla storia della donna di 43 anni e della sua bambina (che si è salvata ma è ancora in condizioni gravissime al «Niguarda»). Il sostituto procuratore Maura Ripamonti, titolare del fascicolo, ha chiesto infatti al Tribunale per i minorenni di Milano tutta la documentazione sulla vicenda dell’affido della bambina, che fin dalla nascita è stata in carico ai servizi sociali. Allo stesso modo di altri fatti di questo genere, di fronte a una persona che decide di uccidersi, l’istigazione al suicidio viene ipotizzata contro ignoti e non ha alcun legame con quello che è accaduto prima. In questo caso però esiste una battaglia legale tra i genitori, contenuta negli atti in possesso dei giudici minorili: documenti che dovranno essere esaminati dal o Ripamonti per valutare se esistano responsabilità di qualcuno e di che genere siano. Il che potrebbe, eventualmente, anche far modificare le accuse. L’inchiesta della Procura avrà dunque l’obiettivo di mettere ordine in quella storia cristallizzata in migliaia di pagine, che comprendono relazioni dei servizi sociali e degli educatori della comunità che ospitavano madre e figlia, perizie di parte o ordinate dai giudici, memorie e indagini difensive. Migliaia di pagine in cui si trovano due ricostruzioni totalmente opposte della realtà. Da una parte, la donna si descrive unicamente vittima di un complotto per sottrarle figlie (già due sue bambine erano state affidate al padre). Una linea sulla quale esiste una generale concordanza con le relazioni dei servizi, della comunità e dei consulenti di parte. Di fatto, emerge l’immagine di una donna che aveva una buona relazione con la figlia e che, pur con parecchie mancanze nel rispetto delle regole, si stava avviando verso un’autonomia. Dall’altra parte, sempre al Tribunale per i minorenni sono raccolte le decine di istanze del padre della piccola, rafforzate anche da corpose indagini difensive, in cui la donna era accusata di usare cocaina, di aver abbandonato in qualche caso la figlia da sola (su questo esiste anche una denuncia penale a Brescia), di avere frequentazioni ambigue, di essere psicologicamente instabile di aver manifestato più volte istinti suicidi. L’ultima richiesta di proteggere la bambina risale a tre ore prima del suicidio. L’unico punto di contatto, al momento, è l’ammissione della donna di alcune sue mancanze: «L’avere a volte disatteso i regolamenti della comunità, così come tutte le altre sciocchezze — si legge nella sua ultima memoria difensiva — sono state fatte esclusivamente per quello che io ritenevo il bene della mia bambina». Il punto chiave però, per la donna, era chiarire di essere vittima di attacchi e false accuse da parte del padre.
GLI ORCHI, LA FAMIGLIA, LA POLITICA. Franco Bechis su Bibbiano: "Pensavo usassero il caso contro il Pd, poi ho letto le carte". La scoperta-shock. Libero Quotidiano il 23 Settembre 2019. "Bibbiano è Italia, è Europa, è il mondo, è lo specchio della decadenza di una civiltà". Franco Bechis, sul Tempo, spiega perché è giusto continuare a parlare dell'indagine sullo scandalo adozioni della cittadina nel Reggiano. Un caso di cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni parlano da mesi, e che di contro il Pd che vede alcuni suoi esponenti coinvolti sta trascurando. Il direttore è intervenuto ad Atreju, la festa di FdI, per moderare un dibattito sul tema, chiamato direttamente dalla Meloni. "Ho sempre una certa diffidenza - confessa Bechis - sull'uso delle inchieste giudiziarie come arma politica e giornalistica (sconsiglio ai politici di farlo, prima o poi questo metodo si ritorcerà con chi lo impugna), e ancora più pudore avevo avvicinandomi a quelle cronache sulle vite di minori, spesso bambini, strappati alle famiglie naturali con provvedimenti autorizzati dalla magistratura". Anche perché chi come il M5s prometteva "Noi con il partito di Bibbiano mai" dopo un paio di settimane è stato pronto a "infilarsi proprio con quel partito nello stesso letto matrimoniale con gran piacere". Insomma, chiosa il direttore, "era chiaro l'uso strumentale del caso Bibbiano". Poi però, pungolato dalla Meloni, ha letto con attenzione tutte le carte dell'inchiesta ed è arrivato a una conclusione: "Aldilà delle responsabilità penali personali che verranno stabilite nei processi, dietro il caso Bibbiano c'è una questione culturale e antropologica profonda". Migliaia di bambini sono stati sottratti ai padri e madri naturali per venire affidati a "cooperative o comunità che fanno quel mestiere, coppie o unioni civili dello stesso sesso preferite alla famiglia originaria". I numeri del "modello Emilia Romagna" sono impressionanti: "Nei comuni della Val d'Enza cui appartiene anche Bibbiano c'erano nel 2016 1.900 bambini affidati ai servizi sociali. I minorenni in quelle stesse terre erano 12mila, quindi quelli con situazioni familiari difficili o impossibili erano addirittura il 16%. Quindi o eravamo in terre abitate solo da orchi e orchesse, o altro che modello, quella di Bibbiano era invece una anomalia che avrebbe dovuto fare saltare tutti sulla sedia e indagare per capire cosa era accaduto". Il nemico, suggerisce Bechis, forse non sono gli orchi "ma la stessa famiglia naturale. Perché retrograda, perché ancorata a vecchi stili di vita, perché non abbastanza evoluta dal punto di vista culturale, magari semplicemente perché povera. In molti di questi casi sarebbe bastato dare un aiuto economico alle famiglie naturali e i problemi sarebbero stati facilmente risolti, e a costo assai minore da quello sopportato dai servizi sociali attraverso l'affido a cooperative o case famiglia dove il costo di mantenimento di un bimbo oscillava fra 100 e 200 euro al giorno e talvolta anche molto di più". Simbolicamente, conclude Bechis, oggi al governo c'è proprio il partito di Bibbiano, "che ha le sue radici culturali in parte del Pd, ma anche dentro il M5s e nell'Italia viva di Matteo Renzi". E chi ha a cuore la famiglia naturale è all'opposizione.
Metodo Bibbiano: la storia di Mina e i “diavoli della bassa modenese”. Le Iene il 4 ottobre 2019. Matteo Viviani racconta la terribile storia di Mina e Najib. Le loro figlie sono state allontanate dalla famiglia per presunti abusi sessuali, raccontati dalle bambine 4 anni dopo essere state allontanate, in un centro che aveva già raccolto i racconti dei bimbi coinvolti nel caso dei “diavoli della bassa modenese”. False relazioni dei servizi sociali per sottrarre i bambini alle famiglie d’origine e affidarli a pagamento ad altre famiglie? Una vicenda incredibile, che ha inizio il 27 giugno scorso, quando i carabinieri portano a compimento l’operazione chiamata “Angeli e demoni”. Funzionari pubblici, assistenti sociali, medici e psicologi avrebbero, stando alle accuse, manipolato le testimonianze dei minori per allontanarli più facilmente dalle famiglie, mandandoli in affido e sottoponendoli a un ciclo di cure psicologiche a pagamento. Tutto parte nell’estate del 2018, quando sul tavolo della Procura di Reggio Emilia arrivano numerosissime segnalazioni di abusi sessuali sui minori. Segnalazioni che arrivano tutte dal servizio sociale della Val d’Enza, un gruppo di comuni del nord Italia che ha sede a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Gli investigatori piazzano cimici e avviano intercettazioni: per la Procura si è scoperchiato un sistema ben collaudato. Ma come funziona questo sistema? Dopo una segnalazione generica, magari quella di una famiglia in difficoltà o di maltrattamenti, si allontana subito il minore, che viene preso in carico dai servizi e avviato a un lungo percorso di psicoterapia pagato dal Comune. E quelle sedute di psicoterapia vengono fatte da una onlus piemontese, il Centro studi Hansel e Gretel. Da quel momento i bambini iniziano a raccontare di abusi sessuali terribili durante le sessioni. Ma quegli incontri si sarebbero svolti in modo assolutamente inconsueto. Un bimbo di 8 anni sta parlando con una psicoterapeuta, oggi indagata, che travestita da lupo finge di essere il papà del bambino. Questo, secondo il gip di Reggio Emilia, è fatto “per alterare lo stato psicologico ed emotivo del bambino rispetto ai propri genitori e alla loro condotta”. E dopo essere arrivato addirittura a far immaginare al piccolo la morte dei genitori. “Dobbiamo fare una cosa grossa, vedere tuo padre per come è nella realtà e sapere che quel papà non esiste più. È come se dovessimo fare un funerale”: un modo per costruire nella mente dei piccoli un ricordo di abusi. “Ma tu sentivi qualcosa là sotto nella patatina?”, dice a una bambina di 9 anni la psicologa, quando la piccola le dice di stare pensando agli abbracci di suo papà nel lettone. E quando la bimba dice un secco no a quella domanda, la psicologa insiste chiedendole se lui si muoveva. Lei, confusa da quella domanda che non capisce bene, risponde “un po’” e allora la dottoressa tira la somma: “Eh, faceva sesso!”. Ma a quanto pare, visto che la bimba non ha mai parlato di violenze, la psicologa sarebbe arrivata addirittura a modificare un disegno della bambina, aggiungendo elementi di chiara connotazione. Dopo un anno la bimba è tornata a casa dai suoi genitori. Quella di Bibbiano è una tragedia forse già accaduta, come nel caso dei “diavoli della bassa modenese”, di molti anni prima. Un caso tornato alle cronache dopo 20 anni a seguito dell’inchiesta dei nostri colleghi Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che lo hanno raccontato nel libro “Veleno”. Una storia che avrebbe molti punti in comune con le vicende di Bibbiano. Nel Modenese sono 16 i bambini allontanati dalle proprie famiglie, per accuse di pedofilia, satanismo e omicidi. Patrizia Micai, un avvocato che da 20 anni lavora al caso dei diavoli, dice al nostro Matteo Viviani: “Come può essere che all’improvviso dei bambini vedano i diavoli, le bare, i morti? È un fatto inquietante”. Noi de Le Iene abbiamo trovato una storia del passato in cui gli attori principali sono proprio quei professionisti legati al caso della bassa modenese. Una storia che sembra raccontare un metodo fuori da ogni regola. La storia di Najib e di sua moglie Mina. Najib è il padre di due ragazze che non vede da quando sono bambine. Mina è la mamma, le figlie le sono state portate dai servizi sociali appena arrivate in Italia dalla Tunisia. Siamo all’inizio del 2000: dopo la nascita della seconda figlia la donna divorzia e si sposta dalla Tunisia arrivando in Italia, dove trova un nuovo compagno. Due anni dopo, nel 2006, le bambine raggiungono la madre in Italia ma accade che il suo nuovo compagno inizi a maltrattare le bimbe. Mina si presenta al pronto soccorso, dove vengono notati i segni di quelle botte. “All’ospedale i dottori fanno tutte le visite – racconta la donna - e attivano i carabinieri, oltre a un’equipe specializzata in maltrattamenti”. Mamma e bimbe vengono prese in carico dai servizi sociali e mandate in una comunità protetta. Qui però le cose sembrano non procedere bene, tanto che una relazione dei servizi dice che la madre non si interessa alle figlie e che è capitato che uscisse senza di loro. Mina nega con tutte le sue forze, spiegando al nostro Matteo Viviani che non era possibile in alcun modo uscire da quella struttura. “Incapacità genitoriale” scrivono i servizi in una loro relazione e allora il tribunale per i minori chiede di collocarle in un ambiente protetto, “non necessariamente con la madre”. “Sono arrivate le assistenti sociali con i carabinieri, non mi hanno detto che volevano togliermi le bambine, ma le hanno prese”. Le due figlie di Mina vengono portate in una comunità per minori, lo stesso centro che anni prima ospitava alcuni dei bimbi del caso dei “diavoli della bassa modenese”. “Era il luogo dove questi bambini venivano ascoltati”, spiega l’avvocato Patrizia Micai. Le relazioni di quel centro piemontese, dove vengono portate le figlie di Mina, sono firmate dalla psicologa Valeria Donati, che nel caso Veleno aveva raccolto le dichiarazioni del bambino zero, il bambino da cui tutto è partito”. “Prima di essere allontanato dalla famiglia, mesi prima, questo bambino non aveva mai detto nulla”, spiega ancora il legale. Le relazioni della Donati a quei tempi parlavano di funerali, di bambini seppelliti vivi, di bambini che uccidevano altri bambini. Un orrore inimmaginabile. Intanto le figlie di Mina, dopo sei mesi in quel centro, a raccontare che le botte non arrivavano solo dal nuovo compagno della madre ma anche da lei stessa. “Non ho mai picchiato le mie bambine, le amavo tantissimo”, racconta con le lacrime agli occhi Mina. La donna tenta di vedere le figlie ma questo non fa che peggiorare la situazione: i servizi scrivono che lei “è poco lucida e concentrata solo su se stessa” . A scriverlo è Federica Anghinolfi, una delle principali indagate per i fatti di Bibbiano, accusata di aver falsificato documenti per dimostrare abusi che alcuni dei bambini non hanno mai davvero raccontato. Mina si separa dal nuovo compagno, trova un lavoro ben pagato e va a vivere per conto proprio: nella nuova casa ha già le due stanze pronte per le bimbe ma niente da fare, le bimbe non tornano. Le può vedere solo per 45 minuti al mese, sempre sotto lo stretto controllo degli assistenti sociali. “Le bambine pensavano che io le avessi lasciate lì, erano cambiate, piangevano sempre”, racconta la donna. Ma le relazioni degli assistenti sono impietosi con la madre e spiegano che è solo lei a cercare il contatto fisico con le bimbe, come per dimostrare che le bambine non vogliano avere contatti con lei. All’incontro del mese però succede una cosa terribile: la bimba piange e quando la madre chiede il perché lei dice che aveva dormito con un uomo. Mina è sconvolta e dice all’assistente sociale che, se fosse stato vero, l’avrebbe uccisa. La madre chiede una prova ginecologica, che però non verrà mai concessa. Per gli operatori del centro Mina è diventata aggressiva nei loro confronti, tanto che viene processata e condannata a dieci mesi per violenza e minacce a pubblico ufficiale. Mina viene dichiarata parzialmente incapace di intendere e di volere: gli incontri con le figlie vengono sospesi e da allora la mamma non vede più le bambine. Ma la cosa ancora più incredibile è che nessuno abbia mai cercato il genitore naturale delle bambine, come dovrebbe essere per legge. Anzi, è il contrario. Il padre infatti ha presentato dieci diverse domande per potere vedere le figlie, dichiarandosi disponibile a occuparsene. L’uomo arriva a lasciare il paese d’origine e il lavoro per raggiungerle in Italia, mentre gli assistenti sociali scrivono che lui si è sempre disinteressato di loro. E quando Najib si presenta ai servizi di Reggio Emilia, viene cacciato e anche al Tribunale dei minori gli chiudono la porta in faccia. Il padre chiede ufficialmente l’affidamento delle figlie ma i servizi sono irremovibili. Gli negano anche gli incontri protetti con le bambine, chiesti da un giudice. Dopo una battaglia durata 9 anni Najib ottiene la certificazione giudiziaria che non ha mai abbandonato le bambine. Alla fine però ci si limita a un’audizione delle bambine, a cui però non viene detto che il padre le sta cercando, “per non destabilizzarle”. La madre inizia uno sciopero della fame e proteste tra Reggio Emilia e il Parlamento ma nel 2009 da quella comunità parte una nuova segnalazione contro di lei. A firmare è la responsabile del centro, la psicologa Valeria Donati, che accusa la madre di fatti infamanti: abusi sessuali e prostituzione minorile (le bambine sarebbero state abusate da uomini che la mamma portava a casa). Accuse basate sulle dichiarazioni della figlia maggiore di Mina, ma a 4 anni dall’allontanamento. Una storia incredibile di abusi e anche orge, anche alla presenza del secondo compagno della madre. Le relazioni con le presunte dichiarazioni delle bimbe sarebbero però piene di contraddizioni tra loro. Si parla addirittura di una valigia piena di soldi, coi proventi della prostituzione, che sarebbe stata sotto al letto della madre. Una valigia mai trovata. Vi facciamo notare una “piccola” incompatibilità: la psicologa Donati era responsabile della psichiatria, della comunità dove le piccole erano ospitate e “portavoce” di questa denuncia gravissima. “Come musulmana, se dormo con un uomo che non è mio marito è un grande peccato per la mia religione e per la mia morale”, aggiunge Mina. Come anche per i casi della bassa modenese, anche qui ciò che la Donati relazionava ai giudici non si sarebbe basato su registrazioni video né audio, né su relazioni di quegli incontri con le minori. In quel procedimento Anna Cavallini, perito del tribunale di Modena, è incaricato di verificare le dichiarazioni delle piccole. La stessa Cavallini era già stata perito del tribunale di Modena in uno dei processi ai “diavoli”. Ma le dichiarazioni delle piccole cambiano col tempo. All’inizio la bambina dice di non aver assistito direttamente alle violenze sulla sorella. Poi però cambia versione, aggiungendo che la sorella era presente e veniva abusata insieme a lei. Racconti francamente incredibili, con la bimba che parla di violenze avvenute addirittura in un bagno di un bar. Il risultato della visita ginecologica, 4 anni dopo l’allontanamento, è chiaro: abusi. La relazione però cita 11 indicatori di presunta violenza che un medico chirurgo specializzato in pediatria, sentito da Matteo Viviani, definisce così: “Possono essere fattori normalissimi, fin dalla nascita, in alcune bambine. Sono normali varianti della fisiologia e dell’anatomia umana, ma qui vengono poste come elementi sicuri di abuso. Su 11 indicatori citati, c’è un solo elemento che può essere ricondotto a un trauma o a un contatto sessuale . Difficile però pensare che una bambina di 5 anni venga sodomizzata con una penetrazione completa e poi la mattina dopo possa andare tranquillamente all’asilo. È un po’ inverosimile”. Relazioni però sulla base delle quali Mina è stata condannata a 8 anni di carcere per maltrattamenti e prostituzione minorile. Ma la volete sapere la cosa più incredibile? La figlia più grande di Mina viene adottata da una famiglia che abita nello stesso comune della Donati. La piccola? Addirittura dalla stessa Donati! Matteo Viviani si reca dalla psicologa ma lei non ha niente da dire. “Io non parlo di queste cose sulla stampa”. E intanto ci sono due genitori che non vedono più le proprie figlie da anni.
Bibbiano, Mauro Grimoldi a Pietro Senaldi: "Delirio di onnipotenza degli psicologi". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. «Bimbi sottratti ingiustamente ai genitori? Ci sono tanti casi in Italia, quanto successo a Bibbiano non è un' eccezione, lo sa qualsiasi psicologo giudiziario. C' è una falla nel sistema, una patologia da sanare, anticorpi che non si attivano». Mauro Grimoldi, ex presidente dell' Ordine degli Psicologi della Lombardia, consulente del tribunale di Milano ed esperto nella valutazione di minori autori di reato ne ha viste tante e ha deciso di squarciare il velo delle ipocrisie. Non c' è nessuno scandalo politico, non esiste un partito di Bibbiano «e sono convinto anche che non ci sia nessun traffico, nessuna compravendita di bambini; almeno io, nella mia esperienza, non ne ho mai avuto il sentore. Tuttavia Bibbiano ha scoperchiato un enorme e reale problema». Grimoldi ci tiene a mettere subito in chiaro le cose, perché questa non è un' intervista scandalistica, ma solo la testimonianza di un professionista di grande autorevolezza che svela le proprie convinzioni dopo decenni di esperienza sul campo. La storia che ci ha raccontato è inquietante: il destino di adulti accusati di reati che generano stigma e suscitano spontaneo sdegno e orrore, o quello di bambini che hanno l' unica colpa di essere figli di genitori che si separano in modo conflittuale è affidato allo Stato. «Sbagliare per eccesso o difetto di tutele in questo caso produce sempre un disastro che deve essere evitato in ogni modo. La sorte di bimbi e genitori si dovrebbe giocare su fatti e indagini accurate, verificabili, eppure può capitare che qualcuno agisca sulla base di preconcetti ideologici» è la denuncia dello psicologo.
Dottor Grimoldi, com' è possibile che uno psicologo indichi la necessità di togliere un bimbo a una madre e a un padre senza che ci siano inconfutabili prove di incapacità genitoriale?
«È un tema di esercizio del potere, tema che mette sempre il singolo di fronte alla tentazione dell' onnipotenza. La verità che conoscono tutti gli addetti ai lavori è che esiste una nicchia minoritaria di psicologi e psichiatri cui viene affidato un compito delicatissimo, quello di esprimersi sulla capacità a testimoniare di una presunta vittima di violenza, oppure sulle capacità genitoriali di qualcuno, e che agisce sulla base di pregiudizi. Il loro ruolo, anziché ricercare la verità, diventa quello di dimostrare una tesi, di fare giustizia. Diventano dei missionari. Quando nel lavoro si incontra questo genere di consulenti d' ufficio ci si accorge che ogni dialogo o prova a discolpa portata dagli esperti di parte è inutile. Lo psicologo del tribunale conosce le conclusioni cui deve arrivare prima di iniziare. È un gravissimo problema per le conseguenze sociali dell' operato di questa minoranza di colleghi».
Questo può segnare la vita, e talora anche la morte, di cittadini comuni, che potremmo essere anche noi e i nostri figli.
«Non dovrebbe succedere, e nella maggioranza dei casi non succede. Avremmo tutti gli strumenti necessari per evitarlo, anzitutto il confronto tecnico con i consulenti nominati dalle parti in causa, ma anche i test e l' osservazione della relazione dei bambini con i genitori condotta con metodi esistenti, obiettivi e verificabili. Lo psicologo dovrebbe sempre confrontare le proprie convinzioni con la possibilità che la verità possa essere diversa. È ciò che distingue un percorso scientifico dall' ideologia. Per questo è particolarmente odiosa l' idea che il tecnico, cui è affidato un compito delicatissimo, in realtà possa talora lavorare secondo una posizione pregiudiziale, tendendo semplicemente a verificare una convenzione preordinata. Ci sono, in sintesi due modalità di approccio all' esecuzione di un compito tecnico di valutazione. Una consiste nel continuo tentativo di falsificare le proprie convinzioni, le si verifica pensando a soluzioni alternative, l' altra può essere definita confermativa di una posizione data. Si tratta di una questione etica, di tensione ideale nell' esercizio del proprio compito».
Come avviene che si dimostri che una famiglia non è adeguata o che un bambino è vittima di violenze che invece non ha subito?
«In astratto manipolare un bambino è facile. Fino a sei anni i minori sono totalmente suggestionabili, è ancora forte in loro il pensiero magico, che gli impedisce di cogliere il nesso tra causa ed effetto. Ma in realtà fino a dieci anni il bambino non ha una personalità tale da contraddire l' autorità esterna».
Lo si manipola promettendogli dei premi?
«Non serve, basta suggerirgli le risposte, chiedergli "è vero che è successa quella cosa?", per sentirsi confermare ciò che ci si aspetta. Ma in realtà è sufficiente che il bambino intuisca che ci si aspetta da lui una frase perché la dica spontaneamente. È così che la verità psicologica deforma la realtà e ne crea una parallela, sbagliata, che diventa però quella giudiziaria, e quindi, per gli effetti che produce, reale più di quella vera».
In sostanza gli si riesce a far dire quel che si vuole?
«Sì, se conduci le indagini in maniera suggestiva o senza adeguata preparazione sulla conduzione di audizione a minori. Qualcosa del genere è accaduto qualche anno fa nel caso di Rignano Flaminio».
Ma perché uno psicologo dovrebbe avere interesse a togliere un bambino ai genitori?
«Non è una questione di interesse. Direi che quella che ho definito, e ripeto essere, una patologia del sistema deriva da due tipi di pregiudizio».
Quali sono questi pregiudizi?
«Ruotano quasi sempre intorno al tema, evidentemente rilevante, della violenza e dell' abuso. Ci sono i negazionisti, che quando incontrano vissuti di violenza e di vittimizzazione nel corso di vicende di separazione conflittuale, fingono indifferenza e fanno di tutto per negarla sistematicamente. Recentemente nel corso di una consulenza, un bambino per quattro volte in un' ora ha cercato invano di raccontare le violenze cui aveva assistito per molti anni, e la consulente attivamente cambiava argomento. L' ideologia che c' è alla base spesso cerca di privilegiare, sempre e comunque, la famiglia tradizionale. Poi ci sono i cosiddetti abusologi, quelli che mirano alla dimostrazione della colpevolezza di autori di reati di violenza e abuso. Con Bibbiano si è arrivati a sospettare la manipolazione di colloqui e test. Sono convinto non solo che in astratto possa succedere ma anche di averlo visto accadere e di averlo segnalato».
Questi psicologi alla Bibbiano agiscono come santoni?
«Direi che si comportano più come missionari ciechi. Pensano di dover dimostrare una verità, e alla fine la trovano anche dove non c' è».
Diciamola tutta: gli psicologi in giudizio possono arrivare a creare una realtà che non esiste?
«L' errore qui ha cause spesso multiple e conseguenze gravi, su adulti e minori: stravolge le loro vite, le distrugge e le ricrea, producendo effetti catastrofici. Ma questo non succede solo con i minori».
Cosa intende?
«Nei processi penali, per esempio, ancora oggi lo psicologo talvolta cerca connessioni tra la personalità e lo stile di vita di un individuo e la possibilità che abbia commesso il reato».
Ma questo non è normale?
«Non dovrebbe esserlo, è vietato dall' articolo 220 del codice di procedura penale, e perfino i trattati di psichiatria forense segnalano questo come un errore grave. Ma ancora oggi ci sono giudici che chiedono se la personalità di un soggetto è coerente con la commissione di un reato o con l' esserne vittima. E psicologi che accettano di rispondere. È una metodologia lombrosiana. Sostenere che se hai un tratto somatico inquietante sei un criminale non è molto diverso dal cercare correlazioni tra un tratto della personalità e il fatto che tu abbia commesso un reato. Le prove processuali per giustificare una condanna, come un provvedimento d' affido, devono essere oggettive, non presuntive, o probabilistiche».
I giudici hanno colpe in questi affidamenti su presupposti sbagliati?
«Il giudice ha una competenza giuridica e un tempo limitato a disposizione: è naturale che si avvalga di consulenti, spesso molto validi».
Quindi il giudice è completamente manovrabile dagli psicologi?
«No. Il giudice deve affidare al consulente un compito tecnico, ma ha gli strumenti per difendersi dagli psicologi ideologizzati. I consulenti tecnici sono scelti dal magistrato tra esperti con una competenza molto specialistica. I nomi si conoscono. Se qualcuno raggiunge sempre le stesse conclusioni, è difficile che passi inosservato. Specie nelle realtà di provincia, come Bibbiano. Sono certo che il giudice, quando legge una relazione, è messo in grado di capire se le argomentazioni dello psicologo sono pretestuose o non adeguatamente motivate, specie leggendo attentamente anche le relazioni dei consulenti di parte, che sono il primo anticorpo alle perizie basate su pregiudizi».
L' esplosione del caso Bibbiano potrà in futuro sanare in qualche modo la patologia dei bimbi dati in affido con leggerezza?
«Me lo auguro ma non è facile. Trovo preoccupante che un grave problema tecnico venga strumentalizzato politicamente, perché sposta il focus».
In concreto cosa si può fare?
«Gli assistenti sociali coinvolti in casi così delicati dovrebbero avere un carico di lavoro non eccedente quanto umanamente sopportabile, ed essere affiancati da supervisioni costanti e competenti. I giudici e i consulenti dovrebbero valorizzare il contraddittorio tecnico come momento prezioso, di verifica e di garanzia. E gli Ordini degli Psicologi, infine, hanno il compito di garantire la qualità degli interventi dei propri iscritti. È una priorità l' intervento disciplinare sui casi critici, senza timore di comminare sanzioni che impediscano di nuocere a coloro che espongono le famiglie a sofferenze evitabili. Però il caso Bibbiano potrebbe produrre effetti negativi anche al contrario».
A cosa si riferisce?
«Alla donna che si è buttata dall' ottavo piano pochi giorni fa a Milano con il bimbo di tre mesi in braccio. Non escludo che la suggestione dello scandalo di Bibbiano abbia generato un eccesso di cautele rispetto a un intervento necessario». Pietro Senaldi
Sciacalli, fake e caccia alle streghe, tutta la verità sul caso Bibbiano. Simona Musco l'11 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il presidente del tribunale dei minori smonta il caso. Secondo Giuseppe Spadaro sarebbe necessaria la figura di un legale che tuteli gli interessi dei minori. Il cosiddetto “Sistema Bibbiano” non esiste. Non esistono i «bambini portati via alle loro famiglie per fare quattrini», né migliaia di casi di ragazzini “rapiti” senza motivo dagli assistenti sociali. Una certezza emersa durante una riunione voluta dal presidente del Tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, che lo scorso 13 settembre ha incontrato i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia, impegnati sui diversi fascicoli provenienti dalla Val d’Enza, finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. E se un sistema è emerso dopo quell’inchiesta giudiziaria, che ha tentato di fare luce su nove casi sospetti di affido, è quello dello «sciacallaggio» mediatico e politico. Che ora rischia di provocare un effetto anche peggiore: una sfiducia nelle istituzioni e, quindi, una riduzione delle denunce per maltrattamenti. Così come rischiano di diminuire le famiglie disposte a farsi carico dei minori allontanati dal proprio nucleo familiare, destinati così a finire in comunità. L’allarme è stato lanciato nel corso della riunione voluta da Spadaro, durante la quale si è discusso degli esiti dell’analisi effettuata su ben cento casi risalenti agli ultimi due anni e provenienti dalla zona interessata dall’inchiesta. Un’attività di approfondimento preceduta da quella relativa ai nove fascicoli finiti in “Angeli e Demoni”. Di questi, sette sono stati chiusi con un ricongiungimento dei bambini ai loro genitori, avvenuto ancor prima dell’emanazione dell’ordine di custodia cautelare. Una decisione presa su segnalazione degli stessi servizi sociali e per merito dell’attività istruttoria svolta dal tribunale, dopo aver constatato il rientro della situazione di pregiudizio. Ma anche ciò è stato usato strumentalmente: sebbene il ricongiungimento sia avvenuto prima degli arresti, la notizia è stata diffusa solo pochi giorni dopo l’operazione, alimentando l’idea che un sistema esiste ed è marcio. Per altri due casi, più complessi e frutto di segnalazioni anche da parte di insegnanti e medici, il tribunale ha deciso di effettuare un’ulteriore indagine, affidando l’incarico ad un altro servizio sociale e nominando un consulente. Ma l’analisi è andata ben oltre, appurando come su cento richieste di affido 85 sono state respinte. Un esito confortante, dunque: il sistema degli affidi, al di là delle possibili storture, funziona, perché può contare anche su procura minorile e tribunale, che accertano la fondatezza delle segnalazioni. Un lavoro che richiede qualche mese di tempo, ma che rappresenta il filtro necessario per evitare traumi inutili. Lo studio, dunque, dà una certezza: al netto della patologia imprevedibile, costituita da singoli assistenti sociali e psicologi disposti a commettere un reato, non esiste una macchinazione finalizzata a strappare i bambini ai propri genitori per lucrarci su, così come descritta nei mesi scorsi. Un messaggio devastante, ha sottolineato nel corso della riunione Spadaro. Ma se tale visione ha preso piede, la colpa è anche e soprattutto della strumentalizzazione, spesso a fini politici, della vicenda, con la conseguenza, denunciata dai servizi sociali, che ora tutto il sistema è in difficoltà. E di bambini realmente maltrattati «ce ne sono a migliaia». Le criticità, però, non mancano. E tocca al legislatore – ora affiancato dalla “task force” del ministro della Giustizia – risolverle, ha sottolineato durante il vertice Spadaro. Che ha avanzato dei suggerimenti, come quello di nominare «un curatore speciale, con un avvocato per ogni minore, a prescindere dai genitori». Ma il primo punto su cui intervenire, ha sottolineato, è l’articolo 403 del codice civile, per ridurre il potere autonomo in via d’urgenza in capo ai servizi sociali, che consente loro di effettuare allontanamenti in via temporanea. Sarebbe utile, poi, accordare maggiori poteri giurisdizionali di controllo ai giudici minorili, con modifiche sulla procedura per una maggiore partecipazione nel rispetto del contraddittorio e un aumento delle piante organiche dei tribunali dei minori. Rimane la preoccupazione per gli effetti mediatici della vicenda. «Trovare persone disposte a prendere in carico bambini con così grossi problemi è difficile – ha evidenziato Spadaro nel corso della riunione – e ora lo sarà ancora di più. Sono persone straordinarie, disposte a prendersene cura pur non avendo la certezza che un giorno saranno i loro genitori». Un problema che si associa allo scoramento dei servizi sociali. «Se ci sono 17 mele marce – ha aggiunto non si possono buttare via 10mila assistenti sociali».
«A Bibbiano un sistema sano». Il Pd cerca di “cancellare” lo scandalo e vuole le scuse. Leo Malaspina giovedì 10 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. «Su Bibbiano qualcuno chiederà scusa al Partito democratico per mesi e mesi di calunnie?», si domanda il deputato del Pd Ubaldo Pagano. La faccia tosta è clamorosa, ma non è l’unica. Da questa mattina, sulle bacheche dei militanti del Pde anche di alcuni parlamentari, è tutto un fiorire di commenti. Lo scandalo degli affidamenti del paesino emiliano, che vede coinvolto anche il sindaco dei Democratici, sembra essere diventato una fake news. «Dovranno chiederci scusa», «Ecco, avete visto?», «A Bibbiano non è accaduto nulla». Il motivo?
La faccia tosta del Pd: su Bibbiano vuole le scuse. Cos’è successo? La novità è una dichiarazione del giudice del Tribunale dei minori di Bologna, secondo cui – a parte i casi accertati di abuso, 15 su cento – «il sistema dei servizi sociali era sano». Sano perché a fronte di un centinaio di segnalazioni di affidi illeciti o scorretti, in 85 casi non si è arrivati all’allontanamento dei bambini, archiviando le denunce arrivate. Ma va chiarito che i casi “sospetti” non sono affatto il 15%. «In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso l’affido esplorativo. I ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati», spiega l’edizione di Repubblica Bologna, citando il Tribunale dei Minori. L’indiscrezione sarebbe emersa a margine di una riunione voluta dal presidente Giuseppe Spadaro per fare il punto della situazione dopo l’indagine “Angeli e Demoni”.
«Il sistema è sano, a parte le mele marce…». Secondo quanto spiega Repubblica, Monica Pedroni, nuova dirigente dei servizi con sede a Bibbiano, avrebbe rassicurato gli operatori: « Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L’assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Secondo il presidente Spadaro il “sistema” ha dimostrato nel suo complesso di essere sano: « Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Nel complesso, significa che il 30% dei casi è sospetto: se vi sembrano pochi… In una trentina di casi, infatti, i giudici hanno deciso per «l’affido esplorativo»e in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. Numeri che – se confermano che non tutti a Bibbiano erano corrotti o in malafede, tra gli operatori sociali, com’è ovvio – non sgonfiano affatto lo scandalo. Anzi, ne confermano la gravità.
Bibbiano, respinti otto allontanamenti su 10. Il Tribunale dei minori: «Il sistema ha retto». Il presidente Spadaro fa il punto: «Se ci sono mele marce devono pagare». Redazione, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. Sono passati tre mesi dall'esplosione dell'inchiesta della Procura e dei carabinieri sulla drammatica vicenda di Bibbiano, in val d'Enza. Un centinaio di bambini allontanati ingiustamente dalle famiglie, l'accusa. Psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali sotto inchiesta, anche il sindaco di Bibbiano coinvolto nel caso. Adesso l'intera vicenda viene ridimensionata da Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale dei minori di Bologna. Ma ciò non significa che si possa fare come se non fosse mai accaduto nulla, perché le segnalazioni - rivelatesi per lo più infondate - sono partite o transitate attraverso i servizi sociali e così il sistema di verifiche sembra aver bisogno di un'importante revisione. «Su cento segnalazioni solo in 15 casi i giudici hanno accolto le richieste di allontanamento» sintetizza Giuseppe Spadaro, facendo il punto della situazione dopo l'indagine ribattezzata in modo inquietante «Angeli e Demoni». Alla riunione voluta da Spadaro , come riporta Repubblica.it, hanno preso parte i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia impegnati sui diversi fascicoli della Val d'Enza. E Spadaro avrebbe rassicurato gli operatori: «Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L'assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Ma il sistema nel complesso sarebbe sano: «Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Come spiega Spadaro, su cento fascicoli esaminati non è stata riscontrata nessuna anomalia, ma c'è voluta tutta l'estate per passare allo scanner le richieste di provvedimenti per i minori della Val d'Enza. Questo periodo è stato usato dai magistrati per controllare la regolarità degli allontanamenti dei bambini dalle loro famiglie. Il dato emerso, per i giudici, è confortante. Eppure, ad approfondire che cosa si nasconde dietro le statistiche, ovvero l'odissea di intere famiglie, i numeri dicono che su un centinaio di segnalazioni dei servizi di Bibbiano, con i quali si prospettava l'allontanamento dei bambini, in 85 casi il Tribunale ha deciso diversamente, ovvero di lasciare i bimbi nelle proprie case. In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso «l'affido esplorativo»: i ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati.
Meluzzi al legale di Foti: "Se fossi bimbo abusato mi asterrei da Bibbiano".
La risposta dell'avvocato: "Non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". Francesca Bernasconi, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. "Se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Con queste parole, lo psichiatra Alessandro Meluzzi ha attaccato Andrea Coffari, avvocato di Claudio Foti, direttore scientifico della onlus Hansel e Gretel, implicata nell'inchiesta Angeli e Demoni, durante la puntata di ieri di Quarto Grado. Secondo il professor Meluzzi, generalmente, "un buon criterio psicanalitico e psicologico dovrebbe spingerci ad astenerci da questioni che sono state parti gravi nella formazione della nostra personalità e del nostro disagio". Quindi Coffari, che è stato un bambino abusato, non dovrebbe occuparsi dello scandalo di Bibbiano. "Mi lasci dire- continua- che io considero questa sua assunzione di difesa una cosa professionalmente incauta: se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Immediata la risposta dell'avvocato che paragona il suo caso a quello di Primo Levi che, seguendo il ragionamento del professore, non avrebbe potuto scrivere il libro Se questo è un uomo, tornando ad occuparsi di abusi da lui stesso subiti. "La storia la scrivono i testimoni, le vittime sono testimoni di una storia- dice con forza Andrea Coffari-Perciò non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". E conclude avvisando lo psichiatra: "Parla a vanvera di un metodo Foti che non mi sa descrivere. Se ne parla in maniera negativa commette atto di diffamazione". Ma Meluzzi non sembra affatto intimorito e risponde: "Ne risponderò in tribunale".
Il centro del sistema Bibbiano: ecco tutti i tentacoli di Foti. Il professore finito al centro dell'inchiesta ha un passato poco noto: ecco quale. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. Dall’Emilia alla Campania lo scandalo degli affidi illeciti si allarga a macchia d’olio. Sono sempre di più le famiglie che denunciano l’allontanamento dei propri bimbi sulla base di false accuse. A Salerno la Procura si è già messa in moto per rivedere alcuni casi, mentre in città come Verona e Roma sono emerse storie che ricalcano in maniera impressionate quelle che arrivano da Bibbiano. Storie di mamme e papà accusati di aver abusato dei propri figli senza uno straccio di prova, storie di famiglie divise e minori portati via dalle proprie case come fossero dei pacchi. E a Torino? Dopo l’arresto di Claudio Foti, i riflettori sul capoluogo sabaudo si sono spenti, eppure è qui che il professore di Pinerolo, finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni, ha mosso i primi passi come terapeuta. Siamo nel 1980, Foti ha in tasca una laurea in lettere ma finisce a fare un tirocinio da psicologo all’ospedale di Novara. Appena due anni più tardi darà vita alla sua creatura: la Hansel e Gretel di Moncalieri. Qualcosa di più di un quartier generale. La onlus è anche il biglietto da visita con cui il terapeuta riesce ad accreditarsi presso le procure di mezza Italia. I primi li assume a Torino, dove diventa consulente e perito nei processi di abusi e maltrattamenti sui minori, arrivando persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario minorile. Sono gli anni in cui entra in contatto con l’establishment piemontese. Chi se lo ricorda ai tempi degli esordi lo descrive come un personaggio "estremamente carismatico e rassicurante". A fare da cerniera tra lui e quel mondo sono soprattutto gli eventi di respiro internazionale che organizza in città e che lo rendono popolare. La sua credibilità non viene scalfita neppure quando, alla fine degli anni Novanta, l’attività di consulente tecnico d’ufficio si interrompe bruscamente. “Non ho mai visto una perizia d’ufficio, né della procura né del tribunale giudicante, a firma del dottor Foti almeno dal 97”, ci racconta la psichiatra e storica consulente Patrizia De Rosa. Ad un certo punto, infatti, “l’azione giudicante si è resa conto di non aver bisogno di perizie assertive che spesso non si integravano con gli altri elementi di indagine”. Questo perché, il metodo Foti, ci conferma l’esperta, era caratterizzato da “un atteggiamento di estrema vicinanza a quello che riferivano la madre o il padre autori della denuncia”.
Nonostante l’inciampo, il professore continua a godere di ottima considerazione a livello istituzionale. Se per mesi si è parlato di "partito di Bibbiano" in riferimento al Partito democratico, accusato di aver promosso e sostenuto le attività di Foti, l’esperienza torinese insegna che, almeno all’ombra della Mole, l’infatuazione per il guru della psicoterapia sia stata trasversale. Il rapporto tra il Comune di Torino e la Hansel e Gretel, infatti, è stato costante. L’amministrazione guidata dalla grillina Chiara Appendino, ad esempio, ha destinato un assegno di 195mila euro a una decina di realtà volontaristiche. Tra queste spicca proprio la onlus di Foti. Ma già nel febbraio dello stesso anno, Palazzo Civico aveva concesso il suo patrocinio al trentennale dell’associazione. La tre giorni si è svolta in una sala di proprietà della Regione Piemonte, all’epoca governata dal dem Sergio Chiamparino. Uno spazio che, in più occasioni, ha ospitato i seminari organizzati da Foti e rivolti a psicologi, medici, operatori sociali, educatori, insegnanti, insomma tutte quelle figure che lavorano a contatto con bimbi e ragazzi. Parallelamente si intensificano le attività cliniche e terapeutiche. Fiore all’occhiello del progetto è proprio l’equipe che si occupa di maltrattamenti e abusi. Un gruppo di esperti che aveva il compito di diagnosticare il trauma nei casi segnalati dai servizi sociali. Il metodo utilizzato, era lo stesso che, a suo tempo, i tribunali torinesi avevano rottamato, rimpiazzando Foti e il suo staff con consulenti meno "ossessionati" dalla conferma dell’abuso. Una tendenza confermata dai dati diffusi in rete dalla stessa onlus: nel 70% dei casi affrontati, circa 400 dal 2011 al 2015, gli allievi del terapeuta hanno riscontrato il trauma. “Torino è una super Bibbiano. Il caso Hansel e Gretel, il caso Foti nascono proprio qui, quindi se dovessimo trovare un luogo che è la testa della piovra direi che questo è Torino”, ci spiega il professor Alessandro Meluzzi. Per andare a fondo sulla questione è stata creata una commissione d’indagine a Palazzo Lascaris, su iniziativa del capogruppo di Fratelli d’Italia, Maurizio Marrone. “La Hansel e Gretel ha formato intere generazioni di assistenti sociali, educatori, operatori, giudici onorari, tutte figure che appartengono allo stesso ambiente, e il rischio - sostiene il consigliere - è che questo abbia portato a una diffusione capillare dell’ideologia fotiana”.
La rabbia degli assistenti sociali: «Il 90 % è bersaglio di minacce». Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 da Corriere.it. Una ricerca choc, realizzata su oltre 20mila assistenti sociali. Questi i risultati: il 90% degli operatori è stato vittima di aggressioni verbali, sono cioè stati minacciati di comportamenti ritorsivi. Tre su 20 hanno subito una forma di aggressione fisica. Uno su 10 ha subito danni a beni o proprietà, più di un terzo teme per sé o per la propria famiglia. Le vittime sono per lo più donne, che rappresentano la gran parte delle operatrici. Si tratta del cosiddetto “effetto Bibbiano”? No, perché la ricerca (presentata il 15 ottobre a Bologna durante il convegno «AmbienteLavoro») è del 2017 e quindi le cose non vanno bene da tempo. Gli effetti di quella vicenda, ancora aperta, sono caso mai riferibili ad un altro dato, come spiega Gian Mario Gazzi, Presidente del «Consiglio nazionale ordine degli assistenti sociali» (Cnoas). «Sul nostro sito abbiamo un sistema di rilevazione delle minacce: nel periodo estivo, che di solito registra un calo di casi, quest’anno abbiamo registrato una segnalazione al giorno». Quel conto quindi deve ancora essere fatto, mentre gli unici dati di cui per ora siamo in possesso, e che sembrano destinati a peggiorare, sono questi: considerando l’intero arco della carriera professionale, episodi di violenza fisica hanno coinvolto il 15,4% del campione. 872 intervistati dichiarano che in tali eventi l’aggressore ha utilizzato un oggetto o un’arma. L’indagine ha approfondito le modalità in cui si è espressa la violenza fisica contro gli assistenti sociali intervistati, in riferimento all’ultimo trimestre precedente la compilazione del questionario, rilevando che il 2,5% (503 assistenti sociali) è stato spinto da un utente; l’1,1% (214 assistenti sociali) è stato colpito con un pugno o un calcio da un utente; lo 0,7% (126 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico importante e lo 0.9% (192 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico di lieve entità. In un arco temporale così breve, tre mesi, sono stati oltre mille gli assistenti sociali coinvolti. L’esposizione al rischio di subire violenza o aggressività verbale è nettamente superiore nei servizi territoriali dedicati alla tutela minori o alla fragilità adulta, rispetto ai servizi dedicati a chi è sottoposto a misure penali o a servizi più orientati alla consulenza come i consultori. Secondo i numeri forniti dalla Croce Rossa Italiana, nel 2018 si sono verificati 3mila casi documentati di aggressioni agli operatori sanitari. I dati raccolti da Anaao Assomed con un sondaggio del maggio 2018 su un campione di 1.280 soggetti, confermano l’allarme: oltre due medici su tre dichiarano di aver subito aggressioni fisiche o verbali. Aggressioni che consistono in spinte, schiaffi, botte, insulti e minacce. Pronto soccorso, psichiatria e Sert i settori più a rischio. La Croce Rossa Italiana, a metà giugno, ha rilanciato la campagna “Non sono un bersaglio”, diffondendo i dati del primo semestre raccolti dall’Osservatorio creato nel dicembre 2018. Grazie a questionari anonimi tra i propri volontari, la Cri ha potuto rilevare che: quasi la metà delle aggressioni, il 42%, è fisica, e non si limita all’insulto o all’invettiva; quasi la metà delle aggressioni, il 47%, avviene in strada; più di una su quattro, il 28%, è ad opera del branco.
Quel che resta di Bibbiano: tracollo degli affidi, assistenti sociali aggrediti. Simona Musco il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Prima di Bibbiano, il sistema italiano degli affidi era «tra più invidiati al mondo». Ma ora, di famiglie disposte ad accogliere i minori ne sono rimaste poche e i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici. Il sistema italiano degli affidi «è tra i più invidiati al mondo», aveva evidenziato qualche giorno fa, nel corso di una riunione con i responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza, il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro. Eppure, dopo il caso Bibbiano, tutto rischia di crollare. A partire dal numero delle famiglie affidatarie, ormai ridotte all’osso. Ma non solo: i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici e gli stessi operatori sono costantemente vittima di aggressioni. Un clima che trova le sue ragioni nella sfiducia generata dal racconto che del caso Bibbiano è stato fatto, che ha criminalizzato l’intero mondo dei servizi sociali. A segnalare la situazione di pericolo è il presidente del consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali, Gianmarco Gazzi, che parla di una «situazione drammatica». Una situazione in cui, «per propaganda – spiega al Dubbio – si è fatta di tutta l’erba a un fascio». Il racconto mediatico e politico del caso Bibbiano ha infatti messo in difficoltà le persone più fragili, rendendole meno propense «ad avvicinarsi ai servizi». Col rischio «di perderci intere situazioni che hanno invece bisogno di aiuto e di tutela – sottolinea – Inoltre, da quando tutto è iniziato i miei colleghi sono oggettivamente ancora più a rischio di aggressioni, violenze, minacce». Sono infatti aumentate le segnalazioni in tal senso: Gazzi parla di «un caso al giorno», con nove assistenti sociali su 10 che aggrediti nella propria vita professionale. «E non parliamo di urla: ci sono colleghi finiti in ospedale con 20- 30 giorni di prognosi aggiunge – L’ultimo caso nel comasco: un assistente sociale è stato aggredito, ma non dalla famiglia in cui si stava svolgendo l’allontanamento, che ha anzi collaborato, bensì dai vicini». I pericoli derivano anche dalle fake news sui numeri: «c’è chi ha diffuso cifre irrealistiche e scorrette, blaterando su cose come 500mila minorenni allontanati dalle famiglie». Ma la realtà è molto diversa: il ricorso a tale strumento, in Italia, come riportato nella relazione sullo stato di attuazione della legge sull’affidamento, elaborata dal ministero della Giustizia e dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali relativamente al biennio 2014- 2015, ha statisticamente i numeri più bassi in Europa, con 2,6 minorenni dati in affidamento ogni 1000 sotto i 18 anni, contro i 9,6 della Germania, in cima alla classifica, e i 3,9 della Spagna. Gli affidi familiari costituiscono circa la metà degli affidi totali: su 26.615 minori in affidamento, stando agli ultimi dati disponibili, quelli del 2016, sono 14.012 quelli ospitati presso famiglie, nella maggior parte dei casi individuate tra parenti, come previsto dalla legge. I restanti 12.603 minori sono invece risultati residenti in strutture per l’affido, sulle quali ora si è concentrata l’attenzione della task force ministeriale, che ha denunciato costi troppo elevati. «Smettiamola di raccontare storie che non esistono – conclude Gazzi – Bisogna, piuttosto, discutere di interventi preventivi. L’allontanamento è l’estrema ratio. E viene spesso dimenticato che le segnalazioni non partono dai servizi sociali, ma dalle scuole o dai medici di famiglia. Dobbiamo ribadire che non è con i bonus che aiutiamo le famiglie, ma se diamo dei servizi che siano capaci di sostenerli nelle loro competenze genitoriali. Al sud non abbiamo più consultori, mentre gli assistenti sociali in forza agli enti locali sono 12mila, a fronte di 8mila Comuni». A conferma della delicatezza della situazione, anche quanto testimoniato, nel corso delle audizioni davanti alla Commissione speciale d’inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia Romagna, da Daniela Casi, una delle referenti della rete di affido di emergenza emiliana, realtà parallela ed emergenziale rispetto alla rete degli affidamenti. «La vicenda scoppiata in Val d’Enza ha creato molto disorientamento, ma noi vogliamo far emergere il bene che c’è nel mondo degli affidi – ha spiegato Si è creata una sorta di “cappa negativa” su uno degli aspetti più marginali di un affido, quello del contributo economico. Ma le famiglie affidatarie non sono interessate di certo a questo». In questo periodo, dunque, «ci stanno arrivando molte meno richieste di emergenza, ma ciò non significa che ci siano meno situazioni di difficoltà. C’è, piuttosto, meno propensione, da parte dei servizi sociali, ad intervenire». E quando si parla di allontanamento di minori, ha aggiunto, non si deve pensare solo a quelli forzati, ma anche alle stesse richieste d’aiuto delle famiglie. «Un aspetto – ha concluso – rimasto nell’ombra in questi mesi».
Minori: quattro fratelli strappati ai genitori. Le Iene il 10 ottobre 2019. I De Stefano sono una bella famiglia napoletana che per venti anni ha dovuto affrontare un incubo terribile. Questa sera a Le Iene la loro storia nel servizio di Veronica Ruggeri. Vedersi portare via i propri figli senza alcuna colpa. Questa sera nel servizio di Veronica Ruggeri vi racconteremo la storia della famiglia De Stefano. Erano una felice famiglia napoletana composta da mamma Imma, papà Ferdinando e i loro quattro figli: Giusy, Gennaro, Salvatore e Antonio. Venti anni fa la loro vita è stata stravolta completamente ed è iniziato un incubo. I quattro fratelli, all’epoca bambini, vengono infatti allontanati dai loro genitori dopo che su questi cade un’accusa terribile: sfruttamento della prostituzione minorile. Un’accusa che poi si è rivelata falsa. I quattro fratelli non hanno rivisto i genitori per anni, nonostante fossero innocenti. E anche una volta stabilita dal tribunale la loro innocenza, il calvario per la famiglia continua. E l’incubo li perseguita ancora oggi.
Famiglie fragili che allo Stato chiedevano soltanto aiuto. Marco Guerra l'11 ottobre 2019 su Cultura ed Identità. Famiglie fragili, donne sole che hanno subito abusi di ogni tipo e vissuto una vita turbolenta, indigenza economica momentanea o cronica, richieste di aiuto ai servizi sociali ma al tempo stesso tanta dignità, un amore smisurato per i propri figli e una volontà sovraumana di combattere per riaverli tra le loro braccia. Sono questi i tratti comuni che emergono dalle testimonianze raccolte tra le mamme a cui i servizi sociali di Bibbiano e di altri comuni italiani hanno sottratto i loro bambini, laddove forse un aiuto e un’assistenza concreta sarebbe stata più utile. CulturaIdentità ha parlato con Sonia Cecchinato, seguita dai servizi sociali fin da quando aveva 15 anni, età in cui scappa da casa per non subire più abusi. Sonia racconta di non essersi mai drogata, mai alcolizzata, di non avere denunce per violenze, tuttavia i primi 4 figli avuti con un compagno tossico le furono portati via dai servizi sociali per “inadeguatezza genitoriale”. Sonia non si arrende, vede i figli crescere con altre famiglie ed alcuni di essi la fanno diventare anche nonna. Nel frattempo si ricrea una vita con un nuovo compagno e nel 2010 va ad abitare a Bibbiano, qui ha un altro figlio che cresce senza problemi. L’incubo inizia nel 2012 quando il marito perde il lavoro e la coppia chiede aiuto ai servizi sociali. Da quel momento dopo solo tre incontri, gli operatori dei servizi sociali redigeranno la relazione in base alla quale verrà emanato il decreto di allontanamento del bambino dalla famiglia. Tutto avviene il 17 luglio del 2017, Sonia si reca nella sede dei servizi sociali dopo aver lasciato Davide dall’Asilo. Non lo andrà mai più a riprendere e da quel momento lo vedrà solo un’ora ogni due mesi in un luogo protetto. Misure restrittive che non sono mai cambiate, malgrado il marito avesse trovato un nuovo lavoro. La relazione che ha portato al decreto del giudice era firmata tra gli altri dalla Anghinolfi, personaggio al centro dell’inchiesta. “Sono arrivati da noi perché mio marito ha perso il lavoro e ci siamo ritrovati senza un figlio, sono bastati 3 incontri per giudicarci” dice Sonia con tono tranquillo e con la speranza riaccesa dall’esplosione dello scandalo bibbiano. Ora a sperare sono anche altre migliaia di genitori in tutta Italia, che stanno facendo rete con le famiglie di Bibbiano. Chiara Fioletti di Brescia presenta una storia molto simile: compagni violenti, una situazione economica non rosea e la richiesta di aiuto ai servizi sociali che ha avuto come ultimo risultato la sottrazione della figlia nel 2016. Anche Chiara ci tiene a sottolineare che non è mai stata dipendente da droghe o alcol.
Caso Bibbiano, i giudici minorili contro lo sciacallaggio: «Ora basta speculazioni». Simona Musco il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La denuncia dei magistrati: «Non esiste alcun sistema». Il grido d’allarme di Giovanni Mengoli, coordinatore della Rete Minori : «Clima di sfiducia sproporzionato, così rischiamo di lasciare I giovani in condizioni di violenza». La «grave strumentalizzazione» del caso Bibbiano «ha bloccato il sistema di tutela». E ciò a causa di «una incontrollata comunicazione mediatica». Un allarme lanciato Giovanni Mengoli, religioso dehoniano, presidente del Consorzio gruppo CeIS e Coordinatore della rete tematica minori della Federazione italiana comunità terapeutiche, secondo cui l’interlocuzione tra comunità di accoglienza e servizi sociali sono diventate «difficili e formali». E mentre «calano le richieste di ingresso dai servizi», afferma, cresce «il disagio degli stessi ragazzi in accoglienza, confusi e destabilizzati per il clima di sospetto che respirano». Ma a lanciare l’allarme è anche l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, che venerdì si è riunita a Lecce per discutere di devianza e fragilità nei percorsi della giustizia minorile. Un’occasione che è servita per smentire nuovamente «l’esistenza di un “sistema emiliano” fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali», ma anche per condannare il modo in cui la notizia su Bibbiano è stata offerta all’opinione pubblica. Ovvero «senza alcun filtro, cautele, sufficienti e autorevoli spiegazioni dei percorsi investigativi e della peculiarità del caso», esponendo così il sistema della giustizia minorile e familiare «alle speculazioni e, in qualche ipotesi, anche a comportamenti rivendicativi di soggetti in malafede, catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando l’inutile logica del sospetto su tutto e su tutti, anziché proporre quella saggia del dubbio e dell’attesa». Comportamenti, affermano i giudici minorili, che hanno determinato «una devastante e generalizzata delegittimazione delle professioni di aiuto, di assistenza, di cura e protezione delle persone di minore età e della funzione del giudice delle relazioni», ribadendo «l’esigenza di salvaguardare con forza l’indispensabilità di un sistema di giustizia minorile e familiare». Ma la delegittimazione ha riguardato anche il mondo dei servizi sociali. Che al di là delle eventuali «mele marce», sulle quali, come ha evidenziato il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, «sarà la procura ordinaria a fare chiarezza», rimane un presidio fondamentale per la gestione delle criticità. «Dopo il caso Bibbiano – spiega Mengoli al Dubbio – gli assistenti sociali non decidono più nulla. Le comunità, di solito piene, ora sono quasi svuotate, nessuna interlocuzione sta andando in porto e gli unici accessi che abbiamo sono quelli dei minori che finiscono nelle maglie della giustizia, ovvero quelli con qualche misura cautelare e con la messa alla prova. I servizi sociali hanno paura a prendere decisioni, si sentono sotto osservazione». Il tutto a svantaggio dei ragazzi, spiega Mengoli, ma anche delle famiglie. «Il disagio tra i giovani è innegabile – sottolinea – Vedremo tra un anno questo immobilismo che effetti avrà prodotto: basterà monitorare i servizi per le tossicodipendenze, il carcere minorile eccetera. Ho il timore che i problemi di abuso di sostanze aumenteranno, perché bisogna ricordare che quello è un sintomo di un malessere». E ciò, sostiene, implica anche maggiori costi per la comunità. In linea generale, afferma, il sistema funziona e anche bene, ma può migliorare. «Uno dei problemi più seri spiega – è il fatto di lavorare sempre in emergenza. I minori arrivano in continuazione, quindi va aumentato il numero di persone che lavorano in questo settore e quando si fanno degli interventi su un nucleo familiare è importante lavorare anche con i genitori. Servono psicologi, non tanto per valutare, ma per rinforzare». Un problema di priorità politiche, dunque, oltre che di procedure. Che necessiterebbero di interventi per «ammettere la possibilità del contraddittorio», come suggerito anche da Spadaro. Ma urgente è anche sottolineare «la strumentalizzazione mediatica e politica dell’informazione che, a partire dall’indagine su Bibbiano, sta creando un clima di sfiducia verso le istituzioni preposte alla tutela dei minori – sottolinea – Il pericolo è quello di colpevolizzare tutti i professionisti e i volontari, bloccarne le decisioni e abbandonare i minori a condizioni di violenza. Ricordo che le segnalazioni su presunti abusi, maltrattamenti o inadeguatezze genitoriali partono dalla scuola o da privati cittadini e, attraverso i servizi sociali, raggiungono il Tribunale dei minori che apre un fascicolo sul caso».
L'Associazione dei magistrati dei minori: "Il sistema Bibbiano non esiste". Dopo il controllo sull'operato dei magistrati bolognesi, i giudici sentenziano: "Non esiste un sistema emiliano". Costanza Tosi, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. “Non esiste nessun sistema Bibbiano” e “non è vero che i servizi sociali hanno potere assoluto”. Ha sentenziato l’Associazione dei magistrati per i minori e per la famiglia durante il congresso nazionale che si è svolto, a Lecce, venerdì e sabato scorsi. Ad aprire l’incontro è stata proprio una lunga discussione sull’inchiesta “Angeli e Demoni”. Dopo i fatti di Bibbiano il Tribunale dei minori di Bologna era stato accusato di aver, in qualche modo, facilitato il diffondersi del “metodo Foti”. La maggior parte delle relazioni stilate dagli assistenti sociali che si occuparono dei bambini protagonsti dell’inchiesta della Procura di reggio Emilia sui presunti affidi illeciti, infatti, erano state inoltrate proprio al Tribunale dei minorenni di Bologna che, si presume senza effettuare le dovute verifiche, aveva proceduto con le sentenze di allontanamento. Eppure, negli ultimi anni, le richieste di affido provenienti dai servizi sociali dell’Unione Val D’enza avevano registrato numeri altissimi, ma nessuno si era insospettito. O meglio, chi aveva provato a denunciare le storture era stato fatto fuori. Come aveva raccontato a ilGiornale.it Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minori di Bologna, che dal 2009 al 2013, anni in cui ha prestato servizio dichiara di aver assistito a un vero e proprio giro d'affari, intrinso di misteri che parlavamo proprio di false relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", aveva spiegato l’ex giudice, che, ancora oggi, non ha dubbi sulle proprie denunce: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Schiacciati dalle accuse di aver favorito i "demoni di Bibbiano" i giudici avevano deciso di avviare un controllo interno al tribunale per verificare l’operato dei magistrati bolognesi. Sono stati analizzati un centinaio di fascicoli, che ripercorrevano i casi delle segnalazioni arrivate proprio dagli operatori della Val D’Enza, in un arco di tempo lungo un anno e risalente al periodo immediatamente precedente ai fatti di Bibbiano. Secondo i numeri, nell’85% dei casi il tribunale non ha accolto le richieste di allontanamento dei minori dalle loro famiglie. Nel restante 15%, invece, è stato deciso l’affido. Respinto anche il ricorso presentato dalle famiglie in questione. Eppure dagli scandali dei Diavoli della Bassa, alle storie di Morcavallo fino alle denunce della Procura sui casi dei bambini di Bibbiano qualcosa sembra essere andato storto. Considerando vent'anni di scancadali sugli affidi perchè analizzare proprio i dodici mesi precedenti all'uscita allo scoperto delle carte dell'inchiesta? In quei mesi evidentemente le indagini erano già in corso e gli indagati lo avevano capito. Tanto che, persino Federica Anghinolfi, come emerge dalle intercettazioni, sapeva di essere ascoltata. Non era forse necessario andare a scavare un po' più a fondo? Magari durante gli anni in cui le denuncie venivano silenziate e Morcavallo e sui colleghi messi da parte per aver disturbato il queto vivere delle aule di tribunale bolognesi. Ma è bastato un controllo interno per far esultare l’associazione dei magistrati: “In tale situazione risulta smentita l’esistenza di un sistema emiliano”. Intanto le indagini per comprendere se quel sistema fallato fosse davvero alla base delle storie dei bambini di Bibbiano sono ancora in corso. Anche se questo pare non fermare i magistrati, che hanno deciso di mettere a tacere le accuse nei loro confronti con il controllo di appena cento casi. Per l’Aimmf il vero problema è da ricondurre ai media. Secondo l’associazione avrebbero trattato “senza alcun filtro e cautele” l’uscita di informazioni riguardanti i minorenni. Tanto da aver “esposto il sistema della giustizia minorile alle speculazioni”. Il tutto, si legge nel comunicato pubblicato dall’associazione, “catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando la logica del sospetto su tutto e tutti”. Un fatto questo che, per i magistrati, avrebbe causato un danno enorme a tutti coloro che lavorano in difesa dei minori.
Caso Bibbiano, «Gli affidi non sono business ma una vera benedizione». Caso Bibbiano parla la psicologa, Tiziana Giusberti, dirigente dell’Ausl di Bologna: «La gogna contro i servizi sociali rischia di impedirci di aiutare I bambini». Simona Musco il 17 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Non è vero che il numero d’affidi in Italia è spropositato. E non è vero nemmeno che le 85 richieste d’affido respinte dal tribunale dei minori di Bologna rappresentino un campanello d’allarme sulle competenze dei servizi sociali emiliani. Piuttosto, bisogna saper inquadrare i dati, senza quegli eccessivi allarmismi che dopo il caso Bibbiano hanno reso il sistema più vulnerabile, mettendo a rischio la sicurezza dei minori e creando diffidenza nei confronti degli affidi. Uno strumento, invece, importantissimo, sottolinea al Dubbio Tiziana Giusberti, responsabile del progetto “A. A. A. adozione, affido e accoglienza” dell’Ausl di Bologna e dirigente psicologo presso l’azienda sanitaria, che lancia l’allarme dopo l’inchiesta “Angeli& Demoni”. Se da un lato l’indagine ha cercato di fare luce su presunti abusi commessi dagli assistenti sociali della Val D’Enza, dall’altra è finita al centro di una strumentalizzazione mediatica che ha messo in pericolo un intero sistema. «C’è una maggiore diffidenza da parte delle persone e delle famiglie che si avvicinano a noi – spiega Giusberti – E gli operatori sono molto più impauriti, il che mette in pericolo soprattutto la tutela dei bambini». Tutto ciò perché se i servizi non sono liberi di ascoltare le difficoltà dei bambini, espresse attraverso i comportamenti «e non certo attraverso i proclami», il rischio che gli stessi vengano lasciati a situazioni poco sicure è molto alto, come evidenziato anche dal Tribunale dei minori di Bologna. «La gogna di questi mesi ha messo in pericolo il lavoro dei servizi», continua la psicologa. E la conseguenza immediata è il calo dei progetti d’affido, in un periodo in cui, secondo Giusberti, sarebbe invece necessario investire, creando un lavoro congiunto di confronto tra servizi e tribunale. Ciò che succede è, invece, il proliferare di fake news, come quella che ha fatto passare il metodo Emdr, un approccio psicoterapico interattivo e standardizzato, per una forma di elettroshock. «È un ambito molto complesso e bisogna fare un passo indietro per comprendere quali sono le metodologie per ascoltare i bambini e sostenerli – aggiunge Ma quello che sta succedendo in questi mesi rischia di non farci essere all’altezza del compito che lo Stato ci assegna, cioè aiutare i bambini a crescere». Nei giorni scorsi ci ha provato il tribunale dei minori di Bologna a fare chiarezza, analizzando cento casi degli ultimi anni pescati nel bacino di azione dei servizi della Val D’Enza, analisi dalla quale è emersa la certezza di una tenuta complessiva del sistema: ben 85 richieste d’affido, infatti, sono state respinte. Ma se ciò accresce la fiducia complessiva, dall’altro per qualcuno dimostra anche che qualcosa non ha funzionato, dato che nell’ 85% dei casi le richieste avanzate dai servizi sociali non sono state accolte. Una considerazione superficiale, per Giusberti, secondo cui è necessario «provare a comprendere il contesto giuridico». Bisogna, dunque, saper leggere i dati, partendo dal presupposto «che nel momento in cui gli operatori vengono a conoscenza di una notizia di reato sono obbligati ad informare la magistratura». Non ci sono, dunque, troppi affidi in Italia, Paese che si colloca agli ultimi posti in Europa per percentuale di casi. Uno strumento «bellissimo e complicatissimo, che mette davvero al centro il bambino e i suoi bisogni», continua Giusberti, e che richiede uno sforzo inter professionale, cure nei confronti del bambino, della sua famiglia e della famiglia che accoglie. E per fare tutto questo ci vogliono le risorse. L’altro dubbio avanzato dall’opinione pubblica, a seguito dell’indagine, è che lo scopo principale di molte famiglie affidatarie sia il sostegno economico, con l’effetto di trasformare tutto in business. Ma con 500 euro al mese, contesta l’esperta, non si arricchisce nessuno. «La contropartita – sottolinea è cura, sanitaria e affettiva, per bambini lasciati ai margini. Ci si dimentica che la legge italiana è chiara: l’obiettivo è far tornare il bambino in famiglia». Ma come viene mantenuto il legame con la famiglia d’origine? «Con il tribunale lavoriamo moltissimo su provvedimenti come l’adozione mite o aperta – spiega ancora – che garantiscono i rapporti affettivi positivi tra il bambino e la sua famiglia d’origine, assicurando contemporaneamente anche le cure quotidiane». Rimane comunque la necessità di riformare il sistema, così come sottolineato anche dal tribunale dei minori. Aumentando le risorse di personale, sociale e psicologico, troppo basse rispetto al fabbisogno. E serve maggiore supervisione e preparazione di base. «Non è possibile pensare che la decisione di allontanare un minore sia in mano ad un unico operatore – sottolinea Giusberti – Servono una squadra e una riflessione davvero molto seria, ricordando che da l’affido non è l’ultima spiaggia, ma un transito, un periodo in cui un bambino può usufruire del sostegno di una famiglia adeguata, preparata da noi, per poi tornare nella sua famiglia d’origine, una volta che la stessa si dimostra in grado di prendersene cura, materialmente e relazionalmente».
Minore rinchiusa in comunità dai servizi sociali: "Le hanno dato psicofarmaci senza nessun motivo". Dopo l'allontanamento dalla madre la ragazzina è stata portata in un centro in provincia di Asti dove si trova rinchiusa da giugno senza vedere nessuno e imbottita di psicofarmaci di cui non avrebbe bisogno. Costanza Tosi, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Rinchiusa in una casa famiglia, imbottita di psicofarmaci, esclusa dalla vita, distaccata dal mondo. É questa la situazione di Giorgia, una ragazza di 17 anni a cui gli assistenti sociali hanno tolto tutto negli anni più belli della sua vita. Da quando è stata portata via dalla sua casa, la ragazza è rinchiusa in una comunità terapeutica per minori in provincia di Asti. Non può incontrare nessuno, no ha più amiche, non va a scuola. Le sue giornate sono scandite dal sonno e dalle medicine che è costretta ad ingerire. Il suo calvario ha inizio nel mese di maggio. Per Giorgia e sua madre comincia l’inferno. Tra le mura delle loro abitazione un agguato simile ad un blitz. Si presentano in 14, tra assistenti sociali, medici e forze dell' ordine. Vogliono prendere Giulia e portarla via. Che lo avrebbero fatto a tutti costi lo si capisce dalle parole della mamma intervenuta, in veste anonima, a Unomattina, il programma di Rai 1. “Le mostrarono anche una siringa - racconta - per farle capire l' andazzo: se fai problemi, ti sediamo e ti portiamo via.” Ora la donna può sentire Giulia sono una volta a settimana per una breve chiamata di dieci minuti. Se non di meno. Perchè nel caso in cui l’operatore incaricato di supervisionare i contatti tra le due ritenga che la chiamata stia diventando troppo problematica, ha persino il potere di interrompere immediatamente la comunicazione. Il motivo per cui Giorgia è finita in questo lager non ha dell’umano, ma è l’ennesima storia fatta di ingiustizie e forzature ai danni di un minore. L’ennesimo inciampo di un sistema che, troppe volte, invece di aiutare uccide. Circa tre anni fa la mamma di Giorgia decide di affidarsi ai servizi sociali. La sua era un richiesta di aiuto resa necessaria dal difficile momento che lei e la sua prima figlia stavano attraversando. Le due non andavano più d’accordo e il fatto che la madre fosse rimasta incinta di due gemellini Giulia proprio non riusciva ad accettarlo. Così la madre ha cercato di farsi aiutare da qualcuno per riuscire a risolvere il problema che causava sofferenze nella minore. “Quando è stata presa in carico dai servizi sociali Giulia - ci racconta l’avvocato della madre Bruna Puglisi- ha fatto pochissimi incontri con dei professionisti. Due o tre volte ha visto la psicologa e c’è stato un appuntamento con la psichiatra. Fine.” Tre soli incontri e poi il peggio. “Le hanno diagnosticato un funzionamento psichico a tratti paranoide. I servizi sociali, riportavano nelle relazioni, che Giorgia era sola, isolata. Barricata in casa. In realtà questo non è assolutamente vero. La ragazzina andava a scuola come tutti, faceva nuoto ad alti livelli, voleva diventare insegnante. Usciva con le amiche, era una ragazza normale”. Ad ogni modo mamma e figlia hanno fatto quello che gli assistenti sociali consigliavano. Partecipavano a degli incontri e rispettavano il percorso richiesto. Piano piano le cose in famiglia sono iniziate a tornare alla normalità. La mamma ha disgraziatamente perso i due piccoli che portava in grembo e questo ha contribuito al riavvicinamento della figlia più grande. A Giulia era stato chiesto di recarsi ad un centro diurno, ma lei, come racconta l’avvocato, “si sentiva a disagio là dentro, sempre a stretto contatto con ragazzini con problematiche molto serie ed evidenti”. Così, quando il rapporto con la madre ha iniziato a ricucirsi, le due hanno piano piano diradato la loro presenza agli incontri e Giulia ha totalmente smesso di recarsi al centro. Un’iniziativa che non è piaciuta ai servizi sociali. Che hanno deciso di intervenire, richiedendo al Tribunale dei Minori il trasferimento della ragazza in una comunità terapeutica. Dopo poco Giulia è stata prelevata da casa con forza e rinchiusa in questo centro in provincia di Asti dove, per mesi, le sono stati somministrati psicofarmaci pesanti. “La madre non ha mai dato l’autorizzazione e invece alla ragazza sono stati dati farmaci per curare le schizzofrenie.” Ci spiega l'avvocato. Non le dicevano neanche a cosa servissero quelle pasticche. Quando è stata ascoltata in aula di tribunale Giulia, lo ha raccontato: “mi dicevano che erano per farmi stare tranquilla”. Eppure la madre continua a lottare. “Ci siamo rivolti alla Corte d' Appello - continua l' avvocato - per chiedere che fosse dimessa. Persino il pm ha chiesto una ispezione in comunità.” Sono state fatte delle perizie e sia il profilo rilevato dal perito di parte che quello emesso dalla ctu hanno confermato che la ragazzina non ha nessuna tendenza psicotica e non deve prendere psicofarmaci. L’esperto chiamato dal giudice, nella relazione descrive una ragazza che non ha bisogno di terapie farmacologiche costanti. Infatti, si legge nella perizia, Giulia “non manifesta sintomi psicotici, ma ha manifestato gravi disturbi del comportamento reattivi a eventi particolarmente stressanti, che possono essere stati interpretati come sintomi psicotici”. I farmaci per curare queste crisi sono consentiti, ma solo in caso “di intensi stati di ansia o di gravi disturbi comportamentali”. Un racconto agghiacciante che, si aggiunge alle storie delle famiglie piemontesi che noi de IlGiornale.it vi abbiamo raccontato nei giorni scorsi. A poco a poco nella regione della Hansel e Gretel, stanno emergendo decine e decine di segnalazioni che parlano di false relazioni e assurdi pretesti per allontanare i minori dalle proprie famiglie. Ed è per questo che, anche Chiara Caucino, assessore regionale del Piemonte alle politiche sociali, ideatrice peraltro del progetto di legge “allontamenti zero”, ha deciso di provare a vederci chiaro in tutta questa storia. É andata personalmente a suonare il campanello della comunità terapeutica, ma una volta lì davanti nessuno le ha aperto. “Non mi hanno fatta entrare. Non hanno mai aperto il cancello. Siamo rimasti fuori per due ore” ha raccontato. Porte sbarrate. Ma cosa si nasconde dietro quei cancelli? “C’è un atmosfera carceraria - racconta l’avvocato Puglisi - Fanno vivere i minori peggio dei detenuti. Alla Ragazza hanno tolto il cellulare. Non sente più nessuno. Non vede più nessuno. Sta solo a letto. É privata di tutti i suoi diritti.” Per far vivere i ragazzi in questo stato, la comunità dove si trova Giulia, incassa ogni giorno ben 260 euro più iva. E con lei, vivono almeno altre nove ragazze. “Lei vuole uscire, vuole tornare a scuola, sperava di farlo a settembre e invece niente.” Continua l’avvocato. E se Giulia stà male, sua madre muore dentro al solo pensiero di averla vista due volte in cinque mesi, in un luogo neautro e sotto costante osservazione. In fin dei conti lei, voleva solo essere aiutata.
Bibbiano, la testa del serpente: "Qui è iniziato tutto quanto". Dopo l'arrivo di decine di segnalazioni da parte di famiglie che denunciano di essere state allontanate ingiustamente dai propri figli, nella città della onlus di Claudio Foti la Regione ha deciso di istituire una commissione d'indagine. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. Dopo lo scoppio del caso Bibbiano a Torino sono arrivate decine e decine di segnalazioni. Denunce che ricalcano le storie dei bambini di Reggio Emilia e descrivono situazioni di false accuse e finte relazioni con le quali onlus e assistenti sociali sarebbero riusciti a portare via i minori dalle proprie famiglie. Un campanello d’allarme per le istituzioni che, proprio in Piemonte, hanno avviato una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi. Da cosa parte l’idea di istituire un’indagine conoscitiva? “La prima ragione è che ci sono arrivate moltissime segnalazioni che meritano di essere approfondite”, spiega il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, Maurizio Marrone, che insieme alla deputata Augusta Montaruli e al criminologo Alessandro Meluzzi si sta occupando di raccogliere gli appelli dei genitori. Ad aggiungere sospetti anche il fatto che, proprio a nel capoluogo sabaudo, hanno sede alcune realtà coinvolte nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Le stesse che, continua Marrone, “qui da noi hanno avuto per anni in appalto il servizio di formazione degli assistenti sociali e consulenze di psicoterapia a centinaia di minori”. L’esito delle votazioni in Assemblea regionale è stato positivo: 33 i sì provenienti dai gruppi di maggioranza, ma anche da M5s e Moderati. Al via il mandato alla commissione Sanità di svolgere un’indagine conoscitiva sul sistema piemontese di segnalazione e presa in carico di casi di abuso e maltrattamento ai danni di minori. Ma l’iniziativa divide i partiti politici. Il Pd, reduce dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, si è astenuto dalle votazioni. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri – è intervenuta la consigliera Monica Canalis – e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” Un’opportunità per prendere le distanze da un metodo che ha portato allo scandalo sui presunti affidi illeciti e a cui, proprio i dem piemontesi, hanno permesso di diffondersi. “I seminari organizzati – prosegue il consigliere – si svolgevano in sale istituzionali di proprietà della Regione e del Comune di Torino, con tanto di patrocini istituzionali e quote di partecipazione.” Grazie ai patrocini pubblici, le associazioni come Hansel e Gretel non dovevano affrontare alcun costo, a fronte di un guadagno di centinaia di euro a persona. Per di più, l’ordine degli assistenti sociali riconosceva i crediti formativi a questi seminari che, così, diventavano un passaggio quasi obbligato per gli addetti ai lavori. “Il timore è che queste associazioni abbiano influito sulla mentalità professionale degli assistenti sociali, diffondendo un’ideologia che deduce gli abusi sui minori anche quando non ci sono prove e che criminalizza l’ambiente familiare, ritenendo l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione”, conclude il capogruppo di Fratelli d’Italia. A posizionare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidi in Piemonte anche l’assessore Chiara Caucino, che ha sta lavorando a un disegno di legge (Affidi zero) per contrastare l’allontanamento pretestuoso dei minori. “In Piemonte c’è una percentuale di allontanamenti di minori superiore alla media nazionale, quindi – sostiene le leghista – è necessario definire in modo più stringente le regole legate agli allontanamenti”. Secondo i dati forniti dal Centro nazionale di documentazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, in Piemonte i bambini e ragazzi presi in carico e collocati in affidamento familiare nel 2017 erano 1.397 mentre per quanto riguarda le comunità per minori se ne contavano 1.131 per un totale di oltre 2.500 allontanamenti.
Bibbiano arriva a Reggio Emilia, indagata una funzionaria del Comune. Dalle intercettazioni telefoniche ascoltate dai carabinieri emerge che la donna avrebbe avuto contatti con Federica Anghinolfi e consigliato ai vertici dell'Asl di affidare alla onlus di Claudio Foti un appalto pubblico. Costanza Tosi, Martedì 15/10/2019, su Il Giornale. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti e i sospetti sull’esistenza del sistema Bibbiano arrivano fino al comune di Reggio Emilia. "Te lo do brevi manu, perché non vorrei mai che intercettassero delle cose anche nei giri di mail privati". Così recitava, in una telefonata ascoltata dai carabinieri, Daniela Scrittore, una funzionaria del settore Politiche Sociali al Comune di Reggio. Dall’altra parte della cornetta Federica Anghinolfi. La responsabile dei servizi sociali della Val D’enza finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio la paladina delle coppie gay, secondo le carte della Procura, ad essere determinante nel mantenere i contatti che riuscissero a legare tribunali, associazioni, operatori sociali e istituzioni, affinchè il suo progetto aberrante di strappare i minori alle famiglie d’origine per darle in affido ad amici e conoscenti avesse la meglio. E infatti, eccola che spunta di nuovo, in contatto con l’ennesima indagata. Daniela Scrittore, come emerge dalle intercettazione telefoniche mandata in onda in un servizio di Luca Ponzi del Tgr Emilia Romagna, aveva un rapporto molto stretto con l’Anghinolfi e le due si sentivano spesso, per scambiarsi documenti e informazioni. E se alcuni tra gli accusati sembravano essere plagiati dalle più alte menti del sistema occulto, la Scrittore sembrerebbe aver proprio contribuito alle decisioni più importanti. Dalle cinquanta telefonate intercettate infatti, si può dire che fu proprio la funzionaria del Comune a convincere il già indagato dirigente dell’Asl Attilio Mattioni ad assegnare un appalto alla onlus del terapeuta Claudio Foti. In barba alle gare pubbliche. Ad aggiungere dettagli all’accusa sono state anche alcune funzionarie della stessa Asl di Mattioni che, avrebbero confermato di aver incontrato la donna proprio nella segreteria dell’ufficio che aveva bandito la gara. Circostanze negate con forza, da Scrittore in aula di tribunale dove venne ascoltata come testimone nel processo a carico del dirigente, motivo per cui è finita nel registro degli indagati con l’accusa di false dichiarazioni. Secondo gli inquirenti la dipendente pubblica avrebbe sviato le indagini. Mattioli, accusato di aver favorito Foti, procurando al suo centro studi un ingiusto profitto, grazie all’assegnazione di un appalto per un corso di formazione per operatori socio sanitari, era stato interrogato dai magistrati nel mese di giugno. In quell’occasione, l’indagato spiegò di aver affidato il servizio alla Onlus piemontese affidandosi, in via informale, alla sua collega del Comune, la quale gli avrebbe consigliato la Hansel e Gretel come servizio di psicoterapia valido a cui avrebbe dovuto affidare l’incarico. Nonostante l’indagata abbia negato i fatti raccontati dal dirigente dell’Asl le testimonianze del personale incaricato alla segreteria di Mattioli hanno confermato la presenza della donna in circostanze sospette: all’interno degli uffici incaricati per la gara pubblica e proprio nel momento in cui stava per essere determinata l’assegnazione. I racconti hanno confermato i sospetti dei magistrati e adesso, la Scrittore, si ritrova tra gli indagati del caso Bibbiano. Intanto i carabinieri continuano a sbobinare le telefonate intercettate tra la nuova indagata e Federica Anghinolfi e non si asclude che per la Scrittore, possano moltiplicarsi le accuse. Proprio venerdì si è proceduto al sequestro del suo telefono cellulare per ulteriori accertamenti. Un quadro che lascia aperti molti sospetti. Ad aggiungersi alle dichiarazioni in tribunale anche un intervento della Scrittore, risalente al mese di settembre. La funzionaria faceva parte dei mebri del Tavolo regionale sulle linee di indirizzo per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento e abuso, motivo per cui - come riporta La Verità - era stata sentita il 30 settembre in occasione della Commissione regionale affidi, istituita per fare chiarezza sul tema a seguito dei sospetti destati dai casi dei bambini di Bibbiano. Un’incontro in cui la Scrittore apparve schiva e dedita a nascondere le evidenze del caso. Quando i consiglieri regionali la sollecitarono a intervenire su Angeli e Demoni, furono queste le sue parole sui numeri degli affidi nella zona: “Non si tratta assolutamente di numeri anomali, ma di numeri compositi, nel senso che comprendono sia gli affidi consensuali che giudiziali, a tempo pieno e a tempo parziale”. Insomma i numeri non erano un problema, anzi, secondo la funzionaria, potevano persino rispecchiare l’evidenza di un’attenzione particolare alle necessità dei minori: “Se qui ci sono più affidi è perché li preferiamo agli inserimenti in comunità, pensiamo che la famiglia sia sempre una soluzione migliore per i bambini” aveva aggiunto la Scrittore. Sull’affidamento delle cure per la ricerca del trauma alla Hansel e Gretel che, da anni, occupava gli spazi del centro pubblico La Cura, la Scrittore giustifica le scelte del Comune. “Perché i Comuni ricorrono a centri privati? Perché il servizio pubblico in ambito sanitario purtroppo spesso non è sufficiente e non sempre riesce a garantire la cura. Non abbiamo luoghi adatti per fare colloqui e accogliere gli utenti. È come dire alle famiglie: “Ti ho fatto una buona diagnosi, ma ora non posso metterti a disposizione il trattamento”. Insomma, la Asl non era in grado di garantire cure psicologiche ai bambini e quindi meglio affidarli ad un centro “ossessionato” dalla conferma dell’abuso a tutti costi, messo da parte dai Tribunali Piemontesi che avevano riscontrato poca attendibilità nelle ralazioni provenienti dagli operatori di quel centro e, per di più, che negli anni aveva persino sfornato psicologi già finiti al centro di scandali sugli allontanamenti forzati come quelli dell’inchiesta dei Diavoli della Bassa. Ma forse la Scrittore non è d’accordo con l’inadeguatezza del "metodo Foti", tanto che è persino riuscita a difendere l’operato degli undici assistenti sociali che organizzarono il "rapimento" della bambina di Reggio Emilia. Si intrufolarono in casa della famiglia della minore con la scusa di essere della protezione animali e, in undici, strapparono la piccola dalle braccia della madre tra urla di disperazione e pianti da far accapponare la pelle. “L’allontanamento - ha commentato la Scrittore - era stato deciso dal Tribunale per i minorenni e si cerca il più possibile di intervenire affinché la separazione non sia troppo traumatica. In alcuni casi però, quando reiterati tentativi di dialogo con i genitori non vanno a buon fine, è necessario agire diversamente. Rimane un caso eccezionale nel quale i servizi sociali non hanno deciso le modalità d’intervento”. E mentre i magistrati sentenziano l’inesistenza di un metodo Bibbiano, ogni dettaglio che sia aggiunge alle storie degli angeli di Reggio Emilia fa pensare all’esatto contrario.
L'escalation piemontese di Foti, a sostenerlo fu il Partito democratico. Anche in Piemonte sede principale di Hansel e Gretel, Claudio Foti ha approfittato di patrocini pubblici concessi da Pd e M5S per svolgere attività remunerativa di tipo formativo e terapeutico. Costanza Tosi, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Se Claudio Foti negli anni ha riscosso il successo che lo ha portato a raggiungere livelli altissimi nel campo della psicologia è perché qualcuno ha dato credito a tutte le sue teorie, appoggiando le sue ipotesi ed elevandolo a guru della materia. E questo qualcuno è il Partito democratico. Prima di approdare nel reggiano, infatti, il terapeuta finito al centro dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti, è riuscito a portare in alto il suo nome tanto da poter vantare un curriculum pieno zeppo di eventi e convegni da lui presieduti, straripante di docenze di alto livello e una lunga serie di incarichi come consulente tecnico nelle aule di tribunale. Pur non potendo vantare di grossi titoli a livello di istruzione, dove riesce ad ottenere una laurea in lettere (presa in otto anni) e una serie di brevi corsi di specializzazione in ambito psicologico di poco credito. Vette altissime, che Foti ha scalato in Piemonte (regione in cui è nato e dove, anni dopo, ha fondato il centro Studi Hansel e Gretel) grazie al costante sostegno, anche a livello economico, del Comune di Torino, da sempre marchiato dalla direnzione dei partiti della sinistra. Dall’85 all 89 infatti, il terapeuta con laurea in lettere, ha ricoperto il ruolo di professore di “psicologia della devianza” alla Scuola Superiore di Servizio Sociale, il cui ente di riferimento, si legge nel curriculum di Foti, è proprio il Comune di Torino. Poi, una serie di docenze nei vari comuni piemontesi che gli permettono di arrivare persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario presso il tribunale dei minori di Torino per ben 12 anni (dal 1982 al 1994). Un successo che però si rivelerà il primo inciampo per Foti che, “almeno dal 97”, ci spiega la psichiatra Ptrizia De Rosa è stato messo da parte per quanto riguarda l’attività di consulente tecnico in ambito giuridico. “Si era capito che le sue relazioni eccessivamente sbilanciate verso i racconti delle vittime non coincidevano con le evidenze emerse durante le indagini e questo provocava attrito nei casi da portare a termine”. Insomma, il metodo del terapeuta che vantava conoscenze a livello internazionale, iniziava a destare sospetti per i magistrati. Non fu così per le istituzioni che, fino a pochi mesi fa, hanno continuato a finanziare i seminari dell’indagato. Nel 2015, ad esempio, si svolse uno dei convegni patrocinati nella sala regionale Atc. L’obiettivo dell’incontro, dall’inquietante titolo “Recuperare i cattivi. Ma noi, siamo veramente buoni?”, era focalizzato sul lavoro psicologico da svolgere nei confronti di detenuti sex offenders.Tra i partecipanti, l’ormai onnipresente CISMAI. Nel programma, della durata di due giorni, anche il saluto istituzionale di Giovanna Pentenero (Pd), ex assessore all’istruzione, lavoro, formazione professionale della Regione Piemonte. Stessa storia a marzo del 2017 quando, sempre nel medesimo spazio, gentilmente concesso dalla Ragione (al tempo sotto la giunta Chiamparino), si è svolto un’altro incontro di “due giornate di studio organizzate dal Centro Studi Hansel e Gretel.” Il tema era il cavallo di battaglia del professor Foti: “L’educazione sessuale che non c’è, l’abuso sessuale che c’è e il mancato ascolto dei bambini”. Questa volta, l’evento, era persino “accreditato per la formazione continua degli assistenti sociali”. Infine, a febbraio del 2019, la onlus di Foti decise di organizzare un seminario in occasione del trentennale di Hansel e Gretel. Una tregiorni che si è tenuta nella sala convegni ATC di proprietà della Regione Piemonte che, “grazie ai patrocini pubblici viene concessa gratuitamente invece che al costo di 2250 euro da listino”, come ci spiega Maurizio Marrone, capogruppo di Fratelli d’Italia. E, difatti, l’evento era organizzato con il patrocinio del Comune di Torino. Concesso, questa volta, dalla Giunta Appendino. Anche in questo caso l’incontro si rivelava di massima importanza per gli operatori socio-assistenziali, essendo accreditato dall’Ordine degli assistenti sociali per i crediti di formazione. I partecipanti, nonostante la concessione dello spazio a titolo gratuito, per assistere agli interventi dovevano versare 75 euro più IVA. Altro denaro veniva raccolto con una lotteria i cui fondi sarebbero stati destinati “alle terapie dei bambini in condizioni di difficoltà”. Se Claudio Foti ha agito indisturbato per un ventennio formando, attraverso la sua ideologia, decine e decine tra assistenti sociali, operatori e addetti ai lavori c’è stato chi gli ha permesso di farlo. Sponsorizzando il suo operato e garantendo, anche, aiuti in termini di spese. Le amministrazioni Piemontesi hanno permesso al metodo finito sotto accusa per le storie dei bambini di Bibbiano di affondare le proprie radici in tutto il territorio. “Così - spiega Marrone - queste associazioni potevano anche influire sulla mentalità professionale degli assistenti sociali nel diffondere quest’ideologia di sostenere una diffusione capillare degli abusi sui minori e quindi dedurli anche quando non ci sono prove e anche nella mentalità di criminalizzare l’ambiente familiare e optare su l’allontanamento e l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione rispetto all’ambiente che viene molto demonizzato come quello della famiglia d’origine.” E se le sviste degli anni addietro potrebbero sembrare ormai acqua passata, errore figlio di una dilangante “disattenzione”. In realtà il Partito Democratico sembra non voler optare per un cambio di rotta. In Regione, pochi giorni fa, è stata istituita una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi a seguito di decine di segnalazioni arrivate da famiglie che denunciano di essere state ingiustamente allontanate dai propri figli. Il giorno della votazione il Pd, reduce peraltro dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, non ha partecipato al voto. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. Lo dichiara prontamente la consigliera Monica Canalis: “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito Democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” La stessa occasione che si sta lasciando sfuggire anche il governo giallorosso. Nonostante i continui solleciti da parte dei partiti dell’opposizione. “Alla Camera stiamo ancora aspettando che nasca una Commissione d’inchiesta - ha dichiarato il deputato della Lega Alessandro Morelli - continueremo a batterci affinché non cali il sipario sulla vicenda, in barba a quei media che ritengono sia “inutile” indagare su questo sistema”.
Quella lotta silenziosa del leghista su Bibbiano: "Nessuno ne parla". La battaglia solitaria del leghista Alessandro Morelli: "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti. Noi insisteremo a oltranza". Giorgia Baroncini, Sabato 12/10/2019, su Il Giornale. "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti, compreso quello del mondo politico, che fino a poco tempo fa denunciava il sistema degli affidi, salvo poi dimenticarsene una volta spenti i riflettori". Lo ha affermato il deputato Alessandro Morelli, responsabile Editoria della Lega. Morelli ha parlato ogni giorno, per un mese intero, di Bibbiano e dello scandalo "Angeli e Demoni". Il Partito Democratico ha sempre cercato di non affrontare l'argomento mentre in tutta Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle parole che ricordano il simbolo dei dem. Il deputato leghista ha continuato a parlare della tragica vicenda ogni giorni sulla sua pagina Facebook. "Le persone hanno risposto bene al nostro servizio, ringraziandoci per quello che stavamo facendo, ce lo chiedevano proprio loro di parlare di Bibbiano. Sono pochi infatti, e i cittadini ce lo confermano, i media che parlano di quello che per noi rimane il più grande scandalo degli ultimi tempi", ha affermato Morelli. Lo scorso luglio, l'ex governo gialloverde aveva deciso di fare chiarezza dando vita una Commissione d'inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori. "Ad oggi l'istituzione di una Commissione è bloccata alla Camera, dopo l'ok al Senato, e speriamo si velocizzi l'iter - ha spiegato il leghista -. Noi continueremo a occuparcene in sede parlamentare, sono pronti infatti degli atti per sollecitare il governo affinché non cali il sipario su questa vicenda". La Lega vuole tenere alta l'attenzione sul tema e spera di vederci presto chairo. "Insisteremo a oltranza, così come abbiamo già fatto sia alla Camera che al Senato, quando con la collega Lucia Borgonzoni abbiamo mostrato delle magliette al premier Conte per sensibilizzare l'esecutivo sul tema. Stiamo parlando di decine di famiglie alle quali sono stati strappati i figli per ragioni economiche o persino ideologiche, e spesso nel silenzio della politica locale", ha concluso Morelli.
Caso Affidi: quale giustizia per i bambini? Dopo Bibbiano emergono decine di casi analoghi che impongono riflessioni sull'intero sistema. Ne parliamo con l'avvocato Daniel Missaglia che segue questo tipo di casi. Panorama il 26 ottobre 2019. “Quale giustizia per i bambini?” è la domanda che riassume il titolo di un convegno, il primo, organizzato dal Comitato contro l’ingiustizia personale e familiare, costituito poco prima dell’estate con l’ambizioso scopo di fornire supporto alle persone che si vengano a trovare coinvolte in qualunque forma di ingiustizia, anche scaturente da conflitti familiari, attraverso percorsi di conoscenza e approfondimento. Il 29 ottobre 2019, a Palazzo Parigi, Milano, si terrà il battesimo operativo di questo Comitato, presieduto dall’ex Sindaco, Gabriele Albertini. Moderatore l’Avv. Daniela Missaglia, matrimonialista, socio fondatore del comitato stesso di cui è anche membro del direttivo e vicepresidente. L’abbiamo contattata per aiutarci a comprendere il tema del convegno e provare a rispondere all’interrogativo che ne costituisce il titolo.
Buongiorno Avvocato, per quale motivo ha deciso di far nascere questo Comitato ed organizzare questo dibattito?
"Tutto nasce al termine di lunga riflessione maturata all’esito di una pluridecennale attività legale nel campo del diritto di famiglia. Vede, ho sempre vissuto il mio lavoro come una ‘missione’, con particolare attenzione ai minori coinvolti. Per questi ultimi la patologia del nucleo familiare costituisce una lacerazione drammatica e sono loro a patirne le conseguenze. L’avvocato di famiglia incanala i conflitti verso un binario legale e, applicando il diritto e la giurisprudenza, come anche la logica ed il buon senso, contribuisce in modo determinante ad arrivare ad un punto d’arrivo che giova a tutti i protagonisti di queste amare vicende. Non sempre però vi si riesce. E questo dipende anche dal fatto che abbiamo a che fare con un meccanismo di giustizia fatalmente imperfetto".
In che senso, può spiegarci?
"Anni di esperienza nelle aule giudiziarie e nei gangli dell’apparato della giustizia che gravita attorno alle crisi familiari mi hanno formato ed aiutato a riconoscere cosa funziona e cosa no e che costituisce una freno alla risoluzione dei conflitti, pregiudicando la tutela dei soggetti deboli, i figli in primis. Il costituente ed il legislatore hanno disegnato un sistema ‘ideale’, quasi utopistico, attraversato però da numerose falle che, con l’andar del tempo, si sono tradotte in frequenti ingiustizie con danni irreversibili. Ad esempio: se, per colpa del malfunzionamento della giustizia non riesco a conseguire un credito, ho perso del denaro. Importante, vero, ma lo si può superare. Ma quando, per effetto di un cortocircuito distorsivo, finisco per ‘perdere’ l’affidamento o collocamento di un figlio, il danno si ripercuote sulla vita stessa, gli affetti, non è più un danno, è un incubo. A noi giusfamiliaristi le persone mettono in mano le loro vite e quelle dei loro figli e noi stessi siamo spesso accompagnati dalla frustrazione di non riuscire ad ottenere per loro "giustizia" o di non riuscire ad ottenerla in tempo utile. Montesquieu diceva che una giustizia ritardata è una giustizia negata".
Quindi sono i tempi lunghi a creare ingiustizie?
"Anche, ma non solo. Vi sono criticità più importanti che concernono la struttura stessa dei Tribunali. Solo pochi Tribunali, in Italia, in genere quelli dei capoluoghi di regione (ma non tutti), hanno una sezione specializzata nel diritto di famiglia, dove si respira una maggiore capacità di applicare i criteri più corretti ed aggiornati della giurisprudenza e dove i giudici, occupandosi solo di queste vicende, hanno sviluppato maggiore empatia e professionalità con i casi concreti. Ma nella stragrande maggioranza dei Tribunali, quelli medi e piccoli, una separazione delicata viene trattata tra una causa condominiale ed un dissidio fra aziende e fornitori di materiale, decreti ingiuntivi e sfratti per finita locazione. Il Giudice, mancando di specializzazione ed esperienza, finisce sovente per decidere secondo una valutazione estemporanea e non a norma di diritto. Anche nelle sezioni specializzate, però, il ricambio dei giudici è intenso e vengono designati magistrati che hanno tutt’altra formazione e non sono pronti a dirimere casi complessi di conflitti familiari. Quello che si chiede da tempo è che si faccia una seria riforma che crei, in ogni ufficio giudiziario, il Tribunale della Famiglia, così come esiste quello delle Imprese o del Lavoro, formato da giudici specializzati con una peculiare formazione, che permetta loro di affrontare le cause familiari con estrema competenza".
In tal caso i problemi sarebbero risolti?
"Non ancora, perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Quand’anche avessimo ovunque giudici specializzati che assumano decisioni uniformi, non è detto che queste decisioni risultino poi corrette e preservino dalle ingiustizie. Il problema è a monte: con eccessiva frequenza i Giudici abusano del meccanismo della delega e sub-delega, avvalendosi di soggetti terzi a cui devolvono accertamenti istruttori che poi fanno propri e condizionano i loro pronunciamenti. E se questi soggetti cadono in errore, ovvero sono in conflitto di interessi o in malafede, il danno è comunque fatto. Nei procedimenti di diritto di famiglia i Giudici si avvalgono di ausiliari, di consulenti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri in genere), così come di operatori dei Comuni, i Servizi Sociali. Fino ad uno/due decenni fa era il Giudice a prendersi sulle proprie spalle la responsabilità delle decisioni. Con gli anni si è diffuso il meccanismo della deroga a terzi e questo ha amplificato, a mio avviso, i casi di ingiustizie contro cui lotto, sia individualmente sia, da ora in poi, anche attraverso il Comitato".
Chi sono i cattivi che ostacolano la giustizia?
"Non vi sono buoni o cattivi. Esistono giudici capaci, consulenti capaci, assistenti sociali capaci. Poi vi sono gli altri, ed è da questi che bisogna guardarsi. I grandi scandali che, da Bibbiano a ritroso, hanno coinvolto i Servizi Sociali e lo stesso funzionamento dei Tribunali per i Minorenni, hanno acceso i riflettori su un sistema fallato, quand’anche corrotto, secondo i dati emersi nelle inchieste della magistratura. Un circolo vizioso di soldi, rapporti, connivenze, interessi di vario tipo fra autorità, assistenti sociali, cooperative a loro volta delegate dagli enti affidatari, il tutto nel più incivile spregio verso le vite coinvolte, quelle dei bambini e quelle dei loro genitori. Il 29 ottobre parleremo anche di questo, pur stando ben attenti a non generalizzare e non buttare via, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. Ho incontrato operatori sociali di grande sensibilità e passione, e quando è accaduto è stata una benedizione a protezione di chi doveva essere tutelato".
Le è mai capitato invece di imbattersi in un sistema "Bibbiano" o qualcosa di simile?
"Purtroppo sì e anche di questo si parlerà all’evento di Palazzo Parigi. Molte volte ho percepito e raccolto io stessa prove di connivenze inadeguate o sovrapposizioni di nomine: Le sembra normale, ad esempio, che un Assistente Sociale che ha in mano il destino dell’affidamento di un minore ricopra anche la funzione di Giudice Onorario nello stesso Tribunale chiamato a pronunciarsi? Eppure è accaduto, nonostante il Consiglio Superiore della Magistratura abbia cercato di arginare questo fenomeno. Così come accade che i professionisti chiamati ad assolvere il compito di consulenti del giudice appartengano quasi sempre ad un ‘circolo magico’ chiuso, fatto di una ridda determinata di nomi, sempre gli stessi, alcuni dei quali a loro volta in conflitto di interessi a vario titolo. Si costituisce così un potentato autoreferenziale che è molto pericoloso e tende a danneggiare la giustizia privandola della sua rigorosa terzietà e cecità, quella che rende tutti uguali davanti alla legge. Spesso questo non accade, in un sistema malato che crea figli e figliastri o che, come nel caso di Bibbiano, si nutre di affidamenti extra-familiari, in cooperative della stessa rete, per alimentare una giostra infernale che utilizza i bambini per autosostentare se stessa".
A Bibbiano i protagonisti sono i servizi sociali ed il Tribunale per i Minorenni, anche quest’ultimo non funziona?
"Io ne chiedo, da tempo, l’eliminazione con accorpamento di tutte le sue competenze nel Tribunale ordinario, magari in quel Tribunale della Famiglia di cui ho parlato pocanzi. Che funzionino poco e male lo scoprono tutti coloro che, volenti o nolenti, finiscono al suo cospetto. Lo stesso legislatore se n’è accorto al punto da privarlo di competenze, a favore del Tribunale ordinario, in svariati ambiti civili. Il problema sta a monte, nella sua struttura rigorosamente collegiale, dove ogni decisione non può essere assunta nell’immediato da un singolo giudice ma, appunto, da un collegio di giudici togati ed onorari. Questo limite fisiologico, unito alla mancanza cronica di magistrati e ad una struttura del processo tutto sommato libera e deregolata, ha fatto sì che per ogni decisione si aspettino tempi biblici".
Insomma, va tutto male, ma vede luce alla fine del tunnel?
"Certamente, ma ci vuole coraggio e competenza. Coraggio di ammettere che qualcosa non funzioni e competenza nella selezione delle personalità chiamate a riscrivere le regole. I politici si improvvisano tuttologi e spesso invadono campi a loro estranei per formulare proposte di legge che aggravano, anziché risolvere, i problemi. L’Italia, anche nell’ambito del diritto di famiglia, ha realtà di eccellenza, studi legali iper-specializzati, magistrati attenti e competenti, consulenti navigati che non fanno parte di circoli chiusi ed hanno come mero interesse la giustizia. Questo vale anche per ottimi operatori sociali e studiosi della materia. E’ a questi che va affidato il compito di raddrizzare le righe storte di un sistema che può e deve migliorare, nell’interesse di tutti noi cittadini".
Emilia, l'orrore della sinistra: "Affidi a coppie omosessuali". Il deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami denuncia: "Le famiglie povere ora sono diventate preda della sinistra". Luca Sablone, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. Le polemiche sul caso Bibbiano non si placano. Anzi: i toni in Emilia-Romagna sono destinati a inasprirsi. Soprattutto dopo che Giuliano Limonta, coordinatore della commissione tecnica sui minori, ha ridotto il tutto a un semplice "raffreddore". Per questo La Verità ha intervistato Galeazzo Bignami, deputato bolognese di Fratelli d'Italia, che l'ha definita una "banalizzazione intollerabile e allucinante. Da queste commissioni d'inchiesta non ci aspettavamo nulla. Ma neanche ci aspettavamo degli insulti alle vittime". Uno degli aspetti che avrebbe provocato la stortura del meccanismo degli affidi potrebbe essere l'assenza di verifiche da parte di autorità pubbliche indipendenti: "Infatti l'autocontrollo era l'aspetto più patologico di tutto il sistema". Così come spiegò Federica Anghinolfi, una delle indagate: "Ammise che i servizi sociali avevano bypassato un livello di controllo". Inoltre in Val d'Enza era stato "sperimentato un sistema specialistico in connessione con il territorio, senza sottoporsi alle previste verifiche da parte della provincia". E questo significa che "non si possono minimizzare le responsabilità della Regione e del Pd che la guida".
"Adozioni Lgbt". Nella relazione della commissione tecnica si sottolinea che la carenza di personale e fondi nelle strutture pubbliche rischia di spostare il "baricentro delle decisioni clinico-assistenziali in contesti professionali non pubblici". Ma questo passaggio "sembra un tentativo di lavarsi la coscienza". Oggi le Asc, le Asp, le Asl, l'unione dei Comuni, i Comuni stessi possono occuparsi di affido dei minori: "A chi compete unificare il tutto? Alla Regione. Che invece dà la colpa agli altri". Alcuni elementi della commissione Bonaccini stupiscono Bignami: "Non si cita mai l'Anghinolfi, non si citano mai i finanziamenti elargiti. Le commissioni muovono delle critiche lievi, cercando però di salvare il sistema. E poi si continua a mettere a repentaglio la famiglia tradizionale". Sotto la lente di ingrandimento sono finiti i progetti approvati e finanziati dalla Regione: "Tutti volti a un unico obiettivo: vincere le ultime resistenze in tema di affidi alle coppie omosessuali". Il deputato ha parlato anche del Movimento 5 Stelle: "Hanno dato un contributo ad Hansel e Gretel di Foti". Nello specifico Rossella Ognibene, candidata sindaco dei grillini a Reggio Emilia e quindi eletta consigliera comunale a maggio 2019, "si è dimessa per assumere la difesa dell'Anghinolfi". E poi Andrea Coffari, candidato alle politiche per il M5S, "ha assunto la difesa di Claudio Foti". Infine Bignami ha parlato del caso Bibbiano in vista delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna il 26 gennaio: "Nessuno vuole strumentalizzare questa tragedia. Ma di certo Bibbiano è un'ombra pesantissima sui servizi sociali della Val d'Enza e sulla Regione Emilia-Romagna". Infine è stato fatto notare come "le vittime non erano figli di professoroni o professionisti dell'intellighenzia borghese", ma si trattava di "famiglie povere, fasce deboli". "Una volta questa gente era protetta dalla sinistra. Oggi ne è diventata preda", ha concluso.
Meglio le famiglie delle comunità, lo dice la Cassazione. Una recente sentenza della Suprema Corte detta le linee guida sui casi di affidi: prima la famiglia, le comunità solo extrema ratio. Ma la realtà delle cose è differente. Daniela Missaglia il 7 novembre 2019 su Panorama. Il 4 novembre 2019 la Cassazione ha smentito la Corte d’Appello di Venezia che, in aderenza alla precedente pronuncia del Tribunale per i Minorenni della città lagunare, aveva confermato il collocamento di due bambini in una comunità, lontano da mamma e papà, senza accogliere la richiesta dei nonni di affido temporaneo. Gli Ermellini, annullando la sentenza, hanno, ancora una volta, censurato il malvezzo di non considerare un principio basilare collegato alle situazioni in cui i genitori risultino incapaci di assolvere al proprio ruolo. Vien da chiedersi, di fronte alle tragedie di Bibbiano e di tutti i casi che hanno preceduto questa inchiesta, se i nostri Tribunali siano sintonizzati con i principi che la Suprema Corte di Cassazione continua ad enunciare, annullando le sentenze delle corti di merito che perseverano nel privilegiare le strutture esterne alle famiglie quali luoghi in cui disporre affidi temporanei dei bambini strappati ai genitori (per presunte inadeguatezze). Principio secondo il quale occorre sempre privilegiare il contesto familiare dei minori, cui i nonni appartengono a pieno diritto, onde indirizzare i bambini tolti ai genitori presso queste figure con cui hanno un legame affettivo e di relazione. Insomma: la comunità deve costituire solo l’extrema ratio, la scelta ultima quando ogni possibilità di affidamento presso gli ascendenti o altri parenti appaia impercorribile. E’ ovvio, è logico, è umano persino, applicando solo il buon senso. E invece no, pare. Perché le comunità etero-familiari proliferano e si diffondono in tutta Italia, lucrando (in troppi casi, ma non in tutti, sia chiaro) proprio sulla violazione di questo enunciato principio che salvaguarda la famiglia d’origine del minore in luogo di qualsiasi alternativa esterna ad essa. Senza contare che, ad oggi, i controlli sulle Comunità etero familiari si riducono a mere autocertificazioni delle stesse, atteso che le procure presso i Tribunali per i Minorenni non paiono sufficientemente attrezzate per farlo direttamente. E’ un dato di fatto che il giro di denaro che si origina è davvero notevolissimo per quanto ingiustificato visto che, nella stragrande maggioranza delle fattispecie, i nonni (o gli zii) prenderebbero con sé i minori in difficoltà con tutto l’amore possibile e pure a gratis. E chi paga queste scelte? Tutti noi, anche quando non ve ne sarebbe bisogno: Bibbiano sta scoperchiando un vaso di Pandora di incarichi e commesse legati agli affidi temporanei che farebbe girare la testa a chiunque, in termini di spesa non necessaria. Altro che spending review, altro che Cottarelli. Un ingegnere giapponese, Shingo Shigeo, divenuto celebre dopo la seconda guerra mondiale, dedicò la sua vita allo studio dei sistemi per migliorare e rendere più efficienti i processi industriali e coniò un detto che lo rappresenta ma che ben si adatta a queste situazioni: il tipo di spreco più pericoloso è quello che non siamo in grado di riconoscere. Un giro miliardario (sì, miliardario) che - unito ad altri osceni business - fanno dell’Italia uno scolapasta dai cui fori escono rivoli di denaro pubblico che potrebbe essere destinato ad altro. Senza contare che molti dei giudici onorari che decidono gli affidamenti dei minori sono ancora oggi in un palese conflitto di interessi, già ben censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura. In altre parole, ancora oggi, l’operatore sociale è spesso il giudicante. Anche nella graduatoria per il triennio 2020 -2022, sono stati ( ri) confermati alcuni Giudici Onorari, in barba alle ultime circolari del Consiglio Superiore della Magistratura sulle incompatibilità previste per i componenti dei collegi giudicanti di primo grado o delle sezioni per i minorenni delle corti d'appello. Morale: le leggi e i principi ci sono ma il sistema pare allergico agli stessi. Dunque, i poveri nonni, per poter difendere i diritti dei nipotini, dovranno passare attraverso tre gradi di Giudizio, sperando di essere ancora vivi alla fine del percorso giudiziario.
L'ira di una madre: "Mi hanno tolto mio figlio per darlo a una coppia gay". Mamma Roberta si sfoga col Giornale.it: "Dicono che è per il suo bene, ma un bambino non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?" Elena Barlozzari e Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019 su Il Giornale. Quella di Roberta non è solamente la storia di una mamma che sta lottando per riportare a casa i propri figli. Di genitori che si sono riscattati da un passato difficile e stanno cercando di ricomporre il puzzle della propria vita ce ne sono tanti. Ma la sua storia è diversa. Nel suo caso, infatti, sembra di intravedere lo stesso movente ideologico che avrebbe spinto Federica Anghinolfi, paladina dei diritti Lgbt e responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, ad affidare un minore a una coppia di omosessuali. Ma andiamo con ordine. Roberta oggi ha 32 anni. Ne aveva appena 24 quando i servizi sociali del Comune di Torino le hanno tolto i bambini: Riccardo, Maria e Ginevra. Quel giorno non se la scorderà mai. “Sono andata a prenderli all’uscita di scuola – racconta in esclusiva a Il Giornale.it – e non li ho trovati, non c’erano più, li avevano portati via”. Roberta e i bimbi vivevano già da qualche tempo in una comunità mamma-bambino in provincia di Torino. “Quando ho scoperto che il mio ex marito si drogava ho chiesto aiuto agli assistenti sociali – spiega – che ci hanno mandato in comunità”. Quello che doveva essere un modo per proteggere la famiglia ha finito con lo smembrarla. Roberta finisce in mezzo alla strada, i suoi figli, invece, vengono mandati in comunità minorili diverse. La situazione si sblocca nel 2014. Maria e Ginevra vengono affidate alla zia, dove si trovano tutt’ora, la storia di Riccardo, invece, è più complicata. Viene affidato alla nonna materna che dopo poco rinuncia. “Ha preso il bambino – racconta Roberta, che con sua madre ha sempre avuto un rapporto conflittuale – e senza nemmeno avvisarmi lo ha riportato indietro”. Siamo nel 2016 e il bimbo ha ormai dieci anni. L’accaduto le viene comunicato da un’assistente sociale. Ma non è la sola novità. Riccardo, dopo essere stato rifiutato dalla nonna, è stato già dato in affido ad una coppia gay. Roberta non crede alla sue orecchie. Le sembra una cosa assurda. “Dicono di volere il bene di mio figlio, ma un bambino – si domanda – non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?”. L’avvocato Simona Donati che assieme al collega Silvio Delfino sta seguendo il caso di Roberta ci ha spiegato che “a differenza delle adozioni, non esiste una norma che vieti espressamente l’affido di un minore ad una coppia gay ma neppure una che lo consenta”. La legge 184 del 1983 stabilisce che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Insomma, in materia di affidamento la normativa fissa una corsia preferenziale per le famiglie tradizionali e non c’è nessun riferimento alle unioni civili. Ma non è finita qui. Come ha scoperto il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, infatti, “a gestire l’affido di minori alle coppie omosessuali come consulente interna c’è un’assistente sociale del Comune che è contemporaneamente attivista Lgbt e fondatrice di una nota associazione di aspiranti genitori omosessuali”. Quello che potrebbe apparire come un conflitto di interessi sembra non preoccupare l’amministrazione pentastellata. Tanto che a gennaio di due anni fa la funzionaria ha partecipato ad un incontro pubblico “per riflettere sull’affidamento dei minori a persone o coppie omosessuali attraverso la condivisione dell’esperienza di alcuni protagonisti”. Tra le testimonianze c’è anche quella dei due papà affidatari con cui vive il figlio di Roberta. Il tutto con il patrocinio dell’amministrazione comunale. La stessa che negli ultimi mesi si è distinta per aver fatto da apripista alla trascrizione anagrafica dei figli delle coppie gay nati all’estero con la maternità surrogata. “Ci chiediamo se nella Torino amministrata dai Cinque Stelle – denuncia Marrone – le famiglie povere non siano diventate il safari park per le coppie gay ricche in cerca di figli”.
Bibbiano, il ministero non si ferma e manda gli ispettori a Bologna. Simona Musco il 13 Novembre 2019 su Il Dubbio. Si cercano possibili connivenze tra indagati e giudici minorili. Ma sulle toghe che hanno smentito il sistema di “Angeli e demoni” si abbattono vecchie e nuove fake news. L’aria al Tribunale dei minori di Bologna è tesa. Perché dopo l’indagine sui Comuni della Val d’Enza, ormai a tutti nota come “Caso Bibbiano”, le ombre che fino ieri avevano coperto il cielo dei servizi sociali si addensano anche sopra la magistratura, con una nuova inchiesta amministrativa disposta dal ministero della Giustizia a via del Pratello, per accertare eventuali anomalie nell’attività svolta dal Tribunale con l’ausilio del servizio sociale. L’intento del guardasigilli Alfonso Bonafede è quello di monitorare eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile, che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità e il rispetto dei protocolli. Un rispetto che era stato sancito, nelle scorse settimane, da un’approfondita indagine interna disposta dal presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro, sui fascicoli degli ultimi anni, compresi quelli finiti nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Da quell’indagine era emersa una certezza: non esiste, a dire del presidente, alcun sistema Bibbiano, perché gli unici casi ambigui sarebbero quelli finiti sotto la lente della procura ordinaria. Nove casi in tutti, sette dei quali erano già stati “risolti” dal Tribunale dei minori con il ricongiungimento dei minori con le rispettive famiglie. Tutto regolare, insomma, e nemmeno un minimo spazio per poter immaginare connivenze tra i magistrati minorili e indagati. E che le anomalie evidenziate dall’inchiesta non potessero tradursi in un “sistema” era emerso anche dall’indagine della commissione regionale appositamente costituita: nessuna macchinazione mostruosa ordita per allontanare i minori dalle famiglie, bensì singoli «casi in cui qualche anomalia si è verificata e sui quali la magistratura sta svolgendo il suo lavoro», aveva chiarito Igor Taruffi, vicepresidente di quell’organismo. L’indagine del ministro, ora, dà però di nuovo adito a dubbi e sospetti. Un’indagine che non si limiterà all’acquisizione di documenti, ma che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l’audizione diretta degli interessati: dai magistrati al personale amministrativo, passando per chiunque sia in grado di fornire informazioni. «Sin dall’inizio ho chiarito che la protezione dei bambini è una priorità – ha sottolineato Bonafede – e su questo fronte andremo fino in fondo. La prossima settimana presenteremo i dati sul monitoraggio degli affidi effettuato dalla squadra speciale di giustizia per la protezione dei minori. È la prima volta che si è in grado di fornire un quadro di dati chiaro, omogeneo e su base nazionale». L’idea di fondo è quella che esista un’area grigia, con rapporti poco chiari tra indagati e Tribunale. Un’ipotesi fortemente respinta dagli stessi magistrati e che nei mesi scorsi era stata avallata anche grazie a fake news che avevano fatto sospettare del lavoro dei giudici. Tutto fa riferimento ad un’intercettazione del dicembre 2018, nella quale lo psicoterapeuta Claudio Foti del centro “Hansel e Gretel” e l’assistente sociale Francesco Monopoli facevano riferimento all’aiuto che il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti avrebbe potuto dar loro «contattando giudici che sostenessero in un convegno la soluzione metodologica da loro preferita». E alla richiesta di Foti circa il nome del «giudice amico», Monopoli rispose «Mirko Stifano», giudice togato minorile di Bologna che, però, non risulta indagato. Il che significa che per la procura non esistono elementi in grado di sostenere un’accusa circa un suo coinvolgimento nella vicenda. Ed è qui, dunque, che compare l’anomalia a mezzo stampa. A fine luglio, infatti, spunta la notizia shock: il Tribunale dei Minori, scriveva un giornale locale, era stato avvisato dalla procura di Reggio Emilia che uno degli affidi era illecito e che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. Ad avvisare il giudice Stifano sarebbe stato il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, che gli avrebbe chiesto di interrompere l’iter di allontanamento, inviandogli gli atti che avrebbero dimostrato la falsità dei servizi sociali. Una richiesta, riportavano i giornali, caduta nel vuoto, tant’è che il bambino sarebbe comunque finito nel centro “La Cura” di Bibbiano, dove sarebbe rimasto fino all’esecuzione dell’ordinanza. Notizia categoricamente smentita dal Tribunale: la Procura di Reggio Emilia, giurava in una nota Stifano, che ha anche dato mandato ai propri legali per difendere la propria onorabilità, non avrebbe «mai segnalato falsità poste in essere dai servizi sociali», né «fatto richieste o dato indicazioni di alcun genere perché i decreti del Tribunale dei minori non fossero eseguiti». Tant’è che il bambino è stato ricongiunto alla propria famiglia proprio su iniziativa del Tribunale stesso, il 13 maggio, molto prima, dunque, dell’esecuzione dell’ordinanza “Angeli e Demoni”. Una bufala strana, ancora più strana alla luce dell’ispezione disposta da Bonafede.
"Pubblichiamo i dati sugli affidi". Così i giudici finiscono nel mirino. La proposta arriva dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Se la commissione d’indagine regionale ha cercato di mettere un punto alle ricerche sugli affidi illeciti decretando che il sistema è sano e definendo Bibbiano “un raffreddore” c’è chi continua a volerci vedere chiaro. C’è qualcuno che, forse, sulla profondità delle indagini della sinistra per scovare le colpe dei suoi mette ancora un punto interrogativo. Chi, perlomeno, propone di non parlare solo di “macrotemi” e affidarsi ai dati. Forse, sarebbe anche l’ora. A distanza di quattro mesi dallo scoppio dello scandalo sulle storie dei bambini di Bibbiano, che ha portato a un'inchiesta giudiziaria che procede sulle accuse di ventisei indagati e diciotto misure cautelari, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia una nuova inchiesta amministrativa sull' operato del Tribunale di Bologna. "La protezione dei bambini è una priorità", ha affermato il Guardasigilli la cui proposta sarà portata a termine dall' ispettorato del ministero della Giustizia al tribunale per i Minorenni di Bologna. "Una decisione nata - spiega in una nota Bonafede - in seguito all' ispezione eseguita immediatamente dopo l' emergere dell' inchiesta Angeli e Demoni, tenuto conto degli esiti dell'istruttoria". Se non altro forse questa volta si parlerà di numeri e, come si suol dire, la matematica non è un’opinione. Il ministero ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Non sono bastate le rassicurazioni di indagini frettolose, né tantomeno la costanza dei dem nel mantenere oscurata la questione del tema degli affidi per far calare il sipario sugli scandali emersi dall'inchiesta della procura di Reggio Emilia. L’indignazione di centinaia di famiglie impaurite dalla scoperta di un probabile meccanismo, ben collaudato, intrinso in illeciti che lucra sulla pelle dei bambini non è poi così facile da silenziare. L’idea del ministro è quella di "andare oltre le sole forme dell' acquisizione documentale che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l'audizione diretta degli interessati: magistrati professionali e onorari, personale amministrativo, altri soggetti in grado di fornire informazioni in merito alla vicenda e anche rappresentanti del foro locale". Insomma, scavare un po' più a fondo di quando non sia riuscita a fare la commissione d’indagine istituita in Regione. L'obiettivo è quello di "accertare possibili anomalie nell'attività svolta dal Tribunale per i minorenni di Bologna con l' ausilio del Servizio sociale della Val d'Enza". Era proprio lì, dalle aule del tribunale bolognese che passavano la maggior parte delle relazioni fallate stilate dai servizi sociali che, in alcuni casi, passate inosservate e senza essere verificate sarebbero costate l'ingiusto distacco di una famiglia dal proprio bambino. Tanti, troppi problemi riscontrati dalla Procura di Reggio nei casi dei bambini finiti nelle mani di Federica Anghinolfi e Claudio Foti, potenti dirigenti inseriti nel sistema e capaci di dialogare con magistrati, istituzioni e onlus. Da lì l'allarme. La nuova indagine amministrativa ha l'obiettivo è porre l'attenzione su "gli eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità; le misure eventualmente adottate dal presidente del Tribunale sulle possibili situazioni di incompatibilità/astensioni; la corretta applicazione delle tabelle di organizzazione anche con riguardo alle attività dei giudici onorari minorili; ogni altro aspetto che possa risultare di interesse". Bibbiano è solo a Bibbiano? O davvero, come hanno gridato centinaia di mamme e papà, o come affermò con forza, a noi del Giornale.it, lo psichiatra Alessandro Meluzzi "Bibbiano è in tutta Italia"? Il dubbio non può restare e per questo è necessario capire dove stà la verità.
Affidi, dodicimila in 18 mesi. Bonafede: «Niente allarmi ma noi vigiliamo». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. I risultati della squadra speciale del ministero della Giustizia. Parla il Guardasigilli: «Nessuno può insinuare che non ci sia volontà di parlare di questi argomenti. Per la prima volta c’è qualcuno che toglie la benda allo Stato». È la «prima volta» che «lo Stato si toglie la benda che ha avuto finora e apre gli occhi per guardare a 360 gradi la situazione». Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, affermando che «sul tema degli affidi la maggioranza politica che oggi è al governo ha la massima concentrazione». «In un momento in cui qualcuno osa insinuare che non ci sia volontà di parlare di queste tematiche, cancelliamo questo dubbio: la maggioranza politica ha concentrazione massima non solo per parlarne, ma anche per agire concretamente, tutti uniti e compatti». Quello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sembra quasi una manovra per compattare la maggioranza, dopo gli scossoni degli ultimi giorni e in risposta a chi, fino a ieri, era al governo. Il pretesto, con due settimane di anticipo sulla tabella di marcia, viene dal “Caso Bibbiano”, con i primi risultati della Task Force voluta dal ministero per monitorare il sistema degli affidi. E i numeri grezzi della fase uno – per la «prima volta» in cui «lo Stato si toglie la benda» -, per quanto freddi «non sono allarmanti», assicura Bonafede: nel periodo dal primo gennaio 2018 al 30 giugno 2019, i minori allontanati dai propri genitori sono stati, complessivamente, 12.338, circa 23 al giorno, su un totale di 9,8 milioni di bambini e adolescenti, dei quali 1540, poi, conclusi con un rientro nella famiglia d’origine, ovvero il 12,5%. Numeri, al momento, privi di valutazione qualitativa: «dobbiamo capire le condizioni di disagio sociale – ha sottolineato il guardasigilli -. Ma è la prima volta che il ministero ha la possibilità di avere questi dati». Ma cosa dice l’indagine circa i fatti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”? E 12.338 affidi sono troppi o pochi? Impossibile, al momento, rispondere, giura il ministro. Ma un dato certo, dall’Emilia Romagna, viene dato dal presidente del tribunale dei minori di Bologna: nello stesso periodo monitorato dal ministero, in Emilia gli allontanamenti sono stati 249 e di questi circa la metà dei ragazzi sono rientrati in famiglia. «Numeri bassissimi», ha commentato il giudice Giuseppe Spadaro. Il monitoraggio ha consentito di verificare anche la natura degli stessi affidamenti: 8.722 sono stati disposti da un tribunale, mentre la parte restante dagli altri uffici. E il collocamento in comunità dipende dalla mancanza di famiglie disposte ad accoglierli o su precisa richiesta degli stessi minori, in particolare gli adolescenti. Dati che arrivano da un monitoraggio su 213 uffici su 224, ossia il 95% del totale. Negli stessi 18 mesi, inoltre, sono state 5.173 le ispezioni ordinarie o straordinarie effettuate negli istituti di assistenza pubblici o privati, ossia a circa 9 al giorno. «La squadra si era data compiti importanti e ambiziosi – ha spiegato Bonafede – ovvero il monitoraggio dell’applicazione della normativa, la raccolta di proposte e la creazione di una banca data nazionale degli affidi». Un monitoraggio che rischiava di essere interrotto dalla crisi di governo, «la mia più grande paura», ha confidato Bonafede. Ma il ministro è riuscito a concludere ieri la fase uno, restituendo intanto l’entità del fenomeno. «Non agiamo per allarmare qualcuno», anzi, «non è un dato allarmante ha spiegato -. Vogliamo, semmai, tranquillizzare i cittadini, dicendo che c’è una maggioranza politica che concentra l’attenzione, per la prima volta, proprio sui bambini, per garantire un sistema che protegge bambini e famiglie». Le criticità riguardano l’eterogeneità delle esperienze e lo spezzettamento del percorso del minore, che risulta, così, non sempre sotto controllo. La fase due sarà perciò caratterizzata da un lavoro di riflessione sui numeri, sullo sviluppo della banca dati e sullo studio di nuove possibili linee d’azione per rendere l’attuazione delle leggi omogenea. «È necessario prevedere un termine di scadenza dell’affidamento, salvo proroghe, con un monitoraggio semestrale ha aggiunto -. Serve una revisione della disciplina dei collocamenti, con una tempestiva valutazione da parte del tribunale dei minori e un protocollo normativo peri provvedimenti d’urgenza che non tolga il controllo allo Stato in nome dell’emergenza».
Bibbiano, la verità della Regione: «Altro che silenzio». Simona Musco il 27 Novembre 2019 su Il Dubbio. La relazione della commissione emiliana sugli affidi. Dal 2014 al 2017 sono stati 2970, in totale, I minori fuori famiglia. Molti I casi di affido consensuale, soprattutto in Val d’Enza: ben 25 sui 64 complessivi. La politica fa finta di non vedere Bibbiano, sosteneva ieri, dalle colonne del Fatto Quotidiano, Selvaggia Lucarelli. O meglio il Pd, che trincerandosi dietro la frase “Bibbiano non esiste” avrebbe messo fine alle polemiche sui presunti affidi illeciti scoperchiati dalla procura di Reggio Emilia con l’inchiesta “Angeli e Demoni”. La critica di Lucarelli parte dal presupposto che in Emilia Romagna l’analisi sulla questione che rimane a tutt’oggi un’ipotesi di reato che ancora non ha varcato le soglie di un’aula di tribunale sia stata affidata ad una commissione tecnica composta, in buona sostanza, da soggetti collaterali alla vicenda. Insomma, gente che in qualche modo con quel sistema c’entrava e che non avrebbe dunque la necessaria obiettività per analizzare i fatti. In sostanza Lucarelli punta il dito contro la commissione tecnica presieduta da Giuliano Limonta, esperto di neuropsichiatra infantile, affiancato da collaboratori del Cismai, il coordinamento dei servizi contro i maltrattamenti di cui faceva parte anche Claudio Foti, della Hansel& Gretel, finita nello scandalo “Angeli e Demoni”. Il timore, comprensibile, è che il controllato e il controllore corrispondano alla stessa persona, fornendo dunque una comoda scappatoia alla politica per camuffare il silenzio dietro un gran baccano.
Ma la commissione tecnica di cui parla Lucarelli non è l’unica. Ve n’è in realtà, un’altra, squisitamente politica, composta da 27 consiglieri regionali e presieduta da Giuseppe Boschini, del Pd, affiancato da esponenti provenienti, oltre che dal Partito Democratico, anche da M5S, Lega, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia, L’Altra Emilia e Gruppo Misto. Una commissione che il 14 novembre scorso ha concluso i propri lavori, dopo 45 audizioni, l’acquisizione di documenti e vari confronti politici e di metodo, con una relazione di 250 pagine che analizza numeri, norme e dichiarazioni. Insomma, se n’è parlato. E anche prendendo posizione politicamente, se è vero, com’è vero, che il governatore dem emiliano, Stefano Bonaccini, ha annunciato la costituzione di parte civile della Regione in caso di processo. Ma non solo: la commissione politica, proprio per scansare qualsiasi accusa di semplificazione e di insabbiamento, ha messo in evidenza tutte le criticità del sistema affidi, proponendo alcuni correttivi per renderlo più efficiente e fornire più garanzie di tutela ai minori. Ma nelle sue conclusioni ha smentito anche le fake news, a partire da un fatto: non è mai stata affidata a privati la valutazione dei casi dei minori e quindi nemmeno l’analisi delle situazioni familiari o le segnalazioni alla magistratura. A causa di una cronica carenza d’organico nel pubblico, invece, il privato sociale subentra nella fase successiva, ovvero nella gestione delle comunità di accoglienza, che entrano in campo quando non ci sono famiglie affidatarie o un contesto familiare idoneo. E poi ha restituito la misura dell’inchiesta: su 2500 operatori sociali, sono sette quelli indagati, per sei casi su circa 3000 minori fuori famiglia. Ma andiamo ai numeri, dunque. Che vanno incrociati, per iniziare, con quelli forniti dal ministero della Giustizia al termine della prima fase dei lavori della squadra speciale voluta da Alfonso Bonafede. Il dato finale fornito da via Arenula, relativo agli ultimi 18 mesi, parla di 12.338 minori collocati fuori famiglia in tutta Italia. E in questo panorama, risulta tra i più bassi il numero a quello relativo alla sola Emilia Romagna, dove stando ai dati forniti dal presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, nello stesso arco di tempo sono stati eseguiti 249 allontanamenti, dei quali 116 conclusi con un ricongiungimento. E a ciò si aggiunge un ulteriore dato: il 45% di tali casi riguarda adolescenti – quindi situazioni estranee al cosiddetto “caso Bibbiano” – per i quali a richiedere l’affido è stata la stessa famiglia. Si tratta, dunque, di allontanamenti consensuali, pensati per risolvere situazioni di disagio. I numeri, ovviamente, cambiano considerando il dato complessivo degli interventi, che comprende anche quelli in corso dagli anni precedenti. In totale, al 31 dicembre 2017, erano 2970 i minori fuori famiglia, dei quali 1529 in affido familiare, in 452 casi consensuale. Di questi, nella famigerata Val d’Enza, 17 Comuni i cui servizi sociali sono finiti al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, il numero totale è di 64, dei quali 25 su richiesta della stessa famiglia. E nei casi in cui il tasso di minori fuori famiglia risulta maggiore rispetto alla media regionale – come Piacenza ( 6,55), Reggio Emilia ( 5,71) e Bologna ( 4,90) -, così come in quelli per cui le percentuali di ricorso all’affido familiare risultano più alte – Piacenza ( 4,61) e Reggio Emilia ( 4,29), compresa la Val d’Enza ( 3,32) – «si riscontra un forte ricorso agli strumenti dell’affido consensuale», ossia «un progetto condiviso con la famiglia e che non comporta quindi allontanamenti di tipo traumatico». Un dato interessante se si pensa che rispetto ad una media regionale pari a 0,64, nella Val d’Enza il ricorso all’allontanamento consensuale è pari a 1,80. Uno dei problemi emersi dalla relazione è quello della durata degli affidi: il totale in corso da più di 24 mesi, tempo previsto dalla norma di riferimento, «risulta pari a circa il 67%». Ma importanti sono anche le classi d’età: i minori in affido da zero a 10 anni rappresentano il 40% del totale, con un picco nella fascia 6- 10 ( 27,34%). Le proposte normative, anche a seguito dell’audizione del presidente Spadaro, non sono mancate, con l’impegno, da parte della Regione, di farsi parte attiva nell’accompagnare i processi di riforma. Tra queste due in particolare: una revisione delle procedure d’urgenza per l’allontanamento transitorio dei minori, con criteri di garanzia e rappresentanza per le famiglie e per il minore stesso, assicurando in tempi certi un adeguato contraddittorio; e l’istituzione di una sorta di “codice rosso minori”, che analogamente a quello istituito per la violenza di genere «consenta un triage approfondito, ma preferenziale e quindi rapido, per i casi urgenti di intervento sul maltrattamento e abuso ai minori, in un quadro giuridicamente chiaro, vigilato direttamente dalla autorità giudiziaria, e con le opportune garanzie giuridiche per tutti gli attori coinvolti».
Infanzia, la Garante: «I servizi ai minori non rispettano gli standard minimi». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Filomena Albano, alla guida dell’authority per l’infanzia: «Dalle relazioni familiari al digitale, le tutele vanno aggiornate». Mascherin ( Cnf): «Serve il difensore del minore». Trenta anni dopo la rivoluzione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è il momento di un “Child Act”, che metta insieme tutti gli interventi necessari per rendere i diritti dei minori davvero diritti “in crescita”. Un atto formale che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto della forma del giusto processo, con la presenza di un avvocato dei minori, e un welfare per l’infanzia, in grado di combattere la denatalità e l’emergenza educativa. Al netto delle polemiche a volte sterili e, soprattutto, disinformate sui presunti “sistemi”, come quello Bibbiano, che, dicono gli esperti, «non esiste». Spunti che sono venuti fuori dai tavoli di lavoro organizzati dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, in occasione dei 30 anni della Convenzione, firmata il 20 novembre del 1989. Ma il mondo di oggi non è lo stesso di 30 anni fa e ciò comporta nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità e, quindi, nuovi diritti. «Tra essi ricordo il diritto dei bambini a non essere lasciati soli, a non dover assistere a discussioni o litigi tra genitori, a coltivare i propri sogni e a realizzarli, a utilizzare in modo consapevole e sicuro i nuovi media digitali», ha sottolineato Albano. Diritti in crescita, dunque, ovvero da interpretare in chiave evolutiva, partendo dal concetto base della prevalenza del superiore interesse del minore. «Oggi i servizi all’infanzia e all’adolescenza non rispettano standard minimi uguali per tutti», ha spiegato Albano, che ha proposto quattro livelli essenziali delle prestazioni: mense scolastiche per tutti i bambini delle scuole dell’infanzia, posti di nido autorizzati per almeno il 33% dei bambini fino a 36 mesi, spazi- gioco inclusivi per i bambini da zero a 14 anni e una banca dati sulla disabilità dei minorenni. «Dobbiamo garantire che i diritti siano realizzati per tutti, non uno di meno». La rivoluzione epocale segnata dalla Convenzione, ha sottolineato Licia Ronzulli, presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è quella di aver reso i bambini soggetti di diritti e non più oggetti di tutela. Ma le norme, in Italia, sono ancora carenti. Ed è dimostrato dalla fotografia dell’Istat, secondo cui 1,26 milioni di bambini vivono in povertà assoluta, in termini di mezzi di sostentamento ma anche di povertà educativa. E la soluzione è «un vero welfare per l’infanzia», ha sottolineato. A sottolineare l’esigenza di considerare il sistema infanzia come unico e integrato al sistema economico è stato il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin. Che ha ricordato come non esistano riserve di competenza all’interno del mondo dell’infanzia. «Il processo minorile ha bisogno di interventi modificativi – ha sottolineato -. Un sistema che vede un soggetto di diritti, il minore, al centro del processo, con la garanzia di una voce autonoma e indipendente: il difensore del minore. Questo manca in maniera chiara». L’avvocato del minore, ha spiegato Mascherin, garantisce infatti soggettività, autonomia e indipendenza di difesa. E «serve un procedimento che più si avvicini alle regole del contraddittorio e del giusto processo», ha aggiunto.
La lentezza pachidermica del Tribunale dei Minori. Iter burocratici assurdi, carta invece del digitale, lentezze di ogni tipo. Da tutta Italia arrivano notizie di malfunzionamenti. E' ora di fare qualcosa. Daniela Missaglia il 22 novembre 2019 su Panorama. Immaginate che in una gara di Formula 1, ad un certo punto, scenda in pista Giuda Ben-Hur con la sua quadriga trainata da cavalli, pretendendo di partecipare alla corsa. E’ più che scontato che, già dopo la prima curva, il celebre personaggio del colossal hollywoodiano perda nettamente di vista le monoposto e, tra le risate di compatimento del pubblico, proceda con un passo trotterellante mentre gli altri sfrecciano sull’asfalto. La metafora proposta illustra la differenza, oramai sempre più marcata, tra la giustizia amministrata nei Tribunali ordinari e quella all’interno dei pachidermici Tribunali per i Minorenni, sempre più arretrati ed ingolfati, anti-storici e quindi dannosi, per molti versi. Già, perché le residue competenze che permangono in capo alla giustizia minorile, sul piano civilistico, vengono gestite da una struttura che non è in grado di procedere alla stessa velocità del Giudici dei Tribunali ordinari, zavorrata da plurimi fattori. Il primo dei quali è la gestione delle cause e dei fascicoli, ancora legata alla "carta", quando sono anni che fuori da quelle mura è tutto telematizzato. Se i Tribunali ordinari oggi viaggiano on-line, su appositi portali, accessibili e consultabili dagli avvocati, dai giudici, dai cancellieri, dai periti, snellendo tutto l’iter, nei palazzi dei Tribunali per i Minorenni ogni causa è ancora legata all’atto depositato fisicamente, con la conseguenza - invero drammatica - che basta non stampare un documento, non allegare un fax, per esempio una relazione dei Servizi Sociali, e cambia il corso stesso degli eventi. Senza contare che per avere la copia dei documenti depositati la trafila burocratica può durare anche una settimana, se tutto va bene. Vi è poi il cosiddetto rito minorile, ancestrale, basato sulla rigorosa collegialità di ogni decisione: un provvedimento che, nei casi d’urgenza, al Tribunale ordinario può essere assunto da un singolo magistrato, al Tribunale per i Minorenni presuppone la riunione di un consesso di più giudici, onorari e togati, con la conseguenza di finire, molto spesso alle calende greche. Appunto, per rimanere in tema. In questi giorni novembrini il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia è esploso e ha sentito il bisogno di licenziare un durissimo comunicato contro il malfunzionamento del Tribunale per i Minorenni di Bologna: fascicoli che mancano o incompleti, giustizia lenta, omesse comunicazioni, assenza di telematizzazione, ordinanze che languono nell’iper-spazio, e chi più ne ha più ne metta. Queste accuse possono valere per ogni ufficio di giustizia minorile in Italia. La lentezza è tale che infinite volte al minore - della cui tutela si discute - cresce la barba e oltrepassa la soglia della maggiore età senza che venga pronunciata una decisione definitiva. Non vi è più ragione di proseguire questa agonia, non è più tollerabile che la giustizia venga amministrata a due velocità, visto che - in ambito familiare - il prezzo da pagare è salatissimo, con interessi in gioco di importanza capitale. In fondo, la vicenda di Bibbiano è fatalmente esplosa anche in virtù di questi malfunzionamenti. Ben-Hur ha fatto il suo tempo, ma non può più competere con l’evoluzione di un mondo che non lascia più spazio alle sue quadrighe.
Bibbiano: satanismo, papà-orchi, mamme-streghe. Ecco come convincevano tutti a “falsare” i casi. Chiara Volpi sabato 23 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. L’inchiesta su Bibbiano, che con un dettagliato servizio pubblicato oggi da La Verità, aggiunge un altro capitolo orrorifico agli sconcertanti atti già acquisiti dalla magistratura e resi noti dai media. Stante alle nuove rivelazioni pubblicate oggi sul quotidiano diretto da Belpietro, la cornice si arricchisce infatti di nuovi elementi. E la scena si “arricchisce” di boschi misteriosi, maschere inquietanti, sangue e ombre. Orchi e streghe. Satanisti, cannibali e adoratori del Male. Una narrazione gotica, quella desunta dalle relazioni di assistenti sociali e psicologici, per cui i mostri erano i genitori. I salvatori gli operatori dei servizi sociali. L’unica costante rimasta inalterata anche oggi che la verità sta venendo fuori è che le vittime sono sempre stati i bambini…
L’inchiesta su Bibbiano: nuovi, sconcertanti, elementi. Già, perché aumentano i mostri. Decuplicano le false accuse. Proliferano tentativi più o meno striscianti di difendere aguzzini chiave e comprimari. Non si contano più le volte che il Pd ha tentato di sminuire gravità e responsabilità politiche dello scempio. Ma le figure chiave dell’inchiesta su Bibbiano, Federica Anghinolfi (responsabile del servizio sociale dell’Unione della Val d’Enza), Claudio Foti (direttore della onlus Hansel e Gretel) e Francesco Monopoli (assistente sociale dei servizi sociali dell’Unione Val d’Enza). Tutti oltre che potentissimi deus ex machina intervenuti dram,maticamente nelle vite delle famiglie, stravolgendone i destini, anche abili persuasori occulti di colleghi e dipendenti indottrinati giorno dopo giorno. E convinti da menzogne e artefazioni ad hoc a operare secondo il loro terribile disegno.
Le inquietanti dichiarazioni degli assistenti sociali interrogati. Secondo quanto ricostruito da La Verità, infatti, Anghinolfi e Monopoli avrebbero fatto credere agli assistenti sociali che occorreva proteggere i bambini da una setta. In base a quelle che il quotidiano di Belpietro definisce «le sconcertanti dichiarazioni rese agli inquirenti dagli assistenti sociali», interrogati, «i loro capi li spingevano a togliere i figli alle famiglie inventando la minaccia di un gruppo “satanista”». Di più: «Dobbiamo salvare i bambini a costo di forzare le relazioni o addirittura falsificarle»- Come scrive La Verità, infatti, «la presentavano, così, come una lotta contro il male. Una forza oscura, terribile e insidiosa, una piovra che allungava ovunque i propri tentacoli viscidi». dunque, per la precisione, «si sarebbe trattato di una setta satanica dedita a violenze sistematiche sui piccini, a omicidi di minorenni, a riti blasfemi e addirittura a cannibalismo rituale». Operatori e operatrici, terrorizzate, venivano anche ammoniti in merito al potere esercitato da questi presunti “adoratori del male”: tutti giudici, membri delle forze dell’ordine, professionisti di successo. Insomma, i satanisti potevano essere ovunque. I loro figli vessati sempre…
Papà-orchi e mamme-streghe: incredibile trama per facilitare gli affidi. Guarda caso, però, come scrive La Verità, «la comparsa di queste storie sui riti satanici a Reggio Emilia e dintorni risale al 2016. Cioè nel periodo in cui nella zona sbarcano i professionisti di Hansel e Gretel. A cui venne affidata la gestione del centro La cura di Bibbiano». E allora, come è stato possibile non notare quella “strana” coincidenza fra i casi di Bibbiano e quelli della Bassa Modenese al centro dell’inchiesta “Veleno»? E, soprattutto, come operatori e assistenti sociali di quelle zone hanno potuto farsi convincere così facilmente che quelle storie dell’orrore, a dir poco inverosimili. Popolate di papà mostri e familiari orchi. Mamme-streghe e complici fantomatici? Come convincersi, senza notare nulla di strano, che, come conclude anche il servizio de La Verità, «due potentissime e terribili sette sataniche avrebbero operato in provincia di Modena e in provincia di Reggio Emilia a distanza di vent’anni l’una dall’altra»? Ai giudici la neanche troppo ardua sentenza…
"A Bibbiano parlavano di cannibali e satanisti per togliere i bimbi ai genitori". Spuntano i testimoni che raccontano come i "demoni di Bibbiano" li inducevano a fare carte false con le storie di uomini pedofili e cannibali. Una minaccia per i piccoli del paese. Costanza Tosi, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Liberare i bambini da una setta satanica spietata. Così il capo dei servizi sociali Federica Anghinolfi, il suo collaboratore Francesco Monopoli e il fondatore della Hansel e Gretel, Claudio Foti insieme alla ex moglie Nadia Bolognini plagiavano gli operatori per spingerli a compiere gli atti illeciti. Per convincerli che strappare i bambini alle proprie famiglie di origine era la cosa giusta da fare. O,meglio, che quella era l’unica cosa da fare. La sola via per salvare i piccoli da questo terribile pericolo.
Il terreno era labile sotto i piedi di chiunque nel paesino in provincia di Reggio Emilia. Secondo i falsi racconti dell’orrore che i "Demoni di Bibbiano" riportavano agli assistenti sociali, i mostri, pedofili che abusavano dei bambini potevano essere ovunque. Denunciarli era troppo pericoloso perché gli uomini della setta erano persone molto potenti: magistrati, personale delle forze d'ordine, professionisti del settore. Un gruppo numeroso le cui pedine potevano trovarsi sparse ovunque, anche di fronte alla propria casa. Le menti del sistema illecito che muoveva gli affidi in tutta la Val D’Enza plagiavano chi aveva più bisogno. A raccontarlo, in aula di tribunale, sono almeno sei testimoni diversi e non tutti indagati dalla Procura di Reggio Emilia. Indotti, convinti e spaventati dai racconti di Anghinolfi e Monopoli, gli operatori dei servizi stilavano decine di perizie false allo scopo di allontanare i minori dalla propria famiglia. "Anche adesso che mi avete aperto gli occhi faccio fatica a credere che fosse tutto falso", ha detto uno dei testimoni durante l’interrogatorio. E nella convinzione che due righe di falsità scritte su un foglio avrebbero salvato la vita ad un bambino voi, non avreste fatto lo stesso? Così agivano gli uomini dei servizi sociali, convinti di fare del bene. Sicuri che stavano solo salvando le vittime da una setta di cannibali. "Vivevamo in una stanza chiusa, ci avete portato la luce aprendo le finestre”, anche queste parole arrivano da una degli assistenti sociali del comune di Bibbiano in aula di tribunale. Le favole dell’orrore attaccavano. Funzionavano per mandare avanti il gioco illecito e le parole dei racconta menzogne erano forti. Persuasive. Tanto da essere credibili. Così, la rete si allargava a poco a poco e la favola diventava una realtà per tantissime persone. Ad essere imbrogliato, anche un perito, che pare sia stato avvicinato in Tribunale, prima di un' udienza. Ad indirizzarlo sul da farsi sarebbe stato proprio Monopoli. Raccontando al professionista “il pericolo" che quel bambino correva, la famiglia era un nido di mostri. Gli psicologi di Claudio Foti, alla Hansel e Gretel avevano tutto sotto controllo. Era semplice procedere con le sedute. Bastava seguire alcune linee guida. Se i bambini, nei loro racconti o ottraverso i loro disegni, utilizzavano le parole bosco, camionista o maschera scattava il campanello d’allarme. Quelli erano i segnali che il piccolo era finito nelle mani dei pedofili. Storie surreali che aggiungono dettagli inquietanti a quella che già dalle carte della procura di Reggio Emilia si era mostrata come una vicenda disumana. Testimonianze che, Rossella Ognibene, legale di Federica Anghinolfi, respinge. Non ci sono prove che confermino i racconti dei testimoni. Eppure la storia rende tutto amaramente più credibile. Qualcosa di troppo simile era già successo. A pochi chilometri di distanza da Bibbiano. Nel 1997 gli stessi racconti di sette staniche di pedofili che abusavano di minori e compivano riti nei cimiteri portò, nella Bassa Modenese, ad aprire un indagine. 16 bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie e il parroco più amato della zona morì, nella stanza del suo avvocato, abbandonato dal suo stesso cuore che non resse il peso delle accuse. Nessuno trovò mai le prove dell’esistenza di una setta di maniaci che sacrificavano i propri bambini. Quasi vent’anni di processi e poi la verità. Le accuse non reggono. Nessuna setta è mai esistita. Alcuni degli imputati vennero assolti nel 2013 dalla Corte d' Appello. Ad interrogare quei bambini che raccontarono gli atti osceni, anche ai tempi furono gli operatori della Onlus di Claudio Foti. La stessa che, nei casi dei bambini di Bibbiano, è stata accusata di plagiare le piccole vittime al fine di inculcare nelle loro menti ricordi falsati. Ancora una volta sembra di assistere al un film già visto. Una delle bambine dei “Diavoli della bassa” il cui padre è finito in carcere con l’accusa di pedofilia, venne poi rintracciata da Pablo Trincia autore del podcast Veleno in cui racconta la verità sui casi di Mirandola. La ragazza a anni di distanza confidò al giornalista "di avere la percezione di essersi inventata tutto".
"Vogliono eliminare la famiglia". Ecco cosa c'è dietro Bibbiano. Papa Francesco incontra le famiglie a cui furono tolti i figli per false accuse di pedofilia e satanismo e si scaglia contro quel sistema che portò all'inchiesta dei "Diavoli della Bassa" negli anni novanta e al "caso Bibbiano" vent'anni dopo. Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Dei "demoni" di Bibbiano è vietato parlare. A distanza di mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti nel paese in provincia di Reggio Emilia c’è chi ancora prova a silenziare le denunce, bloccare in petto le grida dei genitori che cercano giustizia. Condannare la spinta dei media a tenere accessi i riflettori affinché venga fatta chiarezza per tutte quelle famiglie strappate dai propri bambini sulla base di false accuse e lavaggio del cervello ai minori. In molti ancora continuano a negare l’esistenza di un sistema e di un’ideologia estrema che cerca di distruggere la famiglia naturale. La storia però porta proprio lì, all’evidenza di una cultura che ha combattuto la famiglia fino ad arrivare a condannare genitori innocenti. É proprio con questi genitori che, questa volta, si schiera anche papa Francesco. Il vescovo mercoledì ha incontrato i familiari a cui una ventina di anni fa, psicologi e assistenti sociali tolsero i bambini con falsi pretesti. Le cronache li chiamavano “diavoli” e invece si sono dimostrati delle vittime. Anche se ancora c’è chi non crede alle loro storie, su cui ormai, e finalmente, i tribunali hanno fatto giustizia. Sono i protagonisti delle storie di Veleno, l’inchiesta in cui il giornalista Pablo Trincia racconta la verità sulle famiglie che, alla fine degli anni novanta, vennero accusate di far parte di sette sataniche che commettevano abusi sui minori. Accuse da far accapponare la pelle: pedofilia e satanismo. Ma lì, a Mirandola, in quel paesino del modenese, tra queste famiglie, spesso fragili e indifese, di pedofili che compievano riti satanici si scoprirà che non ce ne sono mai stati. Quelle erano solo storie dell’orrore che gli assistenti sociali hanno assecondato e gli psicologi fatto denunciare ai minori in tribunale dopo lunghi lavaggi del cervello in cui i medici plagiavano i bambini fino a farli parlare di abusi mai avvenuti. Alcuni di loro facevano parte della Onlus Hansel e Gretel, l’associazione capitanata da Claudio Foti, oggi al centro dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano. A loro sono andate le parole di Papa Francesco: "I bravi fedeli di Mirandola! Io vi ringrazio - ha detto - per come avete portato la croce e per come avete avuto il coraggio di difendere il parroco. Era innocente e voi lo avete tanto difeso". Il parroco è don Giorgio Govoni. Il prete che fu accusato di capitanare la setta satanica degli abusi. Le scioccanti testimonianze dei bambini molestati riportate da psicologi e assistenti sociali schiacciarono di accuse il parroco fino a farlo soffocare dal dolore. Don Giorgio morì nel 2000, ucciso da un malore mentre era nell' ufficio del suo avvocato. Il cuore non ha retto il dolore per quelle accuse terribili che spinsero il pm a condannare l’uomo a 14 anni di reclusione. La sua storia fu poi raccontata in un libro “Don Giorgio Govoni martire della carità, vittima della giustizia umana”. L’autore, don Ettore Rovatti, parroco di Finale Emilia quando era ancora in vita parlò con Trincia: “C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata. Queste psicologhe e assistenti sociali dell' Ausl volevano dimostrare che Dio, poveretto, non ha saputo far bene il suo mestiere. Erano loro che sapevano fare meglio del padreterno”. Disse il parroco, che aveva ricostruito l’intera storia dei “Diavoli della Bassa” attraverso atti dei processi, testimonianze, documenti. Ritrovare le sue trencento pagine di verità, oggi, è come cercare un ago in un pagliaio. Il suo libro è ormai introvabile, le copie stampate furono pochissime e, una volta esurite, non andarono mai in ristampa. La verità sul perché di questa piccola storia è un altro pugno nello stomaco, un’altra ferita per tutte le vittime di quelle vicende che hanno distrutto intere famiglie e cambiato la vita a decine di bambini. L’editore subì delle minacce e la paura lo spinse a fermare tutto. Così hanno raccontato mercoledì al Papa, quando una delle famiglie del caso Veleno a cui furono portati via i bambini ha regalato a Francesco una copia del libro su don Giorgio Govoni. Davanti a tutto questo niente è riuscito a fermare le parole di Bergoglio: “Siamo forse in dittatura? - ha detto - In Italia non c' è la libertà di stampa? Fate forza per ripubblicare questo libro, la libertà di stampa è per tutti”. Eppure in un paese in cui la libertà di stampa esiste, ancora ci sono storie che faticano ad essere accettate, che qualcuno non vuole che vengano raccontate. Forse, perchè portano a galla la verità su un sistema figlio di un’ideologia malata: la stessa ideologia che ha portato alle storie dei Diavoli della Bassa, prima, e dei bambini di Bibbiano, ora.
A Ferrara il Pd fa ricorso al Tar per fermare indagine su affidi. Il Pd ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione d'inchiesta di Ferrara sia dichiarata illegittima. Ecco le motivazioni (irrisorie). Aurora Vigne, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Il sistema Bibbiano, si sa, ha contagiato diverse città emiliane. Un meccanismo malato sul quale le famiglie, ora, chiedono chiarezza. Proprio per questo il Comune di Ferrara, guidato da giugno dal leghista Alan Fabbri, ha approvato l' istituzione di una commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori per verificare se la macchina degli affidi funziona bene. Ma facciamo un passo indietro. È di giorni fa la notizia che l'indagine della Regione Emilia Romagna è stata conclusa - o meglio, sepolta - con questa sentenza inverosimile. "I servizi comunali sono complessivamente ben organizzati sul territorio - ha detto il presidente della commissione Giuseppe Boschini (del Pd) - che operano in un quadro sempre più complesso, con risorse non sempre adeguate: serve un passo avanti anche da parte della Regione Emilia-Romagna per migliorare il coordinamento di queste complessità". Insomma, non ci sarebbe nessun allarme sociale diffuso sul tema. Il che è assurdo. Ma si sa, la commissione era presieduta dal Pd e aveva un 5 Stelle come vice e così i dem e le istituzioni emiliane hanno potuto dormire sonni tranquilli. Ma a dare fastidio al Partito democratico ora è proprio la città di Ferrara. Con la commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori, il pavimento sotto ai piedi ben saldi dei dem ha iniziato a tremare. E dire che non si tratta assolutamente di una caccia alle streghe. Ma piuttosto si tratta "della volontà di approfondire, spinti da un doveroso impegno di trasparenza nei confronti delle famiglie, utenti di un servizio delicatissimo, soprattutto dopo i dubbi sollevati sull' intero sistema dalle inchieste nazionali ancora in corso", ha spiegato l' assessore alle Politiche sociali, Cristina Coletti. Ma al Pd l'iniziativa non è piaciuta per niente e addirittura ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione sia dichiarata illegittima. E quali sarebbero le motivazioni? Considerando che siamo in Comune guidato dal centrodestra sembrano alquanto irrisorie. I consiglieri dem, infatti, insistono in particolare su un punto, ovvero il numero di piddini all' interno della commissione, che non ritengono proporzionale. In altre parole, ai dem brucia il fatto di non avere il controllo della commissione. Ma perché avere tanta paura? D'altronde, secondo la Regione a guida Pd, tutto funziona perfettamente e non c'è un sistema malato. Che dire: forse il Pd preferisce la linea dell'insabbiamento. Non si sa mai che poi esca qualche lato marcio anche a Ferrara.
Sinistra e Chiesa unite per censurare il caso Bibbiano. Un nuovo convegno sui fatti di Bibbiano scatena gli animi dei toscani. Il cardinale Giuseppe Betori e il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, uniti nella battaglia per la censura. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019 su Il Giornale. Bambini abusati, schiacciati da pressioni psicologiche, plagiati da pensieri umani figli di ideologie esasperate. Dagli scandali del Forteto toscano ai Diavoli della bassa modenese, fino alla più recente inchiesta guidiziara sui bambini di Bibbiano. A distanza di vent’anni le une dalle altre, ripercorrendo queste storie si compongono gli orrori di 50 anni di violenze sui minori che hanno rovinato centinaia di vite e distrutto intere famiglie. Ma parlarne è quasi un reato. Dirlo è offensivo e legare vicende che hanno alla base un dato comune, nonché l’ideologia, per qualcuno è strumentalizzazione. Per i progressisti uomini della sinistra la soluzione sarebbe tacere davanti a tanto squallore. Lo avevano fatto intendere agli inizi delle indagini sui "demoni" di Bibbiano, fingendosi, a comodo, garantisti e gridando all'unisono "no alle strumentalizzazioni. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso". Che importa denunciare gli abusi, le violenze psicologiche sui minori affinchè non si ripetano, in nome di un dovere morale che serva ad accendere i riflettori su un tema che forse, visti i fatti, meriterebbe alcune riflessioni? A loro, niente. L’importante è silenziare le questioni, sopratutto quelle in cui, in qualche modo, i sinistri sono coinvolti, anche solo perchè condividono le stesse ideologie, o hanno creduto in metodi che si sono verificati pericolosi.
É successo di nuovo. Che qualcuno abbia cercato di censurare un momento di confronto e, questa volta, la squadra che si è schierata contro la libera espressione di un pensiero è numerosa e ben assortita. Succede che, il 30 novembre, a Bergamo, si terrà un convegno, Da Barbiana a Bibbiano. Tra gli ospiti, il giornalista Pucci Cipriani, il garante per l'infanzia e l'adolescenza del Lazio, Jacopo Marzetti, e Francesco Borgonovo, vicedirettore della Verità. Il tema è quello dell’abuso dei minori e il titolo fa intuire il focus. Barbiana è, infatti, una località in provincia di Vicchio, il paese in Toscana, casa del celebre don Lorenzo Milani. Bibbiano, il paese nel reggiano finito al centro delle cronache con l'inchiesta "Angeli e demoni". Un evento per continuare a parlare di storie che mai riusciranno ad essere seppellite e che hanno ancora bisogno di essere tinte della verità più pura, almeno finché la giustizia non farà il suo corso. Ma c'è chi non è d’accordo. Insorgono i garantisti sui social e, a questo giro, dice la sua persino il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. "Non si può accettare che la figura di don Lorenzo Milani, servitore esemplare del Vangelo e testimone di Cristo, sia strumentalizzata", ha dichiarato. Ci risiamo. Con la stessa filastrocca. Strumentalizzazione sembra essere diventata la parola d’ordine. "Si tratta dell' ennesima distorsione e travisamento che da varie e diverse parti, in maniera ricorrente nel corso dei decenni, è stata fatta e continua ad essere fatta del pensiero e dell' azione di questo nostro sacerdote - ha proseguito Betori - vicende inaccettabili come questa suscitano amarezza e dolore per il ricordo di don Milani, per la diocesi, e per tutti coloro che lo hanno conosciuto". Eppure ci sono episodi che di amarezza e dolore ne hanno sicuramente causato di più. Che nel titolo della locandina del convegno venga accostata Barbiana ai più recenti fatti di Bibbiano dipende da un fatto semplice e chiaro. È proprio dalla "scuola di don Milani" che provenivano alcuni tra i fondatori del Forteto, la comunità degli orrori gestita da Rodolfo Fiesoli, tornato ad occupare le pagine di cronaca pochi giorni fa quando la Cassazione ha confermato la sua condanna a 14 anni e 10 mesi di carcere per maltrattamenti e violenza sessuale su minori. A dirlo è chi non avrebbe mai voluto farlo e a cui questa consapevolezza ha provocato sì, sofferenze e tanto, dolore. La “denuncia” è partita da alcuni soci della sede di Bologna del Centro formazione e ricerca "don Lorenzo Milani" e scuola di Barbiana che hanno spiegato del legame fra alcuni discepoli di don Milani e il Forteto. Motivo per cui, hanno poi deciso di dimettersi e tirare giù la saracinesca della sede bolognese del centro. "Un socio fondatore della nostra associazione di Vicchio, Edoardo Martinelli, è stato anche fondatore del Forteto, poi fuoriuscito, che da anni sapeva delle violenze che ivi venivano commesse", hanno spiegato i soci di Bologna. Che poi hanno aggiunto, senza mezze parole, che "i documenti raccolti hanno messo in evidenza la piena commistione tra la vicenda Forteto e Barbiana attraverso l'abuso distorto del pensiero di don Milani, ma anche attraverso l'inerzia di coloro che, consapevoli da anni, avrebbero potuto e dovuto intraprendere una battaglia in difesa dei più deboli". Come se non bastasse tra i fatti ricordano che "un noto esponente della nostra associazione di Vicchio, Manrico Velcha, in rete definito segretario generale, ha per anni partecipato al cda della Istituzione Centro di documentazione don Milani del Comune di Vicchio a fianco del pregiudicato per reati di violenza sessuale, atti di libidine violenti e continuati ai danni di minori disabili Rodolfo Fiesoli, partecipazione protrattasi fino al giorno dell'arresto di Fiesoli, 20 dicembre 2011". Evidentemente si parla di una esasperazione malata, di un utilizzo improprio di un ideologia per compiere atti disumani. Ma infatti, dato che il convegno ancora non si è tenuto, con ogni probabilità nessuno avrebbe partecipare con l’intento di voler infangare il nome di don Milani. Una strana interpretazione di un titolo volto a collegare due vicende purtroppo legate da un filo rosso. Una cosa però è certa: i rapporti tra alcuni seguaci di don Milani e i protagonisti della vicende del Forteto meritano di essere chiariti. Senza censura. Senza che questo possa offendere nessuno che, piuttosto, dovrebbe essere sconcertato dalle ultime denunce. E invece, a farsi sentire è stato anche il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Con lui, anche il sindaco del Mugello, che ha aderito persino ad una marcia a Barbiana. Una trasferta speciale per salvaguardare il nome di don Milani che Rossi ha annunciato persino sulla sua pagina Facebook dove, peraltro, non gli è passato di mente di dedicare due parole alla notizia della condanna del mostro del Forteto. Così, giusto per dire. Della gita ha invece scritto: "L'esperienza di Barbiana è così alta che non può essere infangata. Tutti devono rispettarla e attingere ad essa, come ad una fonte, per riflettere sul presente e sul futuro, proprio e della propria comunità. A me pare che mai come oggi tutti noi siamo chiamati in causa, personalmente, per un impegno di solidarietà verso chi ha bisogno, senza distinzioni di appartenenza nazionali, etniche o di classe". D'accordo anche Luca Lotti che ha invece diffuso un comunicato contro il leghista Simone Pillon. Anche lui, tra i partecipanti al convegno. "Pillon ha superato ogni limite di decenza", ha scritto Lotti. Per poi arrivare puntuale al ritornello: "È inaccettabile che la figura di don Milani venga strumentalizzata per miseri scopi di propaganda politica". Tutti adirati per la paura che si associ il nome di don Milani alle storie scandalose sui bambini. Nessuno che proferisce due parole per condannare la condotta disattenta (ci si augura) di chi, prima di loro, ha appoggiato e, ancor peggio, finanziato il Forteto nonostante le denunce e le condanne per reati che fanno accapponare la pelle. Per Bibbiano in fondo, è stato lo stesso. Forse però, qualcuno dovrebbe rendersi conto che è arrivato il momento di mettere da parte la propria tanto amata concezione del mondo progressista e ammettere che condannare i danni di un’ideologia smisurata non ha niente a che vedere con la strumentalizzazione politica. Che difendere le vittime condannando i colpevoli non ha niente a che vedere con la volontà di infangare gli innocenti. L'insurrezione ingiustificata per ostacolare convegni, eventi, spazi di discussione su Bibbiano, sul Forteto, su Veleno, è una censura contro la ricerca della verità. Perché? Fa paura a qualcuno?
Bibbiano scarica la sinistra: "Quelli del Pd ci hanno traditi". Gli scandali di Bibbiano hanno scosso i cittadini del paesino in provincia di Reggio Emilia. Ora la sinistra perde una fetta dei suoi elettori. Costanza Tosi, Martedì 26/11/2019, su Il Giornale. Pd sì, oppure no? A pochi mesi dalle elezioni regionali in Emilia Romagna è questo il dilemma. La regione rossa per antonomasia subirà la crisi della sinistra o rimarrà fedele agli uomini del Pd? Siamo andati a sentire cosa ne pensano i cittadini di Bibbiano. Il piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, balzato alle cronache negli ultimi mesi, per gli scandali sugli affidi illeciti. Le storie di Angeli e Demoni per il Partito democratico sono state un boccone difficile da digerire. Tra gli indagati dalla Procura di Reggio Emilia, infatti, sono finite anche alcune reclute del Pd. Tra questi Andrea Carletti, sindaco del paese e colpevole, secondo l’accusa, di aver favorito la Onlus di Claudio Foti offrendo allo psichiatra spazi comunali per svolgere le terapie ai minori, senza istituire le dovute gare d’appalto. Ora il primo cittadino è passato dagli arresti domiciliari all'obbligo di dimora nel Comune di residenza, Albinea. Come deciso dal tribunale della Libertà di Bologna sul ricorso della difesa del primo cittadino, attualmente sospeso dall'incarico dopo l’inchiesta in cui risponde di abuso di ufficio e falso. Ma non basta. Perché Carletti non è l’unico ad essere accusato di aver compiuto qualche passo falso in Emilia Romagna. Insieme a lui sono finiti nel registro degli indagati altri due sindaci dem: Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro indagati per abuso d’ufficio. Passeggiando per le vie del paese l’odore che si respira è di scetticismo. A dominare tra i bibbianesi sono gli indecisi, che ora temono che gli errori della sinistra potrebbero aver fortificato il sistema malato che coordinava gli affidi in tutta la Val D’enza. Regna la strategia del "non voto". "Tanto non cambia niente. I partiti ormai sono tutti marci. Da una parte e dell’altra. Tanto vale rinunciare a dire la propria", dicono i cittadini. "Io non voto e faccio prima. Quando verrà fuori la verità saprò cosa fare", proseguono. Ma qualche anima più speranzosa c’è. E, tra un caffè e l’altro, qualcuno ammette che da tempo ha abbandonato il proprio credo politico. "Il Partito democratico mi ha deluso. Hanno fatto cose inaccettabili". E chi invece rincara la dose e senza mezzi termini emmette: "Io sono allergico al Pd". Non tutti però escono scossi dalle storie delle famiglie a cui hanno strappato i piccoli con false accuse e lavaggi del cervello ai bimbi al fine di fargli confessare abusi mai avvenuti. "Bibbiano rimane a Bibbiano. Non credo che incida molto", ci spiega un passante. Altri riducono l’inchiesta ad uno slogan dei populisti per sconfiggere la sinistra. Come il leader delle Sardine, Mattia Santori, che in occasione della manifestazione in piazza a Modena aveva dichiarato che "gli slogan su Bibbiano qua non funzionano perché la gente ha un cervello". E così, dietro l’onda dei pesciolini, c’è chi sostiene che sia tutta una farsa. "Quelle su Bibbiano sono tutte dicerie. Di tutto quello che hanno detto, di vero, non c’è quasi niente", si scalda una signora nella piazza del Comune. Beh, sarebbe il caso di dire che questo, forse, ce lo diranno le indagini.
NON PARLATECI DI BIBBIANO. Davide Lessi per “la Stampa” il 20 novembre 2019. Parlateci di Bibbiano, dicono. Ma farlo da questo paese di poco più di 10 mila anime, a una manciata chilometri da Reggio Emilia, non è semplice. I suoi abitanti sfuggono. Prevale la discrezione, la voglia di non alimentare polemiche. Tanto più ora che mancano un paio di mesi alle Regionali. Il motivo di questa diffidenza te lo spiegano al bar Carducci, a pochi passi dalla piazza principale. «Ci hanno trattato come appestati», dice Mario. «Pensi che quest' estate quando sono andato in vacanza l' albergatore mi ha sconsigliato di dire agli altri ospiti da dove venivo. Non voleva creare paure e ansie». Bibbiano, il paese diventato "hashtag" dello scontro politico estivo, è ancora stravolto. Poco importa che le luci del set ora si siano abbassate. Tutti ricordano l' inizio del film: è l' alba del 27 giugno quando questa comunità della Val d' Enza viene tramortita da 6 arresti, 27 indagati, 1600 pagine di intercettazioni. L' indagine si chiama "Angeli e Demoni", e va a scoperchiare un presunto sistema di affidi illeciti di minori, gettando ombre sull' amministrazione della cosa pubblica e sui servizi sociali. Mettendo in discussione uno dei baluardi di questa terra: la fiducia tra cittadini e istituzioni.
"Le minacce continuano". «Siamo stati travolti da un' onda anomala», racconta Paola Tognoni, sindaca facente funzione. È lei che ha sostituito Andrea Carletti (Pd) finito agli arresti domiciliari (a settembre convertiti in obbligo di dimora) con l' accusa di abuso d' ufficio e falso. «Non è semplice per una comunità come questa ritrovarsi alla ribalta delle cronache nazionali per un tema delicatissimo come la tutela dei minori», spiega dagli uffici del Comune. C'è da capirla. Bibbiano, cuore della Val d' Enza, conosciuta per le feste settembrine che la celebrano come «culla del parmigiano» è stata trasformata in un' agorà politico-mediatica che poco o nulla aveva a che vedere con l' indagine. Nella scalinata del municipio un via vai di manifestazioni, comizi di leader (da Matteo Salvini a Giorgia Meloni) e di sconosciuti personaggi in cerca d' autore, come tale Padre David, sedicente esorcista che, vestito con un saio bianco, diceva di voler far espiare alla comunità i suoi peccati. «Alcuni raduni hanno rasentato l' orrido - ammette ancora Tognoni -. Ma la verità, purtroppo, è che abbiamo subito minacce da tutta Italia». In Comune non si contano le telefonate e le mail di offese. «Una volta abbiamo ricevuto anche delle lettere che contenevano sterco. E il primo consiglio comunale dopo gli arresti, per motivi di sicurezza, è stato fatto con i poliziotti in tenuta anti-sommossa a presidiare l' ingresso».
Un sistema sotto-accusa. Passati, per ora, i problemi di ordine pubblico, si prova a fare una conta dei danni di quest' onda anomala. Che ha travolto i servizi sociali di tutta la Val d' Enza: dai 15 operatori occupati nella cura e nel sostegno dei minorenni, in sette sono finiti nell' indagine. Alcuni di loro con delle accuse gravi: l' aver manipolato le testimonianze dei bambini per facilitare l' avvio delle procedure di affidamento urgenti. Per capire l' effetto dell' inchiesta aiuta spostarsi a Barco, frazione di Bibbiano, dove hanno sede gli uffici sulla tutela dei minori dell' Unione Val d' Enza. «Le minacce non sono ancora finite», spiega Francesca Bedugni, sindaca dem di Cavriago e ora titolare delle deleghe ai servizi sociali per gli 8 comuni della valle. L'ultima intimidazione è stata recapitata ai servizi sociali della vicina Ferrara: una busta con dentro proiettili che indicava come destinatari «gli assistenti sociali di Bibbiano». Si lavora in un generale clima di diffidenza che mette a rischio anche l' erogazione dei quotidiani servizi di tutela ai minori. «Il paradosso è che il clamore suscitato dall' inchiesta ha fatto sì che, per ora, il sistema sia diventato più debole: non c' è da meravigliarsi che nei prossimi mesi, come anticipato dal presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, calino le segnalazioni di violenze e abusi». In tutta Italia diversi assistenti sociali, tra gli oltre 40 mila iscritti all' albo, starebbero chiedendo di essere spostati dai servizi ai bimbi a quelli per adulti e anziani. «Abbiamo paura di finire in indagini nel normale svolgimento del lavoro, perciò chiediamo di essere trasferiti ad altri impieghi», dice una di loro che preferisce l' anonimato.
L'autocritica. Eppure c'è chi, in attesa delle verità processuali, vorrebbe parlare di Bibbiano. «Ma seriamente, non con degli slogan», premette Alberto Iotti, consigliere nel vicino comune di Sant' Ilario. Lui ha redatto un libro bianco per sottolineare le responsabilità politiche che emergono dall' inchiesta. «Il limite di questa vicenda è quello di aver esaltato un modello, quello della Val d' Enza, senza un pensiero critico», dice. E spiega: «Hanno abbracciato le teorie dell' associazione Hansel e Gretel e le hanno sostenute economicamente senza esercitare un controllo politico». Il metodo di ascolto empatico dei bambini, professato dallo psicologo Claudio Foti e dalla moglie Nadia Bolognini (entrambi indagati), diverge da quello prescritto dalla Carta di Noto, il protocollo che contiene le linee guida deontologiche per gli psicologi forensi. «L' errore degli amministratori è quello di fidarsi di un metodo senza metterlo in discussione. Per questo dovrebbero fare autocritica - dice ancora il consigliere Iotti -. Ma Salvini smetta di dirci che qui rubiamo i bambini». La nuova ondata Il clima, con la campagna per le regionali entrata nel vivo, rischia di infiammarsi di nuovo. «Il pericolo c' è - ammette la dem Francesca Bedugni -. C' è chi vuole cavalcare l' inchiesta per strumentalizzarla e raccogliere consenso». Ancora più diretta è Valentina Bronzoni, 29enne consigliere comunale eletta a Bibbiano con una lista civica di opposizione. «Qui in Emilia, Salvini non può utilizzare lo spauracchio dei migranti ma sta politicizzando il caso affidi per creare un' altra paura atavica tra le persone: quella che un giorno, ingiustamente, qualcuno gli porti via i figli. È un gioco troppo facile però». Fatto sulla pelle dei bambini.
Bibbiano, la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco. Secondo la corte non c'erano condizioni per arresto di Carletti. Giuseppe Baldessarro il 03 dicembre 2019 su La Repubblica. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. La Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nei confronti del primo cittadino Pd indagato per lo scandalo 'Angeli e Demoni' sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza, in provincia di Reggio Emilia. La misura cautelare era scattata nel giugno scorso quando il politico venne arrestato e messo ai domiciliari. Successivamente era stata decisa la misura dell'obbligo di dimora. A distanza di sei mesi ora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l'arresto. Il ricorso alla Cassazione era stato presentato dai legali di Carletti, l'avvocato Giovanni Tarquini e il professore Vittorio Manes. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell'Unione dei comuni della Val d'Enza, ma risulta indagato d'abuso d'ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all'associazione "Hansel e Gretel", che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e ha detto: "È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo"
Bibbiano, la Cassazione "È illegittimo l'arresto del sindaco Pd Carletti". Le motivazioni della Cassazione: "Indizi insufficienti per far scattare la misura cautelare". Angelo Scarano, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. "Il sindaco Andrea Carletti non poteva essere arrestato". Sono queste in sintesi le motivazioni della Cassazione che è stata chiamata a pronunciarsi sulle misure cautelari per il primo cittadino del Pd di Bibbiano. Il sindaco dem era stato sottoposto agli arresti domiciliari e poi all'obbligo di dimora proprio nell'ambito dell'inchiesta sugli affidi dei minori. Le motivazioni della Cassazione sono state riportate dall'ex parlamentare Pierluigi Castagnetti su Twitter e poi sono state confermate, secondo quanto riporta ilCorriere, dal deputato dem di Reggio Emilia, Andrea Rossi: "Mi sono messaggiato con i legali di Carletti che hanno confermato la notizia". Il sindaco di Bibbiano, finito nella bufera per il caso di alcuni affidi di minori, resta indagato per abuso d'ufficio. Ma di fatto la Cassazione ha stabilito che gli indizi non erano sufficienti a far scattare le misure cautelari. In questi mesi il caso degli affidi nel piccolo comune in provincia di Reggio Emilia ha fatto parecchio discutere diventando anche un vero e proprio caso politico. Il tema è entrato anche nella campagna elettorale per le Regionali in Emilia Romagna che si terranno a gennaio: "Per qualcuno non sarà stato un 'sistema', ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d'inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L'ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni", ha affermato qualche giorno fa la candidata della Lega alla guida della Regione, Lucia Borgonzoni. "La fine delle indagini - ha detto Borgonzoni - che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele, protezione e trasparenza. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle e per arrivare a una riforma del sistema delle decisioni che coinvolgono bambine e bambini". Di certo questa vicenda infiammerà ancora queste ultime sette settimane di sfida elettorale per un voto, quello dell'Emilia Romagna, che si potrebbe rivelare determinante anche per la tenuta dell'esecutivo. E di fatto nel voto peserà anche il modo in cui i cittadini si sono approcciati a questa vicenda su cui ci sono ancora molti aspetti da chiarire.
Bibbiano, «I barbari del web hanno minacciato di morte mio figlio di 5 anni». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Quando rientrerò nel mio ufficio? Per ora non ci penso, bisogna fare un passo alla volta ma ci vogliono calma e gradualità. Per oggi mi accontento delle innumerevoli telefonate di stima, amicizia e solidarietà che sto ricevendo. Attestati che mi fanno dimenticare quelle continue minacce di morte indirizzate a me, a mia moglie e a mio figlio che ha cinque anni». Dopo che la Cassazione martedì sera ha revocato l’obbligo di dimora, Andrea Carletti — 47 anni, laurea in Scienze politiche, dirigente alla provincia di Reggio Emilia,— è tornato un uomo libero. Ed è tornato anche — così prevede la legge Severino che norma la sospensione degli eletti — sindaco di Bibbiano, il comune travolto dall’indagine sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d’Enza. Carletti — autosospeso dal Pd — era stato accusato di falso e abuso d’ufficio per aver irregolarmente affidato alcuni spazi comunali a un’associazione coinvolta nell’inchiesta. «Ma in poche ore, dopo che la notizia dell’indagine è finita su web, telegiornali e carta stampata sono diventato un orco, un mostro» accusato di «nefandezze indicibili, senza capo né coda, tipo il rapimento dei bimbi, violenze, abusi». Per i «barbari del web» — così li definisce — la sentenza era «stata emessa subito: pubblico linciaggio per tutti gli indagati e in primis per il sindaco del Pd». Carletti parla nell’ufficio a Reggio di Giovanni Tarquini, uno dei due avvocati — l’altro è Vittorio Manes, ordinario di diritto penale a Bologna — che lo assistono. Interrompe lo sfogo per telefonare alla moglie — «tra un po’ torno a casa» — e poi riprende: «Leggevo le carte giudiziarie che raccontavano uno scenario e sui social ne veniva descritto uno diverso, terrificante, vignette sconvolgenti per il loro orrore, frasi irripetibili. Un’inarrestabile macchina del fango alimentata da un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia. A un certo momento ho catalogato le offese e le minacce peggiori ricevute online e ho dato mandato ai miei avvocati di denunciare 147 persone». Il volto del sindaco è visibilmente provato, ma sa di essersi lasciato alle «spalle cinque mesi da incubo». Ricorda l’orario esatto in cui i carabinieri di Reggio Emilia hanno suonato al campanello — «6 e 55 del 27 giugno scorso» — per notificargli gli arresti domiciliari, misura poi «alleggerita», a settembre, in quella dell’obbligo di dimora ad Albinea, il comune nel Reggiano dove vive. Resta indagato, «ma le prossime fasi giudiziarie le affronterò a schiena dritta, fiducioso di veder riconosciuta la mia estraneità ai fatti contestati».
Bibbiano, il sindaco Carletti: «Il web voleva il mio linciaggio in nome del popolo». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Abbiamo ricevuto minacce di morte io, mia moglie e mio figlio. Il web chiedeva il mio linciaggio “in nome del popolo”»: Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano tornato completamente libero dopo che la Cassazione ha stabilito che non esistevano i presupposti per arrestarlo parla. Parla per la prima volta dal 27 giugno scorso quando venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulle adozioni denominata «Angeli e demoni» cavalcata per mesi dal centrodestra. «Ho toccato da vicino il significato vero, profondo della parola libertà. Il giorno dopo una delle tante serate trascorse in Comune vieni svegliato, e in poche ore, dalle Alpi alla Sicilia diventi il mostro, l’orco di Bibbiano» ha esordito Carletti, 47 anni, che resta indagato ma per reati di natura amministrativa e non per abusi sui bambini. «La tua pagina Facebook - prosegue ricordando i giorni dopo lo scoppio dell’inchiesta - è sommersa da insulti e minacce di morte rivolte non solo a te ma alla tua famiglia, a tuo figlio. Insulti e minacce di morte che riempiono anche le pagine social di `autorevoli´ figure istituzionali a livello nazionale. Il Procuratore Mescolini il giorno dopo, in occasione della conferenza stampa, chiarisce la mia posizione, ma la verità sembra interessare a pochi. Ormai la macchina del fango è partita: un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia con tanti obiettivi ma non sicuramente quello della verità e del bene dei minori. Dopo pochi giorni la sentenza di condanna era già stata emessa: i vili barbari del web chiedevano “in nome del popolo” il pubblico linciaggio degli indagati, sindaco in testa, se poi - ha concluso - il sindaco è del Pd ancora meglio». Il prefetto di Reggio Emilia ha chiarito che Carletti potrà riprendere a svolgere il ruolo di sindaco: «Da domani tornerò al silenzio, affronterò le nuove fasi giudiziarie a schiena dritta -prosegue ancora il primo cittadino di Bibbiano - per il doveroso rispetto verso chi sta svolgendo le indagini, delle famiglie e dei minori coinvolti. Nei prossimi giorni, con la dovuta cautela, con la dovuta gradualità, riprenderò un cammino interrotto il 27 di giugno. Questo lo devo innanzitutto a chi a maggio mi ha rinnovato la mia fiducia. Per ora riassaporare la libertà dopo cinque mesi ha un gusto indescrivibile».
Bibbiano: la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco, Renzi:”Su di lui montagna di fango”. Il Riformista il 4 Dicembre 2019. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. “Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonchè l’ordinanza applicativa della misura cautelare attualmente in esecuzione. Per l’effetto, revoca la misura cautelare dell’obbligo di dimora”. Questo il dispositivo emesso ieri sera, al termine della camera di consiglio, dalla sesta sezione penale della Cassazione che ha accolto il ricorso del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti contro la misura cautelare a cui era stato sottoposto per le ipotesi di reato di abuso d’ufficio e falso nell’ambito dell’indagine ‘Angeli e demoni’ su presunte irregolarità negli affidi di minori. I difensori del sindaco avevano impugnato in Cassazione il provvedimento con cui il Riesame di Bologna, il 20 settembre, aveva sostituito gli arresti domiciliari (a cui Carletti era stato sottoposto dal 27 giugno) con l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, nonchè quello con cui il gip di Reggio Emilia aveva detto ‘no’, il 25 settembre, alla revoca delle misure cautelari. Il sostituto pg della Suprema Corte Ciro Angelillis aveva invece sollecitato, nell’udienza a porte chiuse di ieri mattina, il rigetto dei ricorsi. Entro un mese, come prevede la legge, i giudici del ‘Palazzaccio’ depositeranno le motivazioni della loro sentenza. A distanza di sei mesi dall’obbligo di dimora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l’arresto. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell’Unione dei comuni della Val d’Enza, ma risulta indagato d’abuso d’ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all’associazione “Hansel e Gretel”, che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e ha detto: “È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo”. “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Bene. Ieri la Cassazione ha detto che quel sindaco NON doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento – ha scritto su Facebook Matteo Renzi – Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica di chi ha più a cuore i sondaggi che la verità. La giustizia è una cosa seria. Lasciarla in mano ai giustizialisti rende questo Paese un posto barbaro. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco. Non smetteremo mai di chiedere giustizia e verità contro il populismo e gli slogan. No, non smetteremo MAI”.
Primi mea culpa M5s su Bibbiano. Gabriella Cerami su huffingtonpost.it il 04/12/2019. "Di Maio ha sbagliato", dice il pentastellato Carabetta. E anche altri parlamentari accusano il capo politico. Lui tace. C’è un video che torna indietro come un boomerang, che fa molto male al Movimento 5 Stelle e a Luigi Di Maio che lo ha girato. “Linea comunicativa totalmente sbagliata”, lo accusa il deputato Luca Carabetta. Ma ricostruiamo i fatti. A fine luglio il capo politico M5s, per smentire le voci di una futura alleanza con il Pd, disse in diretta Facebook che quello dei dem era il “Partito di Bibbiano” e che mai, dunque, avrebbe fatto nascere un governo con loro. Cavalcò l’inchiesta sugli affidi illeciti approfittando del fatto che il sindaco dem del piccolo comune di Reggio Emilia, Andrea Carletti, era stato accusato di abuso di ufficio e falso. Al di là del fatto che esattamente un mese dopo è nato l’esecutivo giallorosso, ora il primo cittadino di Bibbiano non ha più l’obbligo di dimora e può riprendere il suo mandato. Così le parole utilizzate nel famoso video si ritorcono contro l’ex vicepremier e il suo partito non gli perdona quell’uscita quanto mai affrettata: “Non ho mai scritto un post su Bibbiano o sul Pd perché non ho mai condiviso la linea comunicativa di Di Maio. Ha sbagliato”, dice il deputato grillino Luca Carabetta. I parlamentari 5Stelle sono piombati nell’imbarazzo generale. Sotto accusa finisce ancora una volta il capo politico. “Partiamo in quinta senza conoscere le carte, senza sapere. Come sempre. Se andate sulla mia bacheca Facebook non trovate post su Bibbiano per questa ragione”, dice un altro deputato al primo mandato. Di Maio approfittò dell’inchiesta sugli affidi dei bambini per colpire il partito di Nicola Zingaretti e per seguire la linea di Matteo Salvini, allora suo alleato di governo. Anche la Lega andò con toni pesanti contro il Pd. Basti pensare che l’attuale candidata governatrice dell’Emilia Romagna Lucia Borgonzoni in Aula alla Camera si presentò con una maglietta con su scritto: “Parliamo di Bibbiano”. Il mea culpa da parte di Di Maio ancora non è arrivato. E neanche da Salvini che non torna indietro: “Bibbiano? Le uniche scuse devono farle coloro che senza motivo hanno portato via i bambini alle loro famiglie e coloro che hanno coperto questo indegno sistema”. Ma i parlamentari 5Stelle invece sono molto critici: “La comunicazione esce sparata senza aspettare un minuto”, dice chi ha tenuto sempre un profilo basso e ora fa notare: “Ci siamo coperti di ridicolo. Prima e adesso”. E infatti adesso Matteo Renzi lo fa notare: “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco”. Nicola Zingaretti invece non cita il Movimento 5 Stelle ma in maniera molto chiara dice: “A chi ha utilizzato una storia di cronaca giudiziaria per organizzarci una campagna politica dico nuovamente: vergognatevi!”. La campagna politica è quella in Emilia Romagna, che a gennaio andrà al voto. Tra i 5Stelle c’è anche chi oggi dice: “Forse dovremmo chiedere scusa”.
Borgonzoni e la t-shirt su Bibbiano: «Non mi scuso» Il sindaco: su di me macchina del fango. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 su Corriere.it da F. Caccia, A. Fulloni. La senatrice della Lega, a meno di due mesi dalle elezioni, attacca di nuovo il Pd: «Chi ha sbagliato deve pagare». «Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare». La senatrice della Lega, Lucia Borgonzoni, non chiede scusa. Anzi rilancia. «Tra un festeggiamento e l’altro il Pd si ricordi dell’orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione, delle sofferenze e delle ingiustizie», così contrattacca la candidata alla presidenza della Regione Emilia Romagna, a meno di due mesi dalle elezioni. E a chi sulla sua pagina Facebook la provoca («Parliamo adesso di Bibbiano, dai!») ricordandole la maglietta esibita a Palazzo Madama tre mesi fa - quella appunto diventata presto virale, «Parliamo Di Bibbiano», con le lettere «P» e «D» scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti - lei replica dando del tu all’interlocutore: «Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo...?». Il sindaco Carletti, finito quest’estate al centro dell’inchiesta-scandalo «Angeli e Demoni» sul sistema di affidi nel Comune in provincia di Reggio Emilia, dopo il pronunciamento della Cassazione è tornato un uomo libero. «Leggere gli articoli e non solo i titoli farebbe comunque bene», insiste però la Borgonzoni su Facebook. Secondo lei, il provvedimento a favore del sindaco di Bibbiano non sposta d’un millimetro il problema: «Per qualcuno non sarà stato un “sistema” - ha anche scritto nei giorni scorsi - ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d’inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L’ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni. La fine delle indagini, che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele e protezione. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle».
Zingaretti straparla su Bibbiano. Bonafede, esiste la querela a Di Maio? Francesco Storace giovedì 5 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. A Zingaretti dà fastidio se si parla di Bibbiano. E quindi preferisce straparlarne. Quando lo fa, sbraca, deraglia, sbatte. Da ieri il segretario del Pd rischia testate sui lampioni perché sembra ubriaco. Appena ha saputo che il sindaco di Bibbiano può affrontare il processo da imputato a piede libero, ha cominciato a bere. Vodka a volontà, compagni. Come se qualche giudice avesse mandato al macero un’inchiesta contro una banda di delinquenti che sottraevano i figli alle loro famiglie. Che ha da festeggiare Zingaretti? Il sindaco Carletti non è stato prosciolto dalle accuse: aveva addosso quelle di falso e abuso d’ufficio e di quelle dovrà rispondere. Il sistema Bibbiano non si chiama Carletti, ma un’ideologia rossa che punta a sterminare l’istituto familiare. Al punto che Zingaretti commette un clamoroso autogol quando pretende di mettere all’indice chi si batte per accertare quanto accaduto. Ce l’ha con Laura Pasini, che si disse schifata per quanto appreso? Con Giorgia Meloni, che è invece fiera della denuncia che si è beccata per questa battaglia sacrosanta di verità? Oppure con Luigi Di Maio. Il suo delizioso partner di governo fu il più duro di tutti con il Pd quando esplose lo scandalo degli affidi: mai con il partito di Bibbiano, disse il capo pentastellato beccandosi la querela di Zingaretti. O meglio: l’annuncio della querela, perché non si sa che fine abbia fatto. Perché risulta difficile fare contemporaneamente l’indignato e poi governare assieme. Zingaretti, prima di parlare di Carletti, sarebbe molto più credibile – e gliene daremmo atto – se rendesse pubblici la querela, il testo, la ricevuta di effettiva presentazione in tribunale. Se non ricorda, Zingaretti può rivolgersi al guardasigilli Bonafede, che non mancherà di sguinzagliare i suoi ispettori a caccia della querela annunciata. Magari il ministro può anche essere sollecitato in proposito da qualche parlamentare curioso.
Zingaretti si rassegni: Bibbiano non è un’invenzione. Il segretario del Pd si deve rassegnare: la vicenda di Bibbiano è vergognosa e non la si può più nascondere con le falsità, con le accuse sulla propaganda altrui. Perché è per gli inquirenti che c’è stato un intreccio pauroso tra soggetti istituzionali e non sulla pelle delle creature rubate all’amore dei loro famigliari. E questo dovrebbe fare accapponare la pelle anche a lui. Invece preferisce – dice di preferire – le querele, magari selettive. Se stai con me tollero le tue parole. Se stai contro di me ti scateno giudici e avvocati. Anche questo attiene ad una politica sbagliata, urlata, odiosa. Abbia coraggio, Zingaretti. Chi è che sbaglia su Bibbiano? I magistrati? I giornali? Le destre? E persino la Pausini? Vuole querelare il mondo, il segretario del Pd, ma non dice se lo ha fatto nei confronti del suo maggiore alleato. E neppure che cosa pensa sia accaduto da quelle parti. Se pensa che a palazzo di Giustizia abbiano sbagliato, ha un solo modo per riscattare l’onore; firmi una norma sulla responsabilità civile dei giudici e la sbatta in faccia a chi accusa il suo sindaco. Ma faccia attenzione ai tempi, proprio perché non è stato ancora prosciolto. L’assoluzione d’ufficio non è stata ancora introdotta nel codice e certo sarebbe difficilmente prevederla come potere del segretario del Pd. I bambini tolti con l’inganno alle famiglie non sono una congiura delle forze oscure della reazione in agguato.
Caso Bibbiano, i demoni non erano demoni. Angela Azzaro su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Per i giornali era il mostro, il ladro di bambini. Per la Lega e Fratelli d’Italia era il cavallo di Troia attraverso cui far cadere il buon governo Pd in Emilia Romagna. Dall’altro ieri il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, può tornare a fare il sindaco, dopo la decisione della Cassazione di revocare l’obbligo di dimora. «Pur dovendo attendere le motivazioni della decisione – è il commento dei suoi legali Giovanni Tarquini e Vittorio Manes – sembra desumersi che la Corte abbia ritenuto che le condotte, contestate a Carletti, non giustificano alcuna misura cautelare». Chissà che diranno quei pm che a fine giugno hanno invece deciso di mettere le manette al primo cittadino a uso e consumo dei media. L’accusa nei suoi confronti è abuso di ufficio e falso per l’affidamento di locali per la cura di minori, ma la decisione dell’arresto era stata così forte e mediaticamente strumentalizzata che per l’opinione pubblica il sindaco, a cui già da settembre erano stati revocati gli arresti domiciliari, era diventato una sorta di appestato, uno che rubava i bambini alle famiglie. Ora la rabbia è tanta da parte di chi ha subito il linciaggio, anche indirettamente. «Chi chiederà scusa a Carletti e alle persone messe alla gogna ingiustamente?» ha chiesto polemico il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «La Cassazione – è stato il commento del leader di Italia Viva, Matteo Renzi – ha detto che quel sindaco non doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento». Il caso di Bibbiano andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo e di sociologia per capire quel meccanismo che coinvolge procure, giornali e psicosi collettiva. È quel circolo vizioso che a partire da un’inchiesta trasforma gli indagati in colpevoli, i colpevoli in mostri, i giornalisti in seguaci non dei fatti ma di una presunta Verità intesa come dogma. Quello che è successo in Emilia Romagna è da manuale. Fin dalla prima battuta. La procura invece di avere un basso profilo, considerato che sono coinvolti alcuni bambini e le loro nuove e vecchie famiglie, decide di chiamare l’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un nome così come è possibile pensare che l’opinione pubblica possa farsi una idea serena? Come ci si può fare un quadro oggettivo, quando l’informazione fa di tutto per allarmare, cambiare i numeri, amplificare, gettare fango? A leggere alcune testate o a sentire alcuni programmi tv (anche del servizio pubblico) il caso Bibbiano coinvolge centinaia di bambini. Numeri sballati che non hanno nulla a che vedere con l’inchiesta. I bambini coinvolti sono nove, sette dei quali sono già tornati alla loro famiglia di origine. Il sospetto è che si volesse colpire il sistema di welfare della Val d’Enza e con questo gli assistenti sociali e gli psicologi coinvolti. In tutto ci sono 28 indagati, compreso il sindaco Carletti e dovranno rispondere, a vario titolo, di 102 capi di imputazione. Diversi di loro, più o meno famosi, in attesa della chiusura delle indagini prevista per metà dicembre, stanno facendo partire più di una querela o stanno ottenendo le prime sentenze a favore. È quello che è accaduto a Claudio Foti. La sua foto è diventata l’emblema dell’inchiesta: immagini scelte appositamente per farlo apparire crudele, per attirare su di lui l’odio delle persone. Nei suoi confronti pesano due capi di imputazione. Il primo, quello di frode processuale, è di fatto già caduto: il tribunale della Libertà ha infatti tolto i domiciliari con la motivazione che non esistono gravi indizi di colpevolezza. Resta il concorso esterno in abuso d’ufficio. Il suo avvocato Girolamo Andrea Coffari è pronto a dare battaglia. «Presenterò – ci spiega – un articolato al pm da cui si evincerà come Foti non ha fatto assolutamente nulla. Non ho alcun dubbio. Si tratta di un clamoroso errore e lo dimostrerò. Ci metto la faccia che verrà assolto. Abbiamo assistito – chiude – a una gogna mediatica indecente». Già. I fatti, le prove, un giusto processo. Coffari è convinto che il sistema mediatico non condizionerà i giudici. Purtroppo questo non sempre è vero. Negli ultimi anni si è sviluppato un fenomeno chiamato giustizia difensiva, cioè una giustizia che tende ad assecondare l’opinione pubblica per timore delle critiche che purtroppo a volte diventano anche minacce nei confronti di quei giudici che invece di rispondere alla pancia, si basano sullo Stato di diritto. «Leggeremo il testo della Cassazione – ha scritto il deputato Pd Stefano Ceccanti – ma sin da ora parliamo davvero di Bibbiano, della carcerazione preventiva, delle accuse spacciate per condanne, del circuito mediatico-giudiziario, del giusto processo, della presunzione di innocenza». Ha ragione Ceccanti, non c’è tempo da perdere. Con Bibbiano si è andati oltre, si è costruito un mostro sulla pelle dei minori, di chi è più fragile e dovrebbe essere ancora più tutelato. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.
Ps: Oggi sui giornali leggeremo le parole di Zingaretti, di Renzi e di altri che chiedono le scuse per i fatti di Bibbiano, ma i primi a dover chiedere scusa sono quegli stessi giornali su cui leggiamo la notizia e che fanno finta di nulla.
Bibbiano, nessuna assoluzione cancella la gogna social. Claudio Rizza il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati. Due cavalli di battaglia della campagna leghista (e anche cinquestelle) anti immigrati e anti Pd si sono clamorosamente afflosciati in questi ultimi giorni e mesi. Si tratta dei casi politici di Bibbiano e di Riace. Il primo, ricorderete, è quello dello scandalo dei “bimbi strappati ai genitori” in Emilia Romagna, con la complicità dei tribunali dei minori, di assistenti sociali e del sindaco Carletti, che li avrebbe favoriti. Ha sollevato un’indignazione senza confini e pronunciato sentenze senza appello, prima di ogni accertamento di verità. Le indagini del Tribunale dei minori e della Commissione regionale, corroborati da cifre e statistiche, hanno invece appurato che non c’era scandalo, che i casi sospetti erano sei su cento, che non c’erano state sevizie, insomma che «Angeli e Demoni» era una sorta di fiction. Una campagna mediatica pompata da politici sia sui social che in Parlamento: parlateci di Bibbiano. Il tam tam orchestrato dai siti web teleguidati ha fatto sì che fake news diventassero verità. Succede ormai dappertutto e da anni. Il sindaco è stato arrestato, spedito ai domiciliari e finalmente liberato dalla Cassazione: non c’erano motivi per privarlo della libertà. L’altro sindaco, quello di Riace, Mimmo Lucano, fu preso di petto dal ministro dell’Interno, Salvini nel 2018: «Con me l’immigrazione di massa non sarà più un affare, la pacchia è finita». Arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Mimmo Lucano è stato allontanato con un «divieto di dimora». Un sindaco leghista ha poi preso il suo posto. Ma era ineleggibile ed è stato dichiarato decaduto. La Cassazione e il gip hanno smontato le accuse a Lucano: «Non ha compiuto alcuna irregolarità nell’assegnazione degli appalti né ci sono elementi per dire che abbia favorito presunti matrimoni di comodo». Cosa resta di questi due casi divenuti emblema di durissime battaglie politiche? Purtroppo tutto. Perché il gioco al massacro è proprio questo: quando i tribunali ristabiliscono la verità, ti assolvono, ti riabilitano, il danno resta intatto e non è più risarcibile. Gli accusatori senza prove non possono essere puniti, intanto i voti li hanno presi, i social e il web continuano imperterriti a riproporre presunti e fasulli illeciti come verità accertate, sulle “colpe” dei sindaci ci sono tonnellate di articoli, sulla loro innocenza qualche riga delle sentenze. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati.
Santificano il sindaco ma gli abusi di Bibbiano restano sotto inchiesta. Carletti scarcerato, non assolto. Celebrato come eroe, nessuno però spiega il caos affidi. Fabrizio Boschi, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Prima di scaldarsi tanto i dem dovrebbero riflettere su un fatto: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, al quale la Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nell'ambito dello scandalo «Angeli e Demoni» sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza (Reggio Emilia), nel giugno scorso, è, e resta, indagato per abuso d'ufficio e falso per l'affidamento di locali per la cura di minori. Nulla è cambiato da questo punto di vista e, infatti, lo attende il processo (per la metà di dicembre è prevista la chiusura delle indagini preliminari) assieme agli altri 28 indagati nell'inchiesta condotta dalla Procura di Reggio Emilia tra cui anche una funzionaria del Comune di Reggio Emilia. Che sia innocente o meno lo stabiliranno i giudici. Non quelli del Pd o Matteo Renzi. Eppure a sentire i dem sembra che Carletti sia il nuovo martire. Minacce e insulti sessisti sono piovuti sulla pagina Facebook, e nei messaggi privati, della candidata del centrodestra alla presidenza dell'Emilia-Romagna, Lucia Borgonzoni, per la t-shirt che indossò in Senato con su scritto «Parlateci di Bibbiano», con le lettere P e D scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti. Lei replica dando del tu all'interlocutore: «Non mi faccio intimidire, ma vado avanti. Ecco l'effetto del clima d'odio seminato da qualche democratico che forse si è dimenticato che il sindaco Carletti, resta indagato. Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo? Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare. Tra un festeggiamento e l'altro il Pd si ricordi dell'orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione». I dem si affrettano, invece, a pretendere le scuse per il sindaco ma non c'è nulla da scusare in verità perché l'indagine è ancora in corso. Pure il deputato dem Matteo Orfini si rifà vivo su Twitter: «Molti si dovrebbero vergognare per aver speculato su Bibbiano. Tanti dovrebbero chiedere scusa. Ma ce ne è uno che più di chiunque altro avrebbe il dovere di farlo: l'attuale ministro degli Esteri», prendendosela con Luigi Di Maio per i duri attacchi mossi al Pd. E per tutta risposta il M5s sarebbe pronto a sgambettare gli alleati di governo con la possibile candidatura alle regionali di Natascia Cersosimo, la consigliera di Cavriago (Re) che per prima scoprì il caso dei bimbi di Bibbiano. La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ribadisce la propria posizione: «Credo che nessuno debba chiedere scusa, intanto perché la revoca dell'obbligo di dimora a Carletti non vuol dire che non ci sia un procedimento nei confronti del sindaco. In secondo luogo, se queste persone sono colpevoli o innocenti questo lo stabilirà la magistratura. La cosa che a me sfugge è questo accanimento del Pd sulla vicenda di Bibbiano. È stato il Pd che ha acceso i riflettori su un suo interesse facendo una difesa senza precedenti dei suoi rappresentanti coinvolti nella vicenda, io nel dubbio questa difesa ad un mio sindaco non l'avrei fatta». Ma Carletti fa comunque l'offeso: «È stata una sofferenza incredibile. Sono stato trattato cinque mesi da orco, linciato dai barbari del web e da autorevoli figure istituzionali a livello nazionale. Un incubo per me e la mia famiglia insultati e minacciati di morte. Odio, ignoranza, ipocrisia: nessuno voleva vedere la verità, se poi il sindaco è del Pd ancora meglio».
Quanta confusione sotto il cielo di Bibbiano. Dal sindaco Carletti, che per errore molti dicono “assolto” ai dubbi sulle richieste di allontanamento ricevute a Bologna: il presidente, Spadaro, nega siano state 100. Ma l’Associazione dei giudici minorili dice il contrario. Maurizio Tortorella il 6 dicembre 2019 su Panorama. Ma quanta confusione riescono a fare, giornali e social media, sullo scandalo Bibbiano? Fanno confusione sulla sorte giudiziaria del sindaco del paesino emiliano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico, uno degli inquisiti che lo scorso 27 giugno era stato confinato agli arresti domiciliari, e che ora la Cassazione ha liberato dalla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Fanno confusione perché, contrariamente a quanto su Carletti hanno scritto alcuni quotidiani (scatenando sui social media una ridda di precoci festeggiamenti nella parte politica del sindaco) la recente decisione della Cassazione non è affatto un’assoluzione definitiva. A dirla tutta, non è nemmeno un’assoluzione. In realtà il sindaco Carletti, così come gli altri 27 indagati nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, resta pienamente coinvolto nel procedimento sui presunti dieci affidi illegittimi di bambini: per lui come per gli altri indagati il pubblico ministero Valentina Salvi prima o poi chiederà il rinvio a giudizio e solo allora, finalmente, comincerà il processo penale vero e proprio. Poi arriveranno le sentenze e solo allora, finalmente si vedrà se le accuse reggeranno o meno alla prova dei fatti. E se ci sarà da festeggiare. Va detto, però, che a Bibbiano la confusione è davvero tanta e non riguarda soltanto il sindaco: c’è ben altro, che ancora non torna. Affogato nei dubbi resta un dato fondamentale, cioè quello relativo alle richieste di allontanamento di bambini e adolescenti da parte dei Servizi sociali della Val d’Enza, il Consorzio di Comuni di cui Bibbiano è parte e che è finito al centro dell’inchiesta reggiana. C’è una statistica, di cui s’è molto discusso negli ultimi mesi, che scaturisce da un complesso lavoro di verifica annunciato ai primi di luglio da Giuseppe Spadaro, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna che ha competenza su tutta la Regione. Pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo di Bibbiano, Spadaro aveva dichiarato di avere deciso di ricontrollare “una settantina di altri allontanamenti” di bambini della Val d’Enza, decisi dal suo Tribunale tra 2018 e 2019. L’iniziativa era stata presentata dai mass media come uno scrupolo meritorio e s’era poi conclusa verso la metà di ottobre. Secondo quanto avevano riportato tutti gli organi di stampa, in una riunione svolta attorno al 12 di quello stesso mese Spadaro aveva rivelato una statistica importante, evidente frutto del lavoro di approfondimento avviato in luglio. Sia pure con sfumature diverse, tutti i giornali avevano attribuito a Spadaro alcuni numeri davvero sorprendenti: su un centinaio di segnalazioni in cui i servizi di Bibbiano-Val d’Enza avevano prospettato l’allontanamento dalle famiglie, in 85 casi il Tribunale aveva deciso all’opposto e aveva lasciato i bambini all’interno delle famiglie. Le cronache avevano sottolineato che il presidente Spadaro avesse dichiarato che quel rapporto di 15 contro 85 era “il segno di un sistema giudiziario che ha fatto il suo dovere e ha dimostrato di essere sano”. Spadaro aveva anche dichiarato o lasciato intendere che “il sistema Bibbiano non esiste”. Quei dati e quelle parole, però, erano state fatte oggetto di critiche. Da più parti si erano manifestate perplessità sul “lavoro di scavo” deciso da Spadaro: perché i giudici minorili di Bologna avevano sentito la necessità di una verifica suppletiva? E perché il supplemento d’indagine era avvenuto solo dopo l’emersione dell’inchiesta penale sui presunti affidi illeciti? Insomma, come erano stati decisi quegli allontanamenti? Erano stati condotti con tutte le verifiche del caso e come frutto del corretto contraddittorio fra le parti, o ci si era semplicemente affidati alle relazioni dei Servizi sociali? Un’eco di quei dubbi è emersa anche nei lavori della Commissione d’inchiesta della Regione Emilia-Romagna. Varata un mese dopo lo scoppio dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano, la Commissione regionale s’è data il compito d’indagare nel sistema regionale degli affidi minorili. Per questo ha ascoltato assistenti sociali, avvocati, psicologi ed esperti. A manifestare perplessità, in particolare, era stato Camillo Valgimigli, docente di neuropsichiatria infantile all’Università di Modena e Reggio, e dal 1995 al 2003 giudice onorario minorile d’appello proprio a Bologna. Da tempo il professor Valgimigli è critico sul sistema degli affidi, e alla fine dello scorso ottobre ha depositato agli atti della Commissione d’inchiesta una relazione dettagliata in cui ha sottolineato che, “se è vero quanto afferma il presidente Spadaro, i Servizi sociali di Bibbiano in meno di due anni avrebbero proposto al Tribunale dei minori altri 85 allontanamenti ingiustificati, evidentemente spinti da una visione distorta, che ovunque sospetta abusi e maltrattamenti”. Valgimigli ha allargato l’orizzonte del dubbio: “Se i numeri non ci ingannano” ha scritto nella relazione “e se la logica è logica, 10 di quei 15 allontanamenti decisi dal Tribunale minorile di Bologna sono poi stati comunque definiti ‘illeciti’ dalla Procura di Reggio Emilia. Quindi la proporzione finale tra richieste di allontanamento e allontanamenti motivati sarebbe ancora inferiore”. Insomma: per Valgimigli la tesi dell’esistenza di un “sistema Bibbiano” avrebbe trovato una conferma proprio nei numeri esposti da Spadaro. Alla fine di ottobre la Commissione regionale sembrava dovesse chiudere i suoi lavori senza ascoltare il presidente del Tribunale minorile. Poi all’improvviso, il 14 novembre, la Commissione ha “audito” per molte ore il presidente del Tribunale (e forse proprio la relazione del professor Valgimigli non è estranea alla decisione). È stato un intervento autorevole e importante, quello del presidente del Tribunale, anche perché – come lo stesso Spadaro ha sottolineato più volte – il poter parlare “in una sede istituzionale” gli permetteva finalmente di “sgomberare il campo da valutazioni errate ed equivoci”. Il problema è che, proprio sulla fondamentale statistica degli allontanamenti, Spadaro ha offerto alla Commissione una spiegazione che purtroppo ha lasciato irrisolti tutti i dubbi. Anzi, rischia forse di accrescerli. Verso la fine della sua audizione, infatti, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna ha risposto a una domanda del consigliere Andrea Galli, di Forza Italia, che gli ha chiesto lumi sul fondamentale tema di quelle 100 “richieste di allontanamenti” in 85 casi respinte dal Tribunale dei minori: “Se le cose stanno così” ha obiettato Galli “questo vuol dire che i Servizi sociali della Val d’Enza hanno un tasso di errore dell’85%”. L’implicita domanda di Galli: come era stato possibile che i giudici minorili non avessero reagito a “un tasso di fallimento di tale portata”? Spadaro ha risposto negando l’assunto di partenza: “C’è un equivoco” ha dichiarato il magistrato “perché è passato un messaggio fuorviante. Le cose non stanno così. Se davvero l’85% delle segnalazioni dei Servizi sociali che io ho analizzato mi avessero chiesto di allontanare i bambini (dalle loro famiglie, ndr), io stesso sarei andato alla Procura della Repubblica e avrei detto: guardate che ci sono altri casi da analizzare”. Spadaro ha quindi specificato che i Servizi sociali della Val d’Enza non avevano affatto proposto al Tribunale “100 richieste di allontanamento”, ma che si erano limitati a fornire “segnalazioni di potenziale pregiudizio”, relazioni molto meno preoccupanti. “Insomma” ha spiegato Spadaro “in quell’85% di casi non era stato chiesto l’allontanamento, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante. Questo lo devo dire per amore di verità. In 15 casi, invece, le segnalazioni erano così gravi da aver comportato un allontanamento, prima temporaneo e poi definitivo”. Ora, è possibile che alla metà di ottobre i giornalisti avessero collettivamente capito male i dati di Spadaro, trasformando per errore le segnalazioni di potenziale pregiudizio in richieste di allontanamento. Noi giornalisti, si sa, sbagliamo spesso, come peraltro dimostra il diffuso equivoco sulla presunta “assoluzione in Cassazione” del sindaco Carletti. Il problema è che dei dati attribuiti alla metà di ottobre al presidente Spadaro non hanno scritto soltanto i giornali, ma resta un ben più autorevole riscontro ufficiale. A fornirlo è un comunicato dell'Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf), di cui proprio Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf ha tenuto a Lecce un congresso su “Il Giudice delle relazioni tra disagio, devianza e nuove fragilità”. E nel comunicato finale del convegno, vergato a puntuale difesa del Tribunale dei minori di Bologna, si legge testualmente: “A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna, dopo una scrupolosa verifica interna e una riunione con i responsabili dei servizi sociali e con la nuova dirigente della Val d’Enza, è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai detti servizi". Il comunicato dell’Aimmf prosegue: “Risulta smentita l’esistenza di un ‘sistema emiliano’ fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali". Alla luce di queste due opposte versioni dei fatti, la questione delle 100 relazioni dei servizi sociali resta del tutto irrisolta: chi ha ragione? Il presidente Spadaro, che nega autorevolmente di aver ricevuto 100 richieste di allontanamento dai suoi assistenti sociali, o l’Associazione dei magistrati (di cui Spadaro è vicepresidente), che invece parla chiaramente di 100 “proposte di allontanamento e collocamento presso terzi”? Qualcuno farà chiarezza? Perché sotto il cielo di Bibbiano c’è davvero troppa confusione…
Il sindaco Pd e il sistema Bibbiano: ora spuntano le intercettazioni. Nelle carte della procura di Reggio Emilia tra le storie dei bambini di Bibbiano spuntano le intercettazioni tra il sindaco e gli altri indagati. Costanza Tosi, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Adesso tutti parlano di Bibbiano. Nel vortice di chiacchiere e discussioni opinabili, nel bel mezzo degli editoriali che, in barba alla legge, già sentenziano sull’esistenza o meno del sistema di affidi illecito denunciato dalla procura di Reggio Emilia c'è un particolare che sfugge ed è forse l’unico che bisognerebbe sottolineare. Cosa c'è davvero nell'ordinanza? Nelle carte le intercettazioni captate dai carabinieri smentiscono, parola dopo parola, la difesa del sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. Tra i racconti dettagliati delle indagini la valutazione del gip del Tribunale di Reggio Emilia Luca Ramponi. "Non è vero che l'indagato non sapesse nulla, piuttosto sapeva e coprì politicamente l'iniziativa amministrativa illegittima, compartecipando nella agevolazione fattiva della stessa anche a fronte di specifiche richieste di altri componenti dell' organo di indirizzo politico". Si legge. Ramponi accusa senza mezzi termini l’indagato di esser stato non solo complice di tutto, ma in maniera del tutto lucida e consapevole. E per gli scettici diventa più facile da credere se si vanno a rileggere le telefonate tra Carletti e alcuni degli indagati, tra cui Federica Anghinolfi. La responsabile del Servizio Sociale dell'Unione Val d'Enza finita al centro degli scandali sui bambini di Bibbiano. Ma partiamo dalla storia. I protagonisti dell’inchiesta “Angeli e Demoni” stavano lavorando all’apertura di una comunità per minori. Un'operazione in grande. La casa avrebbe accolto bambini provenienti da tutto il nord Italia e non solo minori del reggiano. Di questo progetto Anghinolfi, Carletti, ma anche Foti e altri parlarono a lungo. In una telefonata con con Marcello Cassini, legale rappresentante della società cooperativa “Si può fare”, la capa dei servizi della Val d'Enza racconta di essersi mossa per trovare una sede che potesse ospitare il centro. "Loro hanno cercato sta benedetta casa su a Bibbiano e ne avevano trovata una in affitto, ma per come è articolata non si riesce a suddividere", dice l'assistente sociale. A questo punto l’interlocutore tira in mezzo il sindaco. Come riportano i carabinieri, "Marcello dice di aver già avvisato Carletti di questa cosa, in quanto quest'ultimo gli aveva detto di conoscere una grande casa in cui i proprietari volevano fare un caseificio". Carletti avrebbe, dunque, contribuito alla ricerca del centro inconsapevole di cosa stesse andando a fare? Senza sapere di cosa si trattasse veramente? Ignaro di come queste persone stessero lavorando con i minori? Ma andiamo avanti. Per il progetto era tutto pronto. Persino il nome era già stato deciso. “Rompere il silenzio”. Secondo la procura a spingere per creare il centro nelle sue zone era proprio Carletti. Le cure secondo il sindaco dovevano essere, ovviamente, affidate alla onlus di Claudio Foti. Per il sindaco i metodi dello psichiatra Torinese erano eccellenti. Come dimostra una telefonata registrata tra la Anghinolfi e Carletti. Dopo il convegno Rinascere dal trauma: il progetto La Cura i due si sentono per scambiarsi opinioni su come fosse andato l’incontro volto a celebrare il sistema Bibbiano. Federica Anghinolfi: "Secondo me è arrivato un messaggio molto chiaro, anche di natura scientifica". Carletti d’appoggio: "Io l'ho ribadito apposta in fondo...". Carletti era persino intervenuto per sottolineare il messaggio di natura scientifica senza essere al corrente di come funzionasse tutto il sistema? Ciò che è certo è che il sindaco era molto legato alla Anghinolfi e agli altri. Li conosceva. Aveva un rapporto stretto tanto da scambiarsi consigli, pareri e perplessità. Secondo il gip "il suo ruolo di copertura si è anche estrinsecato facendo valere espressamente la propria competenza e il proprio peso politico per superare le perplessità di altri componenti della giunta dell' Unione proprio con riguardo alle modalità di affidamento del servizio di psicoterapia e della sua retribuzione di fatto". Tra le tante, un’altra telefonata è utile a chiudere le fila del discorso e rendere più chiara la posizione del sindaco santificato dopo aver ottenuto la revoca dell’obbligo di dimora. A parlare sono Claudio Foti e Francesco Monopoli uno degli assistenti sociali che collaboravano con Federica Anghinolfi. Questa volta si parla di cifre. Il nuovo centro di accoglienza per minori doveva fissare un costo per i bambini che venivano accolti. A tal proposito Monopoli racconta: "Ho provato a sondare per il discorso della retta e… fra i 250 e i 260 euro... è un po' un discorso di lana caprina... nel senso che fino a 250 nessuno dice niente". Dunque sembrerebbe che fosse già tutto deciso. Mancavano solo le cifre. Ma sarebbe stata la "Hansel e Gretel" ad occuparsi della psicoterapia ai minori. Eppure non era stata indetta nessuna gara pubblica. Tutto in amicizia e senza rispettare i dovuti step legali. Come riporta La Verità a confermare il modus operandi di Andrea Carletti è stato anche l'ex sindaco di Gattatico in provincia di Reggio Emilia, Gianni Maiola. Secondo quanto emerso dalle sue segnalazioni sembrerebbe che "per un verso la gratuità del servizio non era emersa nella discussione di giunta e che vi era una precisa consapevolezza della onerosità del servizio, tanto che egli pose il problema e segnalò le proprie perplessità, e sia Carletti che Anghinolfi e Campani rassicurarono gli altri componenti della giunta dell'esistenza di un formale affidamento alla Hansel e Gretel". Adesso, per qualcuno, dopo che il sindaco del Pd è tornato libero, “Bibbiano” è diventata tutta una farsa mediatica strumentalizzata dalla destra populista. Ma oltre i discorsi, in cui per di più andrebbe intanto sottolineato che la decisione dei pm non rende ancora Carletti innocente, ci sono delle indagini trascritte in un’ordinanza della Procura che parlano di fatti. Che mettono nero su bianco perchè di Bibbiano si doveva parlare. E che fanno pensare che, forse la sinistra prima di pretendere le “scuse” dovrebbe aspettare i processi.
Bibbiano, tornano a casa gli ultimi 4 bimbi coinvolti nell'inchiesta. Gli ultimi quattro bambini le cui storie erano state raccontate nelle carte della procura sull'inchiesta "Angeli e Demoni" hanno iniziato il percorso per tornare a riabbracciare i propri genitori. Costanza Tosi, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Anni di sofferenze, battaglie e ingiustizie che hanno distrutto intere famiglie e rovinato gli anni più belli della propria vita a decine di bambini. A Bibbiano i servizi sociali avrebbero tolto i bambini ai propri genitori naturali, con accuse mai confermate e pretesti infondati. Ora, anche gli ultimi piccoli rimasti lontani dalla propria famiglia, stanno per rientrare nelle proprie case. Un calvario durato anni il loro, che forse adesso vedrà la parola fine. Gli ultimi quattro bambini le cui storie sono state riportate nelle oltre duecento pagine dell’inchiesta “Angeli e Demoni” hanno iniziato il percorso per rientrare a casa. Adesso porteranno a termine i necessari incontri protetti e poi potranno finalmente riprendere la loro vita accompagnati dall’affetto del loro papà e della loro mamma. Tra loro anche Katia. La sua storia era una delle più crude tra quelle raccontate dalla procura. La bambina era stata affidata, sotto consiglio di Federica Anghinolfi, a capo dei servizi sociali della Val D’enza, ad una coppia di donne omosessuali. Nelle carte, le intercettazioni delle due donne trascritte dai carabinieri e già riportate da noi de IlGiornale.it a pochi giorni dallo scoppio dell’inchiesta, furono uno dei passi più strazianti. Un giorno la piccola venne scaraventata fuori dall’auto di una delle due donne. Si tratta di Daniela Bedogni, compagna di Fadia Bassmaji nonchè amica e ex fidanzata proprio di Anghinolfi. Tutte molto attive all’interno del mondo per i diritti Lgbt. La donna lasciò la minore sotto la pioggia, in strada. Tra urla di rabbia e parole da far accapponare la pelle. “Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!”. Sbraitava la madre affidataria. La bambina nel tragitto non riusciva ad accusare il padre di abusi nei suoi confronti. Katia non riusciva a dire una bugia. Quelle violenze infatti non sono mai state provate, eppure per qualcuno la bambina avrebbe dovuto confessarle. Di forza. E solo perchè questo avrebbe fatto sì che la piccina non tornasse più a casa e rimanesse ostaggio delle due donne. La minore dopo le denunce è stata subito allontanata dalla coppia e adesso, come ha raccontato il giornalista della Rai Luca Ponzi, potrà ritornare finalmente a casa. A tornare a casa sarà anche un altro tra i bambini del bibbianese. La sua è una storia tanto assurda quanto dolorosa. Gli assistenti sociali lo pressarono per fargli confessare di aver subito abusi dai suoi genitori. Volevano che dicesse che i suoi genitori avevano masturbato sia lui che i suoi fratelli. Queste accuse non furono mai provate e l’incubo, questo bambino, non lo visse a casa sua, ma nella famiglia affidataria alla quale venne dato proprio dagli stessi servizi sociali della Val d’Enza. Fu a casa dei “nuovi genitori” che il piccolo venne abusato. Stuprato da un ragazzo di 17 anni, affidato alla stessa famiglia. Una vicenda assurda e che lascerà un trauma nel bambino per tutta la vita. Ma che, non ha toccato minimamente uno degli indagati. Francesco Monopoli, collega di Federica Anghinolfi infatti, dopo essere venuto a conoscenza della tragedia diede la colpa proprio al piccolo abusato. “Chissà che segnali avrà mandato a questo ragazzo perché fosse predabile”. Con queste parole l’assistente sociale sostenne che il bambino avesse fatto intendere all’adolescente di essere disponibile dal punto di vista sessuale e che questo avrebbe fatto fare il primo passo al ragazzo. Un po’ come dire alle donne stuprate che è colpa della minigonna. É con queste storie che resta impossibile non gridare all’evidenza della gravità dei fatti di Bibbiano. Eccole qui le vittime del sistema. Sono queste piccole creature che per tutta la vita dovranno portarsi dietro il peso delle ingiustizie che hanno subite che lasceranno per sempre una ferita profonda nelle loro anime. Ma il popolo dei garantisti, della sinistra liberale, chiede le scuse per il sindaco Carletti. Che solo per essere tornato un uomo libero dopo la revoca da parte del pm dell’obbligo di dimora è stato dichiarato vittima del sistema. In realtà ancora oggi il sindaco dem dovrà provare, in aula di tribunale, di non aver favorito tutti coloro che hanno fatto carte false (nel vero senza della parola) per strappare questi bambini dalle proprie famiglie, di non aver aiutato le menti di questo sistema illecito, senza mettersi dalla parte delle vittime. Quelle vere.
Le uniche vittime di Bibbiano sono i bambini, non il sindaco. Andrea Carletti, il primo cittadino, si dice "crocifisso". Ma a chiedere le scuse posso essere soltanto le famiglie devastate dallo scandalo affidi. Mario Giordano il 20 dicembre 2019 su Panorama. Perseguitato? Vittima? Addirittura «crocifisso», come si è autodefinito, paragonandosi nientemeno che a Gesù sul Golgota? Non scherziamo: intanto il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, resta indagato. E poi resta indagato nell’ambito di una inchiesta che ha sollevato il velo su un orrore spaventoso, quello del business sui minori strappati alle loro famiglie. Dunque dovrebbe pensarci due volte prima di proclamarsi vittima. Come dovrebbero pensarci il segretario del suo partito, Nicola Zingaretti del Pd, e tutti gli altri politici che si sono affrettati a guadagnare un titolo di giornale, vestendo i comodissimi panni dei martiri mediatici. Perché, in questa vicenda, le vittime ci sono davvero. Ma non sono quelli che stanno sulle cadreghe che contano e strepitano sui giornali. Non sono né il sindaco né il segretario del Pd. Non sono i partiti politici e i loro rappresentanti. Le uniche vittime di questa vicenda, purtroppo, sono i bambini. Il sindaco di Bibbiano per ora ha solo avuto la revoca dell’obbligo di dimora. Non l’assoluzione. Per l’amor dei cielo: ce l’avrà. Glielo auguriamo. Gli auguriamo di dimostrare l’innocenza in tribunale, oltre che sui giornali. Ma nel frattempo abbia la decenza di evitare la parola «crocifissione». Perché di crocifissioni, in questa orrenda storia, ce ne sono state fin troppe: sono stati crocifissi quei bimbi strappati alle loro mamme, tenuti lontani per anni, quei bambini a cui si diceva «facciamo il funerale al tuo papà»; sono stati crocifissi quei bambini che chiedevano «perché papà non viene a trovarmi?» e si sentivano rispondere «perché non ti vuole più»; sono stati crocifissi quei bambini che non ricevevano i giocattoli dai loro genitori perché gli assistenti sociali li buttavano nell’immondizia, insieme con le loro lettere. E sono stati crocifissi quei bambini i cui disegni venivano modificati per dimostrare che erano stati molestati anche se non era vero. Solo per tenerli lontani dai genitori. Per sfasciare le famiglie. E per fare più soldi. Ecco chi sono le vittime di Bibbiano. Ecco chi è stato davvero crocifisso. Il sindaco dimostrerà la sua innocenza, Zingaretti si guadagnerà un po’ di agenzie di stampa facendo la vittima e gridando alla «vergogna». Qualche altro politico ripeterà che bisogna «chiedere scusa». Ma vi rendete conto dell’assurdità? Ancora una volta la politica ha perso il contatto con la realtà: gli unici cui bisogna chiedere scusa, infatti, sono quei piccoli torturati e plagiati in nome dell’ideologia e del dio denaro. Nessun adulto può tirarsi fuori dalle responsabilità di questo orrore. Nessuno adulto, se ha un minimo di umanità, può fare a meno di sentirsi toccato nel profondo. Nessun adulto può fare a meno di sentirsi in qualche modo responsabile di non aver capito, di non aver intuito, di non aver protetto questi bambini. Di non aver scoperchiato prima il pentolone dell’orrore. Figurarsi se può farlo chi è stato sindaco in quelle zone. Figurarsi se può farlo il segretario di un partito che da quelle parti da sempre fa il bello e il cattivo tempo. Bibbiano non è stato un raffreddore, come hanno scritto i tecnici mandati dalla Regione per seppellire tutto. Bibbiano è un’inchiesta che ancor prima di individuare reati e eventuali colpevoli (questo lo stabilirà il processo), ha sollevato il velo su uno scandalo che non è solo a Bibbiano, ma che è nazionale. Ed è lo scandalo dei bambini calpestati da un sistema che mira soltanto a fare soldi. E che nessuno controlla. Tanto è vero che ancora oggi non si sa quanti sono i bambini allontanati dai tribunali in Italia, nessuno conosce quanto rendano, dove finiscono quei soldi, nessuno indaga sulle complicità e sui conflitti di interesse tra giudici minorili che decidono gli affidi e le cooperative che su quegli affidi prosperano. Nessuno è riuscito a fermare il business osceno che si è scatenato sulla pelle dei più piccoli. Altro che raffreddore: è una pestilenza. Una pestilenza che fa guadagnare molte persone, si capisce. Ma che non ha pietà dei bambini. E che perciò andrebbe fermato. A qualsiasi costo. In qualsiasi modo. Anche a costo di indagare un sindaco, se è necessario. Perché per quante violenza ci possa essere nell’indagare un sindaco che poi (forse) si dimostrerà innocente, non è paragonabile alla violenza che c’è nello strappare un bimbo al suo papà dicendogli che «papà è morto» o «papà non ti vuole», mentre il papà lo sta aspettando fuori dalla porta. E il fatto che i politici non lo capiscano, autoproclamandosi vittime e crocifissi, è l’ennesima dimostrazione, caso mai ce ne fosse ancora bisogno che i politici pensano a difendere sempre e soltanto sé stessi, anziché chi ne ha davvero bisogno, come i bambini. Poi si chiedono perché la gente non crede più in loro.
Abusi sui bambini, il Papa più avanti della politica. Donzelli: «Da Bibbiano al Forteto, hanno paura». Francesco Storace mercoledì 18 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Forteto, Bibbiano, sugli abusi ai bambini il Papa sembra più coraggioso della politica italiana….“Il Parlamento invece pare chiudersi a riccio. La commissione d’inchiesta sul caso esploso in Toscana anni addietro non parte. Le forze politiche di maggioranza la rinviano ancora ed è una vergogna oggettiva”. Lo dice al Secolo d’Italia il deputato Giovanni Donzelli, parlamentare toscano di Fratelli d’Italia, che sul caso Forteto ha condotto una durissima battaglia fino al varo della commissione. “Una certa politica – aggiunge – ha raggiunto livelli così bassi da far apparire cose di buonsenso come lungimiranti. Accusano la destra di aver strumentalizzato il caso per distrarre dalla realtà: sono i minori le vittime di questa vicenda, strumentalizzati per interessi economici e personali. E adesso pretendono anche che stiamo zitti?”
Chi e che cosa frena il varo della commissione d’inchiesta?
“Pd e Movimento 5 Stelle stanno litigando su tutte le poltrone, e fra queste anche quella del Forteto. Nella migliore delle ipotesi si tratta di questo. Sono nove mesi che l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare è una legge dello Stato: quando partirà dovrà indagare anche per capire se fra i motivi di questo inaccettabile ritardo ci sia il tentativo di qualcuno, ancora oggi, di coprire i pedofili e i loro amici”.
Il Forteto in sintesi… molti italiani ancora non sanno…
“Il Forteto nasce negli anni ’70 dalla spinta ideologica del ’68. L’idea di una vita comunitaria a contatto con la terra e la natura si è trasformata presto in un luogo dove si sono commesse le peggiori angherie. Bambini con situazioni difficili affidati dai magistrati e poi abusati. Non si parla solo di abusi fisici, ma anche psicologici e sociali che hanno coinvolto anche le persone entrate in buona fede per lavorare e scappate per disperazione. E pensare che per anni le istituzioni della sinistra l’hanno incensata presentandola come un esempio. Il Forteto è stata una vera e propria setta”.
Dove dovrebbe spingersi la commissione?
“La commissione d’inchiesta ha il dovere di indagare sulle responsabilità dei magistrati, della politica, e di tutti quegli ambienti che hanno permesso a dei mostri di agire indisturbati, sguazzando in un sistema di potere granitico creato dalla sinistra in Toscana. Ma soprattutto è un risarcimento di verità e giustizia che lo Stato deve alle vittime: lo stop, per contro, rappresenta l’ennesima ferita inferta”.
Perché non può presiederla chi ha denunciato lo scandalo?
“Io penso che certamente non possano presiederla rappresentanti in continuità con le forze che per anni, al governo della Toscana, hanno finanziato il Forteto, lo hanno accreditato fino ad usarlo per le campagne elettorali. Sulla verità non possono esserci compromessi: per indagare efficacemente è necessario conoscere in modo approfondito la vicenda, dalle sentenze al lavoro delle due commissioni d’inchiesta toscane, le cui relazioni sono state approvate all’unanimità dal Consiglio regionale. Mi auguro che nessuno si sogni di mettere in discussione questi documenti”.
Bibbiano, nuovi guai per Foti: «Sospeso sei mesi dalla professione». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it. Nuovi guai per lo psicoterapeuta Claudio Foti, 68 anni, direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell’inchiesta «Angeli e Demoni» della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti a Bibbiano, nella Val D’Enza. Questa mattina — lunedì — i carabinieri del Nucleo Investigativo di Reggio Emilia hanno dato esecuzione a Pinerolo (Torino) a un’ordinanza cautelare interdittiva nei suoi confronti, emessa il 6 dicembre scorso dal gip del Tribunale di Reggio Emilia, che dispone per Foti il divieto per mesi sei di esercitare l’attività professionale di psicologo-psicoterapeuta nei confronti di soggetti (pazienti o clienti) minorenni. Il provvedimento è stato assunto in ordine al capo di imputazione secondo cui il terapista avrebbe sottoposto una minore a «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale» per ingenerare in tal modo in capo alla minore «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal socio». Questo con l’obiettivo di radicare «nella minore un netto rifiuto nell’incontrare il padre», che è stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale. La nuova misura cautelare è stata decisa dopo una serie di indagini successive all’esecuzione dell’ordinanza cautelare del 27 giugno scorso, quando per Foti erano scattati gli arresti domiciliari, poi revocati il 18 luglio dal tribunale del Riesame di Bologna e commutati nell’obbligo di dimora nel Comune di residenza (Pinerolo). Secondo fonti giudiziarie proprio il materiale video prodotto dalla difesa di Foti a sostegno dell’istanza di riesame che è stata accolta, è stato analizzato da un consulente tecnico della Procura reggiana risultando «in maniera oggettivamente antitetica a quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie». Una tesi che ha visto concorde il giudice per le indagini preliminari, che ha firmato l’ordinanza di sospensione dalla professione per Foti.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Mesi fa Andrea Coffari, avvocato difensore di Claudio Foti, rilasciò una intervista a questo giornale e spiegò di aver consegnato alle autorità ore di filmati delle sedute di terapia effettuate dal suo assistito sui bambini del caso «Angeli e demoni». Secondo Coffari, da quei video si sarebbe potuta evincere la bontà del lavoro di Foti. Grazie a quelle ore di registrazione, sosteneva Coffari, tutti coloro che avevano avanzato dubbi sulla professionalità del terapeuta torinese avrebbero dovuto ricredersi, e prepararsi a chiedere scusa. Siamo di fronte a uno dei più clamorosi casi di eterogenesi dei fini che la Storia ricordi. Poiché proprio quei filmati hanno costituito «al contrario di quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie della procura di Reggio Emilia». Questo ha scritto il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Luca Raponi, nel provvedimento in cui stabilisce che il guru di Hansel e Gretel, 68 anni, «non potrà esercitare l' attività di psicologo o psicoterapeuta con pazienti minorenni» per un periodo di sei mesi. Si tratta di una nuova misura interdittiva a carico di Foti, che scaturisce da accuse piuttosto pesanti mosse dalla Procura di Reggio Emilia, secondo cui Foti avrebbe condotto su una minorenne «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell' abuso sessuale». Queste sedute avrebbero ingenerato nella piccola «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e da un suo socio». In questo modo Foti avrebbe radicato «nella minore un netto rifiuto nell' incontrare il padre». Il risultato fu che al padre della minorenne fu tolta la potestà genitoriale. In pratica, la bimba gli fu strappata. Quel padre fu trasformato in un mostro a seguito di sedute di terapia condotte in modo sbagliato, tramite i metodi che gli operatori di Hansel e Gretel hanno sempre rivendicato con orgoglio, presentandosi come gli illuminati cacciatori di abusi ingiustamente osteggiati dai difensori dei pedofili. Non importava che la comunità scientifica avesse da tempo rigettato le tecniche di Foti e dei suoi collaboratori. Questi ultimi continuavano a insistere di essere nel giusto. È emblematico, a tal proposito, ciò che accadde mesi fa, quando a Foti furono revocati gli arresti domiciliari. Inizialmente, infatti, il guru di Hansel e Gretel era stato sottoposto a una misura cautelare pesante. Il suo difensore fece però ricorso al Tribunale del Riesame di Bologna, che decise di revocare gli arresti, limitandosi a imporre a Foti l' obbligo di dimora a Pinerolo, il suo paese in provincia di Torino. In quell' occasione, Coffari cantò vittoria, spiegando che - proprio poiché aveva visionato i famigerati filmati delle terapie - il giudice aveva deciso di alleviare i provvedimenti nei confronti del terapeuta. Qualche tempo dopo, però, uscirono le motivazioni del Riesame, e i toni utilizzati dai giudici, si scoprì, non erano poi così blandi, anzi. In realtà, il Riesame usava parole pesantissime nei confronti del terapeuta piemontese. Il giudice spiegava che Foti, Federica Anghinolfi, Nadia Bolognini e gli altri del giro bibbianese erano «fortemente ancorati a una visione ideologica del proprio ruolo che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti; uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico; in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà». Esisteva, secondo il giudice del Riesame, una «scuola Foti» e il metodo che essa utilizzava appariva «di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della Carta di Noto». Secondo il giudice «l' opera di Foti si è inserita in una scia che portava gli indagati a credere fortemente nella sussistenza a priori di abusi sessuali nella vita dei piccoli pazienti». Tra le altre cose, il giudice bolognese contestava persino la professionalità del terapeuta (che, va ricordato, non ha una laurea in psicologia o psichiatria, ma in lettere, ed esercita grazie a una sanatoria). Il Riesame, nelle motivazioni, parlava infatti di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti da parte di una persona che, tra l' altro, non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l' attività di psicoterapeuta». Di fronte a queste frasi viene da chiedersi: come mai, allora, il tribunale del Riesame decise di revocare gli arresti domiciliari a Foti e addirittura di far cadere una delle accuse nei suoi confronti? Il motivo è semplice. L' accusa in questione era quella di frode in processo penale e depistaggio. Riguardava appunto la vicenda di una ragazzina che il terapeuta ha seguito tra il 2016 e il 2017 e che sarebbe stata spinta a ricordare abusi subiti dal padre in tenera età. La ragazza nel frattempo è diventata maggiorenne, il procedimento sugli abusi ha già fatto il suo corso e l' accusa è caduta soltanto per questioni tecniche legate alle tempistiche. Secondo il tribunale, tuttavia, restava «pacifico che la terapia con la ragazza era per Foti un vantaggio economico, posto che per ogni seduta di un' ora il suo guadagno era di euro 135, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta pari a euro 70». Questa ragazza è la stessa a cui, ora, fa riferimento il Gip di Reggio Emilia. Sapete che cosa significa? Che qui abbiamo ben due giudici - quello del Riesame di Bologna e quello reggiano - che hanno espresso nero su bianco critiche pesantissime all' operato di Claudio Foti e di Hansel e Gretel. Secondo entrambi i giudici, infatti, il terapeuta torinese utilizzava metodi invasivi, faceva pressioni sui pazienti minorenni affinché raccontassero abusi che in realtà non avevano subito. Il provvedimento del Riesame impediva a Foti di operare a Bibbiano, ma gli consentiva comunque di seguire pazienti a Pinerolo. Il nuovo provvedimento del Gip, invece, blocca per sei mesi qualunque attività del creatore di Hansel e Gretel. Di fronte a tutto questo, di fronte a giudici (non pm, non giornalisti) che attaccano con tanta forza il lavoro sui pazienti minorenni di Foti e compagni, tocca porsi una domanda. Per quale motivo ad Hansel e Gretel fu affidata la gestione esclusiva del centro La Cura di Bibbiano?
Quali attestati di benemerenza aveva prodotto Foti? Sul suo conto circolavano già parecchi pareri negativi, il suo lavoro era stato ampiamente contestato anche prima che arrivasse in Emilia Romagna. Eppure il sindaco del Pd Andrea Carletti e gli assistenti sociali bibbianesi hanno deciso di concedere a Foti e ai suoi totale libertà di azione. Come sia stato possibile, forse, dovrebbero dircelo i fini analisti che, da qualche tempo, continuano a definire Bibbiano «un raffreddore». Lo dicano al Gip che il caso Angeli e demoni non esiste. Oppure, optino per un più dignitoso silenzio.
Giovanardi: "perché il Pd non si dissocia dalle idee di Foti?". Sulla vicenda di Bibbiano, l’ex ministro lancia una polemica sulle idee dello psicologo e sulla sinistra che per anni le ha sponsorizzate. Panoram ail 10 dicembre 2019. Una nuova, dura polemica sullo scandalo dei bambini di Bibbiano: la lancia Carlo Giovanardi, ex senatore modenese del centrodestra e più volte ministro. Giovanardi chiama in causa il Partito democratico e chiede come sia stato possibile che, per anni, quel partito abbia sostenuto e addirittura “sponsorizzato” Claudio Foti, lo psicologo piemontese finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni della Procura di Reggio Emilia. Di Foti, indagato per frode giudiziaria e abuso d’ufficio, Giovanardi critica alla radice idee e statistiche: secondo lo psicoterapeuta, il 75% dei minori sarebbe vittima di abusi di qualche genere (sessuali, fisici o psicologici), tanto da usare l’irriverente iperbole di “Olocausto” per descrivere il fenomeno. Giovanardi sottolinea poi che Foti sostiene che anche gli abusi non provati dalla giustizia sono quasi sempre veri, e che le sentenze di assoluzione non significano nulla. Lo psicologo teorizza inoltre che l’allontanamento dei bambini dalle famiglie è la sola strada per fare emergere in loro il ricordo delle violenze subite. Alla luce di tutto questo, Giovanardi chiede che anche il Pd si opponga a queste idee da “caccia delle streghe”.
Carlo Giovanardi: Tutti conosciamo il terribile significato del termine "Olocausto", che richiama lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti nella Seconda guerra mondiale. Ma c'è un altro Olocausto, meno noto, che ci illustra lo psicologo Claudio Foti nel suo intervento "il negazionismo dell'abuso sui bambini, l'ascolto non suggestivo, la diagnosi possibile", pubblicato sul numero 2 del 2007 della rivista MinoriGiustizia. Scrive Foti: "L' olocausto dell'abuso sulle donne e sui bambini, con i suoi scenari infinitamente differenziati e sfumati, ma forse più impensabili e indicibili di quelli dei lager e assolutamente non circoscritti da un visibile filo spinato, rimane comunque un fenomeno in gran parte sommerso e l' impegno a sottrarlo dalla notte millenaria di rimozione e di negazione, in cui resta avvolto, per poterlo contrastare ed affidare alla coscienza ed alla memoria, risulta assai piu' difficile di quanto non sia accaduto per altre espressioni di violenza storicamente documentate". Nello stesso intervento leggiamo: "La prima verità è che gli abusi organizzati (ritualistici o finalizzati al traffico di materiale pedopornografico) esistono o sono diffusi; la seconda verità è che sono destinati a rimanere ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo". Sin dal tempo dei cosiddetti "Diavoli della bassa modenese" (1999) passando per il caso degli “orchi” dell’asilo di Rignano Flaminio (2006), un ristretto numero di persone dalla più disparata estrazione politica e professionale, hanno contestato in Parlamento e fuori questo approccio ideologico alla tematica dell' abuso sui minori: dal giornalista Pablo Trincia, con la sua indagine Veleno, all’avvocato Patrizia Micai, difensore di alcuni dei condannati; dallo psichiatra modenese Camillo Valgimigli all’ex giudice del Tribunale minorile di Bologna, Francesco Morcavallo. Dopo la esplosione dell'indagine "Angeli e Demoni" Francesco Borgonovo sulla Verità, Maurizio Tortorella con il suo libro "Bibbiano e dintorni" e Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano hanno con pacatezza e e ineccepibile documentazione informato i lettori della gravità dei reati ipotizzati dalla magistratura di Reggio Emilia. Viceversa, un tema così angoscioso e delicato ha innescato polemiche strumentali e imbarazzanti, sceneggiate da parte di esponenti della Lega, di Fratelli d'Italia e dei 5 Stelle, e altrettante incredibili e imbarazzanti difese d'ufficio da parte del Partito democratico: un clima ben diverso da quello dell'epoca delle maestre di Rignano Flaminio, quando il Pd era giustizialista e forcaiolo, e la destra non era da meno, con Alessandra Mussolini e Luca Barbareschi a chiedere al governo Berlusconi, di cui facevo parte come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, di dissociarsi pubblicamente dalla mia difesa delle maestre (poi assolte con formula piena). Purtroppo la rissa politica rischia di far dimenticare il dramma di migliaia di famiglie vittime di pregiudizi ideologici, come quelli che hanno portato il Centro Hans e Gretel di Claudio Foti a sostenere e diffondere tra magistrati minorili, operatori dei servizi e psicologi il dato che il 75% dei bambini italiani sia abusato in famiglia, o sessualmente o tramite violenza fisica o psichica. Come scrive Foti nel testo già citato, “i clinici, attrezzati all'ascolto empatico dei loro pazienti, ben conoscono su un piano empirico la diffusione dell'abuso sui bambini, essendo abituati ad accogliere, magari dopo mesi e anni di psicoterapia, precisi ricordi di violenze, latenti o manifeste, avvenute nell'infanzia dei loro pazienti e a verificare effetti di integrazione e benessere di straordinario rilievo a seguito della narrazione ed elaborazione terapeutica di questi ricordi".
E che cosa accade se la giustizia poi assolve o archivia? "I dati relativi alle false accuse" scrive Foti "non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tener conto, giustamente e inevitabilmente, del parametro delle prove. La stessa verità giudiziaria, inoltre, risulta spesso condizionata vuoi da modalità d'indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici". Conclude Foti: "Si rischia di lasciare il piccolo testimone in balìa di vissuti paralizzanti. Si finisce per generare anziché una suggestione positiva, una massiccia suggestione negativa nel bambino…". I milioni di cittadini italiani che hanno visto in televisione le agghiaccianti immagini di come venivano interrogati i bambini della Bassa Modenese e di Bibbiano si sono resi conto di come sono stati tradotti nella realtà certi teoremi, suffragati anche dalla teoria del cosiddetto "disvelamento progressivo", secondo la quale un bambino sottratto ai genitori, con i quali per mesi viene precluso ogni contatto, se debitamente (ed empaticamente) interrogato farà affiorare gli abusi subiti. Abusi che non possono non essere veri perché, come scrive Foti, "in conclusione non è affatto dimostrato che il falso ricordo, quando consiste in un evento sconvolgente e traumatizzante si possa inserire nella memoria autobiografica". Vorrei pertanto che il Pd di Reggio Emilia e quello nazionale spiegassero perché abbiano sempre esaltato e sponsorizzato le teorie di Foti; perché non condannino le terribili conseguenze di queste teorie; e soprattutto perché non intendano fare causa comune con tutti coloro, anche della loro stessa area politica, che ben prima di Bibbiano si sono opposti a questo ritorno alla "caccia alle streghe".
Le strane statistiche del giudice di Bibbiano. Il presidente del Tribunale dei Minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, ha detto che il sistema è sano. Ma i numeri sugli allontanamenti che ha fornito lasciano dubbi. Maurizio Tortorella il 22 dicembre 2019 su Panorama. Giuseppe Spadaro, forse, ricorderà questo 2019 che ormai declina come uno dei peggiori anni della sua vita. Dopo un’estate infernale, e alla fine di un autunno da incubo, al presidente del Tribunale dei minori di Bologna sembrerà poca cosa perfino la grave intossicazione alimentare che in aprile gli aveva imposto un ricovero in ospedale. Per Spadaro la guerra, quella vera, è iniziata alla fine di giugno, quando è scoppiata l’inchiesta «Angeli e demoni»: suo malgrado, da allora il magistrato è sotto i riflettori dei mass media e il suo ufficio è finito al centro dello scandalo per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano, la cittadina emiliana che in quel campo (come l’intera Regione) è sotto la sua giurisdizione. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 in carica a Bologna, Spadaro ha disperatamente cercato di presentare se stesso e i suoi giudici come le «prime vittime» degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. Non è servito: il gorgo accusatorio dei social media lo ha risucchiato. A Spadaro «Angeli e demoni» ha rovinato anche luglio, agosto e settembre: il magistrato ha dovuto rinunciare al mare per scavare nei fascicoli da cui ha fatto uscire mille statistiche, a suo dire rassicuranti. Ma l’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, involontariamente, gli ha soprattutto stoppato la carriera: prima di Bibbiano veniva data per certa la sua promozione al vertice del Tribunale per i minori di Roma, il più importante d’Italia, per cui Spadaro aveva fatto domanda nel 2018. Il Consiglio superiore della magistratura era schierato con lui, Piercamillo Davigo in testa. A metà novembre, invece, lo stesso Csm ha sospeso tutto. Ai primi di luglio, del resto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha avviato un’indagine amministrativa sull’ufficio di Spadaro. È vero che gli ispettori ministeriali, da buoni magistrati, non sono mai troppo severi con i colleghi dei quali si occupano. Ma stavolta il Guardasigilli ha domandato un’analisi insolitamente approfondita: Bonafede ha ordinato di «andare oltre l’acquisizione documentale» e di «ascoltare giudici, personale amministrativo, avvocati e altri soggetti in grado di fornire informazioni». Non contento, l’11 novembre Bonafede ha chiesto agli ispettori un supplemento d’indagine «sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente». Cioè dal povero Spadaro. Questo supplemento d’ispezione è stato probabilmente motivato dal fatto che nelle intercettazioni di «Angeli e demoni» era emersa la vicinanza tra uno dei 41 giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva sostituito il magistrato in questione, ma non c’è stato nulla da fare: un mese fa, la nuova ispezione ha indotto il Csm alla prudenza. Come se i guai non bastassero, in novembre è arrivata la ciliegina sulla torta: l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia ha inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale di Spadaro. Ne esce un quadro più che fosco, cupo. Gli avvocati lamentano che a Bologna ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, «in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze». Denunciano «il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati» e lo «smarrimento di fascicoli». La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, sostiene che spesso «gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze». E la grana rischia di ripetersi con iniziative analoghe di altri Ordini legali emiliani…Alla fine di questa nera sequenza di avversità, il 14 novembre Spadaro è stato chiamato a rispondere alle domande della Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. Lì, caricato a molla, il magistrato ha finalmente potuto sfogarsi. Ha ricordato le offese e le minacce ricevute sui social media: «Mi hanno chiamato sequestratore di bambini!», ha protestato. Il presidente ha cercato di rappresentare la piena efficienza del suo Tribunale: «Siamo tra i migliori in Italia» ha dichiarato con orgoglio. Ma poi è accaduto un fatto strano. Perché a Spadaro è stato chiesto conto di due numeri, fondamentali, che i giornali, concordi, gli avevano attribuito alla metà di ottobre: per dimostrare l’insussistenza di ogni problema e respingere l’accusa di un «sistema Bibbiano», Spadaro avrebbe riferito che tra 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al suo ufficio 100 allontanamenti, e che i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Proprio alla Commissione regionale, però, quella statistica è stata sottoposta a critiche. Possibile che gli assistenti sociali avessero chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a quella valanga di errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Posto di fronte alla questione, Spadaro ha dato la sua versione: «È un equivoco», ha spiegato «perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo». Spadaro ha dichiarato che, al contrario, gli assistenti sociali avevano presentato 100 «segnalazioni di potenziale pregiudizio», cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Resta agli atti, però, un comunicato ufficiale dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, di cui lo stesso Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf si è riunita in congresso a Lecce, e nella nota finale di quell’assise si parla proprio delle 100 «richieste di allontanamento». Così la versione di Spadaro viene autorevolmente smentita proprio dall’associazione di cui è vicepresidente: «A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna» scrive l’Aimmf «è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai Servizi sociali». L’annus horribilis di Spadaro, insomma, continua.
Nek e l'appello per Bibbiano: "Vogliamo la verità". Nek, dopo la Pausini, lancia un messaggio su social su quanto accaduto ai bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Angelo Scarano, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Il mondo della musica si mobilità per far luce sui fatti di Bibbiano. Diversi volti noti della musica italiana chiedono la verità su quei bambini tolti ai gentiori per essere poi affidati (nel silenzio più assoluto) ad altre coppie. La prima voce ad alzarsi in questo senso è stata quella di Laura Pausini. Proprio la cantante romagnola ha voluto lanciare un appello molto chiaro: "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni. Mi sento incazzata, fragile, impotente". E ancora: "Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?". Adesso su questa vicenda (che da settimane ilGiornale.it sta raccontando) è intervenuto anche Nek che con un post sui social ha chiesto la verità su quanto accaduto a Bibbiano. Il cantante non usa giri di parole e anche lui dai social lancia un appello che ha fatto in poche ore il giro del web: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Insomma la storia dei bimbi di Bibbiano grazie anche ai messaggi dei volti noti dello spettacolo tenta di rompere il muro del silenzio che diversi organi di stampo hanno creato attorno a questa vicenda. E c'è da giurare che l'appello di Nek non resterà isolato e non sarà certo l'ultimo. Altri cantanti sono pronti a chiedere la verità e a dar voce ad una vicenda su cui è importante tenere alta l'attenzione.
Bibbiano, Nek risponde agli insulti rossi: "Bah, passo e chiudo..." Nek adesso non usa giri di parole e risponde per le rime a chi lo ha attaccato per il suo post su Bibbiano: "Vi pare giusto?" Angelo Scarano, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. Nek reagisce. Non ci sta a subire attacchi gratuiti per il suo appello a far luce su quanto accaduto a Bibbiano. Come è noto, il cantante sui social ha lanciato un messaggio chiaro per chiedere verità su una vicenda che finora ha diverse ombre. Lo ha fatto con semplicità, con queste parole: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Parole che hanno subito scatenato la reazione degli haters "rossi" che su Facebook e Twitter hanno messo nel mirino il cantante. Ma non ci sono solo gli haters ad attaccare Nek. C'è anche Luca Bottura che su Repubblica non ha usato certo toni morbidi per il cantante: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Livore gratuito contro chi ha espresso un'opinione legittima e che viene deriso anche sul fronte professionale. Ma Nek non ci sta e così ha deciso di reagire e dire la sua rispedendo al mittente tutti gli insulti ricevuti: "Paragonare una mia canzone di 25 anni fa a un crimine contro l’umanità, uno di quelli veri… Ma certo, è normale, si fa, è satira! Tirare fuori addirittura i lager e Salò. Ok, è sempre satira! Ma sarà davvero satira accostare tutto questo? Una canzone che legittimamente può o non può piacere, con eventi e tragedie che hanno segnato la storia di tutti noi? Bah!! Passo e chiudo". Poi chiama in causa in modo esplicito Bottura: "Non discuto la critica – scrive Nek – Sono quasi 30 anni che ci sono abituato. Né tantomeno, quando è attinente, la satira. Evviva la libertà di espressione, del signor Bottura, della stampa, quella di ognuno di noi, ma anche la mia". Ma dopo aver regolato i conti con chi l'ha insultato, Nek rilancia il suo appello per Bibbiano: "Ho espresso un pensiero su una vicenda che mi stava a cuore, e che ritengo importante. Sono stato oggetto di critiche, giudizi, insulti, strumentalizzazioni e forzature. Me ne faccio serenamente una ragione. E certo non mancherò di esprimermi ancora ogniqualvolta ne sentirò il bisogno". Insomma il cantante non usa giri di parole e non torna sui suoi passi dopo aver chiesto verità per Bibbiano.
Da Nek a Mietta e Laura Pausini anche i VIP contro il silenzio su Bibbiano. Letizia Giorgianni il 21 Luglio 2019 su La Voce del Patriota. Mentre il Pd minaccia querele a chiunque parli della vicenda ed il suo segretario Zingaretti risponde con una risata alla domanda della giornalista, l’indagine sugli affidi di Bibbiano si estende a nuovi casi, che riguardano anche altri comuni, e che getterebbe ombre su oltre 70 affidi. Si perché, mentre il pool degli avvocati del Pd sono impegnati affinché “nessuno osi strumentalizzare” la vicenda, i magistrati del Tribunale e della Procura dei minori di Bologna, su ordine del Presidente Giuseppe Spadaro, stanno ricontrollando tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali per 6 Comuni. Impossibile ormai arginare lo sdegno provocato da una tale mercificazione e violazione dell’infanzia; non basta più il silenzio dei media e neppure l’infaticabile lavoro della fallimentare agenzia on-line di Mentana, impegnata alacremente a far sgonfiare l’inchiesta con notiziole ininfluenti (tipo il finto prete che parlava di Bibbiano). Lo sdegno della gente comune è tangibile. E allo sdegno della piazza, (l’ultimo corteo a Bibbiano proprio ieri) adesso si unisce anche quello dei vip, come la Pausini, Nek, e nella tarda serata di ieri anche la cantante Mietta, che dopo aver letto su Instagram lo sfogo di Nek, chiede a quest’ultimo la possibilità di condividere il post, appoggiandolo in pieno. Niente prime pagine per loro però. I loro post sono passati praticamente inosservati, ignorati. Dal canto loro i media, o per lo meno quelli che ritengono che l’informazione sia un diritto solo quando non lede gli interessi del padrone, continuano a tacere. Anzi, adesso, dopo la presa di posizione di personaggi dello spettacolo, tacere non gli basta più. Sono passati all’attacco, dimenticandosi completamente ogni regola, oltre che deontologica di buon senso, di quella che dovrebbe essere l’attività di un cronista. C’è infatti persino chi tenta di ironizzare e mettere alla berlina coloro che vogliono venga fatta completa luce sulla vicenda. Lo fa Repubblica, che chiama con disprezzo gli indignati “complottisti da social” ma anche La Stampa, che titola un articolo, (che di informativo non ha proprio niente): E allora Bibbiano? con il chiaro intento di descrivere in toni grotteschi chi osa collegare l’inchiesta di Bibbiano al Pd. Nell’articolo la giornalista, incredibilmente, parla di “luoghi comuni e falsità contro il Pd” di chi vuole strumentalizzare la vicenda per interessi personali. Probabilmente ne sa più lei che i pm che si stanno occupando dell’inchiesta. Fa eco Next, che di tutta l’inchiesta, documentata anche da intercettazioni, ci propina un “trattato” sull’uso improprio della parola “elettroshock” sui bimbi, rassicurandoci che non si è trattato di un vero e proprio elettroshock ma di “stimoli di tipo elettrico usati nella terapia per superare alcuni tipi di traumi”. Certo, adesso ci sentiamo sicuramente sollevati. E ci domandiamo se non vogliano anche loro prendere il posto degli inquirenti che si stanno occupando della vicenda. Per fortuna esistono anche giornalisti che alle imbarazzanti forme di autocensura preferiscono la coraggiosa e dolorosa ricerca delle verità nascoste. E anche la politica lo deve fare. E non si tratta di strumentalizzazione, si tratta di tenere ancora i riflettori accesi affinchè venga fatta piena luce sulla vicenda. Se non si considerano le responsabilità politiche ci ritroveremo tra qualche anno a dover affrontare un altro caso, altre vittime. Ricordiamo che prima Forteto e oggi Bibbiano si sono generati negli stessi ambienti culturali e politici. In tutti questi casi il silenzio è stato il nutrimento che ha consentito a queste realtà di operare per anni in modo incontrastato.
#ParlatecidiBibbiano. Perché la cacca non diventi… cioccolata. Cristiano Puglisi 23 luglio 2019 su Il Giornale. Ancora mutande sporche di Nutella. Questa volta al Comune di Bibbiano. A consegnarle, in sei borsette chiuse destinate ad altrettanti e differenti destinatari, tutti interni alla macchina comunale, è stato nuovamente il misterioso gruppo degli “Idraulici”, che già si era distinto per un’azione similare nei confronti della nave della ONG“ Open Arms”, ormeggiata al porto di Lampedusa. Il gruppo di attivisti, vestiti proprio da idraulici, ha fatto irruzione sabato mattina negli uffici comunali e ha recapitato la “castana” sorpresa a quelli che ha identificato come i responsabili dello scandalo relativo agli affidi. “Gli Idraulici – hanno poi spiegato gli autori del gesto in un comunicato stampa - non dimenticano qual è il loro compito principale, la ragion stessa del loro esistere: sturare quelle situazioni in cui l’accumulo di merda è diventato eccessivo. Bibbiano è una latrina a cielo aperto, la cui puzza viene coperta e deviata in ogni modo dal silenzio di sistema. È in questi frangenti che un Idraulico torna utile!”. “Non ci sono stati – dice ancora il comunicato – servizi-scandalo, maratone, titoloni a tutta pagina e chi ha provato a richiamare l’attenzione è stato immediatamente tacitato con news spacciate come prioritarie. Ma gli Idraulici arrivano come il destino, senza pretesti, senza riguardo, esistono come esiste il fulmine! E con loro, la gente d’Italia, che nella famiglia naturale ha un cardine imprescindibile(…)”. Il gruppo degli “Idraulici” è ritenuto vicino al think tank identitario Il Talebano. “Quanto è successo a Bibbiano è un fatto tremendo, la politica deve intervenire fermando la sperimentazione sociale attuata nelle scuole di stato sui bambini – ha commentato al proposito Fabrizio Fratus, fondatore proprio de ‘Il Talebano’ – Le strutture pubbliche non devono essere utilizzate per fini ideologici”. Già. Eppure il fecale fetore dei fatti di Bibbiano sembra, nella grande stampa generalista, essere già stato dimenticato. Passato in secondo piano, destinato non più alle prime pagine (come invece capita agli scontri tra le ONG e l’attuale ministro dell’Interno e al ridicolo “Russiagate” all’amatriciana), ma, al più, alla cronaca giudiziaria. #ParlatecidiBibbiano è l’hashtag-denuncia che sta circolando in queste ore su Twitter, rilanciato, tra gli altri, anche dal presidente di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini. Giusta iniziativa, perché di Bibbiano si deve parlare. Se ne deve parlare per rispetto verso i bambini, vittime innocenti e senza difesa, e verso le famiglie coinvolte. È una questione morale, prima che giornalistica. Perché non si può consentire che la cacca, ancora una volta, diventi cioccolata.
Sui social centinaia di meme e post costruiti ad arte accusano media, Partito Democratico e movimento Lgbt di aver oscurato l’inchiesta di Reggio Emilia sui presunti abusi. Nadia Ferrigo il 18 Luglio 2019 su La Stampa. «Allora Bibbiano?» La «guerriglia culturale» invocata da VoxNews.info, l'autodefinitosi «quotidiano sovranista» Il Primato Nazionale e da una nebulosa galassia di decine di pagine Facebook dai nomi più o meno evocativi, ha un nuovo tormentone: l'inchiesta sui presunti abusi su minori in provincia di Reggio Emilia. Ne parlano centinaia di post e articoli, condivisi e commentati migliaia di volte sui social: nulla aggiungono, se non notizie false e un minestrone di pregiudizi e luoghi comuni che vanno dai «risultati della campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale e diffondere la teoria gender» a una «ideologia aberrante che mira alla disgregazione totale della famiglia nel nome del gender, del femminismo, della famiglia arcobaleno, dei diritti/capricci». Colpevole è il Partito Democratico, che con «la complicità dei media» vuole mettere a tacere la vicenda. Una squallida speculazione, con argomenti che nulla hanno a che fare con l’inchiesta di Reggio Emilia. Cosa c'entrano per esempio Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Roberto Saviano e Laura Boldrini? Assolutamente nulla. Ma sono decine i meme che accostano le loro fotografie al «connivente silenzio dei media» sull’indagine. Lo stesso accade sugli account Facebook e Twitter dei media nazionali. Le notizie di politica sono bersagliate dallo stesso, squallido ritornello: «Parlate dei rubli, per non parlare di Bibbiano». Nella lettura complottista di una galassia di siti specializzati nella produzione di bufale e fake news virali, i media sono complici di Pd e movimento Lgbt: l’obiettivo di tutti sarebbe nascondere la realtà. Ecco i fatti. Giovedì 27 giugno i carabinieri di Reggio Emilia hanno messo agli arresti domiciliari sei persone al termine di un'indagine su un'organizzazione criminale che da una parte aveva lo scopo di togliere bambini a famiglie in difficoltà e affidarli a famiglie di amici o conoscenti, mentre dall’altra gestiva illecitamente fondi pubblici. L'indagine si concentra dell'affidamento di sei bambini legati ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, un consorzio di sette comuni che condividono la gestione di molti servizi. La notizia è stata riportata da tutti i principali media italiani, che continuano a seguirne gli sviluppi. Ma la campagna d’odio, anche in assenza di notizie, va alimentata: online le varianti morbose sono infinite, per forza ripetitive. Spesso ricostruzioni assolutamente false. Titola l’ultimo link di VoxNews.info: “I mostri di Bibbiano occupano aula contro Salvini”. Le fotografie sono quelle della protesta dei parlamentari del Pd, che chiedono che il ministro Matteo Salvini riferisca in Parlamento sulla vicenda dei fondi russi alla Lega. Nulla a che fare con l’inchiesta. Tra i più attivi su Facebook, gli account legati all’estrema destra. Un esempio, il «Gruppo Gnazio». I post con riferimenti a Bibbiano sono decine, i commenti assolutamente irripetibili. Tra quelli che senza vergogna si possono riprendere c’è: «Vauro ha la matita rotta, nessun commento sui bambini di Bibbiano?». Continua a essere postato e ripostato il video attribuito a Bibbiano – ma che in realtà si riferisce a un’altra vicenda di cronaca, come raccontato da Open – di un bimbo che si dispera perché separato dal padre. Filmato postato anche dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Questa squallida campagna di speculazione su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi, cui prodest? A chi giova? Non certo ai bambini. Nè a quelli vittime degli abusi – che per oltre il 70% avvengono in famiglia – né ai bambini presunte vittime degli errori del sistema di affidamento. A decidere non saranno né i social né le invocate «indagini giornalistiche», ma la magistratura.
Commento di Alessandra Ghilardini: Questo sotto è una parte di quello che scrivevate nel non tanto lontano 31 luglio 2016...definendo l'unione val d'Enza una lavatrice sana....quindi non mi stupisco ora la vostra improvvisa prudenza e ritrosia nel commentare anni di abusi perpetrati da chi voi esaltavate come la soluzione ai problemi di quella "cattivona" (mio aggettivo) modello di famiglia patriarcale così definito da quella brava professionista Federica Aghinolfi.
"La Val d’Enza. C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza - 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali - hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori. E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti. È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi». Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza. Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso. Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità degli operatori. «Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici. La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?"
Non è più tollerabile. Luca Bottura il 21 luglio 2019 su La Repubblica. Ameno stavolta. Filippo Neviani in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt’ora nella lista dei crimini contro l’umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato al gusto Puffo. Successivamente prestò la sua immagine a una campagna contro la droga condotta fianco a fianco dell’allora ministro Giovanardi e di un cane poliziotto. Il cane cominciò a drogarsi di lì a breve. Non stupisce che ieri abbia pubblicato sui social un post indinniato sulla vicenda di Bibbiano, l’indagine su presunte sottrazioni di minori nel Reggiano, corredata da uno striscione in caratteri postfascisti nel quale si attribuisce al Pd il ratto dei piccoli. Quella di Nek viene subito dopo la presa di posizione social di Laura Pausini, a sua volta desiderosa di squarciare la coltre di silenzio su un evento di cui parlano tutti dacché è emerso, e di Enrico Ruggeri, che l’altro giorno accusava Zingaretti di aver preso i rubli prima di Salvini. Successivamente, la Pausini è stata ripresa dal sottosegretario contro gli Interni, Sibilia, mentre a Nek è toccato il retweet di Giorgia Meloni. La domanda sorge spontanea: ma il povero Povia, che il sovranista da pentagramma lo faceva quando non era ancora così di moda, sarà contento di vedere tutta ‘sta gente sulla Lada dei vincitori?
“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.
Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.
Commento di Andrea Battoccolo: Allora spiegatemi una cosa: parlate di risonanza immediata: appena venuta fuori la notizia ho visto i TG che ne anno parlato per circa 2 giorni, poi personalmente non ho più visto niente, se no qualche piccolo riassunto sulle notizie precedenti. Che si tratta solo di 6 casi lo sento ora da voi, e personalmente non ci credo,dico personalmente perché più che un idea personale non posso farmi visto che i media tradizionali non ne parlano e le notizie che si trovano in rete vanno prese con le pinze giustamente. Allora perché non la fate voi informazione,no voi state zitti per 2 settimane, poi ve ne uscite accusando di infamia chi accusa i responsabili di questo schifo, tanto non imparerete mai, ma la storia del forteto la gente se la ricorda, parlate di andare cauti, io parlo di giustizia e TRASPARENZA. Se volete essere credibili la prostima volta non state in silenzio per 2 settimane perché così mi sembrate più insabbiaturi che giornalisti. Buonasera merde! No, giusto per dire...Era il 2013 su canale 5 quando Morcovallo già denunciava che era un sistema e non un un caso isolato, io non so se sarebbero indagati solo su 6 casi ( mi pare strano visto il giro di soldi che porta)mi interessa sapere in quanti altri posti succede Sto schifo, mi interessa sapere perché nel 2013 non è esplosa una bomba di fronte tali affermazioni e in fine mi interessa sapere quanta codardia e servilismo servono per starsene zitti 2 settimane( parlo in generale perché è il secondo articolo che vedo a difesa degli indagati dopo 2 settimane di puro silenzio) e uscirvene difendendoli, siete fantastici. VOI e chi vi sostiene NON CONOSCETE VERGOGNA E RISPETTO PER LE VITTI “Allora Bibbiano?” è il nuovo tormentone della “guerriglia culturale” di Vox&Co.
Bibbiano, insulti "rossi" su Nek "Tue canzoni come Hiroshima". Bottura su Repubblica punta il dito contro Nek che ha chiesto verità su Bibbiano. Il cantante "massacrato" per le sue canzoni. Angelo Scarano, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. Nek ha chiesto la verità sul caso Bibbiano e per questo motivo è finito nel mirino della stampa di sinistra. Non si spiega altrimenti l'attacco di Repubblica, a firma Luca Bottura, contro il cantante che qualche giorno fa si è esposto sui social proprio sul caso che riguarda i bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Non si tratta di una voce isolata. Anche Laura Pausini ha chiesto la verità su quanto accaduto. Ma a sinistra hanno già messo per bene nel mirino Nek. Le sue parole sono state fin troppo chiare, parole di un padre: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Nessuna polemica, solo la richiesta di dare voce a questa vicenda sui cui è in corso un inchiesta. A quanto pare però l'appello di Nek che è stato condiviso da tutti suoi fan e non solo, non è stato digerito a sinistra. Ed ecco qui che arriva il livore. Nel suo pezzo Botturaparla con questi toni di Nek: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Un vero e proprio assalto al cantante che viene colpito con un giudizio (molto) discutibile sulla sua carriera e sul suo stile musicale. A prendere le difese di Nek è stato Salvini che su Facebook ha commentato così le parole di Bottura: "Non avevamo dubbi che una certa sinistra avrebbe subito messo Nek tra i “cattivi” per aver denunciato gli orrori di Bibbiano, nonostante lui con la politica non c’entri nulla e si sia permesso di fare solo un ragionamento da papà. Non si smentiscono mai". Insomma la colpa di Nek è forse quella di aver alzato il velo su una storia, come quella di Bibbiano, che merita luce e verità in tempi rapidi? A quanto pare porsi alcune domande può essere pericoloso. Sulla strada si può incontrare anche chi paragona una tua canzone ad una tragedia come quella di Hiroshima...
Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.
Mannoia sbotta per Bibbiano: "Volete screditare l'avversario". Fiorella Mannoia attacca Sibilia per aver condiviso l'appello per Bibbiano della Pausini. Ed è scontro sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019 su Il Giornale. La vicenda di Bibbiano da qualche giorno si è intrecciata con il mondo della musica italiana. Diversi cantanti, tra questi in prima fila ci sono Nek e Laura Pausini. Tutti e due sono finiti nel mirino del web solo per aver chiesto luce e verità su una vicenda, quella dei presunti affidi illeciti, che ha parecchi lati oscuri. Proprio ieri la Pausini è intervenuta sul caso per ribadire la sua posizione e per sottolineare che non ha lanciato un appello per "sentirsi dire brava" ma per richiamare l'attenzione su quello che avrebbero passato questi bambini. Ma c'è un'altra voce che fa parecchio discutere, quella di Fiorella Mannoia. La cantante "rossa" ha avuto un battibecco con il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia proprio sui fatti di Bibbiano. La Mannoia non ha usato giri di parole e ha attaccato il grillino che ha chiesto di far luce sulla vicenda: "Lo vedete come fate? State strumentalizzando qualsiasi cosa per motivi politici. Cantanti, bambini... Ma non vi vergognate? La faccenda di Bibbiano è grave e seria. Smettetela di strumentalizzarla, i bambini e le famiglie non lo meritano. Che sia fatta luce su questo schifo al più presto". La Mannoia non ha digerito il post di Sibilia che condividendo una foto di Laura Pausini ha di fatto ringraziato chi in questi giorni ha cercato di tenere alta l'attenzione su un caso come questo. E così il grillino ha immediatamente replicato alle accuse della Mannoia: "Mi sono limitato a ringraziare chi ha scritto pensieri che condivido. Sono pubblici. Ho condiviso e ringraziato. Perché sono (momentaneamente) un politico dovrei smettere di ringraziare, retwittare, vivere? Ognuno faccia la sua parte per fare luce su questo schifo. Non dividiamoci". Ma di fatto la Mannoia non ha digerito la risposta del pentastellato ed è passata nuovamente al contrattacco contestando la posizione del sottosegretario e mettendo in discussione il suo appello: "State attaccando il cappello su questa storia triste approfittando per screditare l’avversario, fatelo su tutto, ma non sui bambini. Se veramente vogliamo stare uniti smettiamola di farne un caso politico. È un triste caso umano sul quale si deve fare luce". Insomma sul caso pian piano si sta sviluppando una polemica feroce che riguarda sia il mondo della politica che quello dello spettacolo. E probabilmente lo scontro non finirà in tempi brevi. L'indagine in corso prosegue e a quanto pare il caso Bibbiano resta un nervo scoperto per il Pd che ha protestato duramente per la visita di Salvini nel centro dell'Emilia-Romagna finito sotto i riflettori.
SU BIBBIANO È VIETATO ESPRIMERSI. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 24 luglio 2019. Grazie all'odiosa vicenda di Bibbiano gli italiani hanno finalmente la possibilità di comprendere come funzioni la cultura progressista. Una regola imposta da tale cultura è la seguente: gli artisti che si interessano a temi sociali vanno benissimo, ma solo se i temi sociali sono quelli graditi alla sinistra. In caso contrario, gli artisti in questione meritano dileggio, insulti e attacchi feroci. A questo proposito ci sono tre casi emblematici che meritano di essere approfonditi. Partiamo da quello di Laura Pausini, la prima a esporsi con enorme coraggio sulla Val d' Enza. La cantante, con un post su Facebook, ha richiamato l' attenzione su quanto sta accadendo a Bibbiano e dintorni, e ha notato che la gran parte dei media sta cercando di insabbiare tutto. Come prevedibile, con quell' intervento la Pausini si è attirata un fiume di critiche. Così ha deciso di tornare sul tema: «Questo messaggio è per i bambini. Non lo faccio né per farmi insultare né per farmi dire brava. Qui c' è solo da fare qualcosa subito e da far sapere a tutti coloro che perdono tempo a scrivere cazzate, che c' è una notizia gravissima con cui dobbiamo fare i conti», ha scritto. E ha aggiunto: «Ecco chi ha bisogno di sfogarsi, stavolta utilmente, tiri fuori la voce per parlare di questo scandalo». La Pausini, purtroppo, non è stata l' unica a finire alla gogna per aver parlato di Bibbiano. La stessa sorte è toccata anche a Nek. Pure lui ha deciso di esporsi pubblicamente con un messaggio accorato: «Sono un uomo e sono un papà», ha scritto. «È inconcepibile che non si parli dell' agghiacciante vicenda di Bibbiano. Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre... E non se ne parla. Ci vuole giustizia!!». Tanto è bastato per attirargli l' astio del progressista medio internettiano. Come se non bastasse, contro Nek si è scatenata pure Repubblica, tramite la penna di Luca Bottura, uno che, dopo decenni di carriera, continua a confondere la satira con la spocchia. Con la consueta sicumera, Bottura ha rivolto a Nek un corsivo feroce: «Filippo Neviani, in arte Nek, esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l' umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo». Mascherata dietro un' ironia degna delle peggiori scuole medie, c' è l' accusa infamante: Nek ha commesso un crimine contro l' umanità perché ha scritto una canzone a favore della vita, dunque merita di essere sbertucciato e insultato. Già: i temi pro life, le battaglie su Bibbiano o sul gender sono ridicole. Non meritano altro che sberleffi e sputi. Esattamente come quelli che sono piovuti addosso a Ornella Vanoni, celebratissima icona della musica italiana. Di solito, quando la si cita, ci si leva il cappello. A meno che, ovviamente, non si occupi di temi sgraditi all' intellettuale unico progressista. La Vanoni ha scritto quanto segue: «È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l'infanzia, come tanti ormai nel mondo, e sono rovinati per sempre. Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all'altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo». In men che non si dica sulla cantante hanno cominciato a piovere pietre, sotto forma di offese via Web. C' è chi l' ha accusata di non essersi siliconata il cervello, chi la descrive come una vecchia rimbambita e altre amenità dello stesso tenore. Persino alcuni quotidiani online si sono accodati, accusandola di aver utilizzato toni troppo duri e di aver invitato a condannare gente senza prima averla processata.
Tre casi diversi, stesso trattamento. Morale: se un artista si impegna in una causa politicamente scorretta, gli tocca il linciaggio. In realtà, nelle parole della Vanoni, della Pausini e di Nek non c' è alcun riferimento politico. C' è solo il caro, vecchio e troppo spesso dimenticato buon senso. C' è la rabbia del genitore (o del figlio, del fratello, del semplice osservatore) davanti a uno scandalo che grida vendetta e di cui nessuno si è interessato se non per difendere i presunti colpevoli. Ma nemmeno una normalissima manifestazione di umanità viene tollerata: su Bibbiano è vietato esprimersi. A meno che non lo si faccia per difendere il Pd.
Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano E finisce nel mirino degli haters. Dopo Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni, ora anche Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano. Ed è subito polemica. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Laura Pausini, Nek, Ornella Vanoni e ora, anche Rita Dalla Chiesa. La giornalista dice la sua sul caso Bibbiano e, anche per lei, è pioggia di insulti sui social. Ad innescare la polemica è stato un tweet del giornalista di Rai3 Massimo Bernardini che attacca il ministro degli interni, Matteo Salvini, sul caso degli affidi illeciti emerso dall’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. “Prima le Ong adesso le famiglie affidatarie e i servizi sociali: l’offensiva di Matteo Salvini contro i corpi intermedi che fanno sussidiarietà è grave e senza precedenti. Nella furia della polemica politica sta demolendo la credibilità di interi pezzi di società.” Scrive Bernardini, che esorta la replica del vicepremier: “Urge risposta”. A schierarsi dalla parte di chi tiene accesi i riflettori sullo scandalo di “Angeli e Demoni” è invece la conduttrice Rita Dalla Chiesa. Che commenta: “Perché pensi che sia solo una battaglia politica? Allora anche il vostro silenzio lo è… Qui si parla di bambini, ci sono le prove, ci sono famiglie distrutte, sappiamo tutti che non sempre gli assistenti sociali si comportano in modo eticamente corretto. Riflettiamoci.” Ma come era già successo nei giorni scorsi con i big della musica, attaccati a suon di insulti dal popolo dei social, anche per la giornalista non mancano le critiche: “Da quando sei diventata leghista? Pensavo che fossi una persona affidabile”, commentano i followers. Mentre il leader della Lega prende le sue parti, esprimendo solidarietà a Rita Dalla Chiesa tramite una foto postata sul suo profilo instagram: “Solidarietà a Rita Dalla Chiesa, riempita di insulti in rete perchè ha osato rompere il muro di omertà su Bibbiano". La prima a parlare di Reggio Emilia, finendo nella bufera tra i commenti degli haters, era stata Laura Pausini. E, nonostante le polemiche, scaturite per il suo appello a tenere alta l’attenzione sulla vicenda, la cantante continua a difendere la sua battaglia tramite Facebook: “Ho chiesto di non strumentalizzare le mie parole NON sono un messaggio politico. Come NON lo erano quelle dedicate ai bambini morti nei barconi. Sto dalla parte dei bambini. Sempre.” Il caso Bibbiano continua a dividere e a fare polemica. Mentre le famiglie e i bambini restano in attesa di avere giustizia.
Alessandro Borghese chiede verità e giustizia per i bambini di Bibbiano. Lo chef più amato della tv lancia una petizione sui social per chiedere una Commissione di Inchiesta sugli affidi illeciti nel comune emiliano. Alessandro Zoppo, Mercoledì 31/07/2019, su Il Giornale. Alessandro Borghese si è aggiunto alla schiera di volti noti del mondo dello spettacolo che hanno voluto esprimersi sul caso Bibbiano, l’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori nel comune in provincia di Reggio Emilia che è diventata un caso politico nazionale. Lo chef più amato della tv ha usato i social per sostenere la petizione #MaiPiùBibbiano, che chiede una seria riforma degli affidi dei minori in Italia. “Never again!”, il messaggio di Borghese, affidato ad una foto che racconta lo choc provocato dal venire a conoscenza della storia dei bambini di Bibbiano. La petizione, lanciata dal Moige (il Movimento Italiano Genitori) sul sito ufficiale della onlus, chiede l’attivazione di una Commissione di Inchiesta che faccia luce sulle responsabilità dirette e indirette e sulle eventuali complicità degli amministratori locali.
Alessandro Borghese appoggia il Moige sul caso Bibbiano. Il Moige chiede inoltre al Parlamento italiano una modifica sostanziale al “sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con i suoi genitori e rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore”. “Il rapporto mamma-figlio-papà – si legge nel documento presentato dal Moige – va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore e per questo chiediamo a gran voce al Parlamento italiano una riforma delle norme che regolano gli affidi dei minori, prevedendo, modalità chiare e stringenti unite a severe verifiche delle professionalità e dei potenziali conflitti di interesse”. Boghese è soltanto l’ultimo tra i tanti attori, cantanti e personaggi tv che si sono espressi, prendendo una posizione netta su un caso che presenta diversi lati oscuri. Prima del noto chef star del piccolo schermo, erano stati Nek, Rita Dalla Chiesa, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Laura Pausini ad affrontare la vicenda, scatenando spesso e volentieri violenti scontri verbali e insulti a pioggia sui social.
L'ipocrisia progressista su Bibbiano. Karen Rubin, Sabato 27/07/2019, su Il Giornale. «Non venire sarebbe stato molto peggio perché è necessario che le istituzioni siano presenti». Si espresse così Laura Boldrini in visita a Fermo quando Amedeo Mancini fu arrestato per l'omicidio di Emmanuel Namdi. Al funerale c'erano la Boldrini, Sassoli, la Kyenge e per il governo Renzi presiedeva Maria Elena Boschi. Al cospetto della Rackete su una nave Ong, di fronte alle telecamere c'erano Orfini, Delrio e Fratoianni. Una passarella antirazzista funzionale al proprio elettorato dal momento che nessuno di loro era presente né quando a Palagonia fu sterminata una coppia di italiani da un ivoriano né quando furono assassinate Pamela Mastropietro da un nigeriano e Desiree Mariottini da tre nordafricani. Se invece Salvini va in visita a Bibbiano non si tratta più della presenza dello Stato ma della strumentalizzazione di un caso di cronaca su cui esigere silenzio. Un atteggiamento da due pesi e due misure. Dall'inchiesta su Bibbiano emerge un abuso di potere che impressiona come un traffico di organi ma siccome il sistema welfare utilizzato nel reggiano era quello sostenuto dalla sinistra si cerca di stendere un velo pietoso su agiti che hanno provocato indicibili sofferenze a molte famiglie. Sui bambini dei comuni della Val d'Enza è stata usata una stimolazione elettronica che non è l'elettroshock ma non è neanche una terapia standardizzata e considerata la più sicura allo stato dell'arte. Queste stimolazioni sono associate ad una tecnica psicoterapica, l'Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), che si prefigge lo scopo della rielaborazione di vissuti traumatici attraverso la stimolazione del cervello. In Italia è una tecnica usata da poco e sulle stimolazioni elettroniche si conosce poco o niente. Fatto è che si sono presi dei bambini che avrebbero subito un abuso, li hanno stimolati affinché rievocassero un abuso ipotizzato. Tutto questo senza il consenso dei genitori, messo in atto da una Onlus, la Hansel e Gretel. Una bambina sottratta alla sua famiglia è stata data in affidamento ad una coppia di lesbiche da una dirigente dei servizi sociali, attivista Lgbt, che con una delle donne era stata legata sentimentalmente: forse non è un conflitto di interesse ma fa pensare ad una sorta di risarcimento. La sinistra invece di invocare il silenzio di Salvini dovrebbe dare una risposta sul perché il comune gestito da un loro sindaco abbia assegnato ad una attivista Lgbt i servizi sociali e la tutela di minori che dovrebbero essere protetti da tutte le ideologie.
Bambini picchiati: nuove accuse all'"eroe della Repubblica" Germana Giacomelli. Le Iene 31 marzo 2019. Dopo il primo servizio dedicato alla super mamma d'Italia, premiata dal presidente Mattarella come "eroe della Repubblica", Pablo Trincia ha raccolto nuove testimonianze di ragazzi che raccontano di aver subito o visto maltrattamenti da parte di mamma Germana nella sua casa famiglia. Nuove testimonianze di ragazzi cresciuti nella casa famiglia di Germana Giacomelli, la donna che alcuni giorni fa è stata premiata dal presidente Mattarella con una delle più alte onorificenze riservate a chi è impegnato nel sociale. Dopo il primo servizio di Pablo Trincia, in cui abbiamo parlato con alcuni dei 121 figli che sono stati affidati nel corso degli anni alla casa famiglia di Germana e che ci hanno raccontato di maltrattamenti che avrebbero subito in quella casa per mano della donna, ci sono arrivate molte segnalazioni. Il numero di chi dice di aver subito o visto maltrattamenti all’interno di quella casa è passato da otto a trenta. “Quando ho visto il vostro servizio ho detto ‘cazzo io lo so chi è’. Mi è preso il panico. Quella donna è cattiva”, ha detto una ragazza a Pablo Trincia. “Se sbagliavamo a pulire ci maltrattava, ci picchiava, spintonava, ci dava le botte in testa”. Con una psicologa siamo andati a parlare con una bambina che sta ancora in quella struttura e che è tornata a casa per qualche giorno. “Adesso non mi picchiano più, perché tempo fa mi picchiavano”, dice la bambina. Quando le chiediamo da quanto tempo la trattano bene risponde “un mese”. Proprio da quando abbiamo iniziato a seguire questa storia. Ma non sarebbe stato sempre così. “Una volta la Germana mi ha dato uno schiaffo nel naso mi ha fatto uscire il sangue. Anche agli altri dava le sberle”. E poi aggiunge, in riferimento all’educatore che lavora insieme alla donna: “Pietro mi ha detto "se qualcuno ti chiede se la Germana ti picchia tu non rispondere"”.
"Le Iene" e il presunto "business" dei minori. Claudio Figini, Coordinatore della Cooperativa Sociale COMIN e pedagogista, il 4 giugno 2014 su Il Fatto Quotidiano. Oggi vorrei stigmatizzare certi pregiudizi alimentati da servizi televisivi discutibili e aggressivi che sfruttano l’imbarazzo dell’interlocutore non avvezzo alle telecamere per disinnescargli sul nascere spiegazioni e giustificazioni. Già, perché a volte non basta avere la coscienza pulita per essere abili affabulatori. È un tipo di televisione che ricorda quella pubblicità coi tipi a cui piace vincere facile. Ce l’ho col servizio de “Le Iene” intitolato “Come funziona il business dei bambini” trasmesso il 21 maggio. Criticare “Le Iene” è impopolare: godono fama d’integerrimi fustigatori d’imbroglioni e malandrini che non guardano in faccia a nessuno e probabilmente è così. Però ricorrono spesso a quella bassezza del mettere a disagio e utilizzano sovente fattori scandalistici e a effetto per aggiudicarsi il tifo degli spettatori.
Io chiedo: ma sapete qual è il percorso che porta un minore in comunità? Pensate che si tratti così spesso di abusi di potere da parte di assistenti sociali e giudici in malafede? E siete certi che sia poi ‘sto gran business?
Nel dubbio, prima di dare cifre e giudizi alla carlona, fate un giro nelle nostre comunità. Se maneggiate le cifre, allora provate a leggerle, altrimenti sono solo numeri da enfatizzare. Se per voi una retta tra i 70 e i 90 euro giornalieri è un magna-magna, il giro nelle comunità fatelo lungo, così vedrete bollette da pagare, cibo, vestiti e libri da comprare, il dentista da onorare. C’è tutto ciò che occorre alla gestione dignitosa di una casa e a far sentire un minore a proprio agio. Ci sono operatori da stipendiare (e sai che stipendi!), automezzi da mantenere e corsi e sport e vacanze estive. Un gelatino, se non è troppo. Ci sono le strutture indispensabili per il buon funzionamento delle comunità, perché quel che ci viene chiesto è un servizio efficace e decoroso. Esistono standard da rispettare e organismi di vigilanza che li esigono e garantiscono. Insomma, le comunità non sono espedienti per spillare denaro pubblico. Conosciamo bene le situazioni dei ragazzi che accogliamo così come i nostri sforzi per farci carico efficacemente della loro situazione. Ogni anno la cooperativa che io coordino ospita un quarantina di minori in cinque comunità e le rette son quelle. Nessuno di noi si arricchisce. Rispondiamo solo a un bisogno sociale concreto e forniamo servizi economicamente sostenibili, quindi ci tocca pensare anche a quel lato lì, il che non fa però di noi dei faccendieri. Che poi, ben venga il giorno in cui le comunità non serviranno più! Noi per primi spingiamo per soluzioni alternative ad esempio ci piace l’affido, che troviamo ideale per tanti minori e che ai Comuni costerebbe assai meno. I nostri bilanci sono pubblici e basta scorrerli per intuire che senza donazioni da privati e supporto di volontari non potremmo garantire servizi di qualità senza andare in rosso. Sì, ci tocca maneggiare denaro e ne faremmo a meno, senza dubbio. Così come non c’è dubbio che ci muoviamo in ambiti di forte emotività individuale e collettiva. Le immagini di bambini allontanati dalle madri, spesso usate in modo strumentale per canalizzare un istintivo sdegno, hanno comunque del vero. Trovatelo, un bambino entusiasta di entrare in comunità, pur provenendo da una situazione molto critica! Diverso però è dipingerci come macchine da soldi che ci lucrano sopra. E intendiamoci: non dico mica che le comunità funzionino tutte in modo impeccabile e che non ci siano situazioni al di sopra di ogni sospetto. Possiamo avere umana comprensione per quei genitori che si rivolgono ai media per denunciare supposti torti subiti, offrendo punti di vista emotivi ma parziali. Sappiamo che errori di giudizio possono essere commessi da chi è tenuto a giudicare. Però esistono la responsabilità della tutela e il dovere istituzionale d’intervenire di fronte a maltrattamenti e abusi. Sono provvedimenti che hanno spesso un che di drastico e brusco, ma sono doverosi e responsabili. E comunque, da noi non caverete mai una parola di puntualizzazione sulla situazione specifica di un nostro ragazzo. Le comunità sono una risorsa, non una iattura. Quindi ripeto: venite a vederle; entrate senza urlare; armatevi di pazienza e domandate, osservate, sforzatevi di cogliere cosa c’è dietro e oltre. Eviterete di fabbricare fuorvianti stereotipi. Chiudendo, esprimo la mia personale solidarietà alla Cooperativa Sociale di Trento (e alla vice-direttrice e giudice onorario del Tribunale per i Minorenni, ingiustamente attaccata) e lo faccio rilanciando il comunicato stampa del Coordinamento Nazionale Comunità d’Accoglienza diffuso il 22 maggio.
PERDE I FIGLI AFFIDATI ALL’AMICA, A LE IENE LA STORIA DI MADELAINE. Morgan K. Barraco il 28 Novembre 2017 su Tuttotv.net. Le Iene hanno raccontato la storia di Madeleine nella puntata di martedì, 28 novembre 2017. Una storia straziante che inizia in Africa, da dove la famiglia della donna e di Balla sono partiti per raggiungere l’Italia. Qui conoscono Simona, con cui stringono una forte amicizia e che spesso aiuta Madelaine ad accudirli. Una potente alluvione costringe però la coppia a ritornare in Paese per sistemare tutto e convinti dalle parole di Simona, decide di lasciarli in custodia sicuri che sarebbero stati con una persona fidata. Madelaine ed il marito Balla non avrebbero mai immaginato che nel giro di poco tempo avrebbero perso i bambini. Balla viene infatti avvisato dal figlio maggiore che la situazione è molto diversa da quella che crede e che i ragazzini sono stati affidati in una casa famiglia. L’uomo ha contattato Simona per capire che cosa fosse successo, ma la donna mente e gli dice che i ragazzini sono andati a fare una vacanza a sue spese. Solo in quel momento rivela la verità e la donna afferma che i servizi sociali sono stati chiamati su segnalazione della scuola. Madelaine quindi contatta l’istituto, come mostrano Le Iene, ma scoprono che ancora una volta Simona ha mentito. E’ stata infatti lei a chiedere l’intervento delle autorità e si è anche impegnata a trovare loro una Casa Famiglia. Solo messa alle strette Simona ammette di aver agito per interesse dei bambini, convinta che non fossero sereni insieme ai genitori. Le Iene però hanno intervistato tutte le persone che in tanti anni hanno conosciuto Madelaine ed affermano tutti che si trattava di una famiglia per bene. Delle foto dimostrano tra l’altro che i bambini avevano tutto, dai vestiti sempre puliti fino alle feste di compleanno con gli amici. Madelaine ora non può più riavere i figli e Simona rifiuta di rispondere alle domande de Le Iene sulle sue molteplici menzogne. Sottolinea invece di aver fatto il bene della madre e dei bambini, chiedendo addirittura l’intervento dei Carabinieri e continuando a ripetere che è il Tribunale dei Minori a dover decidere sul destino dei bambini di Madelaine. Clicca qui per vedere il servizio di Ruggeri de Le Iene sulla storia di Madelaine.
“Ho perso i miei figli per una bugia”. Le Iene 02 aprile 2018. Annamaria Notario da quattro anni, tra bugie e calunnie contro di lei, aspetta di riabbracciare i figli. “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportare i miei figli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. Sono le parole di una mamma, Annamaria Notario, a cui gli assistenti sociali, quattro anni fa, hanno portato via i tre figli. Bugie, false accuse e indagini superficiali hanno fatto sì che una mamma che, come ripete Annamaria, “non ha fatto niente”, perda i suoi figli. Tutto inizia quattro anni fa, quando Annamaria viene chiamata dai carabinieri, che le dicono di portare con sé i bambini. “Mi sono fidata, mi avevano detto che dovevano solo parlarmi”. In caserma trova gli assistenti sociali e un'ordinanza del Giudice di Torino, con la quale le venivano tolti i figli. I bambini vengono chiusi in una stanza, e da quel momento non potranno più stare con la madre. “Io non li ho più potuti abbracciare, baciare, non li ho più visti. Non ho neanche potuto spiegargli il motivo, il perché, cosa ci stava succedendo. E li ho rivisti dopo 28 giorni”. Cosa ha provato quando ha capito cosa stava succedendo? “Mi è caduto il mondo addosso. È stato bruttissimo”. Gli assistenti sociali, per cui, come spiega l’avvocato di Annamaria, Edoardo Carmagnola, ora la giudice Elena Stoppini ha rinviato gli atti al pm affinché siano indagati, si sarebbero basati solo sulle parole del papà dei bambini e di Giulia Baro, la sua nuova compagna. Indagati anche alcuni carabinieri che avrebbero aiutato la Baro entrando nel database dell'Arma. Il padre dei bambini, ci racconta l’avvocato, accusava la Notario di non fargli mai vedere i figli. “Non è assolutamente vero”, ribatte Annamaria, “li ho sempre lasciati andare dal padre”. Poi arriva la denuncia di Giulia Baro per stalking: “Si sono basati solo sulle sue parole. Non mi hanno mai creduto. Non hanno nemmeno guardato le prove”, ci racconta Annamaria. Inizia così un processo lungo e lentissimo, che dura quattro anni. Fino a quando, qualche giorno fa, Giulia Baro viene condannata a due anni e sei mesi per calunnia dal Tribunale di Ivrea. Ad incastrare la donna, oltre alle continue prove che, ci spiega l’avvocato Carmagnola, Annamaria ha portato per difendersi, sarebbe stata una lettera inviata dalla Baro, che si fingeva Annamaria, in cui si ricoprivano di ingiurie e offese gli assistenti sociali. Ma è proprio con questa lettera, spedita da un computer aziendale, che le indagini sono arrivate alla Baro. Quando chiediamo ad Annamaria cosa prova nei confronti della donna che le ha portato via il compagno e i figli risponde secca, perdendo il tono gentile che aveva tenuto fino a quel momento. “Un disgusto totale”, dice. “Se voleva prendersi il mio compagno se lo poteva pure prendere, ma non rovinare la vita di tre bambini”. Bambini che continuano per ora a stare con il padre e che possono vedere la madre solo una volta la settimana. “Non vivendo con loro la quotidianità non vedi i loro cambiamenti. È bruttissimo”. “Il tempo che ho perso con loro non me lo ridarà più nessuno. Ma spero che ci siano altri giorni per fare tutto quello che non abbiamo fatto in questi anni”, Annamaria s’illumina solo all’idea. E quando le parliamo della nuova consulenza tecnica dovrà affrontare sulle sue capacità genitoriali ci risponde: “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportarmeli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. A luglio Annamaria saprà se potrà riabbracciare i suoi bambini. Noi le facciamo un grosso in bocca al lupo e continueremo a seguire la sua battaglia per riabbracciare i figli.
Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, all’ex corteggiatrice di Uomini e Donne e al pr i servizi sociali tolgono i figli: “La casa è troppo sporca”. Oggi il 6 marzo 2014. Secondo gli assistenti sociali il disordine eccessivo in casa è sintomo di incapacità genitoriale. Barlocco: «Sono tra l’incavolato e il disperato». Mentre il legale della coppia dice: «Non c’è una sola prova». L’ex corteggiatrice di Uomini e donne, Sabrina Saccomanni, e il pr Andrea Barlocco, i servizi sociali tolgono loro i figli: “La casa è troppo sporca”. La storia ha dell’incredibile, ma è la vicenda che sta travolgendo la vita della coppia. I loro figli di sei mesi, 21 mesi e quasi 13 anni sono stati portati via da casa circa un mese fa. A raccontare la vicenda Matteo Viviani delle Iene.
PRIMA IL CONTROLLO, POI IL VERDETTO – La coppia vive in un complesso residenziale alle porte di Milano e lì si sono presentati non solo gli assistenti sociali, ma anche i Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo un controllo hanno portato via i bambini perché la casa era sporca e in disordine: «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno scritto, infatti, i servizi sociali nella loro relazione. Ma Barlocco non intende arrendersi e davanti alla troupe delle Iene Andrea contesta tutti i punti d’accusa. Tra questi si parlerebbe di panni puzzolenti da lavare, di vestiti sporchi gettati sul pavimento della stanza dei ragazzi, di totale disordine ed escrementi di cane in un bagnetto. Sul punto Barlocco sottolinea che è usato solo dall’animale.
L’AVVOCATO: “PORTARE VIA I FIGLI DECISIONE SPROPORZIONATA” – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da provocare un allontanamento dei tre bambini», hanno dichiarato i legali di Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, che sono passati dal colpo di fulmine all’altare. Hanno anche aggiunto: “Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i carabinieri”, sottolineando che gli assistenti “avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio”. Mentre, proprio alle Iene sia l’allenatore sia prete dicono di non aver notato segnali di trascuratezza nel bimbo più grande che vedono spesso. Inoltre, la casa è grande quasi 300 metri quadrati, insomma una abitazione confortevole. E, sempre dal racconta dalle Iene, gli assistenti sociali non hanno neppure chiesto ai parenti se disposti ad accudire i figli, ma hanno preferito portarli via all’improvviso. Anzi, i nonni sentiti dalle Iene hanno poi detto: “Avremmo fatto di tutti per tenerli. E’ normale che ci fosse un po’ di disordine, tra il giocare con i bimbi e fare una lavatrice i genitori preferiscono giocare con i figli. Anche casa nostra, quando vengono a trovarci i bimbi, sembra un campo di battaglia.
BARLOCCO: “SONO TRA IL DISPERATO E L’INCAZZATO” – «Sono tra il disperato e l’incavolato», dice ora Barlocco, cercando la sua giustizia attraverso le Iene. Mentre gli assistenti sociali controbattono: «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali, quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». Per concludere: «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…». E ora sarà battaglia durissima.
Le Iene: sottratti i figli all'ex corteggiatrice di Uomini e Donne Sabrina Saccomanni. Andrea e Sabrina alle Iene raccontano la storia. La storia è stata raccontata dalle Iene nell'ultima puntata, ecco tutti i retroscena della vicenda di Sabrina e Andrea. Martina Biaggi il 07 marzo 2014 su it.blastingnews.com. Il 5 marzo è andata in onda una nuova puntata del noto programma Le Iene, tra i servizi c'è ne stato uno che riguardava una coppia di ex famosi, parliamo di Sabrina Saccomanni ex corteggiatrice del programma di Canale 5, Uomini e donne, e di Andrea Barlocco ex PR dei VIP. La storia:
Tutto ha inizio circa un mese, quando nell'appartamento della coppia che si trova in una zona residenziale di Milano, sono arrivati degli assistenti sociali accompagnati dai carabinieri e dalla polizia locale. Gli ufficiali, dopo aver effettuato un controllo della casa, decidono inaspettatamente di portare via i 3 figli dei due, rispettivamente di 6 e 21 mesi e uno di quasi 13 anni, inoltre anche la baby sitter che in quel momento era con i minori viene portata via dalle forze dell'ordine. Sabrina e Andrea durante il servizio delle Iene hanno svelato il loro disagio e la loro indignazione per quanto accaduto e che ancora sta accadendo, raccontando poi che ogni volta che vanno a trovare i figli in caserma devono fare finta di niente per non turbare i piccoli,inoltre devono comportarsi secondo certi canoni per non ricevere un verbale negativo. Secondo quanto si evince dal rapporto dei Carabinieri, la motivazioni che stanno dietro alla sottrazione dei minori sarebbero le cattive condizioni igieniche della casa e il disordine che regna in essa. In particolare si parla di "panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi o anche degli escrementi di una cane nella vasca da bagno".
L'avvocato. Secondo l'avvocato di Sabrina e Andrea, Sonia Gaiola, la situazione non giustificava un allontanamento dei bambini dalla casa, ha dichiarato inoltre che non ci sono foto comprovanti del disordine e della mancanza d'igiene, gli assistenti sociali non hanno verificato se ci fossero state segnalazioni dalla scuola, non hanno chiesto informazioni al pediatra che li aveva in cura, e soprattutto non hanno chiesto ai nonni e ai parenti più stretti se si potevano occupare loro dei minori in quel periodo. Secondo l'avvocato non si sta pensando per niente al benessere dei bambini, infatti anche i più piccoli si accorgono dell'assenza dei genitori e questo sicuramente non gli fa bene.
I servizi Sociali. Ad un incontro con gli Assistenti Sociali, l'avvocato Gaiola alla richiesta di una spiegazione sulle motivazioni dell'allontanamento dei bambini si è sentita rispondere che il motivo per il quale sono stati tolti i figli alla coppia era il dubbio nato sulle loro competenze genitoriali, venuto fuori dalla trascuratezza della casa. L'allenatore di calcio dei bambini, così come il prete che conosce bene la famiglia hanno rivelato alle telecamere delle Iene, che non hanno mai notato disagi di nessun tipo nei figli di Sabrina e Andrea, e che sicuramente non si aspettavano una cosa del genere. Se è vero che gli assistenti sociali hanno utilizzato criteri alquanto semplicistici per arrivare alla decisione di portare via tre bambini dalle braccia dei genitori, allora bisogna preoccuparsi in quanto un genitore a meno di gravi maltrattamenti e situazioni particolari che vanno approfondite, non dovrebbe mai essere allontanato dal proprio figlio.
Le Iene e i figli tolti ai genitori per una casa sporca. Giornalettismo.com il 06/03/2014. Ad una nota coppia di genitori dopo una visita in casa vengono sottratti i tre figli a causa delle cattive condizioni igieniche dell’abitazione. È la storia raccontata in un servizio mandato in onda nella puntata di ieri de Le Iene, firmato da Matteo Viviani.
LA SOTTRAZIONE DEI BAMBINI – Il calvario comincia un mese fa, quando alla porta della casa di Andrea Barlocco, ex pr dei vip, e Sabrina Saccomanni, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, in un complesso residenziale alle porte di Milano, si presentano assistenti sociali accompagnati da Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo aver effettuato un controllo decidono di portar via tre bambini, di 6 mesi, 21 mesi e quasi 13 anni, e la baby sitter che li stava accudendo. Da allora – è la stessa coppia a raccontarlo alle telecamere di Mediaset – viene stravolta la vita dei due genitori, che passano il loro tempo a piangere, impossibilitati a vedere i loro bambini e oltretutto costretti, quando incontrano i piccoli in caserma, a sorridere per non compromettere con un verbale negativo il percorso stabilito dai servizi sociali. Ma, ovviamente, anche sorpresi dalla motivazione della sottrazione dei figli.
LA RELAZIONE DEL DISORDINE – «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno messo nero su bianco i servizi sociali nella relazione che racconta del disordine trovato in casa. Alla troupe delle Iene Andrea risponde punto su punto ai rilievi del rapporto, in cui si parla dei panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi, o anche degli escrementi di un cane in una vasca da bagno (che il padrone di casa dice essere esclusivamente riservato all’animale).
LA PAROLA ALL’AVVOCATO – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da poter provocare un allontanamento dei tre bambini», ha spiegato l’avvocato di Andrea e Sabrina, Sonia Gaiola. «Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i Carabinieri», ha aggiunto l’assistente del legale. «In questo caso specifico si stanno adottando delle procedure che non favoriscono il benessere psico fisico dei bambini», ha poi continuato la dottoressa Gaiola. «Avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio», dice. Ma nè l’allenatore Franz nè il prete che conosceva la famiglia dicono alle telecamere delle Iene di aver visto il ragazzino più grande vestito o curato in cattivo modo. «Siamo rimasti colpiti». «Nessuno si aspettava questa cosa», rivelano alle Iene chi conosceva la famiglia. Già, la famiglia. A quanto pare gli assistenti sociali, racconta il servizio, non hanno chiesto ai parenti (ai nonni, ad esempio) se disposti ad accudire i figli. Nè segnalazioni o informazioni sono giunte al pediatra che curava i bambini più piccoli. Un particolare, quest’ultimo, che potrebbe seriamente avere il suo peso nella crescita e nella formazione dei bambini. Anche i neonati riescono a percepire la mancanza dei genitori e della casa, spiega una psicoanalista alle Iene. «Sono tra il disperato e l’incazzato», dice il papà Andrea.
LA RISPOSTA DEGLI ASISSTENTI SOCIALI – «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali», rispondono le assistenti sociali ad un incontro con l’avvocato della coppia. Un dubbio aperto – spiegano – «sulla base della possibilità di presenza di una trascuratezza importante rispetto a questi tre bambini». «Quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…».
La trasmissione manda in onda la vicenda dell’allontanamento di tre minori cernuschesi. Dal Comune ribattono: «Servizio non corrispondente ai fatti, ci riserviamo di tutelare l'immagine dell'ente»». Giornale-infolio.it il 07 Marzo 2014. Alla fine il servizio annunciato delle Iene questo mercoledì sera è andato in onda. E i retroscena di una vicenda raccontata a metà nei giorni scorsi si chiariscono. Nel servizio di Matteo Viviani non viene mai citata Cernusco, ma i luoghi della storia si riconoscono così come è noto il dirigente del Settore Servizi Sociali intervistato alla fine. Tema, l’allontanamento disposto dalle assistenti sociali cernuschesi, in accordo con le forze dell’ordine e il Tribunale dei Minori, dei tre figli (8 mesi, 21 mesi e 12 anni) dell’ex corteggiatrice di Uomini e Donne, Sabrina Saccomanni, e del compagno Andrea Barlocco, ex pr dei vip. Il motivo? Nel servizio si parla di casa sporca (descritta con fotografie anche da una relazione dei carabinieri) e dei minori trovati da soli nell’abitazione. Troppo poco per portarli in una comunità, secondo la psicoanalista Giuliana Barbieri, interpellata da Viviani. Il dirigente municipale, dal canto suo, prova a fornire delle spiegazioni lasciando intendere che si attiverà per riportare al più presto i bambini in famiglia, dai nonni o dagli zii. Il giorno dopo la messa in onda il tam tam in Rete è stato immediato. Accuse anche pesanti sono state rivolte all’amministrazione comunale che in giornata ha diffuso una nota stampa: «In riferimento al servizio del programma di Italia 1 Le Iene sull’allontanamento dai genitori di tre minori, tutti residenti in città, il Comune intende chiarire che la vicenda, così come rappresentata nel servizio, non corrisponde alla realtà dei fatti e che, a differenza di quanto visto e sentito nel corso della puntata, la situazione è stata gestita dai Servizi Sociali nell’esclusivo interesse dei minori coinvolti: quanto affermato è inoltre confortato dalla documentazione in possesso del Comune che, come richiesto, è stata trasmessa all’autorità giudiziaria competente. L’amministrazione comunale si riserva, pertanto, ampia facoltà di tutelare la propria immagine e quella dei Servizi Sociali che hanno sempre operato nel rispetto della legge e nell’interesse primario dei minori coinvolti nella vicenda».
Casa sporca? Via i bambini: ecco la reazione delle assistenti sociali. Le due assistenti sociali non hanno gradito il servizio de “Le Iene” e hanno chiesto ai genitori di non fotografare i loro figli e poi di vederli a settimane alterne. Fabio Giuffrida su tv.fanpage.it il 19 marzo 2014. Matteo Viviani torna a parlare del caso dei due bambini sottratti ai propri genitori poiché tenevano la loro abitazione in condizioni igieniche non compatibili con gli standard degli assistenti sociali. I due genitori si sono detti disperati per la situazione che si è venuta a creare anche perché i due figli hanno vissuto una bella infanzia e, a detta loro, la sottrazione dei due piccoli sarebbe del tutto ingiustificata. "Casa sporca? Via i bambini", questo il titolo che è comparso nel servizio trasmesso da "Le Iene" questa sera. Dopo la visita di Viviani, tra i genitori e gli assistenti sociali è venuto meno "il clima di collaborazione" al punto che non gli è stato più consentito scattare foto ai propri figli e gli è stata limitata la possibilità di vederli (infatti potranno incontrarli a settimane alterne e potranno telefonarli, nella settimana in cui non li vedranno, una sola volta). "Non sta né in cielo né in terra!" ha sbottato una psicoanalista interpellata dalla iena. Il Sindaco di Cernusco sul Naviglio ha preso le distanze da "Le Iene" sottolineando come Viviani abbia descritto in maniera non veritiera la vicenda dei due minori. Vincenzo Spadafora, Garante per l'Infanzia e Adolescenza, infine, ha dichiarato: Sono rimasto senza parole. L'eccesso di zelo ha portato gli assistenti sociali a non compiere tutti gli atti preliminari prima dell'allontanamento dai genitori. Non avrebbero dovuto usare le forze dell'ordine, avrebbe dovuto sentire la scuola, i nonni e il pediatra.
"Amore strappato" perplessità tra fiction e realtà; riflessione di Leonardo Lauricella, scrive il 02/04/2019 La Sicilia. Il primo cittadino di Siculiana per più di 35 anni ho lavorato presso il Tribunale di Agrigento come funzionario di cancelleria. Riceviamo e pubblichiamo una lettera dal sindaco di Siculiana, Leonardo Lauricella. "Per più di 35 anni ho lavorato presso il Tribunale di Agrigento come funzionario di cancelleria; molta esperienza ho acquisito nel settore penale occupandomi di misure cautelari personali e reali, quindi di provvedimenti emessi dai giudici in materia di libertà personale. Ho lavorato in stretta collaborazione con Magistrati che ho avuto modo di apprezzare per la serietà di giudizio e per il rispetto che hanno sempre dimostrato per la verità dei fatti. Ciò posto, con riferimento alla fiction "L'amore strappato", andata in onda il 31.03.2019, non posso non esprimere il mio turbamento e disappunto per il comportamento rappresentato dal Pubblico Ministero che coordinava le indagini, allorchè ha tentato di convincere la madre della ragazzina ad accusare il marito di avere approfittato sessualmente della loro figlioletta. Una condotta decisamente deplorevole quella posta in essere dal Pubblico Ministero il quale, in assenza di prove oggettive ed inconfutabili, ma a fronte solamente di qualche debole indizio, priva della libertà personale il padre e prova a condizionare il pensiero della madre, prospettandole la possibilità di rivedere la figlia, che era stata sottratta alla potestà genitoriale, qualora avesse ammesso di essere a conoscenza degli abusi commessi dal marito. Questi i fatti rappresentati nella serie televisiva; sono consapevole del fatto che trattasi di fiction, ma proprio perchè vista da milioni di persone , mi chiedo può una tv pubblica trasmettere un messaggio così grave e fuori dalla realtà? Può un tv pubblica gettare un' ombra di discredito e di superficialità sul lavoro della Magistratura? Può un tv pubblica, con disinvoltura e superficialità inaudita, vanificare la delicata attività dei magistrati chiamati quotidianamente ad applicare le leggi e ad assicurare Giustizia? Mi chiedo ancora, sono interrogativi che solo io mi pongo?"
Figli strappati ai genitori: rapita dallo Stato, il dramma dei minori in affido, scrive venerdì, 29 marzo 2019 Antonio Amorosi su Affari Italiani. Una storia incredibile, degna dei migliori incubi della giustizia. Pensate se a 6 anni e mezzo lo Stato vi avesse rapito, qualcuno vi avesse fatto credere che i vostri genitori erano morti e per 11 anni aveste vissuto una vita non vostra. E’ la storia vera di Angela Lucanto, figlia di un piccolo costruttore di origini calabresi che vive a Milano. Siamo dentro un mix di errori giudiziari e macchina degli affidi mangia soldi pubblici. Una storia estrema ma che si muove dentro un filone di casi tipici. Negli ultimi dieci anni si è calcolato che sono circa 1800 le strutture che in tutta Italia si occupano della gestione dei bambini che finiscono per vari motivi allontanati dalle famiglie di origine, con un numero di minori che oscilla negli anni tra i 26.000 e gli oltre 30.000, quando in Paesi più abitati come Germania e Francia non raggiungono mai i 10.000. La metà di questi minori finisce in comunità e l’altra in affido familiare; tra i 1000 e i 2000 bimbi sono anche sotto la soglia dei 6 anni di età. La principale causa scatenante i problemi che portano poi all’affido è la condizione di indigenza della famiglia d’origine. Eppure i bambini ospitati costano oro, dai 70 euro al giorno fino a diverse centinaia di euro, rette pagate con soldi pubblici. Un giro di affari che si muove tra l’1 e i 2 miliardi di euro l’anno, un flusso in aumento ma che latita sotto il profilo della trasparenza. Per anni diverse inchieste giornalistiche hanno posto l’accento sui conflitti di interesse dei giudici onorari che si occupano dei minori, che non sono magistrati professionisti, ma educatori, psicologi, sociologi e avvocati. Il Csm in un comunicato del 3 aprile 2018 ha reso noto i dati relativi alle oltre 59.000 domande presentate nell’anno per 400 nuovi posti da giudice onorario: il 73% degli aspiranti giudici particolari sono proprio avvocati. Risulta però che molti di questi giudici onorari sono in conflitto d’interessi perché lavorano nelle stesse case famiglia dove finiscono i bambini affidati. Costoro per anni decidono le sorti di migliaia di minori, nella fase più delicata della loro vita. Ma non bisogna generalizzare. Ci sono anche strutture che funzionano e che fanno ottimi interventi. Anche se nel settore la parte più fragile e confusa è proprio quella relativa alla gestione dei controlli, poco rigorosi, raramente fatti a sorpresa, in strutture difficilmente supervisionate o monitorate da soggetti terzi. Per molti anni si è parlato di istituire un Osservatorio nazionale sulle strutture di accoglienza ma non se ne è mai fatto niente. Resta difficilissimo fare ispezioni nelle comunità minorili. Anni fa il coordinamento interassociativo Colibrì stigmatizzò “l’eccessiva facilità negli affidamenti”. “Per la legge”, chiarì il portavoce del gruppo Massimo Rosselli Del Turco, “un minore sottratto ai genitori va affidato a parenti fino al quarto grado. L’affidamento extra-familiare, però, frutta soldi”. Ma torniamo alla storia drammatica Angela, una vicenda raccontata dai giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli). Siamo negli anni ‘90. Angela è la seconda figlia di Salvatore e di Raffaella. Ha un fratello, Francesco. Una cugina quattordicenne di Salvatore denuncia presunti abusi sessuali nella sua famiglia di origine, un’intero gruppo di consanguinei pedofili. Gli altri parenti non le credono. E quando tempo dopo la ragazza scopre che neanche il cugino Salvatore ha preso le sue difese lo denuncia per averla abusata: avrebbe anche commesso le stesse violenze sulla figlia, Angela. La cugina racconta molti particolari, poi ritratta, poi ricambia di nuovo versione. Partono comunque gli accertamenti. La psicologa raccomanda il ricovero. Angela viene prelevata dalla scuola elementare di Masate (Milano) da un’assistente sociale e da due carabinieri. La bimba viene collocata in un centro di affido protetto. Lo stesso in cui ha lavorato la psicologa. Salvatore viene arrestato su richiesta della procura di Milano e rinchiuso nel carcere di San Vittore; dove seguirà il durissimo regime destinato ai pedofili: vi trascorrerà 2 anni e 4 mesi. Condannato in primo grado a tredici anni di reclusione per violenza sessuale verrà poi assolto in appello e in Cassazione. Una rocambolesca sequenza di errori giudiziari durati anni. In uno dei frangenti si chiede addirittura alla moglie, Raffaella, che organizza manifestazioni di protesta per riavere la piccola Angela, di prendere le distanze dal marito, Salvatore. Salvatore viene liberato ma il tribunale dei minore procede per l’adottabilità di Angela. Proprio Maurizio Tortorella con Panorama e il Maurizio Costanzo Show danno vita ad una campagna per far tornare la bambina dalla famiglia d’origine ma non c’è niente da fare. Anche il ministro della Giustizia dell’epoca Roberto Castelli si dichiara inerme rispetto alle decisioni dei magistrati.
I genitori la cercano non sapendo che fine abbia fatto, fino a che un giorno trovano dove vive la famiglia di adozione e il fratello Francesco spiega alla bimba, ormai cresciuta ,quanto accaduto. Sono passati 11 anni da prigioniera inconsapevole dello Stato. Angela pensava che la sua famiglia fosse morta. Torna a casa soltanto il 27 maggio 2007, ormai quasi maggiorenne, e solo grazie alla disperata e infaticabile ricerca da parte dei suoi genitori veri. Solo dopo i 18 anni ha potuto riottenere il suo vero cognome facendosi riadottare dalla sua vera famiglia. La corte di Strasburgo ha condannato il governo italiano a 20.000 euro di multa per l’ingiusta detenzione di Salvatore che è stato risarcito al minimo per gli anni di ingiusta detenzione.
Lo sfogo della Cuccarini: "Fate luce su Bibbiano alla faccia di chi ci insulta". Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano. Anna Rossi, Sabato 03/08/2019 su Il Giornale. Lo scandalo degli affidi illeciti di Bibbiano ha sconvolto l'opinione pubblica. L'inchiesta Angeli e Demoni fa davvero rabbrividire. E ora, anche i personaggi del mondo dello spettacolo alzano la testa e vogliono la verità. La esigono. La prima a farsi sentire è stata Laura Pausini. "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni - ha scritto sui social la cantante romagnola -. Mi sento incazzata, fragile, impotente. Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?" E al suo grido di rabbia si è unito anche Nek. L'artista non ci sta, non può stare zitto di fronte a questo scempio. "Sono un uomo e sono un papà - commenta anche lui su Facebook -. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia". Ma i loro appelli hanno scatenato tutta la sinistra rossa che si è rivolta a loro con parole d'odio, immediatamente condannate da Matteo Salvini. Il ministro, anzi, ha personalmente ringraziato questi artisti per essersi interessati a un tema così delicate e al contempo forte. Diversi, quindi, i cantanti e i personaggi del mondo dello spettacolo che chiedono giustizia. E a questi si aggiunge anche Lorella Cucccarini. Intervistata da La Verità sfoga tutta la sua rabbia. "I miei su Bibbiano sono sentimenti condivisi. [...] E insieme alla nostra gente penso a quello che è accaduto a Bibbiano e mi domando com'è possibile. Se fosse successo a me di patire ciò che hanno dovuto subire quei poveri genitori forse sarei morta di dolare oppure avrei reagito come una belva". "La Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano su Bibbiano deve uscire tutta - dice - e abbiamo diritto di sapere se quello era un sistema ristretto o se è successo anche in altre parti d'Italia. [...] Quella di Bibbiano è una barbarie assoluta e io sto con loro, sono una di loro. Noi mamme sappiamo cosa significa anche solo la remotissima possibilità che ti possano togliere un figlio: è un incubo, uno strazio, un dolore anche solo immaginarlo. Posso dirlo? Non ne posso più del politicamente corretto. È ora che noi che abbiamo un dialogo col pubblico facciamo sentire la nostra opinione al di là delle convenienze ed è anche ora di smetterla di pensare che i giudizi della rete siano oro colato. Basta fare come me: fregarsene. Mi raccomando voi continuate: andate fino in fondo".
Da Alessandro Borghese a Milly Carlucci: si allarga il fronte “Mai più Bibbiano”. Carlo Marini giovedì 1 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Si allarga il fronte di associazioni e cittadini che pretendono chiarezza sullo scandalo degli affidi in provincia di Reggio Emilia. A questo proposito, in queste ore il Moige ha lanciato la petizione on line Mai più Bibbiano. «È inaccettabile –si legge nel comunicato stampa – che qualcuno possa prendersi il diritto di strappare i figli alla mamma e al papà e che servizi sociali “deviati” distruggano la vita dei minori senza alcun controllo e senza alcun ragionevole motivo. La Costituzione e il diritto internazionale ribadiscono con forza l’importanza dell’indissolubilità del rapporto mamma-figlio-papà che va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore». La petizione è disponibile a questo link: «Per questo –prosegue la nota del Movimento italiano dei genitori – lanciamo una petizione per chiedere al Parlamento di riformare subito il sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con la sua mamma e il suo papà, rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore. Ecco alcuni dei punti su cui chiediamo di riformare il sistema degli affidi a tutela dei ragazzi: rafforzare il sistema del contraddittorio, evitare il conflitto di interessi, fornire il potere di decisione esclusivamente ai giudici e non ad altre figure professionali, riconoscere abusi e violenze solo tramite comprovate prove filmate, valutare l’allontanamento solo in casi estremi privilegiando comunque l’affidamento ai parenti del minore».
Mai più Bibbiano: i vip aderenti: «Sono sempre più numerosi i personaggi del mondo dello spettacolo e dei media che stanno aderendo alla petizione, in primis Sabrina Ferilli, reduce del successo della fiction “L’amore strappato”, che tratta di una storia vera di falso abuso e allontanamento del minore dai genitori, ma ad oggi anche Alessandro Borghese, Guillermo Mariotto, Eleonora Daniele, Metis Di Meo, Rita Dalla Chiesa, Andrea Lo Cicero, Monica Leofreddi (nella foto di copertina con Mariotto e Borghese), Monica Marangoni, Cataldo Calabretta, Carla Gozzi, Milly Carlucci, Milena Miconi che hanno deciso di dare voce e sostegno ad una riforma che rimetta al centro la tutela del legame tra mamma-figlio-papà».
Da Pausini a Branduardi: in campo anche i big della musica. Nei giorni scorsi, anche nel mondo della musica alcuni artisti più coraggiosi avevano fatto sentire la propria voce. A cominciare da Laura Pausini, passando per Nek e Ornella Vanoni, per concludere con Angelo Branduardi, autore di un paio di post di denuncia sulla vicenda di Bibbiano.
Bibbiano, il “Rolling Stone” zittisce i VIP e impone il silenzio. Stelio Fergola su Oltrelalinea.news 25 Luglio 2019. “Su Bibbiano i musicisti italiani hanno perso la testa”, recita il titolo del Rolling Stone di ieri. E ancora: “L’indecente passerella di oggi del ministro Salvini nel paese reggiano conferma la tossicità del dibattito sul tema”. Il riferimento è a Laura Pausini, a Nek ma anche a Ornella Vanoni, i quali invertendo decisamente il trend di VIP che tradizionalmente non fanno altro che da megafono al pensiero unico su praticamente ogni tema, hanno alzato la voce contro lo scandalo degli affidi pilotati di Bibbiano.
Il Rolling Stone impone il silenzio. Proseguendo nella lettura, l’articolo ci regala perle ancora maggiori: “Il problema è che quando una vicenda come quella di Bibbiano viene strumentalizzata in maniera feroce come una parte politica ha fatto in queste settimane, chiamarsi fuori da un dibattito così tossico, soprattutto per una persona con così tanta visibilità, sarebbe buonsenso.” Il risultato di questa frase è chiaramente solo uno, tranne per chi vuole intendere diversamente: i signori cantanti non possono parlare di Bibbiano, anche se non citano questo o quel partito, ma si limitano a constatare l’orrore di fatti che, al netto del giudizio definitivo, in molti casi sono praticamente flagranze di reato. Ammesso e non concesso che la “strumentalizzazione” sia presente infatti, questo non è un buon motivo per cucire la bocca a chi ha tutto il diritto di criticare uno scempio come quello perpetrato contro famiglie, mamme, papà e soprattutto bambini. La verità è che, come sempre, la “tossicità” consiste nel fatto stesso che se ne parli, come non potrebbe essere diversamente, vista la gravità dell’accaduto. E specialmente in questo momento i dibattiti devono andare sempre verso altre direzioni politiche. Giammai discutere l’integrità dei democratici.
Bibbiano, la denuncia di Meluzzi: «Scandalo frutto della cultura di sinistra, basta omertà». Il Secolo d'Italia martedì 23 luglio 2019. In un video pubblicato su Youtube da Fratelli d’Italia, il professor Alessandro Meluzzi, famoso psichiatra ed esperto di problemi legati ai minori, denuncia un clima di pesante omertà sullo scandalo dei bambini “sottratti” ai genitori legittimi dagli operatori sociali, con la complicità della politica. «Sembra che si voglia far calare il silenzio su questa tragedia frutto di una certa cultura di sinistra», dice Meluzzi, che loda le denunce di cantanti come Nek e Laura Pausini e invita chiunque abbia a cuore la sorte dei bambini a parlare di questo scandalo e ai musicisti chiede di organizzare un grande concerto per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa vicenda, “contro un certo buonismo e un’omertà mafiosa di cui si stanno rendendo complici anche i media».
Bibbiano, Alessandro Meluzzi sulla commissione d'inchiesta: "Il Pd si deve vergognare". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Uno scandalo nello scandalo. In Emilia Romagna è stata nominata una commissione deputata a indagare su Bibbiano. Peccato che sia presieduta da Pd, sinistra italiana più una ragazza del M5s. Per Giorgia Meloni uno scandalo, un tentativo di insabbiare l'orribile vicenda dei bambini strappati alle legittime famiglie. E la pensa così anche Alessandro Meluzzi, che dice la sua in un durissimo video, in cui spiega: "Giorgia Meloni ha giustamente stigmatizzato e denunciato lo scandalo della regione Emilia Romagna, che ha nominato una commissione di inchiesta sugli orrori di Bibbiano presieduta dal Pd, da Sinistra italiana e da una ragazzotta del M5s - premette Meluzzi -. Se questa è la volontà di ricerca da parte dell'ente da cui dipende la sanità, l'assistenza della regione Emilia Romagna, io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo, che si aggiunge ancora di più al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte le vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani". Dunque, Meluzzi picchia durissimo contro la sinistra: "In questo modo il Pd si condanna, condanna se stesso non solo all'inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Ma si condanna anche di fronte al tribunale della storia, dell'etica, della dignità. Che vergogna cari amici del Pd: un tentativo di fare una commissione per insabbiare", conclude. Il video è stato rilanciato su Twitter dalla Meloni: "Ascoltate il prof Meluzzi sulla recente nomina di una commissione d'inchiesta in Emilia Romagna sui presunti affidi illeciti di Bibbiano. Uno scandalo nello scandalo, che vergogna!", conclude la leader di Fratelli d'Italia.
Bibbiano, Meluzzi al Pd: «Volete solo insabbiare. Che vergogna». Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. «Che vergogna, cari amici del Pd. Il tentativo di fare una commissione non per denunciare e rivelare, ma insabbiare. Che vergogna». Con un video postato su Facebook, Alessandro Meluzzi torna su Bibbiano e si sofferma sul caso della Commissione d’inchiesta istituita alla Regione Emilia Romagna, in cui il Pd si è messo alla presidenza e ha affidato le due vicepresidenze a Sinistra italiana e M5S. Una scelta che, visti i coinvolgimenti politici nell’inchiesta sui bambini rubati, lascia quanto meno interdetti.
«Uno scandalo nello scandalo». Meluzzi lo dice chiaramente, parlando della «commissione sugli orrori di Bibbiano presieduta da Pd, Sinistra italiane e M5S»: «Io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo. Uno scandalo che si aggiunge al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte quelle vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani». «In questo modo – prosegue Meluzzi – il Pd si condanna, ma condanna se stesso non soltanto all’inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Condanna se stesso di fronte al tribunale della storia, dell’etica, della vita. Che vergogna, cari amici del Pd. Che vergogna», conclude Meluzzi, che in apertura del filmato loda Giorgia Meloni per aver denunciato – anche – la vicenda della commissione d’inchiesta.
La denuncia di Giorgia Meloni. «Il Pd nomina una commissione d’inchiesta in Emilia Romagna sullo scandalo degli affidamenti illeciti di minori assegnandosi la presidenza e dando le due vicepresidenze al M5S e alla Sinistra italiana», ha scritto la leader di FdI sulla sua pagina Facebook, ricordando che si tratta dello «stesso Pd che ha i propri esponenti coinvolti nello scandalo e che non voleva si parlasse di Bibbiano» e dello «stesso M5S che chiedeva verità, ma a livello locale vanta tra le sue fila un avvocato che ha rinunciato a ogni ruolo istituzionale per difendere una delle principali indagate». «Una situazione talmente paradossale – ha concluso Meloni – che farebbe quasi ridere, se di mezzo non ci fosse il dramma di tante famiglie».
Giorgia Meloni, furia contro il Pd: sapete chi indaga su Bibbiano? Lo scandalo. Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Giorgia Meloni a valanga contro il Pd. Motivo? Bibbiano. "Il Pd", scrive Giorgia su Twitter, "che non voleva si parlasse di Bibbiano, nomina la commissione d'inchiesta sugli affidi illeciti prendendosi la presidenza e nominando 2 vice di SI e M5S (da cui proviene l'avvocato di una delle indagate). Farebbe ridere se non ci fosse di mezzo il dramma di tante famiglie". Si è insediata la commissione d'inchiesta regionale per approfondire il tema degli avvidi illeciti. Presidente della commissione sarà infatti il consigliere del Pd Giuseppe Boschini, mentre i suoi vice saranno Igor Taruffi di Sinistra Italiana e Raffaella Sensoli del M5s. "E' possibile supporre - ha detto il consigliere leghista Massimiliano Pompignoli - che l'obiettivo del Pd sia quello di mettere i lavori della commissione in sorveglianza preventiva: non si sa mai cosa potrebbe emergere".
Bibbiano, sindaco Pd nei guai: ecco cosa emerge dalle carte. I dirigenti locali del Partito democratico si schierano al fianco di Andrea Carletti, ai domiciliari: "Siamo con te". Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. L'inchiesta Angeli e Demoni continua e ora che il giudice ha confermato gli arresti domiciliari al sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, i compagni di partito tornano a difenderlo con forza dalle accuse. Andrea Carletti, primo cittadino del comune di 10mila anime in provincia di Reggio Emilia, teatro dello scandalo degli affidi illeciti, non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell'Unione dei Comuni della Val d'Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico. Ecco, gli è stata negata la revoca della misura cautelare, che il gip Luca Ramponi gli ha appunto confermato. E il giudice gli ha confermato i domiciliari spiegando che "non sussistono ragioni per un'attenuazione della misura, tanto meno per una revoca, tenuto conto della pendenza di indagini anche relative ad altre fattispecie contro la pubblica amministrazione, analoghe a quelle per cui è cautelato". Insomma, ci sarebbe altra carne sul fuoco, ovvero nuovi accertamenti investigativi su ulteriori aspetti delle sue attività da sindaco in relazione ai servizi sociali di sua competenza. E qui è scattata la gara di solidarietà tra i dem locali, con il segretario del Pd di Bibbiano, Stefano Marazzi, che ha scritto una lettera all'ex sindaco: "Sul filo del rasoio, ma non posso lasciar passare questa giornata senza mandarti un pensiero. È inutile e superfluo dire che ci abbiamo sperato con tutti noi stessi, abbiamo vissuto questa attesa con l'ansia di chi prova un grande senso di ingiustizia e non attende altro che questa situazione assurda finisca", le parole vergate e riportare da LaVerità. "Per l'ennesima volta, le notizie che ci giungono non ci danno sollievo. Dobbiamo ancora attendere per riabbracciarti, ma siamo ancora qui, al tuo fianco, come e più di prima. Tieni duro Andrea, non mollare. La tua comunità rimane saldamente al tuo fianco e aspetta il tuo ritorno", scrive ancora il segretario Marazzi nella sua missiva, a prova di una Pd compatto e a difesa, a spada tratta, del proprio esponente. Del quale provano a sminuire il ruolo nel caso Angeli e Demoni, ma sul quale gli inquirenti continuano a puntare un cono di luce per statuire la verità e fare giustizia.
Caso Bibbiano. Fi: Commissione senta 10 persone. 24emilia.com il 5 Agosto 2019. Andrea Galli, capogruppo di Forza Italia, in Regione chiede alla Commissione regionale appena insediata, che deve fare luce sulla vicenda dei presunti affidi illeciti in Val d’Enza, di ascoltare 10 persone. “Gentile Giuseppe Boschini, presidente della Commissione d’inchiesta regionale sui fatti della Val d’Enza, come membro della Commissione appena insediata sono costretto a ribadirle anche formalmente la mia totale contrarietà rispetto alla decisione del Pd, partito che lei rappresenta, di escludere il centrodestra dall’ufficio di presidenza. Una scelta che credo possa pregiudicare lo svolgimento dei lavori e che getta una luce equivoca sulle reali intenzioni della maggioranza di far chiarezza sullo scandalo vergognoso che sta emergendo dall’inchiesta Angeli e Demoni. L’impressione da molti rilevata è che il Pd su una questione così delicata abbia deciso di diventare controllore di se stesso. Infatti, escludere Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia significa ad oggi escludere un centrodestra che, in base alle ultime elezioni europee, rappresenta la maggioranza relativa degli elettori emiliano-romagnoli: non certo una buona partenza rispetto all’obiettivo di un lavoro comune e super partes che lei stesso si è dato nel momento della elezioni. Ora, in ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:
Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali
Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno
Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola
Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori
Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti
Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media
Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola
Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia
Gloria Soavi, presidente Cismai
Monica Michele, vicepresidente Cismai
Grazie per la sua disponibilità”.
Reggio Emilia. Bimbi sottratti, metodi sospetti. Per 20 anni lo stesso copione. Lucia Bellaspiga domenica 7 luglio 2019 su Avvenire. Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a "Chi l’ha visto" la prova dei lavaggi di cervello. «Mi sono occupato di ’Ndrangheta per anni, ma questa inchiesta è umanamente devastante». Così il procuratore capo di Reggio Emilia ha commentato "Angeli e Demoni", l’inchiesta che avrebbe fatto emergere un giro di affidamenti illeciti di bambini nella provincia di Reggio Emilia. Corposo il materiale raccolto in mesi di indagini e intercettazioni su figli strappati ai genitori 'per essere sottoposti a lavaggio del cervello', convinti di 'aver subìto abusi in realtà inesistenti', indotti attraverso falsi ricordi ad accusare i genitori. Un sistema lucroso (centinaia di migliaia di euro secondo gli inquirenti) messo in opera da anni dalla rete dei servizi sociali della Val d’Enza reggiana. Le sedute psicoterapeutiche erano condotte dagli operatori dell’associazione Hansel&Gretel di Moncalieri ( Torino), con il loro metodo del "disvelamento progressivo" o "empatico": agli arresti il fondatore Claudio Foti ('alterava lo stato psicologico attraverso suggestioni' e così "convinceva il minore dell’avvenuto abuso"), con la sua attuale compagna Nadia Bolognini. Chiaro il procuratore capo: «Abbiamo fatti, non critiche a metodologie». Aggiornamento del 18 luglio 2019: Il Tribunale del Riesame di Bologna ha revocato gli arresti domiciliari a Claudio Foti; la misura è stata sostituita con un obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo. E allora ecco i fatti. Sono 277 le pagine dell’ordinanza con cui il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi ha disposto 17 misure cautelari e indagato 27 persone: vi sono le pressioni subite dai bambini, la violenza psicologica con cui venivano indotti a dire e pian piano a credere ciò che 'dovevano' dire e credere, il tutto con l’ausilio di metodiche che, se non fossero state registrate e riprese dai Carabinieri, sembrerebbero incredibili. Qualche esempio. Una delle psicoterapeute vuole rimuovere la figura del padre dalla mente del piccolo: «Dobbiamo fare una cosa grossa – gli dice – sai qual è?, l’elaborazione del lutto... quel papà non esiste più come papà, è come fosse morto, dobbiamo fargli un funerale ». Chiaro perché i regali e le lettere portati dai genitori non venivano consegnati ai figli, sempre più certi di essere stati abbandonati.
Il metodo di Hansel&Gretel e affini. I bambini – continuano gli inquirenti – "anche in tenera età, subivano ore di lavaggi del cervello intercettati, dopo esser stati allontanati dalle famiglie attraverso le più ingannevoli attività". Tra queste, "relazioni mendaci, disegni artefatti con l’aggiunta mirata di connotazioni sessuali" e addirittura "terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male".
La macchinetta della "verità". E poi i "falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella spacciata ai bambini per macchinetta dei ricordi". Nessun elettrochoc, come sbrigativamente titolato dai giornali, ma un Neurotek, macchinario Usa il cui utilizzo non è certo previsto dal sistema sanitario italiano: il bambino riceve sulle dita impulsi elettromagnetici mentre confessa. Non un elettrochoc, certo, ma se veniva applicato un effetto lo aveva. Facile immaginare la paura di quei piccoli, soprattutto leggendo quali domande suggestive fossero loro rivolte durante gli impulsi. Questo nell’Italia del 2019, dove se un maestro bacchettasse le dita di un alunno sarebbe radiato.
Satana, da copione. E così, quasi da copione (visti i pregressi di Finale Emilia vent’anni fa, di cui parleremo poi), ecco arrivare le confessioni anche sul satanismo. Il meccanismo è perverso, sempre lo stesso: la bimba nel 2011 è stata allontana dal nucleo familiare solo per problemi economici. Ma solo dal 2017, quando inizia la terapia a 'La Cura' di Bibbiano con la Bolognini – attuale compagna di Foti, anche lei ai domiciliari – 'emersero racconti di abusi sessuali seriali, subiti da lei, dal fratello e dalla sorella da parte dei genitori'. Di peggio: "Subito dopo la seduta con la citata terapeuta nel 2018 avrebbe iniziato a manifestare sintomi di una sorta di possessione demoniaca, giungendo a raccontare omicidi plurimi commessi dal padre quando lei aveva tra 2 e 4 anni... La notte di Halloween uomini mascherati portavano 5/6 persone per volta, immobilizzate con iniezioni presso la sua abitazione, ove il padre le uccideva e ove i bambini venivano poi stuprati". Infine "il padre truccava il volto dei bambini col sangue dei cadaveri e li dava alla madre". Gli inquirenti precisano che la Bolognini ha atteggiamenti fortemente induttivi per far emergere nella ragazzina "l’essere cattivo che dimorava dentro di lei".
I danni nel tempo. Torture psicologiche indelebili. Lo dice il gip: diventati adolescenti, quei bambini ora 'manifestano profondi segni di disagio', caduti nella droga e nell’autolesionismo. Questi dunque i risultati ottenuti da esperti? Niente di nuovo, per chi conosce già le vicende analoghe avvenute venti anni fa nel Modenese, seguite fin dagli esordi da 'Avvenire' e oggi approdate nelle otto imperdibili puntate di 'Veleno' di Pablo Trincia. Anche lì si verificò uno strano 'picco' di presunti abusi sui bambini, tant’è che una ventina furono prelevati la notte nelle case o al mattino a scuola e mai più fecero ritorno. Dopo le sedute con gli operatori della Hansel&Gretel (allora non c’era la Bolognini ma la prima moglie di Foti, Cristina Roccia) cominciarono uno a uno a raccontare di messe nere, sangue di cadaveri bevuto scoperchiando lapidi e bare in pieno giorno, decine di bimbi accoltellati sulle croci e decapitati da loro stessi. Orrori mai avvenuti (non mancava un solo bambino nei paesi), ma gli 'esperti' ci credettero e fioccarono allontanamenti definitivi, arresti, condanne. Anche gli assolti non rividero più i figli.
Il vero dramma a Chi l’ha visto. Mercoledì Chi l’ha visto ha ripercorso i punti di contatto tra la Bassa Modenese e l’attuale caso di Reggio Emilia (in entrambi opera la psicologa Valeria Donati). Grande il turbamento quando hanno parlato di spalle due delle ex bambine, all’epoca torchiate da psicologhe e assistenti sociali con i soliti metodi. Oggi, donne di 27/28 anni, sono ancora convinte di aver squartato decine di bambini. E per questo piangono, tremano: «Certo che l’ho fatto, lo ricordo benissimo»... La Cassazione ha stabilito da anni che nulla di ciò era avvenuto, ma ormai sono marchiate a vita, si credono ancora assassine, prostrate dal pentimento di ciò che non hanno fatto. In studio c’era una delle madri (assolta), mater dolorosa impietrita a veder sua figlia ridotta così, mai più vista da 21 anni fa.
L’odio lgbt per i maschi. Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza (ora ai domiciliari) è attivista lesbica. In qualche caso (forse tre) ha sottratto i minori e li ha affidati a coppie lesbiche. Una volta addirittura alla sua ex compagna Fadia Bassmaji, ai domiciliari. Non solo: le due affidatarie lesbiche, dice l’ordinanza, imponevano alla piccola "un orientamento sessuale vietandole tassativamente i capelli sciolti", ritenuti "appetibili per i maschi". Atteggiamento che il gip definisce "ideologicamente e ossessivamente orientato". Dalle intercettazioni emerge che le due instillavano nella piccola l’idea che il padre l’avesse abusata, e la ingiuriavano con cattiveria gratuita.
Non solo Emilia Romagna. Alessandra Pagliuca, psicologa di Hansel& Gretel, contribuì a sottrarre i 16 bambini nella Bassa Modenese vent’anni fa. Ma la giornalista napoletana Rosaria Capacchione denuncia su fanpage.it: alla Pagliuca si deve pure l’inchiesta sulle sètte sataniche a Salerno nel 2007. Tre fratellini raccontarono di adulti incappucciati, diavoli, pozioni di sangue, sperma e droga. Stessa follia di Finale Emilia, guarda caso. «Inchieste poi fondate sul nulla, ma i bambini non sono più tornati», dice. Il fatto quotidiano invece ricordava ieri il famoso suicidio a Biella di quattro adulti accusati di pratiche indicibili sui figli. Lasciarono un biglietto, "siamo innocenti". «A far parlare i bambini erano Claudio Foti e, di nuovo, Cristina Roccia».
Traumatizzati all’infanzia? Tutti gli indagati "hanno avuto esperienze traumatiche nell’infanzia" simili a quelle attribuite ai minori, scrive il gip: uno stupro di gruppo da piccola, una dipendenza da alcol, maltrattamenti dal padre alcolizzato... Esperienze pregresse per le quali 'non potevano porsi in rapporto di indifferenza verificando gli eventi'. Storie oscure di affidi illeciti: le gravi accuse nell’ordinanza, i fatti sconcertanti emersi dalle intercettazioni Il procuratore capo: «Mi sono occupato di ’ndrangheta, ma questa inchiesta è umanamente devastante. Sono fatti» Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a Chi l’ha visto la prova dei lavaggi di cervello
Dalla Bassa a Bibbiano, quel filo che lega le onlus. redazione Sul Panaro i 4 Agosto 2019. MIRANDOLA E DINTORNI – Non si spengono i riflettori sui fatti di Bibbiano. In questi ultimi giorni sono stati diversi gli approfondimenti riguardo al filo che lega la vicenda degli affidi nel reggiano e quanto avvenuto nella Bassa venti anni fa. A partire dalla vicenda della bimba di Mirandola e dai finanziamenti (269 mila euro impegnati dall’Ucman, come denunciato da Antonio Platis e Mauro Neri) al Centro Studi Hansel e Gretel coinvolto proprio nei fatti di Bibbiano. Proprio su quest’ultimo punto si sono accesi i riflettori anche della stampa nazionale. I quotidiani La Verità e Il Giornale hanno rilanciato la questione del finanziamento dell’Ucman al Centro Studi sollevata da Platis e Neri che si chiedono se si possa parlare di danno erariale:
Nell’ottobre 2018 è stato organizzato al Teatro Metropolis a Bibbiano (RE) un convegno nella cui locandina appare, come Partners de “La Cura”, oltre al Centro studi Hansel e Gretel un solo ente locale: l’Unione Comuni Modenesi Area Nord. Eppure la scadenza del rapporto Mirandola-Bibbiano doveva essere il 30.4.2018.
Al convegno hanno partecipato numerose persone oggi indagate nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Tra i relatori figura anche la Responsabile della onlus a cui Mirandola aveva affidato nel 2013 la bambina oggi al centro dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Da notare – spiegano i consiglieri Neri e Platis – che la Responsabile della casa famiglia è nel direttivo di una nota associazione assieme a Claudio Foti, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Questa associazione realizza un quotidiano on line che ha “l’obbiettivo di difendere i bambini dall’adultocentrismo, dal negazionismo e dalla cultura patriarcale”.
Complessivamente, per gli affidamenti diretti, sono stati impegnati dall’Ucman indicativamente 269.354 euro in favore di questa onlus. Agli atti della prima determina nel 2013, la responsabile dell’epoca Monica Benati, affermava che verosimilmente la minore sarebbe stata nel centro scelto fino alla maggior età (raggiunta a fine 2018). Già questo – incalzano gli esponenti di FI – è un fatto molto grave perché si è scelta una struttura direttamente, senza considerare l’impegno palesemente pluriennale che avrebbe portato sopra la soglia dei 40mila euro l’affidamento. A questo si aggiunge un altro aspetto già contestato nel 2017. Perché invece di affidarci al Servizio Sanitario Regionale, l’Unione Area Nord ha fatto una convenzione, formalmente con la Val d’Enza, ma palesemente con il Centro Hansel e Gretel per pagare psicologi privati a 135 euro all’ora? Pensate che i preventivi agli atti dell’Ucman non sono dei comuni reggiani, ma di un privato. Quei soldi non dovevano finire là. A nostro avviso c’è il rischio di un danno erariale e per questo abbiamo chiesto ulteriori chiarimenti con un’interrogazione.
I quesiti sono sostanzialmente tre.
Perché l’Unione Area Nord ha dato adesione al convegno del 10-11 ottobre 2018 a Bibbiano come unico ente locale “partners”?
Quale ruolo ha avuto l’onlus in cui era affidata la minore mirandolese oggetto dell’inchiesta “Angeli e Demoni” nella scelta del Centro Hansel e Gretel visti i rapporti palesi che si evincono tra i responsabili dei due centri.
Se la Giunta Ucman, in futuro, intenda rendere maggiormente trasparente il criterio di selezione delle case famiglia.
Inoltre, secondo Il Resto del Carlino e il giornalista Pablo Trincia autore dell’inchiesta Veleno, la onlus “Il centro aiuto al bambino” della psicologa Valeria Donati, finita nell’inchiesta di Bibbiano, “in corrispondenza delle sentenze di assoluzione dei coniugi Covezzi e della famiglia Morselli e con la pubblicazione dell’inchiesta Veleno i ricavi scendono nel 2017 a 70.000 euro”. Invece, la onlus avrebbe ricevuto da tribunali, associazioni e Comuni nel 2004 251 mila euro, 269 mila nel 2005, 337 mila nel 2006, 480 mila nel 2007, 495 mila nel 2008, 512 mila nel 2009, 571 mila nel 2010, più di 650 mila nel 2012. Secondo Trincia, poi, i 18 bambini del caso Veleno seguiti dal CAB dal 2002 al 2013 erano suddivisi in quattro categorie a seconda della gravità della situazione e per loro il CAB riceveva 1.032 euro al mese per la fascia D e 1.400 per la A. Intanto nei giorni scorsi si è insediata la Commissione regionale di inchiesta sui fatti di Bibbiano e in Parlamento le commissioni Affari Istituzionali e Giustizia del Senato, riunite in sede congiunta e deliberante, hanno approvato la proposta relativa all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sugli affidi. Ora la palla passa alla Camera, ma sembra che la proposta possa procedere speditamente come ha spiegato anche la senatrice M5S Maria Laura Mantovani: “Adesso va alla Camera dove farà anche lì un percorso rapido. Da senatrice dell’Emilia Romagna sento particolarmente la delicatezza del tema: l’inchiesta sui fatti di Bibbiano e sui servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d’Enza e le vicende accadute 20 anni fa nella Bassa modenese, note come ‘caso Veleno’, sono ferite aperte e dolorose. La commissione d’inchiesta intende far luce sulle procedure degli affidi in tutta Italia”.
Sulla commissione regionale e sulla sua composizione, ovvero escludere il centrodestra, Forza Italia ha sollevato perplessità e Andrea Galli, capogruppo in Regione, in una lettera aperta al neoeletto presidente Boschini ha scritto: In ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:
Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali
Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno
Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola
Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori
Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti
Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media
Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola
Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia
Gloria Soavi, presidente Cismai
Monica Michele, vicepresidente Cismai
Quanto alla vicenda di Bibbiano, il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia Luca Ramponi ha confermato gli arresti domiciliari per il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (ora sospeso dalla Prefettura). Carletti, che si è autosospeso dal Partito Democratico, è accusato di abuso d’ufficio e falso ideologico e si trova agli arresti domiciliari dal 27 giugno.
Bibbiano, "Chiesta l'audizione di Carlo Lucarelli". La Lega ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, sia convocato per un'audizione della Commissione speciale della Regione sul caso Bibbiano. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Lo scrittore Carlo Lucarelli probabilmente sarà ascoltato sul caso Bibbiano. Lo rende noto Stefano Bargi, capogruppo della Lega in Regione Emila Romagna, la quale negli scorsi giorni ha aperto una commissione d'inchiesta. "Se qualcuno si aspettava che la Lega si adeguasse al ruolo marginale che le è stato affidato nell’ambito della Commissione speciale di inchiesta sul sistema tutela minori della Regione Emilia-Romagna si sbagliava", ha chiarito Bargi al Secolo d'Italia. La Lega vuole vederci chiaro e ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, venga ascoltato insieme a Elena Buccolieri, direttrice del medesimo ente. Lo scopo è capire i rapporti tra la Fondazione e gli indagati dell'inchiesta sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza. Bargi spiega che la Lega intende" alzare il sipario e fare luce su una vicenda orribile e sconvolgente qual è quella che è emersa dall’indagine Angeli e Demoni” e, pertanto, ha chiesto che vengano sentita anche "figure cardine nella gestione dei Servizi sociali". Il timore è che i vertici del Pd della Commissione speciale hanno tutto l'interesse a offuscare la vicenda dal momento che sono coinvolte esponenti politici come il sindaco di Bibbiano e gli ex primi cittadini i di Cavriago e di Montecchio. "Del resto gli ultimi sviluppi dell’indagine Angeli e Demoni – conclude Bargi – stanno facendo emergere come tutta l’Emilia Romagna, e non solo la Val d’Enza, sia, in realtà, stata infettata dal sistema degli affidi illeciti".
Televisione. “L’amore strappato”, così la “giustizia” spezza una famiglia, scrive Giuseppe Matarazzo domenica 31 marzo 2019 su Avvenire. Su Canale 5 la serie diretta da Simona e Ricky Tognazzi sulla drammatica storia di Angela, “rubata” ai genitori da clamorosi errori in tribunale. «Ma la realtà supera la fiction». Da stasera su Canale 5 “L’amore strappato”, la serie diretta da Simona e Ricky Tognazzi sulla drammatica storia (vera) di Angela, “rubata” ai genitori da clamorosi errori in tribunale. «Però la realtà supera la fiction» «Mamma e papà lo sanno dove mi porti?». È il 24 novembre 1995, un’assistente sociale e due carabinieri prelevano Angela, una bambina di sei anni, dalla sua classe, nella scuola di Masate nel Milanese, per affidarla a una comunità. In quella fredda giornata di apparente normalità la giustizia italiana rapisce Angela, la allontana dai suoi genitori, Raffaella e Salvatore, e dal fratello Francesco, e la risucchia in un lungo tunnel dal quale uscirà soltanto dopo undici interminabili anni. Il tribunale dei minori è convinto che il padre della bambina abbia abusato di lei e della cugina quattordicenne, con disagi psichici, da cui sono partite le accuse. Che Angela non pensasse affatto questo e adorasse il suo papà e la sua famiglia non importava a nessuno. I test psicologici, gli esami, il calvario degli interrogatori nei primi mesi al Centro di affido familiare tentano di estorcere, e ci riescono, l’orribile confessione che per i periti sta in un disegno, un fantasma, arrivato dopo che Angela ha colorato infinite bambole e le Barbie con i vestitini che stavano nella sua cameretta. Un disegno, che probabilmente manifestava la paura che viveva Angela in quel momento, con i pianti di mesi passati a capire perché non potesse tornare a casa, perché mamma e papà non venissero a prenderla. Il papà, condannato in primo grado, resterà in carcere a San Vittore per 2 anni, 4 mesi e due giorni, prima di venire poi assolto in appello e in Cassazione con formula piena, perché «il fatto non sussiste». Ma l’assoluzione non fermerà la “giustizia” minorile: per il tribunale è troppo tardi e la bambina verrà data in adozione a una nuova famiglia. Un assurdo. Di Angela i genitori perderanno tutte le tracce. La ritroveranno su una spiaggia di Alassio dieci anni dopo. Angela, pochi mesi prima di diventare maggiorenne, nel 2006, riuscirà ad abbracciare la sua vecchia famiglia. E uscire finalmente da quel tunnel. Un calvario che Angela Lucanto ha raccontato passo dopo passo, con estrema lucidità, come una liberazione e un riscatto, nell’emozionante libro scritto nel 2009 con i giornalisti che si erano occupati del caso a “Panorama”, Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella, che del settimanale è stato vicedirettore: Rapita dalla giustizia. Come ho ritrovato la mia famiglia (Rizzoli, pagine 210, euro 12, in libreria in una nuova edizione). Ora queste pagine straordinarie di ingiustizie e vita vera hanno liberamente ispirato L’amore strappato, la serie tv in sei episodi coprodotta da Rti e Jeki Production che Mediaset propone da stasera, per tre domeniche, alle ore 21.20, su Canale 5. Una produzione diretta da Simona e Ricky Tognazzi (che per la prima volta firmano con lo stesso cognome) con protagonisti Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro. Si parte da Angela Lucanto, da questa incredibile vicenda, ma il film segue poi i suoi binari: non è ambientato a Milano, ma a Roma; diverse sono le circostanze in cui si svolgono i fatti; diversi i nomi dei protagonisti. Rocco (Enzo Decaro), Rosa (Sabrina Ferilli), Ivan (Christian Monaldi) e Arianna (Elena Minichiello) sono uniti e felici. Li conosciamo mentre fervono i preparativi per il festeggiamento del compleanno di Ivan e della recita a scuola di Arianna. Ma poco prima del suo ingresso in scena, la bambina viene prelevata da un carabiniere e da una psicologa. E il calvario comincia, anche in tv. «Una storia talmente assurda che questa volta la fiction ha dovuto quasi “contenerla”», confessa il regista Ricky Tognazzi. Frenando la tentazione e il rischio «di essere manichei e di accanirsi su operatori, magistrati, forze dell’ordine: perché accanto all’episodio incredibile che narriamo e ad altri casi di errori e ingiustizie che purtroppo avvengono, ci sono storie di quotidiana professionalità e bambini strappati ad abusi e realtà disumane. Non era il caso di Angela. A lei è stato strappato l’amore di una famiglia felice». La sceneggiatura di Simona Izzo (con Vinicio Canton, Giancarlo Germino e Maura Nuccetelli) si concentra sul ruolo della madre che lotta contro le ingiustizie che si abbattono sulla famiglia: difendere il marito da un’accusa infamante e lottare per riavere la sua bambina, con un altro figlio da crescere. «È l’amore di una madre a cui viene strappato l’amore della sua vita – continua Tognazzi –. Un amore nei confronti del marito, a cui continua a credere, sempre. Lei non viene mai attraversata dal dubbio, non tentenna neanche quando è “ricattata” dalle autorità: se non ammetti le sue colpe, non potrai vedere neanche tu tua figlia. Ma lei non cede. Non sta al gioco, non accetta compromessi, anche a rischio di perdere tutto». Simona Izzo e Ricky Tognazzi leggono insieme questa storia sconvolgente. «Non credevamo ai nostri occhi. Sembrava scritta da un abile e perfido sceneggiatore. Invece era tutto vero. Parafrasando il filosofo Wittgenstein, si può dire che tutto ciò che non può essere spiegato deve essere raccontato: abbiamo scelto di mettere in scena questa storia perché è, per certi versi, davvero inspiegabile », evidenzia la Izzo. «Io – riprende Tognazzi che nel film recita anche la parte dell’avvocato difensore – mi sono immedesimato nella figura del padre. Che subisce l’accusa infamante, conosce il carcere e perde la figlia. Ho pensato a come avrei potuto reagire io. Ho provato un senso di drammatica impotenza di fronte a certe prove della vita, ma anche la necessità di non perdere mai di vista la speranza. Ci siamo confrontati con Simona: lei, donna, ha guardato da un’altra prospettiva. Così la protagonista di questo adattamento è diventata la madre». «Doppiamente coraggiosa, doppiamente sul campo. Lei che ha dovuto tenere insieme tutto. Fino alla fine. Un ruolo che Sabrina ha interpretato con la forza e la passionalità che da sempre la contraddistinguono. Così come Enzo Decaro, profondamente rispettoso della storia del padre, che ha incontrato, riportando la sua grande sensibilità», aggiunge la Izzo. Il papà, probabilmente, è proprio la persona più segnata: «Non è ancora riuscito a leggere il libro. Ogni volta che lo inizia, si mette a piangere e non ce la fa a continuare», racconta Maurizio Tortorella. La realtà è più forte della fiction anche nel lieto fine. «Oggi Angela – aggiunge Tortorella – è una donna serena, lavora, è diventata mamma da pochi mesi del piccolo Stefano». Stasera la famiglia Lucanto vedrà probabilmente il film in tv, riunita a casa. Rivivrà quello che ha passato con occhi diversi. Quelli della fierezza. Con i gorgheggi del piccolo Stefano in sottofondo e quella luce che una nuova vita sa regalare a tutti. E al futuro. «Ci sembra una bella coincidenza», conclude Tognazzi. Angela può finalmente sorridere. Circondata da un amore ritrovato.
La storia vera che ha ispirato “L’amore strappato”. La fiction si ispira a una vicenda avvenuta a Milano tra il 1995 e il 2006 e raccontata dalla protagonista, Angela Lucanto, ai giornalisti Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella nel libro “Rapita dalla giustizia”, scrive il 28 Marzo 2019 Silvia Perazzino su sorrisi.com. La fiction “L’amore strappato” si ispira a una vicenda vera avvenuta a Milano tra il 1995 e il 2006 e raccontata dalla protagonista, Angela Lucanto, ai giornalisti Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli, 12 euro). Tutto inizia il 24 novembre 1995 quando, per colpa di una falsa accusa di pedofilia contro suo padre, Angela, sei anni, viene prelevata da scuola e rinchiusa in una casa-famiglia. Il padre, Salvatore, finisce in carcere. Nel 2001 l’uomo viene assolto anche in Cassazione, ma nel frattempo Angela è stata data in adozione a un’altra famiglia e solo nel 2006 tornerà finalmente a casa. «Abbiamo scelto la formula “liberamente ispirato” perché per esigenze televisive sono stati fatti alcuni cambiamenti. La fiction, per esempio, è ambientata a Roma. Cambiano i nomi e alcune fasi particolarmente drammatiche sono state stemperate» spiega la Guarneri, che ha collaborato alla fiction. «Subito dopo l’assoluzione del marito, Raffaella, così si chiama la madre nella realtà, venne a “Panorama”, dove Tortorella lavorava, e in seguito anche io, per denunciare l’ingiustizia subita dalla sua famiglia e poter riavere la figlia. Il caso colpì tutti allo stomaco. Questa storia andava raccontata, e noi lo abbiamo fatto insieme con Angela quando è tornata». Ma c’è dell’altro, in una vicenda di per sé già incredibile: «Quello che Angela ha passato in quegli anni lontana da casa, la mamma lo ha scoperto leggendo il libro, mentre il padre non ha ancora trovato il coraggio di leggerlo» conclude la Guarneri.
Angela Lucanto. La storia vera, de l’Amore Strappato: “Io rapita dalla giustizia”, scrive il 13.04.2019 Dario D'Angelo su Il Sussidiario. La storia vera di Angela Lucanto, protagonista de “L’amore strappato”, fiction con Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro giunta all’ultimo appuntamento su Canale 5. Ultimo appuntamento in tv con la fiction “L’amore strappato“, la fiction di Canale 5 che vede protagonisti Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro tratta da una storia vera. La prima grande vittima di questa storia è Angela Lucanto, “strappata” letteralmente all’affetto dei suoi genitori dopo che il padre Salvatore venne accusato di molestie su minori nel novembre del 1995. all’epoca Angela aveva soltanto sei anni: subito venne prelevata mentre si trovava a a scuola e trasferita in una casa-famiglia. Una scelta che secondo la “giustizia” aveva il compito di tutelare Angela dal padre-orco, ma che invece si rivelò un clamoroso errore giudiziario. Sei anni dopo le accuse, infatti, papà Salvatore venne assolto dalla Cassazione dopo aver trascorso due anni in carcere da innocente. Troppo tardi per consentire alla piccola Angela di trascorrere un’infanzia normale con i suoi genitori. Da quel 2001, anno in cui papà Salvatore venne definitivamente assolto da ogni accusa, trascorsero altri 5 anni prima che ad Angela fosse consentito di ricongiungersi con la sua famiglia d’origine. Cresciuta in un’altra famiglia che in quegli anni si è presa cura di lei, Angela da adulta ha scritto un libro dal titolo fortemente evocativo:”Rapita dalla giustizia”. Intervistata dal settimanale “Chi”, Angela ha raccontato:”Nessuno mi ridà mai indietro il tempo trascorso lontana dalla mia famiglia. Ma credo di aver superato tutto sia mentre lo vivevo sia dopo grazie al mio carattere forte e ribelle. Se mi fossi permessa anche una sola fragilità, mi avrebbero schiacciata (…) Cerco di non associare le cose ma oggi, da mamma, capisco ancora di più che cosa ha vissuto la mia. Riesco a vedere quello che ci è successo attraverso i suoi occhi e da persona adulta e consapevole, ho capito ancora di più l’incredibile tragedia che ha vissuto“.
L'amore strappato, la vera storia di Angela Lucanto che ha ispirato la fiction con Sabrina Ferilli, scrive il 12 aprile 2019 Francesca Demirgian su pianetadonna.it. Chi è Angela Lucanto, la bambina strappata alla famiglia per un errore giudiziario, che ha ispirato la nuova fiction di Canale 5 L'amore strappato.
L’amore strappato la fiction di Canale 5 su Angela Lucanto. Il prossimo 31 marzo arriva in tv, su Canale 5, la nuova fiction con Sabrina Ferilli e Enzo De Caro, dal titolo "L'amore strappato". Una serie in 3 puntate che segue a Non Mentire e a Il silenzio dell'acqua e che porta sul piccolo schermo una storia agghiacciante, realmente accaduta. L'amore strappato, infatti, diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo, si ispira alla storia vera di Angela Lucanto, una bambina che a soli 7 anni fu strappata dalla mamma e dal papà (rispettivamente interpretati da Sabrina Ferilli e Enzo De Caro) per un errore giudiziario, con accuse infamanti di molestie ai danni del padre. Tutto accadde quel terribile 24 novembre 1995, quando i carabinieri e un assistente sociale entrarono in classe di Angela, che aveva poco più di 6 anni, e la prelevarono, senza ulteriori spiegazioni, portandola in un istituto di Milano gestito dal Cismai (Centro italiano contro il maltrattamento e l'abuso dell'Infanzia). Qualche mese dopo, il padre di Angela fu arrestato e processato con l'accusa di abusi verso la figlia e la cugina. Così, per quasi due anni, Angela rimase chiusa in quell'istituto, senza poter vedere la sua famiglia. Mentre il padre fu costretto a trascorrere 2 anni e mezzo in carcere, prima di essere liberato con sentenza assolutoria. I tempi lunghi della giustizia italiana, tolsero la patria potestà ai genitori, rendendo Angela una bambina adottabile da un'altra famiglia. A nulla servirono la disperazione della madre e il suo incatenarsi davanti alla struttura dove la figlia si trovava, anzi, quel gesto di una mamma esanime, spinse al trasferimento di Angela in un istituto di Genova. Qui, la bambina è costretta a rispettare regole rigide e a sopportare dure punizioni.
Angela Lucanto adottata da un'altra famiglia. Fino al giorno dell'adozione da parte di una famiglia che non ha mai incontrato Angela e che ha già 3 figli, due adottati e uno naturale. Angela non si trova bene in questa nuova realtà, pensa al passato, ma i suoi ricordi sono sempre più sfocati. Intanto i genitori naturali continuano a cercarla disperatamente, per 9 lunghi anni. Riusciranno a trovarla solo quando, ormai, la ragazza è quasi maggiorenne. Sarà il fratello a farle avere una lettera dei genitori e delle foto che li ritraggono insieme prima di quel terribile 24 novembre 1995. Angela deciderà, allora, di scappare dalla sua famiglia adottiva, andando contro lo Stato e contro la Giustizia italiana che tanto erano stati ingiusti con lei e la sua famiglia, per ricongiungersi con le persone che nonostante tutto ha sempre amato.
Il libro “Rapita dalla giustizia” scritto da Angela Lucanto. Sarà proprio Angela Lucanto, nel 2010, a pubblicare un libro autobiografico, per raccontare, passo dopo passo, a tutti quell'assurda storia, la storia di un errore giudiziario imperdonabile, la storia di una bambina strappata per anni alla sua famiglia, la storia di una mamma e di un papà coraggio che hanno lottato senza mai arrendersi. Il libro, dal titolo "Rapita dalla giustizia - Come ho ritrovato la mia famiglia", è stato scritto da Angela insieme a Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri, edito da Bur Rizzoli. La storia di Angela Lucanto diventa fiction. Oggi quella terribile storia è pronta a diventare una fiction dal titolo "L'amore strappato", appunto, che arriverà su Canale 5, il prossimo 31 marzo in 3 puntate.
SABRINA FERILLI E LA FICTION L'AMORE STRAPPATO. “LA SOFFERENZA DI QUELLA FAMIGLIA MI È ENTRATA DENTRO”, scrive il 14/04/2019 Eugenio Arcidiacono su famigliacristiana.it. L'attrice racconta la grande commozione vissuta nell’interpretare il delicato ruolo di Raffaella Lucanto. «Mi ha colpito l’impotenza di questi genitori di fronte a un meccanismo assurdo», dice l’attrice. «Ciò che mostriamo in tv, può capitare a chiunque». Un’icona di Roma in un’icona di Milano: incontriamo Sabrina Ferilli nella storica pasticceria Sant Ambroeus, a due passi dal Duomo: «In realtà, io adoro Milano. Per carattere sono molto rigorosa: mi piacciono le città dove le cose funzionano. Nel caos non mi trovo molto bene. E poi posti come questi non sono semplici bar, sono luoghi che conservano un’umanità antica».
In L’amore strappato lei interpreta la parte di Raffaella Lucanto. Conosceva già questa storia?
«Sì, avevo letto il libro di Angela. Durante le riprese non ho voluto incontrarli, perché non volevo farmi influenzare nell’interpretazione. L’ho fatto ora ed è stato molto emozionante vedere la loro dignità. Salvatore, il padre, mi ha detto che la sofferenza maggiore l’hanno ricevuta dalle persone più vicine: amici, colleghi di lavoro che da quando lui è stato accusato hanno fatto terra bruciata attorno a loro».
Qual è l’aspetto di questa vicenda che l’ha colpita di più?
«L’impotenza di queste persone che non avevano fatto niente. Sopra di loro si è innescato un meccanismo fatto di errori giudiziari, di burocrazia, di gente sorda a ogni buonsenso che ha iniziato a travolgerli: chiunque decideva al posto loro. Un meccanismo assurdo, come dimostra il fatto che per fare riavere il loro cognome alla figlia sono stati costretti ad adottarla».
Presentando questa fiction in varie occasioni si è commossa…
«I torti, le sofferenze che hanno subìto mi sono entrate dentro. E poi ho pensato che quanto hanno vissuto poteva capitare a me, ai miei fratelli che hanno figli, a chiunque altro».
Lei come si sarebbe comportata se fosse stata davvero al posto della madre di Angela?
«Come lei. Avrei lottato, ma sempre nell’ambito della legalità. Non credo nella giustizia fai da te».
Cosa pensa allora della nuova legge sulla legittima difesa?
«Non ce n’era assolutamente bisogno. Nei Paesi dove sono adottati provvedimenti simili, i crimini sono aumentati».
Lei come reagisce alle ingiustizie?
«Non ne ho subìte tante, forse perché ho condotto sempre una vita molto riservata e ho cercato di circondarmi di persone migliori di me».
Nell’animo si sente più avvocato o giudice?
«Avvocato, perché mi piace l’idea di dare a chiunque la possibilità di riscattarsi. Un uomo non può identificarsi con il reato che ha commesso: è troppo riduttivo».
Oggi però viviamo in una società piena di giudici senza toga che dal loro computer sputano sentenze…
«Lo so ed è terribile. Solo che quando lo fai notare, c’è sempre qualcuno che ti fa passare per sprovveduta. “Ma che male potrà mai fare un selfie un po’ volgare, o una foto che inneggia al fascismo?”, ti dicono. E invece sono spie di una disgregazione culturale in atto di costume, di lingua, di rispetto».
È per questo motivo che lei non si vede molto sui social?
«Ho solo una pagina Facebook che non gestisco e che uso solo per far conoscere le mie attività professionali».
È vero che è rimasta legatissima ai suoi genitori?
«Sono legatissima alla mia famiglia in generale. La prima cosa che faccio al mattino è telefonare a papà. Lui è come me. Appena si alza, legge tutti i giornali. Perciò mi sveglio alle sei e, quando ho finito, lo chiamo e ci confrontiamo sui fatti del giorno. Facciamo una specie di rassegna stampa e alla fine siamo sempre d’accordo sulle valutazioni».
Suo padre è stato un funzionario del Pci. Com’è stato crescere in un ambiente così?
«A casa mia erano tutti, come si direbbe oggi, “cattocomunisti”. Mi ricordo mia nonna che indossava due medagliette: in una c’era la Madonna e nell’altra il simbolo della falce e martello. Gente integra, molto severa, che ha contribuito a ricostruire il Paese dalle macerie della guerra».
Le hanno trasmesso anche la fede?
«Sì. Sono amica di preti e frati straordinari, conosco anche la realtà della mia parrocchia. Non vado a Messa, ma due o tre volte alla settimana sento la necessità di entrare in chiesa».
Rapita dalla Giustizia, se la cronaca ispira la fiction. Mediaset racconta la vicenda realmente accaduta di una bambina sottratta alla sua famiglia per un errore giudiziario, scrive Panorama. Un’accusa infamante, un incredibile errore giudiziario e una bambina di sette anni viene strappata alla sua famiglia. Ruota attorno a questi tre snodi L’amore strappato, la nuova serie tv di Canale 5 con Sabrina Ferilli, che torna a recitare a due anni dall’ultima fiction e lo fa calandosi nei panni di una «mamma coraggio» che sfida la giustizia italiana e morde la vita pur di ritrovare sua figlia. Mediaset questa volta veste i panni del «servizio pubblico» e lo fa raccontando una storia in tre puntate, in onda su Canale 5 a partire da domenica 31 marzo, liberamente ispirata al libro Rapita dalla Giustizia (Rizzoli), scritto dalla protagonista Angela Lucanto con i giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri. Oggi Angela ha 29 anni e la sua vicenda alla Oliver Twist diventa una fiction che lascia senza parole per la sequenza di folli assurdità. Tutto comincia quando Rocco, il padre di Arianna – interpretato da Enzo Decaro - viene ingiustamente accusato da una lontana parente di aver molestato la figlia. Viene subito allontanato dalla sua famiglia fino a quando gli assistenti sociali la danno in affido e poi in adozione. Inizia così una storia dalle sfumature incredibili, che pare un romanzo ma è solo bruciante verità. «Il paradosso è che una situazione così può capitare a tutti. Non c’è ricco, povero o classe sociale che tenga davanti ad accuse infamanti e errori giudiziari tanto macroscopici», spiega Maurizio Tortorella, che proprio su Panorama, di cui è stato vicedirettore, raccontò la storia e condusse una lunga inchiesta sul fenomeno dei bambini portati via dai servizi sociali oltre che sugli interessi economici delle case-famiglia in Italia. E proprio per ricucire quell’«amore strappato» - su cui è incentrata la fiction prodotta da Jeky Productions, e diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo - la mamma di Arianna, Rosa, combatte la sua battaglia riuscendo a non farsi schiacciare dagli eventi. «Mio marito è innocente, dovete ridarmi mia figlia» è il suo mantra. Continuare a crescere l’altro figlio, sostenere il marito che finisce in carcere e non smettere di cercare quella figlia che le hanno portato via (e che solo dopo oltre dieci anni riuscirà finalmente a riabbracciare), la sua missione. Tocca alla Ferilli restituire al pubblico la potenza eroica di questa donna che rifiuta compromessi per tutelare la figlia che ingiustamente le hanno strappato. «La forza di questa storia è l’amore che resiste a tutto, anche all’impatto con una tragedia dai contorni devastanti», riconosce l’altra autrice, Caterina Guarneri.
La storia di Angela Lucanto non è un caso isolato. La politica deve intervenire”, parla l’autore del libro da cui è tratta la fiction L’amore strappato. Il giornalista Maurizio Tortorella ha raccontato su Panorama la storia della bambina tolta alla famiglia a causa di un errore giudiziario, che ha ispirato la fiction con Sabrina Ferilli, scrive Anna Ditta il 5 Aprile 2019 su TPI. Anna Ditta. Nata a Castelvetrano (TP) nel 1991. Dal 2013 collabora con TPI, dove si occupa di interviste e inchieste. È autrice del libro "Belice" (Infinito edizioni, 2018). Domenica 31 marzo è andata in onda la prima puntata della fiction L’amore strappato, ispirata alla storia vera di Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia quando aveva sei anni a causa di un sospetto nei confronti del padre, poi rivelatosi infondato, e data in adozione a una nuova famiglia. La vicenda della famiglia Lucanto è stata raccontata nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli, 2009). TPI ha intervistato Maurizio Tortorella, ex vicedirettore di Panorama e autore del libro insieme a Angela Lucanto e Caterina Guarneri.
Come ha conosciuto la storia di Angela?
«Mi chiamò il loro avvocato, Raffaele Scudieri, all’inizio del 2002. All’epoca ero inviato speciale di Panorama, mi occupavo di giustizia. L’avvocato non mi conosceva ma mi chiese di andare da lui, disse di avere una storia assurda e pazzesca. Andai e trovai il padre e la madre di Angela. Lui era stato appena assolto in Cassazione e domandava giustamente perché mai la figlia nel frattempo venisse data in adozione definitivamente a un’altra famiglia, visto che lui era vittima di un orribile errore giudiziario. Aveva fatto 2 anni, 4 mesi e due giorni di carcere. Sarebbe stato ovviamente risarcito per l’ingiusta detenzione, ma quello che gli stava più a cuore era riavere la figlia che da sette anni non vedeva».
Qual è stata la sua reazione dinanzi a questa storia assurda?
«Mi sono messo a piangere come un bambino, perché avevo da poco avuto un figlio e mi sono reso conto che questo disastro sarebbe potuto capitare a chiunque. È stato come prendere un treno in faccia, l’ho trovata un’ingiustizia atroce. E Panorama avviò sul caso una campagna molto intensa di articoli scritti da me che cercavano in ogni modo di fermare l’adozione e soprattutto di riparare a questo errore folle che faceva sì che la giustizia penale avesse riconosciuto la completa innocenza di Salvatore Lucanto mentre invece il Tribunale dei minori, seguendo una logica del tutto difforme, andasse in una direzione totalmente opposta. Tra l’altro con delle illogicità pazzesche. Il padre di Angela era stato accusato di pedofilia da una cugina di 14 anni, che lo ha accusato di aver violenza non solo a se stessa, ma anche al figlio maschio, Francesco, all’epoca 12enne, e ad Angela. Quindi non si capisce perché soltanto la figlia femmina fosse stata portata via. E soprattutto perché, dopo che il padre era stato arrestato, Angela non fosse stata riportata a casa. Anche perché la mamma, Raffaella, non era mai stata indagata. Non aveva alcun coinvolgimento penale nella vicenda. Era del tutto assurdo. Una storia assolutamente irrazionale».
Sembra una catena di errori.
«Se la mamma non è indagata tu non puoi portare via il marito e la figlia contemporaneamente e poi, attraverso lo psicologo, far sapere che la bambina torna a casa nel momento in cui lei accusa il marito innocente. È intollerabile ovviamente».
Possiamo dire che sia qualcosa di simile a un ricatto?
«È di fatto qualcosa di ingiusto».
La vostra campagna su Panorama ha sortito degli effetti?
«Purtroppo no, assolutamente nulla. Scrivemmo anche una lettera aperta al presidente della Repubblica, che all’epoca era Carlo Azeglio Ciampi. Insieme a Maurizio Costanzo, ad aprile 2002, facemmo tre puntate del Maurizio Costanzo Show in cui cercammo di contattare i genitori adottivi, coinvolgerli e far capire loro che c’era qualcosa di profondamente malato nello strappare una bambina alla famiglia che non aveva nessuna colpa. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Castelli, disse che non avrebbe potuto fare nulla perché i giudici avevano totale autonomia».
Poi è arrivata la decisione di scrivere un libro.
«Sì, perché dopo anni la signora Lucanto mi chiamò e mi disse che Angela era tornata. Era il 2006-2007. Io andai subito a conoscerla, perché ero stato molto coinvolto nella vicenda ovviamente. Abbiamo scritto il libro con Caterina Guarneri, che è una brava giornalista e fu fondamentale perché, da donna, riusciva a scandagliare meglio l’animo e certi punti di vista di una ragazzina diventata poi una ventenne. Il libro è stato un parziale risarcimento per i Lucanto, hanno avuto modo di raccontare quello che ha subito Angela nelle case famiglia, che è piuttosto pesante. La storia è raccontata attraverso gli occhi di una bambina dai 7 ai 18 anni e lei attraversa questi 11 anni come un Oliver Twist contemporaneo: soffre, subisce maltrattamenti. Sono convinto e mi auguro che le case famiglia non sono tutte come quelle in cui è passata lei, però a me piacerebbe che i Tribunali per minori fossero non solo più attenti nelle decisioni che prendono, ma soprattutto molto più rigorosi nei controlli sulle case famiglia».
Attraverso i tuoi articoli e le tue inchieste sei riuscito a capire cosa non funzioni nel sistema?
«Intanto a me pare impossibile che il Tribunale dei minori possa agire nella totale indifferenza rispetto a quello che accade nel processo penale parallelo. Nel momento in cui il padre viene dichiarato innocente già in Corte d’Appello, mi domando perché il Tribunale dei minori non tenti di tener conto della sentenza e di rallentare il procedimento di adottabilità della minore sottratta alla famiglia. Il Tribunale dei minori, inoltre, deve comunque garantire un contatto tra la madre e la bambina e tra il fratello e la sorella. Non per nulla la Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato il governo italiano e il ministero della giustizia perché ha impedito i contatti e ha riconosciuto che era stata proprio la decisione della mamma di non “collaborare” con la giustizia alla base del fatto che la bambina fosse stata ingiustamente allontanata da casa sua».
Quindi basterebbe far coordinare il lavoro del Tribunale dei minori con quello ordinario?
«In passato più volte si è pensato a riformare il Tribunale dei minori. Hanno una procedura che secondo me tiene troppo poco conto dell’esigenza delle famiglie, assumono decisioni inaudita altera parte, cioè senza ascoltare le ragioni delle famiglie cui vengono sottratti i bambini. Inoltre quando assumono delle decisioni poi è difficilissimo tornare indietro. Se parli con gli avvocati che si occupano di diritto di famiglia ascolti storie molto dure, a cui non riesci a credere. Si parte spesso da una relazione degli assistenti sociali che viene presa per buona sempre e comunque. Gli errori sono all’ordine del giorno. Occorrerebbe secondo me, soprattutto perché si tratta di bambini, molta cautela. Sicuramente vanno protetti da tanti pericoli, dagli abusi, come stabilisce il codice, ma i giudici dovrebbero essere molto più attenti».
È positivo che sia trasmessa una fiction sull’argomento?
«Penso di sì. È ancora una volta un risarcimento per quello che ha sofferto la famiglia in questione. Io spero che serva anche a far aprire un dibattito e che la politica e la magistratura capiscano che questo sistema non funziona. Ti assicuro che questi errori si ripetono, anche ai nostri tempi. Non è un caso del tutto isolato».
Ci sono altri casi simili?
«Sì, ce n’è anche uno appena successo. La politica deve intervenire, la magistratura deve guardare dentro di sé, capire dove sbaglia e cercare di rimediare i suoi errori. Secondo me dev’esserci comunque una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica su questi temi. È fondamentale che quando un uomo viene arrestato con un ordine di custodia cautelare, l’opinione pubblica non lo giudichi automaticamente colpevole, come se si trattasse di una sentenza di Cassazione. Ogni anno sono 90mila gli imputati prosciolti con formula piena dopo un processo».
Servirebbe uno sguardo più garantista. Ma una parte della politica sembra andare in direzione contraria.
«Sì, è vero. Ma io sono garantista da sempre, e liberale, da quando avevo 12 o 13 anni. Non riesco a capire chi è colpevolista o giustizialista».
“L’Amore strappato? Non è solo una fiction, ecco perché il sistema non funziona”, l’avvocato a TPI. Cristina Franceschini, avvocato e fondatrice della onlus Finalmente liberi, spiega come lo scollegamento tra procure e tribunali per minorenni possa comportare errori e ritardi nell'allontanamento dei minori dalla famiglia, scrive Anna Ditta l'1 Aprile 2019 su TPI. Anna Ditta. Nata a Castelvetrano (TP) nel 1991. Dal 2013 collabora con TPI, dove si occupa di interviste e inchieste. È autrice del libro "Belice" (Infinito edizioni, 2018). Dalla fiction di Canale 5 "L'amore strappato". La storia di una bambina sottratta ingiustamente alla sua famiglia e data in adozione è il tema al centro de L’amore strappato, fiction di Canale 5 con protagonista Sabrina Ferilli, il cui primo episodio è andato in onda domenica 31 marzo. La serie è liberamente ispirata alla vicenda realmente accaduta ad Angela Lucanto e raccontata nel libro “Rapita dalla giustizia” scritto dalla protagonista della storia insieme ai giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009). La storia è quella di un clamoroso errore giudiziario dopo che il padre di Arianna (questo il nome della bambina nella serie tv) viene accusato di molestie sessuali nei confronti della figlia, arrestato e condannato in primo grado, prima di essere assolto in appello e in Cassazione con sentenza definitiva. Nonostante le accuse vengano smontate, Arianna viene data in adozione a una nuova famiglia, dalla quale si separa poco prima di aver compiuto 18 anni per tornare dalla sua famiglia d’origine. Ma davvero in Italia possono accadere casi come quello vissuto dalla famiglia Lucanto? TPI ha intervistato l’avvocato Cristina Franceschini, che si occupa di minori allontanati dalla famiglia e ha fondato l’associazione Finalmente liberi onlus.
Avvocato, in Italia si verificano casi simili a quello di Angela Lucanto? Se sì, con quale frequenza?
«Purtroppo non posso conoscere la frequenza, posso parlare solo dei casi che seguo come avvocato difensore in ambito civile, mentre per il penale mi interfaccio con qualche collega. Posso confermare però lo scollegamento tra procura ordinaria, che magari indaga per maltrattamenti o abusi, e tribunale per minorenni. Questo scollegamento può essere più o meno netto, ma è un dato di fatto.
Quindi ci sono casi in cui il genitore viene assolto in via definitiva, ma il minore non torna alla famiglia?
«Sì, ma faccio anche un altro esempio. Ci sono casi in cui il minore scappa dalla famiglia dicendo di essere stato picchiato, ma poi durante l’incidente probatorio ritratta e dice di essersi inventato tutto perché voleva fare un dispetto. Lo ammette dopo essere stato subito allontanato, quindi senza che la sua versione possa essere stata manipolata da nessuno. Ciononostante, passano comunque mesi o anni affinché possa tornare a casa. Questo non può accadere».
Può farci altri esempi?
«Ho seguito personalmente il caso di un bambino allontanato da casa con una misura d’urgenza dopo una segnalazione partita dalla scuola. Il bambino è caduto mentre si trovava nell’istituto scolastico e ha sbattuto la fronte. Poi è stato assente una settimana per un’influenza intestinale e quando è tornato a scuola aveva gli occhi lividi perché l’ematoma era sceso dalla fronte agli occhi, ed è partita una segnalazione per maltrattamento».
Cos’è che non funziona?
«Lavorando nei tribunali minorili ho potuto constatare tante cose che non vanno. Mi sono anche confrontata con tante ottime realtà, anche di comunità, di servizi sociali buoni. Di certo non voglio puntare il dito contro tutto il sistema, ma se ci sono di mezzo i bambini non deve esserci neanche una cosa che non va. Sarà utopistico, ma se c’è qualcosa che non funziona e la politica viene allertata, bisogna correre ai ripari e rimediare quanto prima. Invece spesso non si sa neanche da dove partire».
Quando può essere disposto l’allontanamento di un minore?
«L’articolo 403 che consente l’allontanamento immediato è generico perché parla di situazione di “abbandono morale o materiale”. Ci sarebbe bisogno di specificare qualcosa di più. Sono state proposte delle modifiche di questa norma ma adesso è tutto fermo. La Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, cui ho collaborato, ha già stilato un documento con tutte le criticità, frutto del lavoro di anni. Ora bisogna intervenire e iniziare a cambiare qualcosa, non nascondere la polvere sotto il tappeto».
Prima parlava di uno scollegamento tra procura ordinaria e tribunale per minorenni. Che intende?
«Questi due organismi intervengono sulla base della stessa segnalazione, proveniente ad esempio dalla scuola o dal pediatra. La procura indaga sui comportamenti dei genitori, per capire se integrano un reato, invece la procura minorile apre un procedimento che va a incidere sulla loro responsabilità genitoriale. Mentre sono in corso le indagini, spesso al tribunale per minorenni non si vengono a sapere neanche i motivi, perché è tutto sottoposto al segreto istruttorio. A volte si ha accesso al fascicolo dopo mesi dall’allontanamento, durante i quali il genitore non sa dove si trovi il figlio e perché gli sia stato tolto. Manca un vero contraddittorio. Inoltre bisogna fare attenzione alla valutazione psicologica del minore e alla valutazione genitoriale: se queste avvengono dopo l’allontanamento, per me sono già inficiate. Dopo le indagini, se emerge che i motivi dell’allontanamento sono fondati viene confermato l’allontanamento, altrimenti il figlio viene riconsegnato alla famiglia. Ma in questo secondo caso vuol dire che non doveva essere tolto. Allora io dico, nel momento in cui ci sono delle condotte incerte, adottiamo misure alternative, in modo da non incorrere in questo errore».
Che intende con “misure alternative”?
«Mi riferisco a progetti diversi. Se ci sono delle difficoltà contingenti nelle famiglie – ad esempio un genitore si ammala e non può seguire i figli al meglio – il servizio pubblico può intervenire in base alla legge sull’adozione e sull’affidamento. L’ente comunale deve fornire tutti gli strumenti possibili per poter crescere il bambino all’interno della famiglia. Ad esempio, se ci sono delle criticità a livello psicologico, bisogna fornire supporto psicologico. Se le difficoltà sono nel quotidiano forniamo assistenza domiciliare. Lo Stato non può togliere il bambino e dire: vediamo, poi casomai te lo ridiamo. Questo ovviamente solo nel caso in cui il problema non sia talmente grave da comportare la misura dell’allontanamento immediato».
Quando viene decretata invece l’adottabilità? Su che basi?
«È il tribunale dei minori che prende provvedimenti sulla responsabilità genitoriale. Quando dichiara decaduta la potestà e il bambino diventa adottabile si apre l’affidamento preadottivo presso una famiglia, che poi diventa adozione quando c’è un riscontro positivo».
Lei ha creato una onlus che si occupa di questi temi. Come mai?
«Per entrare in contatto con le istituzioni e fornire loro qualche referente con cui confrontarsi. Ma la onlus ha fatto soprattutto opera di denuncia e di raccolta dati».
Lei ha denunciato anche conflitti d’interessi tra i giudici onorari minorili e le strutture per minori. Ci può dire qualcosa su questo?
«Ho scoperto che molti giudici onorari minorili lavoravano all’interno di comunità. Già dal 2010 una circolare del Csm vieta ai giudici onorari di avere cariche rappresentative all’interno di comunità, ma nonostante questo qualcuno continuava a farlo. Accadeva inoltre che alcuni di loro lavorassero nelle comunità, magari come psicologi, senza essere dirigenti. Questa situazione, che è un caso di incompatibilità e può creare conflitti d’interessi è stata denunciata in vari articoli, soprattutto di Panorama, grazie al vicedirettore Tortorella. Nel 2015 il Csm si è espresso con una nuova circolare, che vieta ai giudici onorari e ai loro parenti di lavorare all’interno di strutture per minori a qualsiasi titolo, ma mancano i controlli: è lo stesso giudice onorario che autocertifica di non lavorare o non aver lavorato in una comunità, e poi il presidente del tribunale avalla la candidatura. Intanto, così almeno in passato, nei loro curricula caricati online si leggeva che erano anche dirigenti di una comunità quindi se ancor oggi mancano controlli puntuali, non si può aver certezza che non esistano tuttora casi di incompatibilità. Un’altra denuncia che ho fatto dal 2013 è quella di comunità, per lo più a valenza terapeutica, che avevano rette talmente alte da arrivare a 400 euro al giorno per un minore, a fronte di servizi non particolarmente validi. A pagare sono le regioni o i comuni, talvolta con la co-partecipazione dei familiari dei minori».
Quanti minori in Italia sono stati allontanati dalla famiglia?
«Non c’è una raccolta dati esaustiva, anche se l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha chiesto di calcolare il numero dei minori adottabili. Ci sono però delle raccolte parziali. La più recente sostiene che ci siano oltre 20mila bambini in comunità, ma mancano i dati di quelli in affido familiare e il flusso nel relativo anno, dati che per esempio erano presenti in un altro report pubblicato nel 2011 parla di circa 15mila bambini in famiglia affidataria e 15mila in comunità. Si parla inoltre di un flusso di altri 10mila bambini entrati e già usciti dalle comunità nel corso del 2010. Quindi già allora si parlava concretamente di 40mila minori. Ad oggi manca una banca dati certa ed esaustiva, che contenga anche i motivi dell’allontanamento, che sono la cosa più importante. L’unico report che vi fa riferimento è quello del 2011, che parla come motivo principale (il 37 per cento dei casi) di “inadeguatezza genitoriale”, e all’interno di questa percentuale fa rientrare anche i problemi economici. Ma lo Stato non può allontanare i bambini per motivi di indigenza economica (legge 184 del 1983), piuttosto deve mettere a disposizione tutte le risorse possibili affinché il bambino non sia allontanato».
Che riscontro ha avuto finora nella sua attività?
«Ci sono operatori che lavorano con buonsenso, non vogliono far sprecare denaro pubblico né provocare traumi al bambino e si mettono a disposizione della famiglia. Ma ci sono anche quelli in cui trovi le porte chiuse, non si mettono in discussione, e si cerca di trovare comunque una linea comunicativa. Ma intanto passa il tempo. Spesso sono gli stessi servizi sociali che chiedono aiuto nell’interpretare le norme e de-istituzionalizzare il bambino, questa è la più grossa soddisfazione. Quando anche chi lavora nell’istituzione riconosce che c’è qualcosa che non va e prova a trovare una soluzione per il bambino, è la più grande vittoria, proprio perché si tiene ad una vera tutela del piccolo».
Dalla fiction alla realtà: quegli “amori strappati” da tribunali distratti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Aprile 2019 su Il Dubbio. La storia di un padre accusato ingiustamente di pedofilia raccontata da Canale 5. Il papà di Angela venne accusato di abusi sui minori e la bimba allontanata dalla famiglia per essere trasferita in una casa protetta.Ma l’uomo era innocente. La fiction “L’amore strappato”, liberamente ispirata al libro “Rapita dalla giustizia” di Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella, ha avuto il merito di attirare l’attenzione su un tema particolarmente complesso quale quello del contrasto ai reati a sfondo sessuale nei confronti dei minori. Lo sceneggiato in onda su Canale 5 racconta la storia di Angela Lucanto, allontanata dalla sua famiglia quando aveva sei anni a causa di un clamoroso errore giudiziario. Suo padre Salvatore venne accusato di molestie su minori ed arrestato il 24 novembre 1995. Angela, prelevata dai carabinieri mentre era a scuola, venne subito allontanata dalla famiglia per essere trasferita lontano in una casa protetta. Il padre, dopo aver passato due anni in carcere, nel 2001 venne però assolto dalla Cassazione per non aver commesso il fatto. I giudici di piazza Cavour appurarono infatti che la testimonianza della cugina della figlia, su cui si fondava l’accusa di pedofilia a suo carico, era completamente inventata. Nel frattempo Angela era stata affidata ad un’altra famiglia da cui venne poi anche adottata. Solo nel 2006, ad oltre dieci anni dall’arresto del padre e dopo un iter difficilissimo, la ragazza riuscì a rintracciare i propri genitori naturali. Errori giudiziari nelle indagini sui reati sessuali non sono purtroppo infrequenti. Il motivo è legato essenzialmente al modo in cui vengono condotte le indagini. Le sezioni specializzate su questi crimini negli Uffici giudiziari esistono solo da pochi anni. E lo stesso dicasi per i comandi di polizia e carabinieri che devono svolgere questo tipo di accertamenti. La particolare efferatezza di tali condotte delinquenziali necessita di inquirenti ed investigatori preparati, in grado di muoversi su un terreno reso delicatissimo dal reato stesso. I reati sessuali su minori, infatti, nella quasi totalità dei casi hanno la vittima come unico testimone. O, vedasi il caso di Angela, un coetaneo o un compagno di giochi. L’accusa ingiusta di essere un pedofilo è una macchia indelebile. Chi viene assolto esce comunque con la vita distrutta ( specie se è stato sottoposto alla carcerazione preventiva, dove i reati sessuali in genere sono gli unici per cui gli altri detenuti non applicano la presunzione di innocenza). Il Consiglio superiore della magistratura ha sul punto redatto delle best practice a cui attenersi nella conduzione dell’attività investigativa. Si ricorda nella scorsa consiliatura il lavoro, anche per quanto attiene la violenza di genere, della presidente della Sesta commissione Paola Balducci. Ma oltre ad una sempre maggiore specializzazione degli inquirenti non è da sottovalutare il ruolo degli assistenti sociali e degli psicologi. A tal proposito il Governo ha in agenda un approfondimento dell’intero comparto. Alcune proposte di modifiche sono state presentate in Parlamento. E non bisogna dimenticare il ruolo dei Tribunali per i minorenni su cui, ciclicamente, si apre la discussione per una loro chiusura, con conseguente assorbimento delle funzioni da parte dei Tribunali ordinari. C’è da augurarsi che una volta incardinati i lavori parlamentari, interrotti nella scorsa legislatura, essi procedano spediti. Per evitare il ripetersi di errori giudiziari come quelli raccontati nella fiction “L’amore strappato”.
Il giudice dimentica la perizia che assolve il papà accusato di pedofilia. L’uomo era stato condannato per presunti abusi nei confronti della figlia di due anni, scrive Simona Musco il 9 Marzo 2018 su Il Dubbio. Una perizia sconfessata dalla comunità scientifica e prove mai analizzate. Sono questi gli elementi che hanno portato alla revisione del processo per un imprenditore di 45 anni, condannato in via definitiva a sette anni e mezzo con l’accusa infamante di aver abusato della propria figlia, all’epoca dei fatti di soli due anni. Oggi per l’uomo si terrà la prima udienza del processo di revisione davanti alla Corte d’Appello di Brescia, chiamata a decidere se analizzare o meno le nuove prove che la difesa ha presentato convinta della sua innocenza. A partire dalle dichiarazioni di Claudia Squassoni presidente del collegio di Cassazione che rigettò il ricorso presentato da quel padre mettendo in cassaforte la condanna -, pronunciate durante un convegno all’università Bicocca il 14 ottobre 2016. Durante quel dibattito, Vittorio Vezzetti, pediatra ed ex consulente del condannato, parlò del caso e delle sue incongruenze, facendo saltare sulla sedia il giudice. «Se nel ricorso in Cassazione fossero state fatte le eccezioni che ha fatto il dottore disse Squassoni -, naturalmente avrebbe avuto un risultato diverso». Ma nel fascicolo c’era tutto. E ora tutto è stato riscritto nell’articolata richiesta di revisione firmata dall’avvocato Cataldo Intrieri, «basata sull’acquisizione di decisive prove scientifiche». Una richiesta accolta a luglio scorso e che contiene, tra le altre cose, la prova che la perizia che ha inchiodato l’uomo in tribunale non era scientificamente credibile. A stabilirlo una sanzione disciplinare inflitta il 26 gennaio 2017 dall’ordine degli psicologi della Lombardia al perito nominato dal tribunale di Como, censurato proprio per il suo lavoro in questo processo. La bambina, che oggi ha 9 anni, non ha infatti confermato nessun elemento dell’accusa durante l’incidente probatorio, definito perciò dal tribunale «deludente ed al di sotto delle aspettative, un insuccesso». I magistrati, dunque, chiedono un’altra perizia. Il nuovo consulente stila una relazione che ruota attorno alla fatidica domanda «dove ti ha fatto male papà?». Ma per l’ordine degli psicologi è inaccettabile, un manuale di tutto ciò che non andrebbe fatto. E dunque punisce il perito, che con quel documento, di fatto, ha accertato un disturbo clinico nella bimba giustificabile con un abuso. Il dottore, nel corso dell’audizione davanti all’ordine, fa un passo indietro, smentisce la sua relazione, ammette di non essere riuscito a effettuare una «intervista cognitiva» della piccola. Impossibile, dunque, dire cosa sia successo tra lei e il padre. E così tenta di sminuire il peso della sua perizia nel processo. Quella stessa perizia, sostiene Intrieri, che ha invece fatto condannare l’uomo. Ma non solo: i giudici che lo hanno giudicato sono gli stessi del caso Renato Sterio, accusato dalla moglie e dalla suocera e condannato nel 2005 per i presunti abusi sulla figlia di 4 anni. Scontò l’intera condanna prima di una revisione del processo e prima di essere riconosciuto innocente. Una coincidenza strana, per Intrieri: «Molto difficilmente diversi giudici avrebbero assunto le stesse decisioni». Gli abusi si sarebbero consumati nel 2010, nel periodo in cui i genitori della bambina decidono di separarsi. La situazione è ingarbugliata e conflittuale e i due si contendono l’affidamento della piccola. A luglio 2010 madre e nonna materna riferiscono alcune frasi che sarebbero state pronunciate dalla bimba e che testimonierebbero l’orrore: gli abusi compiuti dal padre utilizzando anche delle torce elettriche, sulle quali, però, non sono mai state eseguite analisi per rintracciare residui biologici. A supportare l’orribile tesi c’è la visita della pediatra di famiglia, che dopo aver «osservato – per sua stessa ammissione – “con un’occhiata” i genitali ne constatava la tumefazione ritenendola “compatibile”» con un abuso. Un esame avvenuto senza alcun criterio scientifico, senza referti né foto e senza nessuna esperienza pregressa del genere. «L’aspetto fondamentale di questa vicenda – spiega Intrieri – è che da un lato c’è la scienza, della quale non si tiene conto, dall’altra i giudici, che decidono di valutare secondo i propri parametri, svalutando il primo perito, che aveva evidenziato l’assenza di segni di trauma, e accogliendo le deduzioni del secondo, poi sconsacrato dal suo stesso ordine, fatto di scienziati. La cosa più drammatica – conclude – è il rifiuto che si possa mettere in dubbio la credibilità della parte offesa, sacrificando le garanzie costituzionali della difesa. Ad essere negata è ogni astratta possibilità di rigettare le accuse, basate su una perizia che crollando smonta tutto. Come se le prove scientifiche, in questo tipo di processi, non contassero nulla».
Palermo, accusato di abusi dalle figlie: assolto per due volte. Due processi in trent'anni per lo stesso reato. Il giudice ribalta la sentenza di primo grado dopo l'ultima denuncia, scrive Romina Marceca il 22 febbraio 2019 su La Repubblica. Accusato per due volte di avere abusato delle figlie, assolto per due volte nel giro di trent'anni. E' la storia di un padre di 57 anni, un operatore sociosanitario in un ospedale di Palermo. Per due volte è finito sotto processo per violenza sessuale. Nel primo caso era stata una figlia nata dal primo matrimonio, nel secondo è stata l'altra figlia di 13 anni. Il giudice della terza sezione d'appello Antonio Napoli ha assolto stamane il genitore perché il fatto non sussiste. La seconda vicenda ha inizio nel 2015 durante una lezione a scuola. Il tema trattato era la violenza sulle donne. La professoressa avrebbe notato un disagio da parte di una studentessa mentre veniva affrontato il tema. Era arrivata così una segnalazione alla psicologa dell'istituto. La giovane ha raccontato delle presunte violenze che sarebbero andate avanti per circa tre anni. Inizialmente la procura aveva archiviato. Poi dopo l'opposizione si era celebrato il processo con il rito abbreviato e il giudice aveva condannato il padre a 4 anni e 4 mesi. In appello sono state prodotte numerose prove da parte dell'avvocato Laura Salvaggio che hanno convinto i giudici dell'innocenza dell'imputato. Le false accuse mosse dalla ragazza sarebbero state dettate da un forte risentimento nei confronti della famiglia. Ma c'è di più. "Le accuse della figlia erano identiche a quelle rivolte dalla sorellastra anni fa, quasi un copione che si ripeteva", dice l'avvocato Laura Salvaggio. L’imputato scagionato oggi era già stato accusato alla fine degli anni Novanta anche da un’altra figlia, nata da un precedente matrimonio. Venne assolto in primo grado in quel caso. Il padre, secondo il racconto della seconda figlia, avrebbe abusato di lei anche davanti al fratello che, però, ha dichiarato di non avere mai visto nulla. Troppe incongruenze. Anche sulla fine delle violenze, cessate solo con uno schiaffo dato dalla figlia al padre.
Milano “come Bibbiano”, procedimento disciplinare per un’assistente sociale. Rec News il 17/07/2020. Dopo la segnalazione di un papà al CNOAS, è scattata la misura a carico di Silvia De Lorenzi per la presunta violazione di due articoli del Codice Deontologico. Secondo il genitore avrebbe redatto relazioni false. Non c’è solo Bibbiano quando si parla di allontanamenti ingiusti di minori dai loro nuclei familiari, di relazioni false e in alcuni casi sparsi qua e lá in Italia, di abusi. Il vaso di Pandora milanese, per esempio, l’ha scoperchiato in questi mesi Rec News (di seguito gli altri articoli) e sembra che ora la matassa stia per essere sbrogliata. Lo scorso 18 giugno è stato aperto un procedimento disciplinare a carico di Silvia De Lorenzi, l’assistente sociale già indagata per diversi possibili reati tra cui falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, calunnia e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Stando a quanto dichiarato da diversi genitori, l’interessata avrebbe redatto delle relazioni false, che negli anni sarebbero state la causa dell’ingiusto allontanamento di diversi bambini e bambine dalle loro famiglie. È un papà – il 31 gennaio di quest’anno – a inviare una segnalazione all’Ordine degli Assistenti Sociali, come riportato dal documento (firmato dalla Presidente facente funzione Francesca Megni) in cui si dà conto dell’avvio del procedimento disciplinare. “Quanto contenuto nella segnalazione – scrive il Consiglio Territoriale di Disciplina del CNOAS – descrive fatti ed episodi ritenuti di rilevanza disciplinare ai ni del procedimento. Il segnalante – procede il documento – dichiara che l’assistente sociale ha prodotto relazioni con contenuti falsi, attribuendo comportamenti delittuosi all’esponente”. Non ci sono – scrive il Collegio – elementi sufficienti ed esaustivi per una valutazione”. È scattato, dunque, il procedimento disciplinare a carico dell’assistente sociale per la presunta violazione degli articoli 26 e 30 del Titolo V (Capo I) del Codice deontologico. L’atto è stato dichiarato immediatamente esecutivo. Il procedimento, si legge, dovrà concludersi entro 540 giorni dalla data dell’atto, cioè a decorrere dal 18 giugno 2020.
Comunità rossa del Forteto, il pm: “Ho pianto scoprendo quello che hanno fatto ai bambini”. Carlo Marini lunedì 22 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. “La vicenda dibattimentale è iniziata il 4 ottobre 2013. Io sono entrata nel processo alla fine delle indagini preliminari. Ho partecipato alla redazione di avviso di conclusione delle indagini preliminari”. Ricordo “l’estate del 2012 come quella in cui ho le gli atti e le carte e l’ho passata spesso piangendo. Da sola nella mia stanza quando leggevo gli atti che riguardavano bambini mandati al Forteto. Atti, spesso del tribunale per i minorenni. Più brevi e meno motivati dei miei decreti di sequestri di droga relativi a ignoti indagati”. Lo ha detto il sostituto procuratore presso il Tribunale di Firenze, Ornella Galeotti. Il magistrato è intervenuto in Commissione parlamentare di inchiesta sui fatti accaduti presso la comunità “Il Forteto”. “Il processo del Forteto ha attraversato la vita del mio ufficio e del tribunale di Firenze in maniera insolita per un processo che non riguarda l’area Dda”, ha sottolineato Galeotti. “Il tribunale di Firenze ha assicurato il massimo dello sforzo e siamo riusciti ad arrivare in fondo, nonostante una serie di turbative importanti, gravi e difficili da neutralizzare”.
“Per trent’anni lo scandalo pedofilo in Toscana è stato coperto”. “Come ho detto anche in aula, in Toscana per 30 anni si è assistito alla sospensione di tutte le regole e le leggi in questa materia”. Nel corso dell’audizione Galeotti ha inoltre sottolineato che i “servizi sociali avvisavano prima di andare”. E che “non c’era nessun tipo di controllo istituzionale”. Il motivo? Perché il Forteto era solo una cooperativa agricola. Non era una casa famiglia, né un istituto per minorenni”. Ma “nei confronti del Forteto nessuno ha sollevato una sola questione”, ha proseguito. Coronavirus: 23 morti, mai così pochi dal 2 marzo. Il virologo Clementi: “Entro luglio zero contagi”.
Scandalo rosso del Forteto: le verità nascoste. Il Forteto nasce negli anni ’70 dalla spinta ideologica del ’68. L’idea di una vita comunitaria a contatto con la terra e la natura si è trasformata presto in un luogo dove si sono commesse le peggiori angherie. Bambini con situazioni difficili affidati dai magistrati e poi abusati. Non si parla solo di abusi fisici, ma anche psicologici e sociali che hanno coinvolto anche le persone entrate in buona fede per lavorare e scappate per disperazione. E pensare che per anni le istituzioni della sinistra l’hanno incensata presentandola come un esempio. Il Forteto è stata una vera e propria setta.
Il guru Fiesoli, pluricondannato. Rodolfo Fiesoli (nella foto), 78 anni, fondatore della comunità ”Il Forteto”, al centro di varie inchieste per maltrattamenti e violenza sessuale, è stato condannato a pene che complessivamente superano i venti anni di reclusione. La comunità è sempre stata sostenuta (e coperta) dalla sinistra toscana, tanto da avere fino a qualche tempo fa anche uno stand alla Feste dell’Unità fiorentine.
Bibbiano, chiusa inchiesta sugli affidi illeciti: chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone. "Angeli e demoni", l'accusa cita 155 testimoni; una cinquantina le parti offese. L'avvocato di Anghinolfi: "Finalmente potrà difendersi davanti a un giudice". La Repubblica il 23 giugno 2020. La Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone nell'ambito dell'inchiesta 'Angeli e Demoni' sugli affidi illeciti a Bibbiano, in Val d'Enza. Sono 155 i testimoni citati dall'accusa, 48 le parti offese, tra cui l'Unione dei Comuni Val d'Enza, i Comuni di Gattatico e Montecchio, ministero della Giustizia e Regione Emilia-Romagna. L'inchiesta è stata seguita dai carabinieri, coordinati dal pm Valentina Salvi. L'udienza preliminare è fissata per il 30 ottobre davanti al Gup del tribunale di Reggio Emilia Dario De Luca Tra i testimoni citati dall'accusa, oltre agli investigatori dei carabinieri che hanno seguito l'indagine, il giornalista-scrittore Pablo Trincia, la direttrice della fondazione emiliano-romagnola per le vittime di reato Elena Buccoliero, l'ex giudice minorile di Bologna Francesco Morcavallo, il direttore generale dell'Ausl di Reggio Emilia Fausto Nicolini. In sede di udienza preliminare "Federica Anghinolfi potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti ad un Giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora", scrive l'avvocato Rossella Ognibene, legale dell'ex responsabile dei Servizi sociali dell'Unione Val d'Enza reggiana, una delle figure chiave dell'inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi. "In quella sede affronteremo, tra l'altro e in prima analisi, tutte le anomalie delle accuse rivolte alla dottoressa Anghinolfi. Sarà un Tribunale a valutare accuse e difese e sarà la decisione di un giudice a stabilire l'eventuale rinvio a giudizio che, nel caso, darà luogo a un legittimo processo nella aule di Giustizia", prosegue la difesa.
“Angeli e Demoni”, dallo show mediatico al Tribunale: «Finalmente potremo difenderci». Simona Musco su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Il presidente del Tribunale dei minori: «Noi parte lesa, ora lasciamo che siano le sentenze a parlare». L’inchiesta sui presunti affidi illeciti, da tutti conosciuta impropriamente come “Caso Bibbiano”, arriva per la prima volta davanti ad un giudice. Con l’udienza preliminare fissata il prossimo 30 ottobre davanti al Gup di Reggio Emilia, che dovrà decidere se rinviare a giudizio le 24 persone coinvolte nell’indagine “Angeli e Demoni” per le quali il pm Valentina Salvi ha chiesto il processo. Uno snodo cruciale, dopo mesi di polemiche e di campagne elettorali, costruite dalla destra col pretesto della presenza, tra gli indagati, di un sindaco del Pd – Andrea Carletti – per il quale ora è stato chiesto il giudizio. Ma lungi dall’essere accusato di “traffico di bambini”, Carletti rischia il processo per falso e abuso d’ufficio. Nulla a che vedere, dunque, con l’identikit del mostro cucitagli addosso e che gli è valso mesi di gogna mediatica, cavalcati dalla Lega in vista delle regionali – poi perse -, senza sfiorare minimamente il campionario degli orrori ipotizzato dai capi d’imputazione, che sono in totale 107.
“Angeli e Demoni”: si va verso il processo. Il dibattimento si preannuncia mastodontico, con 155 testimoni citati dall’accusa e 48 parti offese, tra le quali il ministero della Giustizia, la Regione Emilia Romagna e l’Unione dei Comuni della Val d’Enza. L’inchiesta, a giugno dello scorso anno, è stata presentata come un film horror fatto di lavaggi del cervello, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per alterare «lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari» e sottrarre bambini a famiglie innocenti col solo scopo di guadagnare col sistema degli affidi, per un business da circa 200mila euro. Nelle 78 pagine firmate dal pm Salvi l’imputata principale risulta essere Federica Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali della val d’Enza, che porta sul groppone una sessantina di capi d’imputazione sui 107 messi nero su bianco dalla procura: dal falso ideologico alla frode processuale, passando per violenza privata, falsa perizia ed abuso d’ufficio. Trattata pubblicamente come un orco senza diritto al contraddittorio, adesso, afferma Rossella Ognibene, componente del collegio difensivo, «Federica Anghinolfi potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti ad un Giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora. In quella sede affronteremo – tra l’altro e in prima analisi – tutte le anomalie delle accuse rivolte alla dottoressa Anghinolfi. Sarà un Tribunale a valutare accuse e difese e sarà la decisione di un Giudice a stabilire l’eventuale rinvio a giudizio che, nel caso, darà luogo a un legittimo processo nella aule di Giustizia».
Tribunale dei minori parte lesa. L’altro aspetto riguarda il Tribunale dei minori, inizialmente tirato in ballo da chi riteneva che ci fosse quantomeno negligenza da parte di magistrati e giudici e ora riconosciuto come parte lesa, vittima di frode processuale, depistaggio ed induzione in errore in oltre una decina di capi d’accusa. «Dall’inizio di questa bruttissima vicenda, ho sempre detto in ogni sede che chi ha sbagliato e ne sia accertata la responsabilità penale, che è sempre personale, deve essere punito ed anche severamente, senza sconti – ha commentato Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori -. E questo perché i bambini sono sacri e le loro le famiglie pure, quando però funzionanti. Se dovessero risultare colpevoli sarei profondamente indignato, perché loro sanno essere la nostra longa manus sui territori e le loro relazioni fanno prova fino a querela di falso, spero davvero che nessuno, in nome di un interesse economico o di una perversa ideologia, possa giungere a tanto. Personalmente, avuta la notizia dell’indagine rivisitai autonomamente ed immediatamente, ad uno ad uno, tutti i fascicoli che vedevano coinvolti quegli operatori di quel servizio sociale assumendo, ove si imponeva, ogni necessaria decisione, e questo perché a me e a tutti i giudici minorili di Bologna stanno veramente a cuore quei bambini, come stanno a cuore tutti quelli per i quali siamo chiamati ad intervenire. La circostanza che la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati sia stata notificata al ministero, con ciò ravvisando, di fatto, nel Tribunale che presiedo, la parte offesa, è un elemento più che significativo di conferma e non aggiungo altro. Ora occorre lasciare lavorare in serenità i giudici penali e attendere l’esito del processo, sino alla Cassazione. Saranno le sentenze penali a parlare».
Violenze sui bimbi di Bibbiano. "Processate il sindaco dem". A Carletti contestati abuso d'ufficio e falso ideologico. Chiesto il rinvio a giudizio per altri 23 indagati. Chiara Giannini, Mercoledì 24/06/2020 su Il Giornale. C'è anche il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, tra le 24 persone per cui la Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio nell'ambito dell'inchiesta «Angeli e Demoni» sugli affidi illeciti in Val d'Enza. Uno dei capitoli più brutti della storia di un'Italia in cui i bambini dovrebbero essere tutelati e, invece, venivano strappati alle famiglie con scuse e sotto violenza psicologica. I testimoni citati dall'accusa sono 155, le parti offese 48, tra cui i Comuni di Gattatico e Montecchio, l'Unione dei Comuni della Val d'Enza, il ministero della Giustizia e la Regione Emilia Romagna. Oltre al sindaco, per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per reati legati alla sua funzione di amministratore e che si era autosospeso dal Partito democratico, risultano imputati, nell'inchiesta condotta dai carabinieri sotto il coordinamento della pm Valentina Savi, altri protagonisti dello scandalo legato a Bibbiano. Tra tutti Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, ma anche la psicoterapeuta Nadia Bolognini e il marito Claudio Foti della Onlus Hansel&Gretel, oltre che l'ex sindaco di Montecchio Paolo Colli e la funzionaria del Comune di Reggio Daniela Scrittore. Per Carletti i reati contestati sono l'abuso d'ufficio e il falso ideologico, per aver affidato il servizio della psicoterapia al personale di «Hansel&Gretel» «senza procedura pubblica» e per aver fatto attestare il falso all'Unione dei Comuni negli anni che vanno dal 2016 al 2018. Il sindaco aveva vinto il ricorso al Tribunale del Riesame e aveva ottenuto la revoca del provvedimento dei domiciliari. Per tutti gli altri si parla, a vario titolo, di abuso d'ufficio, peculato d'uso, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l'altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. A gennaio la Procura aveva notificato a 25 persone la chiusura delle indagini, quindi la posizione di uno degli indagati sarà sicuramente archiviata. L'inchiesta era però partita con 27 nomi su cui i carabinieri hanno fatto approfondimenti, alcuni dei quali hanno chiarito le loro posizioni. Agli atti, nell'inchiesta, restano le tremende violenze psicologiche subite dai bambini, allontanati dalle famiglie d'origine dopo un lavaggio del cervello che li convinceva di aver subito molestie anche sessuali. Ma anche una chat in cui è palese che ai minori non venivano fatti arrivare i regali delle famiglie naturali e che venivano convinti che i genitori li disconoscessero e non li volessero più.
Un'inchiesta che ha sconvolto l'Italia e che ha fatto iniziare una dura battaglia politica anche da parte del centrodestra che da mesi chiede giustizia. «La nostra battaglia per chiedere verità e giustizia - ha commentato la leader di Fdi Giorgia Meloni - non era campata in aria. La sinistra ha tentato in tutti i modi di minimizzare e insabbiare lo scandalo». E la capogruppo al Senato di Fi, Anna Maria Bernini: «La notizia della richiesta di rinvio a giudizio è positiva. Sui fatti di Bibbiano abbiamo bisogno di verità e giustizia». Il leader della Lega Matteo Salvini ha aggiunto: «Non era un raffreddore, dal Pd e dintorni dovrebbero farsi un esame di coscienza per l'arroganza e la superficialità con cui hanno liquidato il dolore di troppe famiglie». L'udienza per i rinviati a giudizio è stata fissata per il prossimo 30 ottobre. Il legale della Aghinolfi ha chiarito: «Potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti a un giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora».
Maurizio Tortorella per "La Verità" il 24 giugno 2020. Chissà come si sarà sorpreso Nicola Zingaretti, scoprendo che tra le 24 richieste di rinvio a giudizio presentate ieri per i presunti allontanamenti illeciti di Bibbiano c'è anche quella del sindaco del Pd, Andrea Carletti. Lo scorso dicembre, quando la Cassazione aveva annullato gli arresti domiciliari del sindaco, il segretario del Pd aveva tratto da quel passaggio tecnico la certezza di un'assoluzione: «La campagna indecente contro Carletti e contro il Pd non si dimentica», s' era indignato Zingaretti: «Ora chi chiederà scusa a lui e alle persone messe alla gogna ingiustamente?». Invece la Procura di Reggio Emilia, per mano del sostituto Valentina Salvi, ha chiesto il processo anche per Carletti. Gli vengono contestati l'abuso d'ufficio aggravato e il falso ideologico, gli stessi reati per i quali il 27 giugno 2019 era finito agli arresti domiciliari. Anche i capi d'accusa sono sempre quelli: senza una regolare gara, Carletti avrebbe messo a disposizione degli psicologi del Centro Hansel e Gretel di Moncalieri la struttura comunale «La Cura» di Bibbiano, e avrebbe poi assicurato loro «l'ingiusto profitto di 135 euro l'ora per ogni minore, a fronte del prezzo medio di mercato delle medesime terapie di 60-70 euro l'ora, e nonostante l'Azienda sanitaria di Reggio Emilia potesse farsi carico gratuitamente del servizio». Non si tratta di cifre da poco: soltanto per le terapie, la Procura stima una spesa di oltre 200.000 euro dal 2014 al 2018. Da mesi, un po' anche per l'insistente minimizzazione del caso (e per la scarsa copertura mediatica decisa da tv e «giornaloni»), lo scandalo di Bibbiano e le dure polemiche che ne erano seguite parevano finiti nel nulla. Non si sapeva più niente dei bambini strappati alle loro famiglie, e a volte maltrattati dagli affidatari. Sembravano evaporate anche le sconvolgenti intercettazioni delle sedute di terapia, spesso trasformate in terrorizzanti messe in scena dagli psicologi, travestiti da personaggi cattivi delle fiabe al solo scopo d'instillare nei piccoli pazienti la falsa rappresentazione di genitori violenti. In silenzio, invece, malgrado la pandemia e la lunga chiusura degli uffici giudiziari, il pm Salvi e i carabinieri di Reggio Emilia hanno continuato a lavorare. L'udienza preliminare, da cui usciranno gli eventuali i rinvii a giudizio e il processo vero e proprio, inizierà venerdì 30 ottobre davanti al giudice Dario De Luca. Sono 155 i testimoni citati dall'accusa, e sono 48 le parti offese, tra cui l'Unione dei Comuni della Val d'Enza e il ministero della Giustizia in rappresentanza del Tribunale dei minori di Bologna. Tra le parti civili sarà anche la Regione Emilia-Romagna, che pure nell'autunno 2019 aveva varato una commissione tecnica su Bibbiano, il cui presidente Giuliano Limonta aveva definito il caso «un raffreddore». Dopo il Coronavirus, forse, la giunta di Stefano Bonaccini ci ha ripensato. Gli indagati principali, oltre a Carletti, sono gli stessi personaggi descritti dalle torride cronache dell'estate e dell'autunno 2019: Federica Anghinolfi, l'ex responsabile dei Servizi sociali dell'Unione dei Comuni della Val d'Enza; il suo «vice» Francesco Monopoli; lo psicologo di Pinerolo Claudio Foti, fondatore della onlus piemontese Hansel & Gretel; sua moglie Nadia Bolognini, a sua volta psicoterapeuta. Gli indagati per cui la Procura chiede il rinvio a giudizio sono 24, per oltre 100 capi d'imputazione. I reati contestati loro, a vario titolo, sono molti e gravi: peculato, abuso d'ufficio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Per Foti, in particolare, alle accuse iniziali di concorso in abuso d'ufficio e di frode processuale s' è aggiunta una terza ipotesi di reato: le lesioni personali gravissime nei confronti di una piccola paziente. A fornirne la «prova tecnica», paradossalmente, sono state le video-registrazioni delle sedute dello psicologo con alcuni bambini, depositate in tribunale dal suo avvocato. Rispetto ai 25 indagati individuati lo scorso 13 gennaio, all'atto della chiusura delle indagini preliminari, ce n'è uno in meno perché è stata stralciata la posizione di Matteo Mossini, lo psicologo dell'Asl di Montecchio distaccato presso i servizi sociali della Val d'Elsa e accusato di falso ideologico. La Procura pare intenzionata a chiedere l'archiviazione. Il suo ruolo era obiettivamente secondario, rispetto a quello di altri indagati, ma di Mossini le indagini e le cronache avevano sottolineato un aspetto «ideologico», racchiuso nella sprezzante frase «una roba scritta da quattro pedofili» con cui (in un dialogo intercettato) aveva definito la «Carta di Noto», cioè il protocollo deontologico per gli psicologi che devono occuparsi di presunti abusi su minori. Un'altra indagata già uscita dal procedimento è l'ex assistente sociale Cinzia Magnarelli, che aveva ammesso di avere redatto in modo distorto i verbali relativi ad alcuni bambini. Lo scorso febbraio la donna ha patteggiato 1 anno e 8 mesi di reclusione: con lei la Procura inizialmente aveva concordato una pena più generosa, 1 anno e 4 mesi, ma il giudice Andrea Rat l'aveva ritenuta incongrua. Era stata lei a descrivere puntualmente il «metodo Bibbiano», sostenendo le fosse stato imposto dai superiori e in particolare dall'ex dirigente dei Servizi sociali Federica Anghinolfi. Che ieri è stata la prima a commentare la richiesta di rinvio a giudizio: «Potrà finalmente esercitare appieno il suo diritto di difesa davanti a un giudice in tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino a ora», hanno dichiarato suoi difensori. Le garanzie sono fondamentali, è ovvio. Ma altrettanto fondamentale è che su Bibbiano, e sulle tante patologie della giustizia minorile, non cada di nuovo il silenzio.
Bologna, il pg: «A Bibbiano nessun sistema: politica c’ha messo del suo». Errico Novi l'1 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Pesante invettiva del procuratore generale De Francisci all’inaugurazione dell’anno giudiziario nella Corte d’appello del capoluogo emiliano: «Le suggestioni su "Angeli e demoni" favorite anche da un giornalismo pressappochista». E dal presidente della Corte d’Appello Aponte «no a messaggi che sviliscono Tribunale minori». «Si è trattato di casi circoscritti territorialmente, peraltro tutti ancora al centro di un procedimento penale giunto alla fine delle indagini» e «quindi pronto per la verifica dibattimentale». Il pg di Bologna Ignazio De Francisci riporta l’ordalia sull’inchiesta “Angeli e demoni” sulla terra dell’accertamento giudiziario. La tira giù dall’iperuranio dello scandalismo mediatico, con una acuminatissima stoccata a chi ha strumentalizzato politicamente il caso dei minoro in affido. Lo fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto del capoluogo emiliano. Proprio quella “concentrazione territoriale, dice il pg, «ha diffuso l’idea che esista un generalizzato sistema Bibbiano, complice una informazione giornalistica non sempre misurata e a volte pressapochista. La polemica politica poi ci ha messo del suo, ma su questo è meglio tacere», è appunto la chiosa tagliente di De Francisci. Sull’attività giudiziaria civile minorile del distretto, comunque, l’indagine sugli affidi in Val d’Enza «ha avuto forti ripercussioni», secondo il procuratore generale, innanzitutto perché «ha imposto un doveroso controllo sui casi interessati», in tutto «otto». Due di questi sono stati definiti con decreto del Tribunale non impugnato dai genitori, in cinque casi si sono avuti collocamenti extra familiari». Il pg, infine, ha spiegato che «si è operato da parte della Procura minorile una attenta valutazione in merito agli effetti sulle decisioni giudiziarie delle ipotizzate azioni delittuose. Ebbene», ha chiarito, «l’esito di tali valutazioni autorizza a ritenere che l’esercizio dell’attività giudiziaria non abbia subito compromissioni di rilievo derivanti dalle condotte oggetto di indagine penale». Una considerazione di grande peso. Così come quelle di Roberto Aponte, presidente vicario della Corte d’appello di Bologna: ««L’unico ed essenziale dato che va in questa sede fortemente ribadito è che va combattuto il messaggio volto a svilire l’istituzione Tribunale per i minorenni, descritto», ha incalzato Aponte, «come uno strumento cieco di coloro che vogliono togliere i figli ai genitori. Viceversa uno scopo perseguito» dal Tribunale per i minorenni, secondo il presidente, è «quello di salvaguardare i minori, se è assolutamente necessario, anche nei confronti della famiglia naturale, ipotesi questa purtroppo non infrequente». Aponte ha quindi concluso che «è sicuramente necessario rafforzare i servizi di sostegno alla genitorialità, investire nella formazione e supervisione di chi opera nel campo delle fragilità famigliari, evitando decisioni troppo solitarie o basate sugli stereotipi del buon genitore e soprattutto della buona madre». Così come, secondo il presidente vicario della Corte d’appello di Bologna, «è anche necessario non adagiarsi nell’idea che la famiglia naturale sia sempre e comunque il luogo più sicuro e migliore in cui crescere. Non sempre purtroppo è così».
A Bibbiano nessun rapimento: gli interventi dei servizi sociali erano doverosi. Simona Musco il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. In almeno due casi la decisione del tribunale dei minori non è stata contestata. Nessun rapimento a Bibbiano. E nessuna complicità da parte del Tribunale dei minori di Bologna, che ha agito sempre in autonomia, a prescindere dalle conclusioni dei servizi sociali. Una certezza arrivata, nei giorni scorsi, dalle parole del procuratore generale di Bologna, Ignazio De Francisci, che nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ha chiarito che, in almeno un paio di casi, non solo i minori non sono stati allontanati dalle madri, ma i padri, una volta stabilita la decadenza della patria potestà, non hanno fatto alcun tipo di ricorso. Di fatto accettando di non essere più considerati, legalmente, i genitori dei propri figli. Nella sua relazione, De Francisci ha difeso il presidente del Tribunale dei minori Giuseppe Spadaro, preso di mira per aver smentito l’esistenza di un sistema e aver parlato piuttosto, di anomalia, senza, dunque, avallare la delegittimazione di tutti i servizi sociali e dell’intera giustizia minorile. Una posizione a difesa delle istituzioni condivisa anche dal pg, secondo cui il sistema sarebbe invece frutto di un’informazione «pressapochista» e della «polemica politica». Ma le sue parole hanno anche fatto chiarezza su alcuni degli otto casi finiti nell’inchiesta. Partendo da una precisazione: le segnalazioni sulle difficoltà dei minori arrivavano da contesti scolastici o sanitari e, dunque, ben prima del coinvolgimento dei servizi sociali della Val d’Enza. Gli interventi del Tribunale, dunque, «sono risultati del tutto doverosi». Il primo caso è quello di Angelo e Sara (i nomi sono di fantasia), finiti nel circolo dei servizi sociali a seguito di una denuncia della madre nei confronti dell’ex marito nel 2013, poi archiviata per insostenibilità dell’accusa in giudizio. In quell’occasione, la donna riferì ai Carabinieri una confidenza fattale da Angelo, ovvero di aver subito abusi dal padre nel periodo in cui vivevano in un’altra regione. Da qui il coinvolgimento, da parte del Tribunale dei minori, dei servizi sociali, con i bambini sempre in custodia alla madre e con l’organizzazione di incontri protetti con il padre. Per l’accusa, gli assistenti sociali avrebbero forzato la mano nelle relazioni, documentando un falso affido di sostegno smentito sia dalla presunta affidataria sia dalla madre dei ragazzi. Ma dai documenti emerge anche come di fronte alla pronuncia della decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale lo stesso non abbia presentato alcuna eccezione difensiva, limitandosi a proporre appello, salvo poi non comparire in udienza e costringendo, dunque, i giudici a dichiarare improcedibile il ricorso. E nessun’altra forma di protesta sarebbe giunta al Tribunale dei minori. Situazione simile a quella dei casi contestati allo psicoterapeuta Claudio Foti, accusato di aver condotto le proprie sedute con modalità «suggestive e suggerenti», di fatto inducendo la minore a confessare un abuso successivamente negato davanti ai magistrati. Il caso riguarda due sorelle, Veronica e Viola (anche qui nomi di fantasia), affidate ai servizi sociali dopo la segnalazione, da parte della scuola, circa comportamenti autolesionistici e aggressivi da parte di Viola. Da qui, ancor prima dell’intervento di Foti, sono partiti gli accertamenti del Tribunale, davanti al quale le due giovani hanno affermato di vedere il padre solo perché obbligate dalla madre e non per volere personale. Le successive relazioni dei servizi sociali hanno documentato i presunti abusi subiti da Veronica a 4 anni da parte di un amico del padre e, successivamente, un rapporto non completamente consenziente con un fidanzatino, nonché atteggiamenti ambigui da parte del padre nei confronti di Viola. Il Tribunale ha così sospeso la potestà genitoriale del padre, disponendo un intervento psicologico, il tutto mentre le ragazze sono rimaste sempre insieme alla madre, così come prima del coinvolgimento dei servizi sociali. Madre che, in un colloquio preliminare con Foti, aveva riferito le circostanze sospette, compresi gli abusi confidati dalla figlia, confessioni poi attribuite dalla stessa al “metodo Foti”. Nel 2017 la pronuncia del Tribunale: decadenza della responsabilità genitoriale per il padre. Una decisione, anche in questo caso, di fronte alla quale nessuno ha opposto resistenza.
Bibbiano, la fake dei “bimbi rapiti” e quel padre che ammise: «Sono stato violento». Simona Musco il 6 febbraio 2020 su Il Dubbio. Il piccolo era stato segnalato al tribunale dei minori dalla scuola, dopo un disegno che faceva riferimento a presunte violenze subite dalla madre per mano dell’uomo. C’è un bambino, nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi in Val d’Enza, tirato in ballo per costruire una polemica tra la Procura di Reggio Emilia e il Tribunale dei minori di Bologna. Una diatriba fabbricata sui giornali, assieme al “sistema Bibbiano”, poche settimane dopo l’esecuzione delle misure cautelari e che ha contribuito a creare la fake news dei rapimenti. Il caso è quello del piccolo Giulio (nome di fantasia), segnalato per una presunta violenza assistita che ha messo in moto la macchina della giustizia minorile. Un sospetto comunicato dalla scuola al Tribunale, che ha così allontanato per sette mesi il bambino dal padre – che poteva vederlo in modalità protetta -, lasciandolo assieme alla madre per tutto il periodo degli accertamenti. Mai, dunque, è stato separato dai genitori. E nemmeno è stato “restituito” alla propria famiglia dopo l’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, intervenuta quando l’iter si era già concluso. Ma non solo, nell’ordinanza manca un passaggio, forse quello fondamentale: ovvero le ammissioni fatte dal padre davanti al Tribunale dei minori. Tutto comincia ad ottobre del 2018, quando il Tribunale dei minori decide di collocare il bambino, assieme alla madre, in una struttura protetta, con la possibilità di vedere il padre in modalità controllata. In mano ai magistrati che lavorano al caso ci sono le segnalazioni delle insegnanti del piccolo, allarmate da un disegno che, stando a quanto affermato dallo stesso bambino, si riferisce ad un momento di violenza del padre sulla madre. Un bambino descritto dalle stesse insegnanti come molto triste, malnutrito e con denti cariati fino alle gengive. Da qui l’accertamento presso la procura di Reggio Emilia circa i precedenti penali dell’uomo. La comunicazione tra i due uffici risiede in questo passaggio: è in quel momento che il pm Valentina Salvi, titolare dell’indagine “Angeli e Demoni”, invia a Bologna la nota che certifica che il padre del bambino non ha precedenti per violenza in famiglia. Una nota che, dunque, non aggiungerebbe nulla sulle indagine a carico degli assistenti sociali.Sull’uomo, in mano alla procura di Reggio Emilia, come accerta la stessa ordinanza, ci sono solo alcuni precedenti datati nel tempo per guida in stato di ebbrezza. E più volte, nel ripercorrere la storia del bambino, il gip afferma che «non è possibile certamente escludere, alla stregua degli atti, che effettivamente il bambino abbia assistito ad un’aggressione violenta ad opera del padre in danno della madre». Ma il dato principale è che a muovere il Tribunale dei minori non sono le relazioni – giudicate, almeno in parte, «difformi dal vero» – dei servizi sociali. Alla base del provvedimento, infatti, c’è l’istruttoria effettuata dai magistrati minorili, davanti ai quali il padre del bambino ammette di essere stato segnalato più volte per rissa, al punto da sottoporsi volontariamente ad un percorso di recupero presso un centro per uomini maltrattanti. Una ammissione pacifica, dunque, del problema che ne giustifica l’allontanamento. Ma non solo: l’uomo ammette anche l’abuso di alcol e le liti con la moglie davanti al piccolo, deprecando il proprio stesso comportamento e promettendo di redimersi. E in effetti ce la fa: il percorso di recupero dell’uomo si conclude dopo qualche mese, a maggio, consentendo, dunque, il rientro della famiglia a casa. Riunita, dunque, un mese e mezzo prima del blitz che ha sconvolto l’Emilia Romagna e il mondo degli affidi. Nessun rapimento e, soprattutto, nessuna complicità nei reati contestati a servizi sociali da parte del Tribunale di Bologna. Che però ha pagato per tutti: con la mancata promozione del presidente Giuseppe Spadaro alla procura minorile di Roma e con il procedimento disciplinare a carico del pm Simone Purgato. “Colpevole” di aver reagito con troppa foga all’accusa di aver ignorato la comunicazione arrivata da Reggio Emilia.
Teorema Bibbiano: «Vi racconto il mio inferno». La storia dell’avvocato indagato e archiviato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Simona Musco il 7 febbraio su Il Dubbio. Marco Scarpati per tre mesi si è sentito chiamare “mostro”. Il suo nome è finito nell’indagine “Angeli e Demoni”, che ha acceso i riflettori su un presunto giro di affidi illeciti. Una vicenda sfruttata dal centrodestra per la campagna elettorale delle regionali in Emilia, contro un presunto “sistema Pd” in realtà inesistente. Perché la politica, in questa vicenda, non c’entra nulla. Se non con la sua strumentalizzazione, costata a Scarpati – totalmente scagionato dalle accuse e uscito dalla vicenda con un’archiviazione – mesi di gogna mediatica, isolamento e sofferenza. Tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, l’avvocato Scarpati era accusato di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. E anche ora che tutto è finito gli effetti della macchina dell’odio, dice, continuano.
Quando per il pm quei “demoni” erano gli angeli di Bibbiano. Simona Musco l'8 febbraio su Il Dubbio. Gli stessi assistenti sociali dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza avevano aiutato la Procura a scoprire una madre che faceva prostituire la figlia. C’è un caso zero, a Bibbiano, dal quale tutto, forse, è partito. Un caso di prostituzione minorile accertato, dove la vittima è una ragazzina di 15 anni, costretta dalla madre ad avere rapporti sessuali con uomini adulti. Un vicenda finita con la condanna della donna, proprio grazie all’intervento dei servizi sociali della Val d’Enza, oggi travolti dallo scandalo “Angeli e Demoni”. Gli stessi protagonisti, gli stessi personaggi, ieri ritenuti credibili, oggi, invece, in aula come imputati, accusati di aver strappato i bambini alle proprie famiglie solo per lucrare con affidi non necessari dalla Procura di Reggio Emilia. Sara – nome di fantasia – vive a Bibbiano, vuole imparare a gestire un negozio e va a scuola. Ma le sue assenze, nel 2012, sono sempre più frequenti, tanto che la scuola si vede costretta a segnalarla ai Servizi sociali. A seguirla è Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali tra gli imputati dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Sara non racconta subito la sua storia: i primi approcci con i servizi lasciano intravedere lo spaccato di una famiglia difficile, nota anche ai Carabinieri per la situazione conflittuale, che non si placa nemmeno dopo la separazione dei genitori. Ma tutto sembra limitarsi a questo. La verità viene fuori solo un anno e mezzo dopo, a ottobre 2013: la psicologa del Servizio famiglia segnala un sospetto abuso, ammesso dalla giovane dopo qualche seduta. E ciò che rivela è raccapricciante: ovvero di essere costretta a prostituirsi dalla madre, per far quadrare i conti a fine mese. Tutto comincia con un annuncio pubblicato su una rivista locale, nella sezione escort, consegnato alla redazione proprio dalla madre, con tanto di carta di identità allegata. Una 18enne di bella presenza, si legge, offre compagnia a uomini e donne italiani, tra i 20 e i 35 anni. La madre guarda la segretaria, giura che non si tratta della ragazzina vicino a lei, lascia l’annuncio pronto per la stampa e va via. Pochi giorni dopo arriva la prima chiamata, la prima di una lunga serie, che fa scivolare Sara in un inferno dal quale non riesce a svincolarsi, legata com’è alla madre da affetto e senso di colpa, incapace di opporsi alle sue richieste. Sono circa venti le persone che incontra, alcune più volte, per un totale di circa 8mila euro. Soldi che Sara consegna sempre alla madre, senza tenere per sé nemmeno uno spicciolo. La regola è una, la stessa che si sente ripetere sin da bambina: «quello che ti chiedono devi farlo». Una regola che le viene imposta anche quando viene costretta ad avere il suo primo rapporto con il fidanzatino, a soli 12 anni. Solo quando racconta tutto ai servizi sociali, dunque, Sara va via di casa, senza tornarci mai più. A confermare la storia sono le intercettazioni, le testimonianze dei clienti – alcuni dei quali non consapevoli della minore età della ragazza – e, soprattutto, la testimonianza di Sara, il cui racconto, appuntano i giudici in sentenza nel 2016, presenta le caratteristiche di «coerenza, linearità, precisione, assenza di enfatizzazione». Parole supportate, per i giudici, dalle relazioni di Monopoli, della psicologa e della psicoterapeuta della onlus “Hansel& Gretel” Nadia Bolognini, anche lei indagata nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Preziosissimi, secondo il tribunale e la procura, che testimoniano un disturbo post traumatico da stress, provocato da un vissuto molto pesante accompagnato da profondi sensi di colpa. E quelle conclusioni vengono vidimate anche dal consulente della procura che, testualmente, mette nero su bianco la «condivisione di pensiero». Lo stesso consulente oggi utilizzato dalla Procura di Reggio Emilia contro i Servizi sociali. Ma non solo: anche in questo caso, come negli altri casi del “sistema Bibbiano”, i servizi sociali decidono di non dare a Sara i regali spediti dalla madre. «Si trattava di tre completi intimi in pizzo, accompagnati da orecchini vistosi, un profumo e un biglietto con scritto “Sara quando li indossi pensami” – si legge nella sentenza -. Tale atteggiamento sessualizzato e seduttivo della madre nei confronti della figlia era parso talmente inadeguato che i servizi sociali non consegnavano tali oggetti alla giovane». La conclusione dei giudici è lapidaria: la madre di Sara «ha organizzato la prostituzione della propria figlia, allora non ancora sedicenne, facendo leva sul sentimento che la ragazza provava nei suoi confronti, così come descritto dalla stessa» Sara «e dagli esperti che l’hanno in cura». Con lo scopo «di sfruttarne l’attività dal momento che i guadagni derivanti le venivano consegnati». Da quel caso, la Procura di Reggio Emilia parte alla ricerca di un possibile giro di prostituzione minorile, indagando anche tra personaggi facoltosi della Val d’Enza. Un’indagine enfatizzata dai giornali nel 2015 ma della quale, da un certo momento in poi, non si parla più. Se non nei dialoghi intercettati nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, quando Francesco Monopoli e Federica Anghinolfi, anche lei assistente sociale, tra le figure chiave dell’inchiesta, condividono il loro sospetto: quello dell’esistenza di una rete di pedofili attiva nella Val d’Enza dalla quale salvare i bambini. «Il gip ha rilevato – aveva sottolineato giorni fa al Dubbio Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi – la preoccupazione seria, da parte dei due indagati, della presenza di una rete di pedofili operante sul territorio. Lo scenario iniziale parla di bambini sottratti per ragioni economiche alle loro famiglie, mentre da qui emerge che i servizi sociali avevano motivo di ritenere che ci fosse un rischio per questi minori. La verità di Bibbiano è ancora tutta da scrivere».
Bibbiano, la storia sconosciuta dei bambini abusati. Il caso zero: una bambina prostituita dalla madre. Poi altre violenze sessuali in famiglia, i servizi sociali che intervengono. Infine la campagna per delegittimarli. Con tanti lati oscuri. Floriana Bulfon e Giovanni Tizian il 06 febbraio 2020 su L'Espresso. La piazza della Repubblica a Bibbiano, davanti al municipio, si raggiunge percorrendo in sequenza due strade alberate con case a tre piani, che si chiamano rispettivamente via Lenin e via Gramsci. La toponomastica è il sigillo sul passato rosso di questa terra. È in questa piazza anonima che Matteo Salvini ha chiuso la sua campagna elettorale per le regionali, nel pomeriggio glaciale del 23 gennaio: Bibbiano usato come una clava per distruggere le ambizioni del Pd, che qui e in tutta l’Emilia ha ereditato il potere dal Pci. Il paese medaglia d’oro per i 22 mesi di Resistenza, terra di asili e scuole celebrate come modello, diventato l’orrore fatto sistema. La patria dei demoni. Dominata dal “partito di Bibbiano” che qui comanda dall’alba della Repubblica. L’Espresso è tornato a Bibbiano. Dopo la tempesta. Tornata la quiete, passate le elezioni, i comizi e le contromanifestazioni, restano loro: i bambini. Perché di certo in questa storia c’è solo la loro sofferenza. Sono loro le vittime, comunque vada a finire l’indagine. Vite già fragili, contese, abusate. E poi infrante dall’onda mediatica e dallo sciacallaggio politico. La propaganda che ha usato ogni mezzo, esibendo sui palchi dei comizi i loro drammi e le loro ferite. Ma Bibbiano è davvero un girone dell’inferno? È soltanto l’incarnazione di un sistema che per fame di profitto strappa i figli ai genitori biologici? O è anche un luogo in cui molti minori sono stati effettivamente abusati? Storie, per esempio, non conteggiate nell’inchiesta della procura di Reggio Emilia, che mira, invece, solo a dimostrare l’esistenza di un business sugli affidi.
Bibbiano, la piazza contesa dove le sardine sfidano il Carroccio. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Una volta qui era tutto parliamo di Bibbiano. Adesso sta diventando una gara per parlare a Bibbiano. Come se la tremenda storia accaduta in quel paesino della Val d’Enza fosse ormai ridotta a semplice brand, un marchio buono per convenienze elettorali. Ci cascano tutti, non solo Matteo Salvini. Anche le sardine, che nell’ansia di inseguire il capo leghista ormai stanziale in Emilia-Romagna, lo hanno addirittura superato, arrivando per primi al traguardo di piazza Repubblica, lo spazio antistante il municipio. La Lega aveva preannunciato il suo comizio di chiusura per giovedì prossimo 23 gennaio, presenti sul palco Salvini e persino la candidata presidente Lucia Borgonzoni. Al momento di organizzare il comizio, la sorpresa. Quello spazio era già stato richiesto dal movimento nato lo scorso novembre, con modulo depositato due settimane fa in prefettura e firmato da Mattia Santori. Nessuna soffiata, a quanto pare. Semplicemente le sardine avevano intuito dalla comunicazione della Lega dove Salvini sarebbe andato a parare per chiudere la campagna d’Emilia-Romagna. «Scendiamo in piazza della Repubblica, luogo simbolo della strumentalizzazione politica e dello sciacallaggio messi in atto dalla Lega per puri fini elettorali». La contromossa leghista è arrivata appena sbollita la rabbia, con un ricorso ideato da Gianluca Vinci, parlamentare di Reggio Emilia, avvocato. Secondo lui, un protocollo firmato tra partiti locali, questura e prefettura imporrebbe che i comizi elettorali debbano essere prenotati da cinque a due giorni prima dell’evento. E le sardine non sono un movimento politico, quindi, non avrebbero diritto di fare quella richiesta. La patata bollente passa alla prefettura, che dovrebbe esprimersi oggi. Ma non è escluso un altro colpo di scena. Già soddisfatte del colpo messo a segno, le sardine infatti potrebbero fare un passo indietro. Intanto ieri a Barco di Bibbiano, nella sede dei Comuni della Val d’Enza una voce maschile ha annunciato al centralino il lancio di una bomba. Gli uffici sono stati evacuati. Era un falso allarme, ma l’aria pesante invece è vera. Proprio per questo i sindaci hanno chiesto «buon senso» ai due litiganti, invitando a non fare nessuna manifestazione. La piazza contesa è solo il primo di una serie di sgarbi e colpi bassi che ci accompagneranno al fatidico 26 gennaio. In questo filone la Lega inserisce, citandone «la tempistica sospetta», un servizio trasmesso ieri da «Piazzapulita», su La7, che invece sembra semplice giornalismo. «Un contratto a tempo indeterminato da dipendente comunale, 1.400 euro al mese con quattordicesima... Così non ti vedo più. Tu sai che è incompatibile con il ruolo da consigliere... Nicola è d’accordo, ne ho parlato con Alan e mi ha detto “se a lei va bene, a me va bene”». Al telefono parla Stefano Solaroli, vicecapogruppo della Lega a Ferrara, noto per aver girato un video dove andava a letto con la sua pistola. È lui a fare l’offerta che prefigura un baratto a spese dei contribuenti, impiego nel pubblico in cambio delle dimissioni, alla consigliera comunale leghista Anna Ferraresi, in rotta con il suo partito dopo la storica vittoria dello scorso maggio. Ci sono due problemi. Il primo è che «Nicola» è il celebre Naomo Lodi, ispiratore nel 2016 della rivolta contro i migranti a Gorino, e oggi uomo forte della giunta comunale. Mentre «Alan» è il nome del sindaco Fabbri, che si dichiara «non a conoscenza» dei dialoghi avvenuti tra i due consiglieri. Il secondo problema è che appena una settimana fa Salvini aveva indicato proprio Ferrara come esempio di una regione dove non lavorano «solo i tesserati, gli amici e i parenti». Mancano nove giorni alle elezioni. E pare di capire che non saranno brevi.
Bibbiano, telefonata shock: «Vi faccio saltare in aria». Simona Musco il 17 gennaio 2020 su Il Dubbio. Evacuato il municipio dopo l’avvertimento anonimo. La minaccia è arrivata allo sportello dei servizi sociali, quello finito al centro dell’inchiesta “Angeli e demoni”. «Fra 20 minuti vi lancio una bomba». La voce al telefono è quella di un uomo e prima di lanciarsi in ingiurie e offese fa questa promessa: una bomba, da scagliare contro il famigerato Municipio di Bibbiano, per tutti, ormai, cuore pulsante degli orrori descritti nell’inchiesta “Angeli& Demoni”. La telefonata è arrivata ieri intorno alle 8 del mattino, proprio all’ufficio incriminato: quello dello sportello sociale del Comune, ente capofila dei servizi sociali dei Comuni della Val d’ Enza. «Vi faccio saltare tutti in aria», ha annunciato la voce anonima. Sul posto sono arrivati i carabinieri, che dopo l’evacuazione degli uffici hanno proceduto alla bonifica dei locali, che hanno dato esito negativo. Tre gli edifici svuotati: la sede dei servizi sociali del Comune, quelli dell’Unione a Barco e il municipio. «C’era stata un’escalation di minacce, poi le acque si erano calmate. Dopo la chiusura delle indagini è ripreso questo clima di odio insostenibile intorno a noi – ha commentato Francesca Bedogni, sindaca di Cavriago e attuale delegata ai Servizi sociale per l’Unione Val d’Enza -. Abbiamo ritenuto di non prendere sottogamba questo episodio. Siamo preoccupati per l’incolumità di operatori e operatrici. Non possiamo non notare che questa nuova escalation accade a 10 giorni dalle regionali e non possiamo non chiedere a tutte le forze politiche di riprendersi il buon senso e aiutarci a garantire a questi territori serenità e sicurezza». Una richiesta caduta, però, nel vuoto: «Il gesto del folle che ha chiamato è la conseguenza di quanto produce “’ il negare” non “’ il parlare” di Bibbiano», ha commentato il consigliere della Lega in Regione Emilia- Romagna e capolista a Reggio Emilia e provincia del Carroccio, Gabriele Delmonte, dopo aver «preso le distanze e stigmatizzato la telefonata» in Municipio. «Siamo al cospetto di una vicenda, tutta da verificare sul piano giudiziale, terribile, pertanto è inevitabile che si presti alla follia di qualcuno – ha aggiunto -. Detto questo, mi preme ribadire come la Lega abbia sempre avuto un approccio garantista alla vicenda, tanto che, nonostante abbia rivendicato a gran voce l’istituzione di una Commissione speciale regionale, ha accettato, pur di addivenire alla verità dei fatti per senso di giustizia nei confronti dei minori e delle loro famiglie, di essere messa ai margini della Commissione».
Io, avvocato di Bibbiano ho difeso i servizi sociali in tribunale e sono stato aggredito. Il Dubbio il 27 febbraio 2020. L’intervento di Marco Scarpati, avvocato di Diritto minorile il cui nome è finito ingiustamente nel vortice dell’inchiesta “Angeli&Demoni”: ” Si sono gettati semi velenosi nel processo minorile”. Pubblichiamo l’intervento di Marco Scarpati, avvocato di Diritto minorile il cui nome è finito nel vortice dell’inchiesta “Angeli&Demoni”. Criminalizzato e poi risultato innocente, scagionato da ogni accusa, racconta le ripercussioni quotidiane della gogna mediatica e i rischi corsi dal sistema della giustizia minorile, delicato quanto importante e, oggi, costretto a subire le conseguenze di mesi di strumentalizzazione.
Lo scrivo a futura memoria. Oggi in una Corte d’appello. Processo di appello su una sentenza che ha dichiarato lo stato di adottabilità di un bambino. Io rappresento il bambino, nominato dal tutore. I genitori decaduti hanno impugnato la sentenza. Il loro avvocato, azzardando un po’ troppo, li ha fatti venire in udienza dove non saranno mai sentiti, e con toni molto accorati perora la sua causa: i servizi sociali sono formati da criminali, il sistema Bibbiano (Leggi qui tutte le notizie), genitori incolpevoli a cui hanno strappato il figlio appena nato, mai avuto problemi di alcun tipo…In udienza chiedo, con tono pacatissimo, so di camminare sulle uova, il rigetto del ricorso, e spiego che i fatti, documentalmente accertati, purtroppo sono completamente diversi da quelli descritti dai ricorrenti. Che non si può sempre pensare che i servizi sociali siano degli incompetenti criminali, che può capitare, come in questo caso, che i genitori, dopo averne tentare tante, siano irreparabilmente inadeguati per il bambino, e che nel suo interesse sia corretto allontanarli e mettere il bambino in adozione. Ovviamente vengo spesso interrotto e i genitori piangono e anche loro cercano di intervenire. Il pm chiede, anche lei, il rigetto del ricorso. La Corte si riserva. Usciti vengo aggredito dai genitori che mi urlano offese e minacce…Altri avvocati vedono e sentono, imbarazzati. Io aspetto che escano, poi mi “rifugio” da una amica Pm a chiacchierare. La prudenza… La prudenza, la pacatezza, la riservatezza che richiede il rito minorile… Io lo insegno sempre ai miei studenti che non si deve mai mettere il sangue su questioni così delicate. Ne esco, come al solito, addolorato. Forse ho davvero buttato via tanti anni di studio. Si sono gettati semi velenosi nel processo minorile, che danno frutti avvelenati, generosamente, ogni giorno. Marco Scarpati
«Io, trattato da demone. Ma l’inchiesta di Bibbiano è un teorema». Simona Musco il 25 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista all’avvocato Marco Scarpati, scagionato da ogni accusa nell’inchiesta ” Angeli e demoni”: «Mi hanno minacciato e non lavoravo più: era come se mi avessero dichiarato morto». Lo studio dell’avvocato Marco Scarpati sta in un palazzo che guarda in faccia la Procura di Reggio Emilia, che per tre mesi lo ha fatto sentire un mostro. Una parola che non compare nelle carte di “Angeli e Demoni”, ma che molti, nelle settimane che lo hanno separato dall’archiviazione delle accuse, hanno preso proprio da lì, per scagliargliela contro. Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, era finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza. E anche ora che tutto è finito, gli effetti della macchina dell’odio continuano. «Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi – racconta al Dubbio -. E tutto questo è spaventoso».
Avvocato, com’è stato per lei il 27 giugno 2019, giorno degli arresti?
«Stavo dormendo. Alle 7 mia moglie mi ha svegliato dicendomi che c’erano i carabinieri alla porta. Sono uscito in pigiama e mentre i vicini mi guardavano dai palazzi di fronte mi hanno consegnato un foglietto di carta: era un avviso di garanzia per abuso d’ufficio. Non sapevo altro. Alle 9 sono arrivato in studio e dopo poco mi ha telefonato un giornalista, chiedendomi se volevo commentare. Gli ho detto che non sapevo nemmeno di cosa fossi accusato e lui mi ha risposto: ma come, io ho 280 pagine in mano, tu non hai niente? Avevano già letto tutto in anticipo».
Quando ha capito in cosa era finito?
«Leggendo gli articoli su internet ho capito cosa fosse questa inchiesta e che si chiamava “Angeli e demoni”. Non ho il phisique du role dell’angelo, ho pensato, quindi probabilmente sarò tra i demoni. Da lì è esploso tutto un mondo spaventoso: dicevano che avevo lucrato sui bambini, che li avevo maltrattati, che avevo commesso abusi sull’infanzia e ascoltato bambini cercando di modificare le loro testimonianze. Ma io non ho mai ascoltato un bambino, io faccio l’avvocato. E l’idea che qualcuno potesse associare il mio nome a qualcosa di non assolutamente perfetto rispetto all’infanzia per me è stata una cosa spaventosa».
L’hanno minacciata?
«Sì, ho ricevuto diverse telefonate allo studio. Ho dovuto chiudere tutte le pagine sui social per non far leggere alla mia famiglia di quei matti che dicevano che avevo violentato bambini. Io, che ho fatto della mia vita l’esatto contrario. Poi è successa una cosa spaventosa. Mi trovavo dall’altra parte nel mondo, nel sud est asiatico, con un ministro che mi aveva chiesto di collaborare con lui per alcune normative e che ad un certo punto mi disse: mi è arrivato questo materiale. Ovvero gli articoli usciti in Italia su di me, già tradotti. Mi disse che sapeva chi sono, ma che non poteva farsi vedere con me. Questa cosa fu molto umiliante. Mi avevano dichiarato morto, non avevo alcuna possibilità di continuare a lavorare. Non ho avuto nessun cliente nuovo e molti di quelli vecchi mi hanno abbandonato. Il reddito dello studio si è dimezzato e se va bene riusciremo a pagare tutte le spese. Per mesi non sono riuscito a dormire di notte, nemmeno coi farmaci. E non riuscivo a mangiare, avevo la nausea».
Come si passa dall’essere una persona per bene ad essere un mostro?
«Intanto quel nome, “Angeli e demoni”. Una follia. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mi ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la dignità. Sono state date alla stampa registrazioni che nessuno degli avvocati aveva, su questioni assolutamente irrilevanti, facendo di questo marciume elemento di indagine, forse per vedere se qualcuno avrebbe capitolato e confessato chissà che cosa».
Che idea si è fatto dell’inchiesta?
«L’inchiesta è un teorema, ma nel diritto penale ci sono prove, fatti. Si sono confuse le terapie con la psicologia forense, le prove con le teorie. C’è tanta confusione. Ormai si è creato il diritto di usare strumenti di garanzia come strumenti di sputtanamento della persona sottoposta alle indagini. E questo è spaventoso e come avvocati non possiamo lasciar perdere. Il pm mi ha sempre detto di non avercela mai avuta con me, però ha chiesto due volte il mio arresto, sulla base di nulla, perché gli incarichi fiduciari agli avvocati sono slegati dalla legge sugli appalti. Ma in procura non lo sapevano».
Cosa c’entra la politica con “Angeli e Demoni”?
«C’entra con quel nome lì. Con la distruzione del welfare per l’infanzia, del processo minorile e del ruolo dei magistrati minorili. C’è chi sta cercando di riportare il diritto minorile al 1950, confondendo lo stesso col diritto di famiglia, il ruolo del bambino con quello dei genitori. Il bambino va difeso come soggetto del diritto e non come ammennicolo della sua famiglia».
Come finirà?
«Potrebbero anche essere condannati tutti quanti, ma la finalità di quelle persone non è mai stata né quella di arricchirsi né di far del male, ma solo di proteggere bambini che ritenevano essere stati abusati e maltrattati. Non esiste nessuna persona che possa essere distrutta in questo modo, senza un minimo di rispetto del suo nome, della sua storia, della sua persona, solo perché esiste questo spaventoso Moloch della giustizia».
Bibbiano, Borgonzoni attacca: “Il Pd voleva sminuire fatti agghiaccianti, oggi c’è la conferma”. Redazione mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Bibbiano ancora al centro del dibattito politico. Interviene anche la leghista Lucia Borgonzoni, candidata del centrodestra per le regionali in Emilia Romagna. “Chi aveva il dovere di controllare e non lo ha fatto dovrebbe chiedere scusa. Da mesi invochiamo chiarezza, trasparenza, giustizia per bambini e famiglie. Dal Pd c’è stata colpevole leggerezza politica su fatti gravissimi, hanno derubricato a un raffreddore l’inchiesta di Bibbiano. Poche ore fa le indagini si sono chiuse con 108 capi di imputazione, 26 indagati, tra cui due sindaci ed ex sindaci che sono o erano del Pd. IL tutto tra intercettazioni agghiaccianti e accuse terribili da parte dei pm, che ringraziamo per il loro lavoro”. “Dopo il terribile caso Veleno non si sono messi in campo anticorpi, tanto che alcuni protagonisti di quella vicenda li ritroviamo nell’inchiesta Angeli e demoni. Noi vogliamo giustizia e verità per quanto accaduto e faremo massima chiarezza sul sistema degli affidi in regione” conclude. Poche ore fa era intervenuta anche Forza Italia. ”La chiusura delle indagini sui fatti di Bibbiano offre uno spaccato di presunzioni di reato che lascia sconcertati. I 108 capi di imputazione, infatti, non dimostrano alcuna colpevolezza ma certamente fanno riflettere e inquietano”. Lo dichiara la deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria. ”Fermo restando il principio secondo il quale è doverosa la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, ovviamente. Ma il legislatore non può non soffermarsi sull’ipotesi di un vero e proprio sistema criminale la cui intelaiatura prendeva corpo sulla vita di intere famiglie, e soprattutto su quella di bambini indifesi. Tutto è da monito per quei ritardi sulla tutela dei più deboli di cui la politica è responsabile”, conclude Calabria.
“Vergogna, volevano insabbiare Bibbiano”. Poche ore fa era intervenuto anche il leader della Lega. Per le vicende della Val d’Enza ci sono “26 indagati per 100 capi di imputazione, una vergogna mondiale che il Pd ha cercato di insabbiare. Io ci sarò, giovedì prossimo, a Bibbiano”. Così il leader della Lega, Matteo Salvini, da Bologna. Riguardo le motivazioni uscite ieri dalla Cassazione che ha stabilito che al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, non doveva essere applicata la misura cautelare dei domiciliari e, poi, dell’obbligo di dimora, Salvini ha commentato. “Non mi sostituisco ai giudici ma Carletti, comunque, è ancora indagato. Ci sono stralci degli atti in cui si parla di assistenti sociali che chiedevano di non dare i regali dei genitori ai bimbi e di gente che si vestiva da lupo mannaro per spaventarli. Qualcosa che neanche negli incubi di notte a uno verrebbe in mente”. “Da papà leggere alcuni atti è impressionante. E in questa vicenda c’è qualcuno che, se condannato, dovrà finire in galera e il Pd non lo può liquidare come un raffreddore o qualche errore tecnico, quando ci sono di mezzo i bimbi non ci sono raffreddori”. “Il sistema degli affidi in Val d’Enza – aggiunge – è marcio, corrotto e infame ed entra nelle case delle famiglie con l’inganno. Al di là dei processi e della galera, se qualcuno a sinistra l’ha definito un raffreddore, mi auguro che qualcuno chieda scusa”.
Il punto su Bibbiano: verso la fine delle indagini preliminari. A giorni la pm Valentina Salvi dovrebbe depositare gli atti. Le richieste di rinvio a giudizio verranno dopo il voto regionale in Emilia-Romagna. Maurizio Tortorella il 13 gennaio 2020 su Panorama. Si avvicina l’avvio vero e proprio del processo per i presunti allontanamenti illeciti dei bambini di Bibbiano. Tra pochi giorni, secondo quanto risulta a Panorama.it, il pubblico ministero di Reggio Emilia, Valentina Salvi, dovrebbe depositare l’avviso della conclusione delle indagini preliminari, l’atto formale previsto dal Codice di procedura penale che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Secondo il Codice, entro 20 giorni da quel momento i 28 indagati di “Angeli e demoni” dovranno entrare in possesso del fascicolo del pm e a quel punto potranno decidere come difendersi: potranno scegliere se chiedere un interrogatorio, oppure depositare una memoria difensiva, o ancora chiedere ulteriori indagini da parte del pm. Al termine di questa fase, la cui durata al momento è indefinibile, la Procura di Reggio Emilia potrà a sua volta chiedere il rinvio a giudizio degli indagati al Giudice per l’udienza preliminare, il quale poi deciderà se meritano o no il procedimento. Questo passaggio fondamentale, però, di certo avverrà dopo le elezioni regionali di domenica 26 gennaio, e quindi (fortunatamente) saranno evitate nuove strumentalizzazioni politiche su una vicenda giudiziaria che ha già fin troppo diviso gli italiani. Dallo scoppio dell’inchiesta “Angeli e demoni”, emersa alle cronache lo scorso 27 giugno, sono trascorsi oltre sei mesi. Nel frattempo, due dei dieci bambini di Bibbiano non sono ancora tornati a casa: hanno però ripreso gli incontri con i genitori, che erano interrotti da tempo, e a breve il Tribunale dei minori di Bologna dovrebbe decidere sul loro destino. Le segnalazioni di disagio nei loro confronti non venivano soltanto dagli indagati di Bibbiano, ma anche da docenti o pediatri: quindi la cautela pare giustificata. Panorama.it ha avuto intanto modo di approfondire la controversa questione delle 100 relazioni che i Servizi sociali di Bibbiano e della circostante Val d’Enza avevano inviato alla magistratura minorile dal 2014 al primo semestre 2019. Di quelle 100 relazioni aveva parlato per la prima volta a metà ottobre proprio il presidente del Tribunale per i minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, il quale ha trascorso la scorsa estate impegnato a verificare i fascicoli scaturiti da segnalazioni dei Servizi sociali di Bibbiano. Ha detto Spadaro: “Avrei potuto limitarmi ai casi di allontanamenti individuati dall’inchiesta penale di Reggio Emilia e invece mi sono attivato per vederci chiaro più in generale, e anche in tempi precedenti”. Un impegno meritorio, che Panorama.it ha già riconosciuto. Sulla questione e sui numeri di quella verifica, peraltro, si era poi accesa una questione interpretativa. In un primo momento, infatti, era parso che si fosse trattato di 100 esplicite richieste di allontanamento di bambini, avanzate dagli assistenti sociali e in 85 casi respinte dai giudici minorili. Da quei dati, parte dei mass media aveva tratto la conclusione che il sistema dimostrasse di essere perfettamente efficiente. Al contrario, proprio l’alta quota di “errore” nelle valutazioni (l’85%) aveva convinto altri osservatori che in realtà il problema sussistesse, e che fosse concentrato soprattutto nei Servizi sociali dell’area. In novembre il presidente Spadaro, interrogato dalla commissione d’inchiesta su Bibbiano varata dalla Regione Emilia Romagna, aveva poi rettificato in parte la questione: “Non si trattava di 100 richieste di allontanamento sei Servizi sociali, altrimenti sarei stato io il primo ad allarmarmi” aveva spiegato l’alto magistrato. “In realtà si trattava di relazioni nelle quali si segnalavano situazioni di potenziale pregiudizio per minori”. Spadaro aveva anche spiegato alla Commissione regionale d’inchiesta che in realtà non può essere il Servizio sociale a “chiedere l’allontanamento” di un bambino al Tribunale dei minori. Perché è vero che in certi casi, particolarmente gravi e urgenti, il Servizio sociale può agire direttamente (in base all’articolo 403 del Codice civile) e allontanare dalla sua famiglia il minore “in stato di pericolo”. Ma la procedura ordinaria è un’altra: come aveva specificato Spadaro in Commissione, “il Servizio sociale può segnalare una situazione di potenziale pregiudizio alla Procura minorile, che ne fa un vaglio e chiede al Tribunale dei minori di accertare che cosa sia accaduto”. In base alla ricostruzione di Spadaro, quindi, si può capire come siano andate effettivamente le cose: le 100 famose relazioni di potenziale disagio erano state inviate dai Servizi sociali di Bibbiano e della Val d’Enza alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Bologna. Che le aveva trasformate in altrettanti ricorsi per la limitazione o la decadenza dalla responsabilità genitoriale: gli articoli del Codice civile cui si erano appoggiati i sostituti procuratori minorili bolognesi erano stati - alternativamente - il 333 e il 330, che in effetti prevedono entrambi la possibilità dell’allontanamento del minore. I ricorsi erano stati quindi indirizzati al Tribunale minorile per la decisione. I cui giudici, alla fine, avevano optato per un allontanamento soltanto in 15 casi. Mentre negli altri 85 casi avevano deciso diversamente.
Vendetta del Csm: mancata promozione di Spadaro a Roma, vittima sacrificale dell’inchiesta Bibbiano. Giovanni Altoprati l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Giuseppe Spadaro, attuale presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, pagherà per tutti: sarà lui la vittima sacrificale dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un ribaltone di fine anno, il Csm ha stroncato la sua aspirazione di andare a dirigere la Procura dei minorenni di Roma. Per lui un solo voto su cinque, quello della togata di Magistratura indipendente Loredana Micciché. Eppure a luglio la strada per Roma sembrava spianata: a suo favore si era espresso addirittura Piercamillo Davigo. Strano destino, dunque, per l’ufficio giudiziario bolognese e per il suo presidente, sempre elogiato durante ogni ispezione ministeriale, soprattutto per aver innalzato la produttività eliminando arretrato, nonostante carenza di personale amministrativo e sottodimensionamento dell’organico dei giudici. Durante la sua presidenza sono stati anche emessi provvedimenti innovativi, ad esempio in materia di stepchild adoption. Un modello, insomma, nel complesso mondo della giustizia minorile. Fino a quest’estate quando esplode, appunto, l’inchiesta “Angeli e demoni” e Spadaro finisce sotto i riflettori dei mass media per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 a Bologna, Spadaro per il Csm è un giudice con «un vero e proprio amore per la funzione». «Senza dubbio – si poteva leggere nel parere redatto per la sua domanda – il magistrato più idoneo, per attitudini e merito» ad occupare il posto a Roma. Scoppiato lo scandalo, lui ed il suo ufficio si dichiarano le “prime vittime” degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. All’inizio dell’estate il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede avvia un’indagine amministrativa sul Tribunale dei minorenni di Bologna. L’11 novembre il Guardasigilli richiede una nuova d’indagine «sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente». Il supplemento d’ispezione è motivato dal fatto che nelle intercettazioni di “Angeli e demoni” erano emersi rapporti di vicinanza tra uno dei giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva comunque sostituito il magistrato in questione. Ma oltre all’ispezione ministeriale, Spadaro deve fronteggiare l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia che aveva inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale bolognese. Ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, «in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze». Si evidenzia «il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati» e lo «smarrimento di fascicoli». La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, ha sostenuto che spesso «gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze». Il 14 novembre Spadaro si presenta allora davanti alla Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. «Mi hanno chiamato sequestratore di bambini», ricorda, raccontando le offese e le minacce ricevute sui social media. «Siamo tra i migliori in Italia», aggiunge con orgoglio, illustrando i numeri del suo ufficio. Un dato, però, insospettisce la Commissione: tra il 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al Tribunale 100 allontanamenti e i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Come mai gli assistenti sociali avevano chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a questi errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Spadaro risponde: «Perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo». Gli assistenti sociali avevano presentato 100 «segnalazioni di potenziale pregiudizio», cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Tutto chiarito? Affatto: per l’opinione pubblica e per il Csm ormai è lui il colpevole.
Puniti i magistrati che hanno smontato il sistema Bibbiano. Simona Musco l'11 gennaio 2020 su Il Dubbio. Procedimento disciplinare per il pm Simone Purgato, mentre è ormai quasi impossibile la nomina di Giuseppe Spadaro a procuratore minorile di Roma. Il processo per i presunti affidi illeciti in Val d’Enza non è ancora iniziato e, anzi, le indagini non sono ancora state chiuse. Ma le prime punizioni sono arrivate. E sono arrivate per chi in quei fatti non è stato mai coinvolto: Simone Purgato e Giuseppe Spadaro, rispettivamente pm e presidente del Tribunale dei minori di Bologna. Ed entrambi, ora, vedono le loro carriere, fino ad oggi specchiatissime, messe a rischio dalla gogna mediatica generata dopo l’inchiesta “Angeli& Demoni”. Il primo, infatti, è stato sottoposto a provvedimento disciplinare. Il secondo, invece, ha visto sfumare davanti ai propri occhi l’ormai sicura nomina a procuratore minorile di Roma. E tutto sembra partire dalla revisione fatta da Spadaro su tutte le cause degli ultimi quattro anni, grazie alla quale aveva smentito l’esistenza di un “sistema Bibbiano”, estrapolando, su cento procedimenti, nove casi sospetti in totale, sette dei quali erano già stati “risolti” dal Tribunale dei minori con il ricongiungimento dei bambini con le rispettive famiglie. Il procedimento a carico di Purgato. La vicenda riguarda una notizia shock lanciata a luglio: il Tribunale dei Minori, scriveva un giornale locale, era stato avvisato dalla procura di Reggio Emilia che uno degli affidi era illecito e che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. Ad avvisare il pm Mirko Stifano sarebbe stato il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, titolare dell’inchiesta “Angeli& Demoni”, che gli avrebbe inviato gli atti che avrebbero dimostrato la falsità dei servizi sociali. Una richiesta, riportavano i giornali, caduta nel vuoto, tant’è che il bambino sarebbe comunque finito nel centro “La Cura” di Bibbiano, fino all’esecuzione dell’ordinanza. Notizia categoricamente smentita dal Tribunale: la Procura di Reggio Emilia, giurava in una nota Stifano, che ha anche dato mandato ai propri legali per difendere la propria onorabilità, non avrebbe «mai segnalato falsità poste in essere dai servizi sociali», né «fatto richieste o dato indicazioni di alcun genere perché i decreti del Tribunale dei minori non fossero eseguiti». Tant’è che il bambino è tornato dalla propria famiglia proprio su iniziativa del Tribunale stesso, il 13 maggio, molto prima, dunque, del blitz. Storia chiusa? Nient’affatto: la procura generale della Cassazione ha infatti esercitato l’azione disciplinare nei confronti di Purgato, al quale Salvi avrebbe inviato quel famoso fax. E non per aver ignorato la comunicazione, bensì per aver preteso, con toni non consoni ai rapporti tra magistrati, che il procuratore di Reggio smentisse la notizia. Il tutto senza accertare se quella comunicazione fosse mai avvenuta o meno e senza verificare, dunque, eventuali responsabilità per non aver impedito l’interruzione di gravissimi reati. Il caso Spadaro. Ma di mezzo ci è andato anche Spadaro, che pure aveva fatto ordine in un Tribunale per anni dominato dal caos. La sua nomina a procuratore doveva arrivare il 13 novembre scorso, dopo quattro voti favorevoli contro i due accordati alla sua concorrente, Giuseppina Latella, procuratore per i minorenni di Reggio Calabria. Ma l’annuncio dell’invio degli ispettori ministeriali negli uffici da lui diretti ha congelato tutto. Gli uomini di via Arenula sono stati spediti lì dal ministro Alfonso Bonafede per verificare eventuali connivenze tra giudici minorili e servizi sociali dei Comuni della Val d’Enza. E dopo l’inchiesta amministrativa – dopo una prima ispezione, dalla quale era emersa la natura di “parte offesa” del Tribunale dei minori – è arrivato uno stop momentaneo alla carriera del magistrato calabrese. Il plenum del Csm, 48 ore dopo l’annuncio di Bonafede, aveva rinviato infatti la delibera in quinta Commissione, per «aspettare l’esito dell’indagine ispettiva, che ha durata di una settimana, negli uffici giudiziari di Bologna». Ma oggi, senza gli esiti di quell’ispezione, le carte in tavola sono cambiate: la quinta Commissione, a fine dicembre, ha infatti ribaltato il giudizio, accordando cinque voti per Latella e uno per Spadaro. E ora la nomina da parte del plenum, per il presidente del Tribunale di Bologna, appare un miraggio. «Ho un profondo rispetto per le istituzioni e per il Csm. Credo profondamente nelle istituzioni e le rispetto sempre. Specie chi vi appartiene e, sia pure nel suo piccolo, le rappresenta, deve sempre rispettarne le decisioni anche quando non le condivide – ha commentato Spadaro al Dubbio -. La quinta commissione ha inteso ribaltare la precedente votazione perché non ho mai svolto le funzioni requirenti. Ho provato a dimostrare in audizione che la gran parte del lavoro svolto dalle procure minorili è costituito dal settore civile e non da indagini penali, quindi forse in ambito minorile non si applica lo stesso criterio previsto per le procure ordinarie. Ma se il Csm ritiene che non sia così evidentemente ha ragione l’organo di rilevanza costituzionale che deve interpretare ed applicare la circolare in materia di incarichi direttivi e non certo io che sono un semplice magistrato. Il proporsi per un incarico di presidente o di procuratore deve essere una disponibilità di servizio. Così è stato per me: quindi non l’ho vissuta come una sconfitta personale. Hanno indicato una collega valorosissima che evidentemente possedeva maggiori attitudini specifiche direttive cui farò i complimenti quando il plenum deciderà».
Bibbiano, il giudice: misure cautelari? Inutili, basta la gogna mediatica. Simona Musco il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il gip: «Distrutta l’immagine degli indagati». Definita a rischio l’incolumità delle persone coinvolte, il cui isolamento sociale viene considerato sufficiente ad escludere l’inquinamento delle prove. Le misure cautelari? Inutili quando la gogna mediatica ha già trasformato gli indagati in mostri, rendendoli “infetti” agli occhi dell’opinione pubblica. Una conclusione che si trae leggendo le motivazioni con le quali il gip Luca Ramponi ha rimesso in libertà l’ex dirigente dei servizi sociali della val d’Enza, Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli, indagati nell’inchiesta “Angeli& Demoni”, per tutti, ormai, il caso Bibbiano. Nel provvedimento, con il quale lo scorso 23 dicembre il giudice ha disposto l’interdizione per un anno dalla professione per i due, si legge come sia per il pm che ha chiesto la sostituzione delle misure evitando, così, la scadenza dei termini di fase – sia per il giudice non sussista più il pericolo di inquinamento delle prove, venendo meno, dunque, l’esigenza di tenere i due indagati ai domiciliari. Ma è tra le righe del provvedimento, nel quale il gip rimarca comunque gli indizi di colpevolezza, che emerge tutto il potere della gogna mediatica subita da Anghinolfi e Monopoli assieme agli altri indagati: «concordemente con il pm – si legge – deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda. Ma la parte più pesante sta in un passaggio successivo del provvedimento, dove, appunto, la gogna mediatica assurge ad ulteriore e forse più efficace misura cautelare: «i contatti ( eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento – scrive il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe ( se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare». Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati, oggi, equivale ad una condanna a morte sociale. Una sovraesposizione mediatica, commenta al Dubbio Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi, «che non è stata determinata dagli indagati, ma dall’autorità procedente». La richiesta di revoca da parte del pm, ora, rende impossibile la richiesta di giudizio immediato, per cui toccherà ancora attendere la chiusura delle indagini, per le quali il pm ha chiesto una proroga. Il gip ha riportato nel provvedimento anche il cosiddetto «complotto della pedofilia», di cui gli investigatori hanno sentito parlare ascoltando le intercettazioni e dalla quale, ad avviso degli indagati, bisognava salvare i bambini. «Il gip ha rilevato – aggiunge Mazza – la preoccupazione seria, da parte dei due indagati, della presenza di una rete di pedofili operante sul territorio. Lo scenario iniziale parla di bambini sottratti per ragioni economiche alle loro famiglie, mentre da qui emerge che i servizi sociali avevano motivo di ritenere che ci fosse un rischio per questi minori. La verità di Bibbiano è ancora tutta da scrivere e il fatto che la corsa al giudizio immediato sia stata abbandonata la dice lunga». «Si sta discutendo di diverse concezioni scientifiche sulla credibilità del minore – sottolinea Nicola Canestrini, difensore di Monopoli -. Abbiamo da una parte la comunità scientifica delle Carte di Noto, dall’altra esperti che non concordano ancora sul considerare le dichiarazioni dei minori sempre frutto di possibile inquinamento. Io credo che un problema del genere vada discusso seriamente, in uno Stato di diritto, dalla comunità scientifica, arrivando a delle linee guida condivise, altrimenti si trascina a processo chi la pensa diversamente, che diventa un mostro o un criminale. Non credo che in un tribunale si possano chiarire questioni scientifiche». Il problema, evidenzia però il legale, è anche un altro. L’inchiesta contesta il fatto che i servizi sociali della Val d’Enza si servissero sempre degli stessi psicologi privati, per ovviare la carenza di professionisti in forza all’Asl. «Ma le procure di quali consulenti si servono? – si chiede il legale – Nel 90% dei casi degli stessi professionisti, o magari dei loro colleghi di studio con i quali si scambiano il ruolo dei periti negli stessi processi. Ho chiesto a varie procure, sulla scorta del Freedom act of information, gli elenchi dei consulenti tecnici scelti dall’accusa, peraltro pagati da tutti noi, e la percentuale di utilizzo. Ma mi sono stati negati, in virtù di ragioni di ordine pubblico e anche perché la scelta di un consulente tecnico è un’attività giurisdizionale. Non sapevo che un pubblico ministero facesse attività giurisdizionale. Ciò vuol dire che in Italia non è possibile conoscere i criteri con i quali vengono scelti i consulenti dell’accusa».
DA ilrestodelcarlino.it il 14 gennaio 2020. Fine indagini per l'inchiesta "Angeli e demoni". Le forze dell'ordine hanno raccolto tutti gli elementi che ritengono necessari e si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio per le persone che ritengono implicate nell'impianto accusatorio. L'avviso di fine indagini è stato notificato a 26 persone e tra loro c'è anche il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti prima finito agli arresti domiciliari poi scarcerato dalla Cassazione e tornato a fare il sindaco. I capi di imputazione contestati dalla Procura reggiana nell'atto che di solito prelude a una richiesta di rinvio a giudizio sono 108. "La massiccia attività istruttoria svolta successivamente all'esecuzione della misure cautelari, attraverso l'escussione di ulteriori persone informate sui fatti, le nuove consulenze tecniche svolte, gli interrogatori resi da alcuni degli indagati, appositamente corroborati da mirati riscontri e, non da ultimo, l'analisi del materiale informatico e documentale in sequestro anche a seguito di alcune udienze davanti al Gip e in contraddittorio tra le parti" ha consentito "non solo di confermare le ipotesi accusatorie già riconosciute dal Gip in fase cautelare", di "integrare il quadro probatorio in relazione a talune non riconosciute dal Gip stesso in fase di emissione misura e anche di individuare nuove fattispecie". Lo scrive il procuratore della Repubblica di Reggio Emilia, Marco Mescolini. La notizia arriva nel giorno in cui la Cassazione ha pubblicato le motivazioni del verdetto che il 3 dicembre ha annullato senza rinvio la misura cautelare proprio per il sindaco Carletti. Non c'erano gli elementi per imporre la misura coercitiva dell'obbligo di dimora nei confronti del sindaco. I supremi giudici rilevano "l'inesistenza di concreti comportamenti", ammessa anche dai giudici di merito, di inquinamento probatorio e la mancanza di «elementi concreti» di reiterazione dei reati. Ma arriva anche a meno di due settimane dal voto per la presidenza della Regione Emilia-Romagna, con Salvini che ha già annunciato di volere fare di Bibbiano una delle ultime tappe del suo lungo tour elettorale. Sul rischio di inquinamento probatorio, gli “ermellini” sottolineano che l'ordinanza del riesame di Bologna - che il 20 settembre ha revocato i domiciliari a Carletti imponendo però l'obbligo di dimora - non si è basata su "una prognosi incentrata sul probabile accadimento di una situazione di paventata compromissione delle esigenze di giustizia". Anzi, il riesame - prosegue il verdetto - "pur ammettendo l'inesistenza di concreti comportamenti posti in essere dall'indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato una possibile influenza sulle persone a lui vicine nell'ambito politico amministrativo per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ripercussioni sulle indagini". Tutto "senza spiegare se vi siano, e come in concreto risultino declinabili, le ragioni dell'ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate". Di "natura meramente congetturale" anche il rischio di reiterazione. "Già in sede di applicazione dell'originaria misura cautelare", ossia gli arresti domiciliari, i giudici di merito, a fondamenta delle loro motivazioni, si erano serviti di "elementi" messi "in relazione con altro passaggio motivazionale, di non univoca e quanto meno dubbia interpretazione, direttamente tratto dalle dichiarazioni rese da Carletti al Pm". Interrogato dal magistrato, il sindaco di Bibbiano, sottolinea la Suprema Corte, "genericamente ed in via del tutto ipotetica, si limitò ad affermare che, qualora fosse tornato a rivestire la carica di sindaco, avrebbe potuto prendere in considerazione la proposta, proveniente da un interlocutore serie ed onesto, di un investimento su un terreno privato per la progettazione di una struttura, parallela a quella gestita dalla Asl, per la tutela di minori ed anziani". "Questo ci dice due cose: che la gogna a cui è stato sottoposto Carletti e il tentativo di certa politica di strumentalizzare sono stati indegni. E che la giustizia deve fare il suo corso", è il commento di Simona Malpezzi, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento.
Bibbiano, chiuse le indagini: pure l'ex sindaco dem tra i 26 indagati. La Procura chiude le indagini dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti nel reggiano. Salgono da 102 a 108 i capi d’imputazione. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. La procura chiude le indagini dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti nel reggiano. Salgono da 102 a 108 i capi d’imputazione. Tra gli indagati rimane anche Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano a cui il Riesame ha appena ritirato la misura cautelare che prevedeva l’obbligo di dimora nel suo comune di residenza, Albinea.
Cos'è l'inchiesta "Angeli e Demoni". L’ordinanza della procura di Reggio Emilia che analizzava i casi di alcuni minori che sarebbero state vittime di un sistema di affidi illeciti era stata la scintilla che, il 27 giugno scorso, aveva fatto scoppiare il caso Bibbiano. Dall'inchiesta è emersa una serie di accordi sottobanco e favoritismi che svela un'enorme rete formata da enti privati e pubblici e collegata anche dalle istituzioni. Un sistema fatto di intrecci e atrocità che, per anni, sarebbe servito a favorire un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro. Dall'inchiesta della procura sono emerse finte relazioni, falsi documenti e pressioni psicologiche utilizzate dagli psicologi per riuscire a plagiare i minori. Vere e proprie opere di convincimento, meccanismi di persuasione e storie di fantasia per screditare le famiglie dei piccoli. Una volta "plagiati" i bambini avrebbero dovuto denunciare i genitori, raccontando di aver subito violenze mai avvenute. I reati contestati sono, a vario titolo, peculato d’uso, abuso d’ufficio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l’altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. A sei mesi dallo scoppio dello scandalo oggi la procura conferma tutti i capi di imputazione, altri sono stati aggiunti grazie alle ricerche dettagliate degli ultimi mesi. Quattro capi d’imputazione sono stati stralciati. Si tratta del direttore dell’Ausl reggiana, Fausto Nicolini, l’addetta stampa dell’azienda sanitaria locale Federica Gazzotti, l’ex sindaco di Cavriago nonché già presidente dell’Unione Val d’Enza Paolo Burani e l’avvocato Marco Scarpati. Per uno tra gli indagati le indagini del nucleo investigativo coordinate dal pm Valentina Salvi e dal procuratore Marco Mescolini hanno portato alla consenso alla richiesta di patteggiamento. É stata fissata l’udienza per il 27 gennaio di fronte al giudice per le indagini preliminari. Al via i 20 giorni di tempo per gli interrogatori a cui saranno sottoposti gli indagati, poi la Procura sarà chiamata a decidere se procedere con le richieste di rinvio a giudizio.
GLI INDAGATI AL CENTRO DELL'INCHIESTA. Tre i capi d'imputazione nei confronti del guru della "Hansel e Gretel". Concorso in abuso d'ufficio l'accusa nei confronti di Claudio Foti alla quale si sono aggiunte, sulla base delle registrazioni delle sedute da lui sostenute con alcuni minori presentate dal legale dello psicologo in sede di tribunale, frode processuale e lesioni personali gravissime. Tra i destinatari dell'avviso di chiusura delle indagini anche Andrea Carletti. Il sindaco di Bibbiano e delegato dell'Unione Comuni Val d'Enza alla specifica materia delle politiche sociali, che si conferma indagato per abuso di ufficio e falsità ideologica. Secondo quanto redatto dai pm l'ex sindaco dem avrebbe lavorato assieme a Foti alla creazione di un progetto volto a consentire, allo psicologo, la prosecuzione illecita del servizio di psicoterapia. Una comunità per minori che, sotto proposta proprio del sindaco dem, sarebbe nata nel paesino dove operava il primo cittadino. A Bibbiano. Un'idea già andata in porto e prota a prendere forma e la cui gestione degli spazi, in assenza di qualsivoglia procedura ad evidenza pubblica, era già stata interamente affidata al centro studi Hansel e Gretel. Tra i principali indagati rimane anche Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val d'Enza. Secondo quanto contestato dalla procura nel provvedimento, la capa degli affidi, avrebbe, minacciato i genitori di uno dei bambini, intimidando che gli avrebbe permesso di vedere i figli "a condizione che rilasciasse ai Servizi Sociali il suo consenso a che il figlio minore fosse sottoposto ad un percorso di psicoterapia specialistica con Foti". Per i pm, Anghinolfi avrebbe compiuto "atti idonei diretti in modo inequivoco a costringerlo a prestare il predetto consenso". Tutto, al fine di procurare a Foti Claudio, profitti in denaro, "pari al corrispettivo richiesto per le sedute terapeutiche di euro 135 ogni ora". Un atteggiamento intimidatorio che si sarebbe materializzato in una mail recapitata al genitore da parte di un'assistente sociale dietro ordine della dirigente Anghinolfi. "Rispetto alla richiesta del suo assistito di vedere i figli, dopo essermi confrontata in équipe, le comunico che il Servizio non è d'accordo a svolgere tale incontro. Lo stato di malessere per quanto successo è ancora molto presente e disturbante per la vita dei minori. Poiché si rende necessaria una psicoterapia specialistica, chiedo che il suo assistito possa trasmettere, tramite il suo aiuto, un'autorizzazione al servizio scrivente ai percorsi terapeutici necessari, forse una volta avviato il percorso e ristrutturato il trauma subito ci potranno essere maggiori spazi".
Bibbiano, Cassazione blinda ex sindaco Pd e gli revoca le misure cautelari. Secondo la Cassazione "non vi erano gli elementi per disporre la misura dell’obbligo di dimora" nei confronti dell'ex sindaco di Bibbiano. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Non c’erano gli elementi per disporre la misura dell’obbligo di dimora nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti nell’ambito delle indagini sugli affidi illeciti in Val d’Enza. A dirlo è la Cassazione che riporta, nelle motivazioni espresse il 3 dicembre per l’annullamento della misura cautelare, la mancanza di “elementi concreti” di reiterazione dei reati e “l’inesistenza di concreti comportamenti” di inquinamento probatorio. Il 20 settembre era arrivata la decisione dei giudici sulla revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari per Carletti. Il Riesame aveva però predisposto, per l’indagato nell’ambito dell’inchiesta "Angeli e Demoni", l’obbligo di dimora nella sua casa di Albinea, sempre nel Reggiano. Un provvedimento sul quale gli avvocati difensori Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, avevano presentato ricorso. Secondo l’ultimo verdetto non vi sono rischi di inquinamento probatorio. I giudici sottolineano che l’ordinanza del riesame di Bologna non si è basata su “una prognosi incentrata sul probabile accadimento di una situazione di paventata compromissione delle esigenze di giustizia”. Secondo il Riesame, “pur ammettendo l’inesistenza di concreti comportamenti posti in essere dall’indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato una possibile influenza sulle persone a lui vicine nell’ambito politico amministrativo per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ripercussioni sulle indagini”. Il provvedimento dell’obbligo di dimora è stato preso, si dichiara, “senza che vi siano le ragioni dell’ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate”. Risultato di supposizioni inaccettabili, anche il rischio di reiterazione. Sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, Carletti è accusato di abuso d'ufficio e falso ideologico. Ciò che si contesta al primo cittadino è di aver affidato gli spazi della struttura pubblica "La Cura" ad un ente privato. Un affidamento che avrebbe conferito senza gara e, per di più, a titolo gratuito. Finito nel registro degli indagati per l’inchiesta della procura di Reggio Emilia, Carletti era stato arrestato il 27 giugno scorso. Su decisione del Prefetto, il primo cittadino era stato sospeso dal ruolo. Dopo poco è arrivata l’autosospensione del sindaco dal partito.
Bibbiano, la sinistra santifica Carletti e si dimentica dei bambini. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva prende le difese dell'ex sindaco di Bibbiano e si indigna per il massacro mediatico subito dal primo cittadino dimenticandosi delle vere vittime dello scandalo. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. I giudici revocano le misure cautelari all’ex sindaco di Bibbiano e la sinistra punta il dito contro i media che hanno parlato dello scandalo sugli affidi. A questo giro a commentare in tempi record la notizia del nuovo provvedimento del tribunale del Riesame ci pensa Roberto Giachetti. Il deputato di Italia Viva grida allo scandalo dalle sue pagine social e indignato commenta su Facebook: "C’è bisogno di aggiungere qualcosa? Una persona massacrata sui media e sui social per mesi. Chi lo ripagherà mai per tutto quello che ha subito? Ecco dove porta la cultura di manette e galera. Meditate gente, meditate". Beh, in realtà qualcosa da aggiungere ci sarebbe. Ad esempio, si potrebbe sottolineare che l’aver sollevato Andrea Carletti dall’obbligo di dimora ad Albinea non equivale a dichiarare la sua innocenza. A dirlo è la stessa Cassazione che sottolinea riguardo al provvedimento preso il 3 dicembre, la mancanza di “elementi concreti” di reiterazione dei reati e “l’inesistenza di concreti comportamenti” di inquinamento probatorio. Non ci sono elementi evidenti che possano far dedurre il rischio di inquinamento delle indagini ancora in corso e per questo, l’ex sindaco del Partito Democratico è libero di viaggiare fuori dai confini della sua casa. Nonostante rimanga ancora in attesa di giudizio. A ribadirlo sono anche i suoi legali, che seppur contenti della decisione presa evidenziano il significato delle misure restrittive con chiarezza. ”E' un grande risultato - ha commentato l'avvocato di Carletti, Giovanni Tarquini all'AdnKronos -, perché si riconosce che, fin dall'inizio, non c'erano i presupposti e le motivazioni per la misura cautelare. Le misure cautelari sono uno strumento molto forte e di fatto un'anticipazione del giudizio e, in questo caso, erano una forzatura". A rincarare la dose anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. Che con un tweet ha puntato il dito contro gli avversari politici. "La Cassazione spiega che l'arresto del sindaco di Bibbiano era infondato. Ci sarà qualche coraggioso grillino o leghista pronto a scusarsi per lo squallido sciacallaggio?" Anche l'ex piddino si scaglia dalla parte dell'indagato e azzarda pure un poco calzante reato di sciacallaggio. Esorta gli esponenti di Lega e Cinque Stelle, che dallo scoppio dell'inchiesta si erano schierati dalla parte dei piccini esortando i vertici del Partito Democratico a prendere provvedimenti e fare chiarezza sulla accuse dei loro, ad avere coraggio di chiedere scusa. Viene da domandarsi se, viste le rinnovate accuse agli indagati dell'inchiesta emerse dalle indagini ormai giunte a conclusione, qualcuno del Pd avrà mai il coraggio di scusarsi per aver completamente ignorato la sofferenza delle famiglie colpite dal sistema illecito della Val d'Enza. Sebbene ogni individuo sia innocente fino a prova contraria, i media non possono certo esimersi dal riportare i fatti di un caso eclatante che ha scosso gli animi di un intero Paese e che potrebbe aver scoperchiato un sistema, ben collaudato e intriso di illeciti, capace di distruggere intere famiglie lucrando sulla pelle di decine di bambini. Si scandalizzano gli esponenti di Italia Viva, prendono le parti del sindaco Dem. Definiscono un massacro le parole dei media e i commenti dei leoni da tastiera. Si domandano addirittura chi lo ripagherà mai per tutto questo supplizio. E ancora una volta si dimenticano che riportare le accuse degli indagati è servito a fare luce su una storia che se fosse confermata sarebbe la descrizione di un massacro reale. Che supera di gran lunga un’offesa sui social. Che parla di sedute psicologiche in cui i bambini sarebbero stati plagiati al fine di confessare abusi mai avvenuti per poi essere allontanati dalla propria famiglia accusata con finti pretesti e prove inesistenti di violenze e abusi sull’amore della loro vita. Non una parola spesa riguardo le ultime valutazioni del gip che ha evidenziato nei fatti di Bibbiano “un programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Per questo tra i garantisti della sinistra nessuno si indegna. Fedeli al loro silenzio tombale sull’inchiesta della Procura giustificato dall’odio verso la strumentalizzazione politica dei fatti di cronaca. Fino a quando, un passo indietro dei giudici nei confronti di uno degli indagati, non diventa l’ennesimo pretesto per insinuare che Bibbiano non è altro che una favola creata ad arte da chi ha voluto guadagnarsi consensi politici. Di un tratto, pur di salvare l’immagine, ecco spuntare vittime inesistenti. Santificare chi ancora non è stato dichiarato innocente non è forse strumentalizzazione volta a salvarsi la faccia? E per l’ennesima volta l’indignazione fasulla dei Dem è uno schiaffo alle vere vittime di questo scandalo. I bambini.
Bibbiano si scaglia contro il presidente Bonaccini. Le famiglie del caso affidi pronte per il flash-mob di protesta davanti al municipio, ma Bonaccini annulla l'incontro in paese. Costanza Tosi, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. Bibbiano si scaglia contro il presidente della Regione Stefano Bonaccini. Mamme e papà organizzano un flash-mob per protestare contro il Pd emiliano dopo gli scandali sugli affidi illeciti. Bonaccini sarebbe dovuto essere a Bibbiano per un incontro “a porte chiuse”. Assieme ai volontari che hanno organizzato il “Festivald'Enza”. Niente di fatto. Dopo che la notizia dell’incontro ha iniziato a circolare, famiglie di tutta Italia hanno aderito alla proposta di organizzare un flash-mob davanti al municipio proprio in concomitanza dell’incontro fissato dal presidente del Pd, che ha poi deciso di annullare il confronto. Tutto era partito da un messaggio whatsapp, rimbalzato sui cellulari di gran parte degli abitanti del paese, nel quale il segretario locale del Pd avvertiva militanti e simpatizzanti. “Ciao ragazzi, - scriveva Stefano Marazzi - domenica al parco Manara ci farà visita il nostro presidente della Regione nonché nostro candidato Stefano Bonaccini. Vista la delicatezza della ormai prossima scadenza elettorale, vi preghiamo di non mancare... Non faremo una divulgazione pubblica per evitare il sorgere di speculazioni politiche di cui non abbiamo bisogno... Vi chiedo pertanto di fare un passa parola via telefono o via mail a tutti coloro che, iscritti, elettori, simpatizzanti o volontari, ritenete possano essere interessati a questo evento... Vi aspettiamo!!!”. Eppure, nonostante l’espressa volontà di tenere “semi-segreto” l’incontro tra gli uomini della sinistra, per scappare da contestazioni o critiche, la notizia è arrivata a molti. Tra questi, anche alcune presunte vittime del caso affidi che, ancora una volta, hanno deciso di rispondere all’invito con una dimostrazione pacifica volta a ribadire la loro richiesta di giustizia. I genitori si sono messi in contatto con il comitato “Famiglia e Vita” di San Felice sul Panaro. Che, ormai da mesi, aiuta e supporta le famiglie in difficoltà. Il gruppo di militanti e genitori hanno organizzato il flash-mob davanti alla sede del comune di Bibbiano, esattamente lo stesso giorno e alla stessa ora in cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro tra Bonaccini e i suoi. Il presidente del comitato, Franco Rebecchi, ha fatto partire il passa parola. Nel messaggio, inoltrato via whatsapp, si dava appuntamento per tutti coloro che volessero partecipare, domenica 5 gennaio alle 16. “Tutti con un giocattolo per i bambini che, secondo le indagini, sono stati tolti ingiustamente alle famiglie d’origine. Questo mentre Bonaccini sarà a Bibbiano tra gli elettori del Pd, probabilmente ad affermare che, proprio là, a Bibbiano, non è successo nulla.” Dopo tutto, per il Pd emiliano, questa volta non era facile scappare. Difficile non trovare il filo conduttore tra i fatti di Bibbiano e la presenza del presidente Bonaccini nel paese finito al centro degli scandali sui bambini. Proprio lui, che ha istituito la commissione d'indagine regionale sugli affidi dalla quale è emerso che, i fatti di "Angeli e Demoni”, sono stati solo un raffreddore all’interno di un sistema che, in realtà, funziona bene. Parole che hanno lasciato un segno indelebile nella mente di tutte quelle famiglie che hanno dovuto vedere il loro dolore minimizzato da chi prometteva giustizia e ha alla verità ha preferito, ancora una volta, il silenzio. E così, dopo l’annuncio della dimostrazione delle famiglie, Bonaccini ha deciso di annullare l' incontro. “Chiaro che vogliamo evitare di far alzare i toni ancora una volta sul tema affidi”, ha commentato l' onorevole reggiano Andrea Rossi, coordinatore del comitato elettorale di Bonaccini. Rapida la risposta di Rebecchi, del comitato “Famiglia e Vita”, che non usa mezzi termini e si scaglia contro gli esponenti del Pd. “È vergognoso quanto sia impavido Bonaccini. Ha avuto paura di essere a 1 km di distanza da noi. Il Pd di Bibbiano sapeva che noi facevamo un presidio davanti al comune di Bibbiano e non saremmo andati ad incontrare Bonaccini nella sede locale del Pd. Bonaccini, che all'apparenza sembra molto sicuro di sé si è dimostrato più pauroso di un coniglio. A quanto mi risulta nessun esponente politico del Pd locale, provinciale, regionale, nazionale e uomini di governo del PD hanno incontrato almeno una famiglia a cui hanno rubato i figli, per conoscere i fatti e condividere il suo dolore poi vogliono parlare che il sistema affidi va tutto bene”.
Il legale di Foti che difende gli scandali di Bibbiano crede ai marziani che rapiscono i bambini. Andrea Coffari avvocato difensore e collega di Claudio Foti, oltre a condividere l'ideologia dei "demoni" di Bibbiano si fida di Robert David Steele, americano che denuncia l'esistenza di sette sataniche che spediscono i bambini su Marte. Costanza Tosi, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Quando l’ideologia sfocia nel complottismo si rischia di credere ad evidenti assurdità. Parlando del caso Bibbiano, abbiamo scritto più volte che, a muovere le fila dello scandalo sugli affidi illeciti fosse proprio l’ideologia degli indagati. Dietro i casi dei bambini strappati alle proprie famiglie d’origine, portati alla luce dalla procura di Reggi Emilia, con il tempo e le ricerche, è diventato quasi impossibile negare l’esistenza di un sistema e di un’ideologia estrema che cerca di distruggere la famiglia naturale. E così i “demoni” di Bibbiano portavano avanti i loro gioco illecito, autoconvincendosi e raccontando al mondo che gli assurdi pretesti con i quali toglievano i bimbi alle famiglie non erano altro che il tentativo di liberarli da feroci sette sataniche. Ci credevano davvero Federica Anghinolfi, la dirigente dei servizi sociali, il collega Francesco Monopoli e il guru della "Hansel e Gretel" Claudio Foti. A raccontarlo sono i testimoni in tribunale. Che ammettono di essere stati plagiati dai racconti sui mostri dei bambini nella Val D’Enza ripetuti come un disco rotto per ogni caso che si trovavano a seguire. Banale scoprire che a condividere questa falsa realtà da film dell’orrore fosse anche Andrea Coffari. Legale di Claudio Foti e collaboratore dello psicologo torinese. Secondo gli inquirenti non esisterebbe nessuna setta di pedofili dalla quale salvare bambini abusati e secondo le ultime valutazioni del gip è possibile riscontrare, nelle operazioni di cui sono accusati gli indagati, un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Eppure, il dottor Coffari, a questa versione non ci sta. E resta lontano dall’abbandonare le sue radicate convinzioni. Lo si apprende da un post, pubblicato il 29 dicembre sul suo profilo Facebook. "C'è un filo rosso che lega il potere alla pedofilia e alle sette più o meno sataniche o rituali. C'è chi ha interesse che questa amara verità sia svelata e c'è chi ha interesse ed opera perché rimanga nascosta". Scrive Coffari. Ma non basta. A riprova della sua tesi sconclusionata allega al suo commento un video. A parlare è un certo Robert David Steele. Un signore che figura tra i rappresentanti di un gruppo, con sede a Londra, chiamato International Tribunal of Natural Justice. L’associazione porta avanti da anni una battaglia contro i poteri forti, ma soprattutto cerca di illuminare l’opinione pubblica attraverso ricerche basate su criteri sconosciuti che porterebbero all’evidenza di sette di pedofili che sfruttano i bambini. Nel discorso Mr Steele ne dice di tutti i colori. Dopo aver affermato di essere un americano ex agente Cia inizia a raccontare del commercio di bambini gestito da sette di pedofili. “Abbiamo persone negli Stati Uniti d’America che facevano bambini per venderli - dichiara Steele - Bambini che quando non vengono venduti arrivano senza certificato di nascita il che significa che così è più facile ucciderli e nessuno si chieda dove si trovino. Importiamo anche bambini con dei carichi enormi, e ancora, bambini senza documentazioni. Non è solo schiavitù di bambini o abuso sessuale di minori si tratta di una tortura, perché i piccoli servono agli uomini delle sette per il sangue adrenalizzato che bevono durante i loro riti.” Storie da non credere raccontate con la massima disinvoltura e senza mezza prova alla mano. “Si fa uso anche di bambini per procurare organi del corpo. E poi abbiamo le cerimonie rituali oltre agli omicidi accidentali". Insomma, secondo l’americano esistono enormi organizzazioni che lavorano al solo scopo di torturare i bambini. Una storia da far accapponare la pelle. E sapete quanti sono, secondo Steele questi minori? “Tra i 600.000 e gli 800.000 all’anno solo in America”. E questo senza contare quelli nati e mai registrati. Ma come sono stati dedotti questi dati non è dato sapere. Nessuno straccio di prova viene presentato all’“evento educativo”. Come lo chiama Steele. Ma nonostante non possa portare evidenze di questo film costruito ad arte e figlio di un’ideologia smisurata secondo l’uomo: “La pedofilia è anche il collante di induzione. É il modo in cui lo stato nascosto recluta e controlla le persone. É anche il tallone d’Achille dello stato nascosto: il pubblico si deve rendere conto che i governi non proteggono i loro bambini e allora tutto il resto riguardo al governo sarà messo in discussione.”. Come se non bastasse anni fa l’uomo condiviso da Coffari l’aveva sparata ancora più grossa. Come riporta Pablo Trincia, in un suo post sulla pagina Facebook: “David Steele, due anni fa è arrivato a dire che un numero impressionante di bambini vengono rapiti e portati addirittura sul pianeta Marte, dove ci sarebbero colonie di piccoli schiavi di cui nessuno sa nulla. Era serio.” Ebbene sì. Robert David Steele, intervistato dal sito Infowars, ha dichiarato: “In realtà crediamo che ci sia una colonia su Marte che è popolata da bambini che sono stati rapiti e inviati nello spazio nell' arco di 20 anni”. Secondo Steele, questi bambini sarebbero stati strappati alle famiglie “in modo che, una volta arrivati su Marte, non avessero altra alternativa che essere schiavi della colonia”. In un mondo in cui l’opinione pubblica è sottoposta ad un’overdose di notizie e una conseguente scarsa verifica di queste perfino il Washington Post ha dovuto smentire la castroneria detta a tutta voce dal presunto ex agente Cia, pubblicando un articolo in cui riportava la smentita della Nasa. È vero che alle storie da Guerre Stellari è molto difficile credere e questo allontana i rischi di danni reali. Ma la stessa persona che crede nei marziani schiavisti non si è fatta problemi neanche nel sostenere che “molte organizzazioni (umanitarie) finiscono per essere usate per predare i bambini. L’Oxfam è un esempio recente - Afferma Steele - Tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite quello che attraggono sono i pedofili che alla fine finiscono nei ranghi e controllano queste organizzazioni. Quindi queste organizzazioni che nascono per aiutare i bambini diventano organizzazioni che cercano i bambini.” Siamo davanti all’ennesima teoria del complotto. Quando tutto è trainato da un’ideologia spasmodica la situazione diventa pericolosa. Credere in assurdità mai esistite, in alcuni casi, ha portato a tragedie inimmaginabili. Venti anni fa, in Val D’Enza, il caso dei "Diavoli della Bassa" in cui decine di famiglie furono accusate di fare parte di una setta satanica che violentava i bambini, portò alle distruzione di intere famiglie, al suicidio di indagati innocenti, alla perdita dei genitori per decine di bambini. A Bibbiano fortunatamente la falla sembrerebbe essere stata scoperta prima, ma ancora una volta, troppi bambini hanno sofferto inutilmente. Vittime di un ideologia e di un circolo vizioso che fa paura.
Quei bambini tolti alla mamma per un disegno mal interpretato. I servizi sociali tolgono tre figli alla mamma sulla base di un disegno fatto in classe, le accuse di maltrattamento sui piccoli si sono poi rivelate infondate. Costanza Tosi, Domenica 05/01/2020 su Il Giornale. Quando una mamma viene maltrattata dal marito, quando qualcuno subisce delle violenze che lo costringono a vivere nel terrore. Nella paura. La prima cosa che si consiglia di fare è denunciare tutto alle autorità. Nonostante i lividi e i racconti delle vittime non è sempre facile per chi interviene stabilire le colpe del “mostro”. Ci vogliono prove schiaccianti per privare qualsiasi individuo delle proprie libertà. Lo si deve cogliere in flagrante. O magari, appurare che non sia stato un evento singolo su cui si è costruito un castello di carta. Accertarsi, insomma, che per mesi la vittima abbia vissuto nella paura. Un calvario necessario per chi prova a chiedere aiuto, ma giusto. Trovarsi accusati di qualcosa che non si è fatto per un essere umano che nulla può contro la legge sarebbe un’irrecuperabile ingiustizia. Un errore giudiziario a cui nessun risarcimento in denaro riuscirebbe a mettere una toppa. Gli anni di vita nessuno riesce a renderteli indietro. Eppure, ci sono casi in cui l’accusa si confonde con la colpa accertata. Ancora prima di un processo. Ancora prima delle prove. Il paradosso è enorme. Coloro che dovrebbero proteggere le presunte vittime si trasformano, in un batter d’occhio, nei carnefici. È successo in Ciociaria, a Ceccano. Ancora una volta a dei minori. Ancora una volta ad una famiglia di persone per bene. Ancora una volta, l’accusa parte da un'interpretazione farlocca di un disegno fatto a scuola. Siamo nella primavera scorsa quando, due genitori, lui quarantenne che lavora come corriere, lei casalinga, finiscono nella trappola dei servizi sociali. Attaccati dal Tribunale dei minori e accusati di violenze sui loro tre bambini. Tutto parte da una segnalazione. Un giorno, mentre si trovava a scuola, la primogenita della coppia, una bimba di 5 anni con qualche deficit di apprendimento e per questo affiancata da una maestra di sostegno, disegna su un foglio la mamma con in mano un mattarello. Probabilmente la immaginava a cucinare, a stirare la pasta di qualche torta preparata a casa. Verrebbe da pensare. Non a tutti a quanto pare. Perché, quel disegno, è stato interpretato come un campanello d’allarme. Il matterello è diventato l’arma con cui la madre avrebbe maltrattato la piccola e questo le è costato l’allontanamento dai suoi tre figli. Alcuni giorni prima del fatidico disegno, la piccola era arrivata a scuola con alcuni graffi, e aveva raccontato di esserseli procurati mentre giocava a pallone col cuginetto. Una versione a cui la maestra già non aveva creduto e che ha lanciato i sospetti sulla famiglia della bimba. Il disegno del matterello è stato subito accolto come la prova schiacciante dei dubbi dell’educatrice, che ha segnalato la questione ai servizi sociali. In quattro e quattr’otto è scattata la denuncia alla Procura e al Tribunale dei minori che ha disposto l'immediato allontanamento dei tre figli dalla coppia. Persino l'ultimo, nato da pochi giorni e ancora ricoverato all'ospedale Gemelli di Roma per l'ittero neonatale. È stato portato in un istituto di Roma dove ha continuato le cure. Con il tempo e le indagini, le accuse si sono dimostrate completamente infondate. A dimostrarlo è stata la dottoressa Francesca Coppola, specialista di neuropsichiatria infantile, che ha lavorato sull' incidente probatorio e stilato una relazione che ha tolto i dubbi sull’innocenza della mamma. Ma la decisione affrettata del Tribunale i suoi danni li aveva già fatti. E adesso recuperare il colpo potrebbe non essere banale. Sopratutto per il più piccino. Che non ha mai abbracciato i suoi genitori e a cui non è stato concesso neanche di essere allattato dalla propria madre. Tutto per un’interpretazione errata di un disegno di una bambina.
Affidi illeciti, la preghiera di Natale dei genitori: "Gesù riportaci i nostri figli". In Piemonte, la regione record per allontanamento di minori, l'iniziativa di Natale per denunciare presunti affidi illeciti e abusi nelle comunità. Sui casi indaga una commissione regionale. Elena Barlozzari, Venerdì 03/01/2020, su Il Giornale. Ci sono case dove il Natale non è mai arrivato. Sono le case senza bimbi, quelle dove gli abeti sono sguarniti di doni. Le case dei genitori che stanno risalendo la china più dura: riabbracciare i propri figli. Chi associa lo scandalo sui presunti affidi illeciti a Bibbiano sbaglia. Bibbiano non è solo quel luogo fisico diventato tristemente famoso in seguito all’inchiesta Angeli e Demoni. Bibbiano è ovunque una famiglia denunci l’ingiusto allontanamento dei figli. Proprio come accade a Torino, dove il network "No alla violenza sui bambini" ha raccolto decine di segnalazioni. Storie sottotaciute che da questa mattina adornano simbolicamente l’albero di Natale della stazione Porta Nuova con foto, disegni e lettere dei bimbi sottratti. Lo straziante messaggio associato all’iniziativa è: “Gesù Bambino riportaci i nostri figli”. A fornire il materiale ai volontari di "No alla violenza sui bambini" sono stati gli stessi genitori. “L’idea è partita da loro, noi gli abbiamo solo dato una mano a realizzarla, perché - ci spiega Barbara Scaglia, che ha curato il progetto - questo è il periodo dell’anno in cui la mancanza di un figlio si sente di più”. Barbara, biologa di professione e filantropa per vocazione, assiste da anni i bimbi in casa famiglia con progetti di volontariato. È a lei che si sono rivolte alcune famiglie di Torino e provincia per denunciare i soprusi subiti. “Le segnalazioni principali - racconta - riguardano la sottrazione di minori con modalità poco ortodosse e senza cause gravi da giustificare l’allontanamento”. Come è stato per Lucia, nome di fantasia della giovane mamma che abbiamo incontrato nell’hinterland torinese un paio di mesi fa. Lei ci aveva raccontato di essere stata vittima di una vera e propria rappresaglia da parte dei servizi sociali, che le hanno strappato dalle braccia tre figli minori. La sua colpa? Aver denunciato sui social network i maltrattamenti subiti nella comunità mamma-bambino dove risiedeva. Un caso, sottolinea la Scaglia, tutt’altro che isolato: “Nelle strutture di accoglienza per minori, spesso, si consumano episodi gravi, ma sono poche le mamme che hanno il coraggio di metterci la faccia e denunciare perché la maggior parte di loro teme ripercussioni”. Non solo maltrattamenti e violenze psicologiche, stando alla documentazione messa insieme dalla Scaglia, in alcuni centri di accoglienza le condizioni igienico sanitarie sarebbero da incubo: tra infestazioni di scarafaggi e ratti e cibi avariati. Indagare quello che accade all’interno di questi luoghi protetti però non è facile, come dimostra quello che è capitato lo scorso settembre all’assessore regionale al welfare Chiara Caucino. Quando si è presentata davanti ai cancelli di una comunità terapeutica per minori nell’Astigiano per un controllo ispettivo è stata lasciata alla porta. “Ci sono strutture - prosegue la Scaglia - dove vengono somministrati antidepressivi e ansiolitici ai minori all’insaputa dei genitori”. “Tutte le segnalazioni che abbiamo raccolto in questi mesi - chiarisce - verranno valutate dalla commissione di indagine regionale e siamo fiduciosi che se ne venga a capo”. L’organo in questione, come vi abbiamo già raccontato, si è insediato a Palazzo Lascaris ad ottobre scorso su iniziativa del consigliere regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone. Lui è uno dei primi a sostenere che Bibbiano sia solo la punta dell’iceberg. E che il presunto “sistema Foti” affondi le sue radici proprio qui, nella regione dove ha sede la Hansel e Gretel e dove il terapeuta è nato e cresciuto professionalmente. “Stiamo approfondendo storie da incubo - racconta il consigliere - di neonati allontanati per abusi mai provati, minori non restituiti nemmeno dopo l’archiviazione delle accuse, bambini riempiti di psicofarmaci nelle comunità terapeutiche e molto altro ancora”. “In questi mesi - prosegue Marrone - mi sono convinto sempre di più che le radici del cosiddetto 'sistema Bibbiano' si trovino in Piemonte”. “È bene ricordare - aggiunge - che questa è la regione record per allontanamenti di minori, con la percentuale al 4 per mille rispetto alla media nazionale del 2,7 per mille”. Nasce da qui l’esigenza di fare luce attraverso una commissione regionale che dia impulso alla magistratura. “La fine dei lavori è prevista a primavera, gli esiti dell’indagine - chiarisce Marrone - confluiranno in una relazione conclusiva che diventerà un atto formale della Regione Piemonte”. “Il dossier verrà quindi inviato alle procure piemontesi interessate per territorio, nella speranza - conclude il consigliere - che partano dei procedimenti giudiziari veri e propri. Famiglie e bambini esigono giustizia”.
Bibbiano, il gip affossa gli indagati: "Un tasso potenziale di criminalità". Secondo il gip, i fatti di Bibbiano sono frutto di un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Costanza Tosi, Domenica 29/12/2019, su Il Giornale. Due dei principali indagati dell’inchiesta Angeli e Demoni, condotta dalla procura di Reggio Emilia sui casi dei presunti affidi illeciti, sono tornati in libertà, ma le valutazioni del gip sui loro profili fanno emergere circostanze sempre più preoccupanti. Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza da mesi al centro delle indagini sui fatti di Bibbiano con l’accusa di aver stilato false relazioni per togliere i bimbi alle proprie famiglie sulla base di fatti mai accaduti, adesso non è più agli arresti domiciliari. Così anche Francesco Monopoli, collega di Anghinolfi finito nel registro degli indagati. Le motivazioni del ritiro delle misure cautelari nei confronti dei due assistenti sociali stanno nell’impossibilità, considerando la fase finale a cui sono ormai giunte le indagini, di inquinare le prove. L’inchiesta sulle storie dei bambini di Bibbiano sta arrivando a conclusione e gli elementi di prova raccolti “cristallizzati” e “solidi”, secondo le ultime valutazioni del gip aprirebbero scenari che descrivono i principali indagati come le menti di un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Secondo le carte, Monopoli, Anghinolfi, ma anche Nadia Bolognini della Onlus Hansel e Gretel guidata dal guru Claudio Foti e la psicologa Imelda Bonaretti, lavoravano per smascherare una rete di pedofili che agiva nella Val d’Enza e, sulla base dei fatti avvenuti nella Bassa Modenese circa venti anni fa, cercavano di confermare attraverso falsi racconti l’esistenza dell’organizzazione pericolosa. Un film creato ad arte. Di fatto, la rete di pedofili non sarebbe mai esistita. E il meccanismo, ben collaudato, messo su dagli indagati per riuscire a denunciare abusi mai avvenuti e così strappare i figli dalle proprie famiglie naturali porta il gip ad una sola conclusione. Secondo le valutazioni, la personalità di Anghinolfi “risulta mostrare un peculiare atteggiamento che denota il suo tasso potenziale di criminalità”. Per il giudice, la capa dei servizi simpatizzante delle famglie arcobaleno: “È fortemente corrispondente per indole anche per inclinazione personale e comunanza ideologica alle posizioni aprioristiche di cui risulta ispiratrice (al pari di Monopoli, Foti e Bolognini)” e, sarebbero “la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell'abuso da dimostrarsi a ogni costo”. E in effetti, per riuscire a dimostrare l’esistenza dei mostri immaginari con i quali combattevano, gli indagati erano arrivati ad insinuare perfino che tra gli orchi che stupravano i bambini fossero coinvolti giudici, magistrati e forze dell’ordine. A raccontarlo alcuni testimoni. “Monopoli mi disse che vi era una cerchia di persone, che mi lasciò intendere essere molto potenti, dedita alla pedofilia. Una cerchia a cui le famiglie dei bambini da loro protetti avevano venduto i propri figli per soddisfare le pulsioni sessuali del gruppo”. Ha raccontato Anna Maria Capponcelli, consulente tecnico del Tribunale per i minorenni di Bologna. Una storia completamente inventata. Non la sola, secondo le testimonianze di Cinzia Magnarelli, che ha invece ammesso che Monopoli le aveva parlato di “racconti dei bimbi da cui emergeva la sussistenza di omicidi di altri bambini, ma anche episodi di cannibalismo e rituali religiosi satanici”. Il sequel dei Diavoli della Bassa era il filo conduttore dei racconti di Monopoli. A parlare delle storie degli stupratori di bambini all' ex comandante della polizia municipale Cristina Caggiati, era stata invece Anghinolfi che, racconta la testimone, “da diversi anni mi parlava di una rete di pedofili che, la stessa, ipotizzava essere operante anche nel territorio della Val d' Enza”. Ma c’è di più. Questa volta la Anghinolfi aveva cercato di ampliare ulteriormente la cerchia. Nel racconto aveva menzionato, oltre a magistrati e forze dell’ordine, anche gli “ecclesiastici”. E, come se non bastasse, parlò di intrecci con la 'ndrangheta per poi arrivare a sostenere che anche il piccolo Tommaso Onofri, rapito e ucciso nel 2006 a Parma da un muratore per chiedere un riscatto, fosse tra le vittime di questa rete di pedofili. Storie dell’orrore senza un pizzico di verità ma che servivano ai protagonisti dell’inchiesta per giustificare la loro ossessione nell'accusare i genitori di abusi mai avvenuti e arrivare a togliere i bimbi alle famiglie. A confermarlo sono due psicologhe le cui testimonianze sono finite a verbale: “Loro (riferendosi ad Anghinolfi e Monopoli, ndr), tenevano in mente prevalentemente l'obiettivo abuso sessuale, tutto ruotava attorno a tale obiettivo e su di esso ci veniva chiesto di orientare i nostri accertamenti anche quando vi erano versioni alternative all' abuso su cui lavorare e da approfondire”. E sebbene i due indagati siano tornati ad essere uomini liberi, il gioco illecito è stato smascherato e i due non potranno continuare a rovinare la vita alle famiglie a causa delle loro ossessioni ideologiche. Monopoli e Anghinolfi sono stati infatti sospesi dall’attività. Dopo tutto, osserva il gip, “i contatti con il mondo politico e ideologico di riferimento, proprio in ragione dell'ampio risalto dato dai mass media alla vicenda non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi (...), posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe costituirà un adeguato cordone sanitario più di qualsivoglia altra misura cautelare”.
Allontanata da casa dai servizi sociali ora ritira le accuse: "Papà, scusami: ho sbagliato". I servizi sociali la affidarono ad una casa famiglia dopo che la ragazzina riuscì ad accusare il padre di violenze fisiche mai avvenute. Dopo un lungo calvario il papà è stato assolto. Costanza Tosi, Lunedì 09/12/2019, su Il Giornale. Era stata allontanata dal padre dai servizi sociali dopo averlo accusato di violenza verbale e fisica nei suoi confronti. Oggi ha vent’anni e chiede perdono: “Papà, scusami. Ho sbagliato”. Sono passati 9 anni da quando Sara (nome di fantasia, ndr), allora 11enne, iniziò a denunciare il papà che la maltrattava. In quattro e quattrott’otto il padre, un 55enne straniero che vive a Reggio Emilia finì a processo per maltrattamenti e lesioni aggravate alla figlia. La ricostruzione investigativa metteva nero su bianco fatti atroci. Si sosteneva che la ragazza avesse ricevuto, nel 2012, minacce di morte da parte del papà. “Ti taglio la gola”. E poi ancora calci e pugni. Tanto che la ragazzina era costretta a chiudersi in camera per la paura. Poi, l’aggravante del coltello, che il padre avrebbe puntato addosso alla figlia minacciandola. Una storia orribile che, a poco a poco si è rivelata una messa in scena dolorosa. Un racconto montato di vicende mai avvenute. Tutte “menzogne”, così adesso le descrivono i giudici d’Appello. Che parlano nella sentenza, come riporta La Nazione, di bugie “frutto di un rifiuto della figura paterna derivante dalle limitazioni che le venivano imposte”. Le accuse sono poi cadute, tutte, dopo la sentenza di primo grado nel 2017, in cui il giudice Luca Ramponi, rigettò la richiesta di tre anni di condanna da parte del magistrato e ribadita anche dalla Procura generale di Bologna. Troppo tardi però, per risparmiare al padre, che si è sempre dichiarato innocente, la sofferenza di vedersi allontanare la sua bambina. Nel 2013 Sara è stata portata via da casa e affidata, dai servizi sociali della Val d’Enza, ad una comunità. Il tribunale dei minori aveva accettato la richiesta degli operatori dei servizi, decretando che la piccola doveva stare lontana dal padre perché vittima di “violenza verbale e psicologica dei genitori, continui litigi, mancanza di accudimento materiale e affettivo”. I genitori vennero accusati “di vedere il loro modello culturale come l' unico possibile, senza porsi in un' ottica di confronto” con la figlia. Un verdetto che ha portato la bambina a vivere nella casa famiglia fino allo scoccare dei suoi diciotto anni. Sette anni lontana dai propri affetti e con la possibilità di vedere mamma e papà di tanto in tanto, per periodi brevi e incontri sporadici. Una decisione che ha costretto il papà a vivere nella sofferenza per anni. “Stavo morendo di dolore. I servizi sociali hanno distrutto la mia famiglia - ha raccontato al suo avvocato difensore Ernesto D' Andrea - io volevo bene a mia figlia, ma se lei, così giovane, mi chiedeva a mezzanotte di uscire io le dicevo di no”. Nel periodo in cui si trovava affidata alla casa famiglia, Sara, attraverso il curatore speciale, ha chiesto al padre 50mila euro di risarcimento. A testimoniare, in aula di tribunale, era stata chiamata Cinzia Magnarelli. L’assistente sociale finita nel registro degli indagati per l’inchiesta su i bambini di Bibbiano, che ha ammesso di aver falsificato le relazioni sui minori. “Mi ha parlato di numerose percosse”, del “coltello puntato contro”, e mi ha detto che “la madre e le sorelle fossero a conoscenza degli episodi, a cui non era mai stato posto fine, e che anzi erano loro stesse vittime”. Aveva raccontato l’indagata in aula. Ma la madre e le sorelle si opposero ai racconti fantasiosi per far emergere la verità e, come racconta l’avvocato, “hanno smentito Magnarelli e discolpato il padre”. Ad essere ascoltata dal giudice, in udienza, anche un’altra delle indagate per l’inchiesta “Angeli e Demoni”, Federica Anghinolfi. La responsabile dei servizi sociali della Val D’enza dichiarò che “la personalità non serena e non del tutto sviluppata della ragazza è certificata anche dell' Ausl. Queste ferite si possono anche rimarginare se ci si lavora e se ci sono ambienti idonei”. E quali fossero gli ambienti idonei lo avrebbero deciso proprio loro. Gli stessi servizi sociali che mandarono la piccola Katia (una delle bambine finite nelle carte dell’ordinanza della procura nell’ambito dell’inchiesta sugli affidi illeciti) a vivere con le due amiche di Anghinolfi di cui, noi de IlGiornale.it, abbiamo raccontato le assurde vicende che la coppia di mamme affidatarie ha fatto vivere alla piccola. Scaraventata in strada sotto la pioggia con urla e minacce, solo perchè non voleva accusare il papà di abusi mai avvenuti.
Bibbiano, tutto quello che c'è da sapere. L'inchiesta "Angeli e Demoni" dalle carte della Procura alla questione politica. Tutto quello che c'è da sapere sullo scandalo di Bibbiano. Costanza Tosi, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. L'inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Emilia che prende il nome di "Angeli e Demoni" vede al centro della indagini la rete di servizi sociali della Val D'Enza e del comune di Bibbiano. Secondo quanto scritto nell'ordinanza del tribunale, alcuni degli operatori dei servizi sociali avrebbero falsificato le relazioni da consegnare al Tribunale dei Minori in modo da riuscire ad allontanare i bambini dalle proprie famiglie per poi darli in affido ad amici e conoscenti. Un meccanismo messo in piedi per interessi economici. E non solo. Dietro a questi traffici, si legge nelle carte, ci sarebbe un "fattore ideologico". Dall'inchiesta è emersa una serie di accordi sottobanco e favoritismi che svela un'enorme rete formata da enti privati e pubblici e collegata anche dalle istituzioni. Un sistema fatto di intrecci e atrocità che, per anni, sarebbe servito a favorire un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro.
Le indagini. Tutto è iniziato nell'estate del 2019. Quando il pm di Reggio Emilia Valentina Salvi, insospettita dall’alto numero di denunce fatte dai servizi sociali nei confronti di genitori accusati di compiere violenze in famiglia, ha deciso di far partire le indagini, che hanno coinvolto avvocati, psicologi, assistenti sociali e politici. Tra le segnalazioni sospette, vi era un gran numero di accuse di abusi sessuali e maltrattamenti che, nella maggior parte dei casi, erano state archiviate perché infondate o prive di prove. Dall'inchiesta della procura sono emerse finte relazioni, falsi documenti e pressioni psicologiche utilizzate dagli psicologi per riuscire a plagiare i minori. Vere e proprie opere di convincimento, meccanismi di persuasione e storie di fantasia per screditare le famiglie dei piccoli. Una volta "plagiati" i bambini avrebbero dovuto denunciare i genitori, raccontando di aver subito violenze mai avvenute.
Lavaggio del cervello e torture. Secondo quanto emerge dai documenti, i bambini, venivano manipolati nel corso delle sedute di psicoterapia alle quali erano tenuti a sottoporsi, come indicato dai servizi sociali. Per condizionare le dichiarazioni dei minori, i terapeuti utilizzavano anche dei macchinari. A confermarlo uno strumento trovato, e poi sequestrato, durante le perquisizioni presso il centro "La Cura", luogo in cui si svolgevano gli incontri tra le piccole vittime e gli psicologi. Lo strumento, definito dagli stessi terapeuti "macchinetta dei ricordi", avrebbe aiutato i bambini a eliminare dalla mente le brutte vicende del passato, come si evince dalle intercettazioni. Quei ricordi "riposti in cantina, ma sempre pronti a tornare fuori". Inizialmente si era parlato elettrochoc, diffondendo la bufala degli elettrodi attaccati alle mani e ai piedini dei bambini, che venivano assaliti da scosse elettriche. In realtà, come avevano specificato gli investigatori di Reggio Emilia, le cose non stavano proprio così. I macchinari sui corpicini dei bambini sono stati utilizzati, ma non si trattava di scosse elettriche. Bensì di una terapia utilizzata pur non essendo idonea a nessuno dei casi in questione. Su una bambina in cura è stato utilizzato un dispositivo chiamato Neurotek. Si tratta di un macchinario inventato negli Usa, che non produce scosse, bensì trasmette piccole vibrazioni. La terapia per la quale sarebbe stata utilizzata la macchina è chiamata Emdr. Letteralmente significa desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari e si tratta di "un approccio terapeutico utilizzato per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress, in particolare allo stress traumatico". Nelle 277 pagine dell’inchiesta esaminate da ilGiornale.it, vengono riportate ore e ore di intercettazioni fatte dai carabinieri di Reggio Emilia, che testimoniano i lavaggi del cervello ad opera dei medici nei confronti dei bambini. Secondo quanto registrato durante gli incontri con gli psicologi, i minori venivano spinti a confessare episodi mai avvenuti (nella maggior parte dei casi, abusi sessuali o violenze fisiche). Per rendere ancora più credibili le violenze, venivano addirittura "manomessi" i disegni fatti dai bambini. È successo infatti che, gli psicologi, infatti, aggiungessero particolari inquietanti, spesso con una chiara connotazione sessuale. Durante le ore di terapia, gli operatori mettevano in scena anche "giochi di ruolo" per influenzare i bambini, dove i terapeuti si travestivano da personaggi delle fiabe per rappresentare i loro genitori intenti a far loro del male.
Il giro di soldi e le mazzette. Questi, secondo l'indagine "Angeli e demoni", erano solo alcuni dei metodi adottati nei confronti dei bambini con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi darli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento della Onlus piemontese Hansel e Gretel. L’associazione, gestista da Claudio Foti assieme alla moglie Nadia Bolognini, si sarebbe aggiudicata l’utilizzo di ambienti pubblici senza partecipare a nessuna gara d’appalto e occupando lo stabile senza pagare alcun canone d’affitto. Foti è da molti considerato uno specialista in materia di trattamento di minori vittime di abusi. Tema su cui, ha scritto persino molti trattati e tenuto lezioni, in tutta Italia, per formare, con il suo metodo, altri psicoterapeuti. Secondo le accuse, una volta affidati alle cure della Hansel e Gretel, i bambini sarebbero stati sottoposti a sedute di psicoterapia pagate, dal Comune, circa 135 euro l’una, "a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio". Un meccanismo che avrebbe causato un danno economico per l’Asl di Reggio Emilia e per l’Unione, quantificabile in 200mila euro. Funzionava così. Il pagamento del lavoro di psicoterapia avveniva senza rispettare le solite procedure d’appalto: "Gli affidatari venivano incaricati dai Servizi Sociali di accompagnare i bambini alle sedute private e di pagare le relative fatture a proprio nome", si legge. Ma questi soldi venivano poi ricevuti dagli affidatari attraverso rimborsi, sotto una finta causale di pagamento. Così venivano falsificati anche i bilanci dell'Unione dei Comuni coinvolti. Dietro questo meccanismo intriso di illeciti sarebbe stato individuato, per prima cosa, un interesse economico che legava i dipendenti dell’Unione ai responsabili della onlus privata. Da una parte la Onlus diventava affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’Ente e, dall’altra, alcuni dipendenti dello stesso Ente ottenevano incarichi di docenza retribuiti per master e corsi di formazione tenuti sempre dalla Onlus. Un sistema talmente consolidato da aver portato all’apertura di un Centro Specialistico Regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti. Risultato poi, di fatto, una costola della Onlus. E, proprio all’interno di questo centro specialistico, veniva garantita ai minori l’assistenza legale. L’avvocato, selezionato dai Servizi Sociali, era sempre lo stesso. Anche lui indagato per "concorso in abuso d’ufficio". Per favorire il legale, inoltre, sarebbero state create false gare d’appalto, gestite sempre dalla dirigente del Servizio.
Bambini nelle mani di amici e conoscenti. Secondo quanto emerge dall'ordinanza della procura di Reggio Emilia non sono pochi i casi in cui gli affidatari, a cui venivano dati i bambini, avevano relazioni amicali o, addirittura, sentimentali con i responsabili dei servizi sociali. Spesso coppie arcobaleno. Ed è proprio in quei casi che molte volte i soldi per il mantenimento che venivano dati alle coppie di affidatari superavano la soglia minima consentita. Il tutto giustificato da falsi documenti che sostenevano che il bambino in questione avesse bisogno di maggiori cure in quanto problematico. Tra i casi riportati nell’ordinanza vi sarebbe, infatti, una bambina data in affido a Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, una coppia omosessuale unitasi civilmente nel 2018. Federica Anghinolfi, capo dei servizi sociali finiti sotto accusa, aveva avuto relazioni amicali con la coppia, e con Bassmaji risulta esserci stata persino una relazione sentimentale.
Gli indagati di Bibbiano. È finito agli arresti domiciliari il sindaco del Partito democratico di Bibbiano, Andrea Carletti. Nei suoi confronti, il gip Luca Ramponi, ha rifiutato per due volte la richiesta da lui avanzata di liberazione. Al momento, sospeso dal suo incarico pubblico dalla Prefettura e autosospeso dal Pd, il primo cittadino attende le decisioni che saranno prese sulla misura cautelare dal Tribunale del Riesame nella prossima udienza. Oltre a lui, si trovano agli arresti anche una coordinatrice dei servizi sociali finiti sotto accusa, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus coinvolta: Claudio Foti e Nadia Bolognini. Foti è stato accusato di aver indotto con la forza una ragazza a testimoniare contro il proprio padre. L’uomo venne accusato dalla figlia di abusi sessuali. Storia che poi la ragazza ha smentito con decisione in aula di tribunale. Nei confronti del terapeuta anche l’accusa di abuso d’ufficio in concorso. Si suppone che Foti fosse a conoscienza del fatto che il lavoro all’interno de "La Cura" doveva essere preceduto da una regolare gara pubblica. Al momento, per lui gli arresti domiciliari sono stati revocati, sostituiti dall’obbligo di dimora a Pinerolo. Si trova agli arresti domiciliari anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d’Enza, Federica Anghinolfi. Per altre otto persone sono state eseguite misure cautelari di natura interdittiva ed è stato imposto il divieto temporaneo di esercitare attività professionali. Si tratta di operatori socio-sanitari, dirigenti comunali e anche educatori. Nei confronti di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti, sono state applicate misure coercitive di divieto di avvicinamento al minore. Gli indagati sono in totale 29. Tra loro ci sono anche nomi noti, come l'avvocato Marco Scarpati e il direttore generale dell'Ausl Fausto Nicolini. Per loro non sono state applicate misure cautelari. I due sono al momento accusati di abuso d'ufficio in concorso con il sindaco Andrea Carletti. Nell’inchiesta sono indagati anche gli ex sindaci del Pd di Montecchio Emilia e Cavriago, Paolo Colli e Paolo Burani, in carica all’epoca dei fatti. Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d’uso. Intanto continuano le indagini su settanta casi di affido.
Bibbiano e la questione politica. “Verrà creata una banca dati e nascerà una squadra speciale per la protezione dei minori. Si confronterà con i ministeri, e la commissione parlamentare che verrà istituita, per avere un monitoraggio del percorso dei piccoli affidati. Tutti gli operatori dovranno sentire il fiato sul collo da parte della magistratura che farà i controlli”. Così annunciò il pentastellato ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede poco dopo la pubblicazione dell’inchiesta "Angeli e Demoni". Fu forse il primo a pronunciarsi sul caso, dando il via ad uno scontro politico che ancora non ha trovato soluzione. L’inclusione nel registro degli indagati di tre sindaci targati Pd ha da subito scatenato l’ira dei partiti. Dalla Lega, al Movimento Cinque Stelle, fino a Fratelli d’Italia (uno dei partiti che più ha condotto la lotta per tenere accesi i riflettori sulla vicenda), tutti si sono scagliati contro il Partito democratico, accusando i vertici per non aver preso subito provvedimenti nei confronti dei propri sindaci e di aver messo davanti il garantismo, tutelando gli indagati, ancor prima di spendere due parole nei confronti delle presunte vittime. Un silenzio, quello dei dem, che ha scatenato l’ira del leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, che in un video messaggio pubblicato sui suoi canali social arrivò a definire gli allora avversari di governo "il partito di Bibbiano". Un appellativo incettabile per i vertici del Pd che, a suo tempo, minacciarono querele a tutti coloro che, come Di Maio, si fossero permessi di associare il nome del partito all’orrenda vicenda (di cui però i dem hanno continuato a parlare poco o nulla).
Nel frattempo, da luglio, l’ex governo in carica composto da Lega e Cinque Stelle decise di far partire una commissione d’inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori, per cercare di fare chiarezza sulle vicenda e puntare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidamenti in tutta Italia. Decisi e compatti, i due partiti avevano deciso di indagare sullo scandalo mentre, il Partito Democratico, sviava l’argomento, tanto da far infuriare l’opinione pubblica. Nei mesi successivi alla pubblicazione della vicenda, per tutte le strade d’Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle prime due parole che ricordano il simbolo dei dem. Ma, se prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sorpresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. Un cambio di rotta che riaccende le polemiche.
Bibbiano, quegli esorcismi sulla minore per convincerla di falsi abusi sessuali di gruppo. Secondo la procura, la compagna di Foti anche lei psicoterapeuta a Bibbiano, "fomentava i racconti inerenti incredibili omicidi plurimi e riti sessuali di gruppo su bambini da parte di uomini mascherati". Costanza Tosi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. A Bibbiano gli psicologi di Claudio Foti effettuavano esorcismi sui bambini per convincerli di a confessare di aver subito abusi mai avvenuti. Storie dell’orrore raccontante ai piccoli per inculcare nella mente dei bimbi di aver subito abusi, in passato, da parte dei propri genitori. Storie inventate ad arte e raccontate ad una minore per incutere paura alla vittima e arrivare a convincerla di doversi liberare di finti ricordi sepolti in una parte della loro mente che la piccola avrebbe manifestato in atteggiamenti aggressivi verso i suoi coetanei. Nell’avviso di chiusura delle indagini preliminari, consegnato dalla procura di Reggio Emilia il 13 di gennaio, sui casi dell’inchiesta “Angeli e Demoni” spuntano nuovi dettagli agghiaccianti sulle sedute di psicoterapia tenute da Nadia Bolognini. Psicologa che operava a Bibbiano per la Hansel e Gretel e ex compagna del guru torinese, Claudio Foti. Bolognini, avrebbe cercato di sviare le indagini relative al procedimento a carico di un papà accusato di maltrattamenti nei confronti di una delle sue figlie durante le sedute di psicoterapia effettuate con la minore, presunta abusata, alterando “lo stato psicologico ed emotivo della predetta”. Meschini giochi psicologici per plagiare la mente della vittima messi in atto in maniera costante ad ogni incontro per più di un anno. Precisamente dal settembre del 2017 a dicembre del 2018. La psicologa, amica di Foti e Anghinolfi, voleva convincere a tutti i costi la bambina di aver subito atti sessuali da parte del padre e persino da un gruppo di amici di lui. Per farlo, aveva messo in piedi tecniche di persuasione più vicine a riti di stregoneria che non alle regole terapeutiche riconosciute dall’Ordine degli psicologi. Bolognini, sostiene la procura, “convinceva e ribadiva più volte e con convinzione alla bambina che all’interno del suo corpo, a seguito degli abusi e dei maltrattamenti assertivamente subiti, si era creata una doppia personalità malvagia che riusciva a prendere il sopravvento sulla “parte buona” inducendola a compiere atti aggressivi e ingiuriosi nei confronti dei coetanei; effettuava, inoltre, anche una sorta di atto esorcistico in cui tentava di interloquire con tale entità malvagia presente nella bambina, chiedendo che quest’ultima autorizzasse “fisicamente” la bambina a rispondere alle sue domande muovendo una parte del corpo". Un teatrino messo in atto per intrappolare la minore nelle convinzioni dei “demoni” e portare il procedimento penale a carico del padre innocente ad un finale catastrofico che avrebbe, con ogni probabilità, privato per sempre la piccola dell’amore dei suoi genitori naturali. Un’assurdità che, ormai un ventennio fa, portò decine di famiglie della Val d’Enza a finire vittime di uno dei più grandi scandali giudiziari italiani. L’inchiesta su "I Diavoli della Bassa". Gli episodi di quello scempio, poi ripresi dal giornalista Pablo Trincia attraverso il suo podcast Veleno, oggi sembrano essere stati d’ispirazione alle assurde credenze degli indagati di Bibbiano. Non solo perché ancora una volta si sono compiuti atti atroci per strappare i bambini dalle proprie famiglie accusando ingiustamente decine di persone innocenti di aver compiuto uno degli atti più riprovevoli che esistano nei confronti di bambini indifesi, ma anche perché, pure a Bibbiano si era arrivati a parlare di finte sette sataniche di pedofili. Aleggiava tra i professionisti del settore, nel paesino della Val D’Enza, la storia dei satinasti che abusavano i piccini. A raccontarlo sono state alcune assistenti sociali che, attraverso le loro testimonianze in aula di tribunale, hanno ammesso di essere state plagiate attraverso le storie dell’orrore raccontate, con convinzione, della capa dei servizi sociali, Federica Anghinolfi (ora indagata). La conferma della comune e malata convinzione la ritroviamo anche tra le righe dei capi d’accusa in cui la procura trascrive, a titolo esemplificativo, alcuni incontri tra Nadia Bolognini e una minore in cura presso di lei. “Fomentava i racconti riportati alla terapeuta dall’affidataria, inerenti incredibili omicidi plurimi e riti sessuali di gruppo su bambini da parte di uomini mascherati, amici del padre, avvenuti la notte di Halloween (con il sangue dei bambini sarebbero stati poi truccati i bambini presenti ai fatti, i quali venivano poi accompagnati in giro presso altre abitazioni per il consueto rito “dolcetto scherzetto”). A queste storie inventate la psicologa attribuiva la prova degli abusi subiti dalla bambina. Erano questi, secondo Bolognini, i momenti atroci che la piccina nascondeva nella propria memoria. La riprova “di ciò che di sadico e tremendo la bambina aveva vissuto in passato, ormai in parte dimenticato”. Dopo aver raccontato le oscenità del gruppo di pedofili ecco che la psicologa passava allo step successivo e “ribadiva sistematicamente alla bambina del pregiudizievole vissuto presso l'abitazione dei relativi genitori, sottolineando che la sua era una famiglia di merda”. Ora, la compagna di Foti dovrà rispondere a ventuno capi d’accusa tra cui, la frode processuale.
Bibbiano, quelle falsità scritte dagli assistenti sociali per confermare gli abusi. A Bibbiano i regali dei genitori non vennero mai consegnati ai minori e sulle relazioni stilate per il Tribunale dei Minori falsità e bugie per confermare gli abusi. Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. A Bibbiano i minori venivano tenuti "isolati". Come se dovessero essere reclusi in un mondo a parte. Convinti del completo disinteresse dei propri genitori verso la loro sofferenza e plagiati a credere di essere stati salvati dai familiari a cui niente o poco importava di loro. Mentre mamma e papà gridavano giustizia dalle loro case. Impotenti davanti alle decisioni dei servizi sociali e del tribunale dei minori. Intrappolati in false accuse che solo il tempo avrebbe potuto smentire. Era questo il calvario che minori e famiglie erano costretti a vivere, in attesa che gli operatori dei servizi sociali, assieme agli psicologi della Hansel e Gretel istruiti da Claudio Foti, tentassero di inculcare nella mente innocente dei piccini di aver subito abusi e violenze dai propri genitori. Ogni minimo pretesto diventava la prova di un abuso mai avvenuto e da innocenti fogli bianchi si costruivano castelli di carta abitati da mostri creati ad arte. Storie create per lucrare sulla pelle dei bambini e portare avanti una battaglia in nome di un’ideologia malata. É così che a Bibbiano i “demoni” della Val d’Enza avevano messo su il sistema di affidi illeciti. A confermarlo è proprio la procura di Reggio Emilia. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari riguardo a un assistente sociale, indagato per falsa perizia, i pm riportano le gravità commesse da uno degli operatori finito nel registro egli indagati con l’accusa di falsa perizia. L’assistente avrebbe raccontato di un sogno fatto da uno dei piccoli che seguiva "in maniera non conforme al vero e con univoca connotazione sessuale". Nelle relazioni, stilate durante il periodo di osservazione del minore, lo psicologo “ometteva di riferire del desiderio della bambina di rivedere il padre”. Nessuno era a conoscenza secondo, la procura, "dell'isolamento a cui la avevano sottoposta" attraverso "il mancato recapito dei messaggi di affetto inviati" dai genitori. Secondo quanto riportato nelle ultime carte della procura, l’assistente sociale, avrebbe raccontato "in maniera non conforme al vero e con univoca connotazione sessuale, il contenuto di un sogno rivelato dalla bambina ad un'amica di famiglia, che in realtà era stato raccontato dalla bambina in maniera differente e con diverso significato”. Il modus operandi era sempre lo stesso. Si partiva da una teoria di base: a priori il minore era stato abusato. L’unica cosa che psicologi e assistenti sociali avrebbero dovuto fare era portare in tribunale le prove dell’abuso. Meglio se, attraverso la “spontanea” denuncia del piccolo. Anche se le prove non c’erano e non ci sarebbero mai state, convincere il bambino di aver subito violenze in casa tramite lavaggi del cervello e sedute psicologiche persuasive, sarebbe bastato a confermare le loro malate convinzioni e strappare definitivamente il piccolo dalla propria famiglia di origine per affidarlo ad una comunità o ad una coppia di genitori affidatari. Seguendo questo preciso schema l’assistente sociale, si legge, "sosteneva, dialogando con il perito, che la minore fosse stata vittima in passato di condotte abusanti che ancora dovevano essere scoperte; descriveva gli atteggiamenti della bambina di improvviso distacco dalla realtà correlati alla relativa situazione familiare ed ometteva di riferire al perito delle crisi epilettiche di cui era a conoscenza perché già diagnosticate". A smentire la versione dell’indagato durante il periodo di osservazione della piccola che, era stata affidata in maniera provvisoria ad una coppia, erano state proprio le affidatarie. Che non esitarono a riferire all’assistente sociale che “gli incubi della bambina non erano correlati a situazioni traumatiche vissute in passato, bensì all'uso dell'i-pad ed alla visione di alcuni cartoni animati, essendo gli incubi della bambina diminuiti proprio dall'interruzione dell'uso di quest’ultimi”. Dettaglio omesso nelle relazioni stilate dall’indagato.
QUEI PACCHI REGALO MAI CONSEGNATI. A confermare l’isolamento forzato dei minori, decine e decine di pacchi regalo recapitati dai genitori ai bambini affidati ai servizi sociali e mai arrivati a destinazione. Un dono per far sentire la vicinanza al proprio figlio. Un modo per far capire al bambino “mamma e papà ti pensano e non ti hanno abbandonato”. Ma come sarebbe stato possibile convincere i piccoli che era giusto portarli via dalle persone che li avevano messi al mondo se non facendogli credere che, ai genitori non importava niente di loro? In questo gioco malato e intriso di falsità e orrore i doni ai piccoli erano solo d’intralcio e quindi non vennero mai portati ai bambini. A confermarlo è un passaggio dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e Demoni" su un presunto sistema di affidi illegali. Uno scambio di messaggi su whatsapp rilevato attraverso i telefono sequestrati degli indagati. ”Avviso tutti i colleghi - si legge nell'avviso della procura di Reggio Emilia - che i pacchi con regali per bambini allontanati dalle famiglie continuano ad aumentare sempre più e siccome non vengono consegnati per diversi motivi anche nella maggior parte dei casi perché è meglio non farli avere ai bambini direi che la regola per il 2019 è quella che per salvare capre e cavoli diciamo ai genitori che il servizio non accetta alcun pacco da consegnare ai propri figli a meno che non lo facciano loro durante gli incontri protetti dove ci sono. Siete d’accordo?".
Bibbiano, nuovi dettagli choc su Federica Anghinolfi. Dagli ultimi documenti della procura sui fatti di Bibbiano emergono nuovi particolari agghiaccianti che incastrano gli assistenti sociali e le due donne omosessuali a cui Anghinolfi aveva affidato una bambina. Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Non solo aveva affidato una delle bambine strappate ai propri genitori ad una coppia di amiche omosessuali evidentemente affette da squilibrio mentale, Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza e tra le principali indagate nell’inchiesta Angeli e Demoni, avrebbe fatto di tutto pur di stradicare completamente la piccola dalla sua famiglia d’origine omettendo i segnali di sofferenza che la minore lanciava nel periodo in cui viveva con le due donne. Dagli ultimi documenti consegnati della procura di Reggio Emilia per la conclusione delle indagini preliminari (come riporta Il Resto del Carlino) emergono nuovi particolari agghiaccianti che incastrano gli assistenti sociali e le due donne. Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli avrebbero cercato, in tutti modi, di sospendere gli incontri tra la bambina, affidata a una coppia di donne omosessuali Daniela Bedogni e Fadia Bassmaj, indagate, e i genitori naturali, "senza alcuna motivazione, isolando la piccola e impedendo altresì lo scambio di corrispondenza e regali". A confermare il metodo meschino degli assistenti sociali dediti a spezzare definitivamente il legame affettivo tra i piccoli e i propri genitori sono alcuni messaggi ritrovati dagli inquirenti tra i due. "Come giustifichiamo la sospensione degli incontri protetti?", Domanda Monopoli alla capa. "Relax della minore...vacanza", risponde lei. Che un momento prima aveva palesato l’intenzione di "spostare l’attenzione per spostare l’emozione". La bambina doveva dimenticarsi dei propri genitori non venendo mai a conoscenza delle dimostrazioni d’affetto che questi cercavano di farle arrivare, nonostante la lontananza fisica alla quale erano costretti da mesi. Un giorno, il padre della piccola scrive all’educatrice Maria Vittoria Masdea (anche lei finita nel registro degli indagati), un messaggio da far recapitare alla figlia: "Non riesco a portarti fuori a mangiare il sushi, ti voglio un mondo di bene". Il pensiero, scritto dal papà, arriva nelle mani di Federica Anghinolfi che sentenzia: "Bene... questo messaggio non lo diremo alla bimba". Dietro lo scudo della tutela dei piccoli, gli assistenti facevano di tutto pur di allontanarli dalle persone che amavano. Pur di convincerli che le uniche persone con cui avrebbero dovuto imparare a convivere erano quelle a cui erano stati, forzatamente, affidati. Bugie e omissioni inondavano il processo dal principio. Per allontanare la piccina da casa infatti, secondo i pm, Francesco Monopoli e Federica Anghinolfi avrebbero anche relazionato che, nella casa paterna, era stato trovato del cibo avariato "lasciato sui mobili da diversi giorni". Circostanza smentita dai carabinieri che hanno proceduto ai sopralluoghi. Accusate dalla procura anche le due donne affidatarie, che avrebbero "omesso di riferire al perito particolari rilevanti relativi alla vita della minore". Se ogni singola parola detta sulla vita passata veniva interpretata dagli psicologi in modo tale da essere considerata una prova del disagio da cui la bimba doveva essere salvata, i racconti sulle giornate con la nuova famiglia, nel caso destassero preoccupazioni, venivano completamente ignorati. Le due donne non avrebbero mai consegnato "un disegno della bambina con le donne mano per mano con la frase ‘Vai via perché se ci sei tu non possiamo fare l’amore’". Così come la scritta sul disgusto provato "nel ricevere la buonanotte" da una delle due indagate "nuda", oltre che nell’assistere a un’effusione tra le due. Mai emersi, fino a che non sono finiti nelle mani degli inquirenti, nemmeno i sogni "descritti (dalla minore ndr) in fogli sequestrati, su spettacoli teatrali pornografici’ con ‘peni finti’ messi in scena dalle affidatarie". Non si fa fatica a crederci, se si pensa ai dettagli emersi nelle intercettazioni trascritte nella prima ordinanza. Dove si descrivono i comportamenti malati di una delle due donne, Daniela Bedogni. Ad emergere con evidenza è lo squilibrio mentale della donna che, in più occasioni e, mentre si trovava da sola nella sua auto, "instaurava lunghe conversazioni con soggetti immaginari". E tra le urla di totale delirio la donna alternava bestemmie, canti eucaristici e forti liti in cui si immaginava di sgridare bambini. Le donne sono indagate anche "per aver omesso di riferire al perito dell’intenso rapporto di amicizia tra Fadia Bassmaji e Federica Anghinolfi, e della condivisione di iniziative per la difesa dei diritti lgbt anche sugli affidi a omosessuali". Ad Anghinolfi contestati ancora altri favoritismi nei confronti di amici e conoscenti al fine di procurare vantaggi economici a questi. La direttrice dei servizi sociali infatti, avrebbe anche procurato all’ex compagna Cinzia Prudente, indagata, "un ingiusto profitto di 250 euro al mese per l’affido di una minore, in assenza di una reale necessità, anche dopo che la bambina era diventata maggiorenne, per incontrarla due volte al mese per due ore per prendere un caffè e chiacchierare, come indicato dalla stessa ragazza". L’atteggiamento intimidatorio della donna nei confronti di genitori e bimbi era diventato per lei l’arma di persuasione più forte per portare a termine il suo sporco gioco illecito. Ora indagata anche per violenza privata nei confronti di un’assistente sociale, la donna, avrebbe approfittato della posizione di debolezza di una neoassunta a tempo determinato, per costringerla "a redigere relazioni finalizzate ad allontanare minori contendenti circostanze false od omesse che avrebbero permesso all’autorità giudiziaria una valutazione ulteriore e diversa".
Bibbiano, spazi pubblici affidati alla Onlus di Foti. Secondo i pm, l'ex sindaco di Bibbiano Carletti, Federica Anghinolfi e altri indagati "procuravano un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel". Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Spazi pubblici destinati agli operatori dell’Asl e gestiti, senza passare dalle obbligate gare d’appalto, dalla onlus Hansel e Gretel, al fine di avvantaggiare l’associazione di Claudio Foti e permettergli di guadagnare ingenti somme di denaro attraverso le sedute di psicoterapia ai minori individuati dai servizi sociali della Val D’Enza. In barba alla legge, i “demoni” di Bibbiano, avrebbero organizzato, di comune accordo, gli step per mettere in atto il progetto che sarebbe stato il fiore all’occhiello del sistema di affidi illeciti. Tra le menti del gioco illegale, secondo quanto emerso dalle ultime affermazioni dei pm, anche l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Secondo le indagini della procura coordinate dal pm Valentina Salvi e dal procuratore Marco Mescolini, e ormai giunte a conclusione, il primo cittadino di Bibbiano (nonchè delegato dell'Unione Comuni Val d'Enza alla specifica materia delle politiche sociali), avrebbe favorito l’indagato Claudio Foti “al fine di consentire a quest'ultimo la prosecuzione illecita del servizio di psicoterapia”. Secondo il pubblico ministero, Carletti avrebbe portavano avanti il progetto, già avviato in precedenza, di una comunità che avrebbe ospitato ben 18 minori in affido. I piccoli sarebbero stati affidati alle cure "malsane" di Claudio Foti perchè individuati, dagli operatori dei servizi sociali, come presunte vittime di maltrattamenti o abusi sessuali. Sarebbe stato proprio Andrea Carletti a proporre di implementare l’idea del piano, che avrebbe dovuto prendere il nome di “Utopia”, a Bibbiano. Ora il sindaco Dem si ritrova indagato per abuso di ufficio e falsità ideologica. Per questo progetto, sottolinea l'avviso di conclusione indagini, "era stato già predisposto il progetto planimetrico, la suddivisione dei ruoli e concordata la retta giornaliera di 250 euro a minore in cui risultava già incorporato il servizio di psicoterapia specialistica”. Terapia che era stata già interamente affidata al centro studi Hansel e Gretel il quale avrebbe occupato con la propria sede un edificio adiacente alla nuova comunità di minori, curando, “verso corrispettivo, la formazione degli operatori sociali”. La nuova comunità, figlia del sistema di affidi da sempre portato in alto da Carletti e sponsorizzato come un esempio di eccellenza nell' ambito della lotta agli abusi sui minori, sarebbe stata gestita dalla Onlus "Rompere il Silenzio", del cui direttivo anche alcuni indagati, tra cui lo stesso Claudio Foti e il suo attuale legale difensore Andrea Coffari. Mentre le attività del centro, riportano i pm, sarebbero state finanziate “dall'Ente Pubblico per il tramite delle rette-affido”. Rette che avrebbero portato un incasso annuale, già calcolato, di circa 130.00 euro di cui 30.000, “secondo gli accordi già presi, sarebbe stato versato, a titolo di contributo, per le attività della stessa 'Rompere il Silenziò”. Un bottino non da poco, se si considera che quei soldi entravano nelle casse della Hansel e Gretel nonostante una legge regionale prevedesse, per la gestione del servizio di psicoterapia della Val d'Enza, la competenza della Asl di Reggio Emilia. I cui professionisti avrebbero potuto offrire il servizio "gratuitamente". E così facendo, l’accordo sottobanco per l’assegnazione degli spazi comunali alla onlus di Foti, sarebbe costato alla pubblica amministrazione ben 200mila euro. Con l’aggravante che, secondo i pm, i protagonisti dell’inganno avrebbero “intenzionalmente” raggirato la legge omettendo di effettuare una procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di psicoterapia avente un importo superiore a 40.000 euro. Così, a quanto si legge nel provvedimento, secondo la procura, "Anghinolfi, in qualità di dirigente del servizio sociale integrato Val d'Enza, Monopoli, in qualità di assistente sociale dell'Unione Val d'Enza, Carletti, in qualità di Sindaco di Bibbiano, Colli, Sindaco di Montecchio Emilia e Presidente dell'Unione Val d'Enza dall'aprile 2015 all'aprile 2018, Campani, in qualità di responsabile dell'Ufficio di Piano dell'Unione Comuni Val d'Enza e Canei, in qualità di istruttore direttivo, procuravano un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel i cui membri Foti Claudio, Bolognini Nadia e Testa Sara esercitavano sistematicamente, a nessun titolo, il servizio di psicoterapia, a titolo oneroso, con minori assertamente vittime di abusi sessuali e/o maltrattamenti, consentendo ai medesimi l'utilizzo gratuito dei locali della pubblica struttura "La Cura" di Bibbiano, messi a loro disposizione dall'Unione Comuni Val d'Enza (che pagava il canone annuale di locazione e connesse spese di gestione)”. In questo modo i professionisti ideatori dell’inganno avrebbero “assicurato l'ingiusto profitto corrispondente a 135,00 euro l'ora per ogni minore (a fronte del prezzo medio di mercato della medesima terapia del valore di 60/70,00 euro l'ora) nonostante la Asl di Reggio Emilia potesse farsi carico "mediante i propri professionisti" e "gratuitamente" del predetto servizio pubblico.”
Bibbiano, «Io ingannata nell’affido ho chiesto scusa alla vera mamma della bimba». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «I genitori naturali della piccola? Li ho conosciuti per la prima volta la scorsa primavera. Ho capito che non erano certo le persone inadeguate descritte dagli psicoterapeuti della Val d’Enza: la mamma è una donna molto dolce così come lo è il padre, pur nelle sue difficoltà. I nonni sono generosi e accoglienti. A un certo momento mio marito e io ci siamo vergognati dell’idea che ci eravamo fatti di questa famiglia e abbiamo deciso di chiedere scusa». La testimonianza viene da una donna di 47 anni che vive nel Modenese e che da anni accoglie bimbi in affido. Dopo un colloquio con i servizi sociali di Bibbiano poi azzerati dall’inchiesta coordinata dal procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, nel giugno 2018 le venne segnalata «una piccola di 10 anni la cui situazione familiare, mi riferirono, era molto grave, tanto da essere stata messa in una struttura. Poi la portarono a casa mia nel suo ultimo giorno in quarta elementare». Poche settimane prima – era l’11 aprile, verso mezzogiorno – la nonna della piccola ricevette questa brusca telefonata: «Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce che proveniva dai servizi sociali di Bibbiano. Dall’altra la sbigottita nonna della nipotina che aveva in affido: questo perché suo figlio era diventato papà assai giovane, a 17 anni. Mentre la sua compagna partorì a 14. Una coppia considerata inadatta dagli assistenti sociali a crescere un figlio. È il «caso pilota» — per usare l’espressione del gip Luca Ramponi — dell’intera inchiesta sui falsi affidi. Alla base c’è quel disegno fatto dalla bimba in cui si vede lei accanto al nuovo compagno della mamma. Secondo le accuse contenute nell’indagine dei carabinieri di Reggio diretti dal colonnello Cristiano Desideri ci fu una modifica da parte di una psicoterapeuta della Ausl. Le due lunghe braccia della piccolina andarono innaturalmente a toccare in modo ambiguo l’adulto. Un’aggiunta che doveva dimostrare abusi (inesistenti) da parte di lui. Sulle carte giudiziarie c’è scritto che i genitori-ragazzini della bimba si lasciarono dopo tre anni dalla nascita di lei. Per questo venne affidata alla nonna. «Poi però ci hanno ripensato: strappandola anche all’anziana» racconta Natascia Cersosimo, 45 anni, consigliera 5 Stelle a Cavriago e capogruppo del Movimento all’Unione Val d’Enza, l’associazione amministrativa di otto comuni nel Reggiano. Cersosimo conosce bene la nonna della piccola, sono amiche da tempo e soprattutto conosce bene la vicenda dei falsi affidi tanto da aver chiesto, un anno fa, spiegazioni per quei numeri che le suonavano strani: «Troppe denunce per violenze familiari. E soprattutto troppi affidi: oltre 1.000 nel 2016 in Val d’Enza, che conta 50 mila abitanti. Gli stessi di Bologna che ha 400 mila residenti. Mi risposero che era perché il servizio funzionava». Non così dovette pensarla la nonna. Che subito dopo la brutale telefonata denunciò ai carabinieri ciò che le parve «una mostruosità incomprensibile». Oggi la «mamma» affidataria ricorda che gli psicoterapeuti della Val d’Enza erano «assai disponibili con noi, nel senso che non ci hanno mai trascurato. Una volta a settimana accompagnavo la bimba agli incontri con i genitori e con i nonni, a cui io non partecipavo». Poi però, durante altre sedute di psicoterapia, iniziò ad ascoltare «ritratti negativi della famiglia. Ci venne detto che la madre era inadeguata e anche il padre era problematico». Poi le brutte parole sui nonni – con lui «scorbutico e irascibile» – che trattavano la nipotina come «una bambola da sofà» e che «non si erano accorti del presunto abuso commesso dal nuovo compagno della madre». Scenario dipinto in termini assai peggiorativi nell’avviso di fine indagine di martedì in cui si legge che gli operatori avevano cercato di convincere la bimba come la nonna fosse a conoscenza dei presunti abusi commessi sulla minore. Abusi peraltro inesistenti e procedimento archiviato. Nel complesso, un’atmosfera pesantemente in contrasto con l’idea che dei genitori naturali stavano maturando i due affidatari «sempre più amareggiati: avevamo aiutato una bambina che poteva contare su una bella famiglia vittima però di un’ingiustizia». Il lieto fine nella storia è giunto con il via dell’inchiesta. Coordinandosi con la Procura, il Tribunale dei minori di Bologna diretto da Giuseppe Spataro ha ricontrollato tutti gli atti del fascicolo. Compreso il disegno, falsificato pure secondo una perizia voluta dall’accusa. Dopo il decreto firmato dai giudici minorili, la piccola è tornata a casa. «I suoi genitori e i nonni durante le feste – sorride la donna di Modena – siedono alla nostra tavola. È come se fossimo diventati un’unica grande famiglia».
LA BIBBIANO DEGLI ANZIANI.
Sempre più anziani malati costretti alla contenzione. Oltre a quella meccanica è molto diffusa anche quella farmacologica. Il garante ha avviato un monitoraggio e visite alle residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà, scrive Damiano Aliprandi il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. Dai bracciali per immobilizzare polsi e caviglie, alle fasce addominali per bloccare al letto o alla carrozzina, alle fasce pelviche, ai corsetti con bretelle o con cintura pelvica; ai tavolini per carrozzina, a vari tipi di camicie, come i “fantasmini”, che si indossano come una maglia lasciando libere braccia e mani ma impedendo alla persona di alzarsi dal letto. Parliamo della contenzione degli anziani. Molto si è dibattuto – anche se non basta mai – sull’utilizzo eccessivo della contenzione per i pazienti psichiatrici, poco però per gli anziani. Oltre alla contenzione meccanica, esiste – spesso in aggiunta – anche quella farmacologica. Si parla di quest’ultima quando i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale sono finalizzati a limitare o annullare la capacità motoria e di interazione dell’individuo. Si tratta spesso di farmaci sedativi, antidepressivi e antipsicotici, che, in dosi eccessive, hanno numerosi effetti collaterali, quali sopore, confusione, agitazione. L’uso della contenzione è aggravato dallo stato di fragilità delle persone anziane. All’aumento di aspettativa di vita non corrisponde ancora un miglioramento della qualità della stessa, e la gran parte degli anziani negli ultimi 3/ 5 anni di vita è affetta da malattie invalidanti e demenze senili: sono questi i soggetti più colpiti dalla contenzione. Il fenomeno però è sommerso e i dati sono molto scarsi, poiché in Italia sono ancora pochi gli studi che analizzano la complessità del fenomeno anche da una prospettiva etica e deontologica. I primi a fare i conti, anche dal punto di vista umano, sono gli operatori sanitari. Solo nel 2010 c’è stato uno studio, in Lombardia, condotto dai tre collegi della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri Ipasvi di Aosta, Brescia e Milano- Lodi- Monza e Brianza, dal quale era emersa una prevalenza della contenzione fisica del 15,8% su 2.808 degenti nelle unità di chirurgia, geriatria, medicina, ortopedia e terapia intensiva e del 68,7% su 6.690 residenti nelle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali. Lo studio qualitativo ha dato voce agli infermieri sulle convinzioni, anche da una prospettiva etica e deontologica, sui fattori ostacolanti e soprattutto quelli che favorirebbero una riduzione di tale pratica. Gli intervistati hanno riportato una varietà di emozioni associate all’uso della contenzione fisica, spesso ambivalenti e contrastanti, espresse nei confronti di diversi soggetti ( familiari, altri operatori e responsabili istituzionali), tra cui: la rabbia, la pena, l’angoscia, la tristezza, l’imbarazzo, il sollievo/ tranquillità, la sensazione di prevaricazione, il senso di impotenza, il fallimento e la soddisfazione. L’immedesimazione con il paziente contenuto è il sentimento più forte e più frequentemente citato, anche in termini di proiezione futura di sé. Per il processo decisionale, ricordiamo, l’infermiere assume un ruolo strategico all’interno dell’equipe assistenziale, soprattutto per la posizione di garanzia che ha nei confronti dei cittadini. La contenzione degli anziani è una privazione della libertà, proprio per questo l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà ha da tempo avviato un monitoraggio e delle visite a residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà, appunto, de facto. Un monitoraggio non facile visto le tipologie di residenze diffuse su tutto il territorio. «Tale capillarità – si legge nell’ultimo rapporto del Garante – unita a un’articolazione regionalizzata del sistema socio- sanitario, con quel che consegue in termini di differenti normative tra una Regione e l’altra, suggeriscono l’utilità d’un lavoro di rete che coinvolga i Garanti territoriali».
Casa-lager, anziani violentati e seviziati. I pianti delle vittime derise: "Quando vuoi torno". Arrestati il titolare, accusato di aver abusato di un'ospite, e tre operatrici di una struttura sull'Appennino bolognese. Intercettazioni da brividi, la Regione chiede il massimo della pena e una nuova normativa nazionale per prevenire casi simili, scrive il 19 febbraio 2019 La Repubblica. Ci sono anche due episodi di violenza sessuale ai danni di un'anziana fra i maltrattamenti scoperti dai Carabinieri nella casa famiglia "Il fornello" di San Benedetto Val di Sambro, sull'Appennino bolognese. La struttura - aperta da circa un anno - è stata sequestrata ieri sera al termine di un blitz dei militari della compagnia di Vergato, che da qualche mese avevano avviato indagini, anche con l'utilizzo di telecamere nascoste che hanno ripreso "immagini strazianti": anziani percossi, lasciati al freddo e con cibo insufficiente, derisi e umiliati. A carico del titolare, un 52enne bolognese che è finito in carcere, c'è appunto anche l'accusa di violenza sessuale per avere abusato in due occasioni di una ospite. Gli altri tre provvedimenti, agli arresti domiciliari, hanno raggiunto la moglie 53enne dell'uomo e due operatrici sanitarie. Tutti gli ospiti della struttura sono stati ricollocati dall'Azienda sanitaria, d'intesa con il Comune.
Il gip: "Violenze sistematiche". "Una continuità sistematica di violenze fisiche e psicologiche, consistenti in umiliazioni, mortificazioni, ingiurie e abusi emotivi". E' un passaggio dell'ordinanza con cui il Gip di Bologna Alberto Ziroldi ha disposto le quattro misure cautelari. Oltre ai filmati che documentano percosse e abusi sessuali, agli atti dell'indagine ci sono diverse intercettazioni ambientali. "Vedrai che dopo ti passa, tra un po' parti", dice ridendo una delle operatrici a un'anziana degente, con un'infelice battuta sul tempo che le resta da vivere. Altre intercettazioni riportano insulti e minacce agli ospiti, oltre a rumori di schiaffi e pianti disperati degli anziani. Anche gli abusi sessuali commessi dal titolare 52enne della struttura su una anziana non autosufficiente sono documentati in almeno due occasioni. Nelle intercettazioni si sentono i pianti della donna e la voce dell'uomo che, al termine, le dice: "Quando vuoi lo torniamo a fare".
La Regione: "Serve il massimo della pena". Per l'assessore regionale alla Sanità Sergio Venturi "tutto questo è indegno, inaccettabile. Non trovo altre parole per definire tanta violenza e tanto accanimento nei confronti di persone così fragili e indifese, come sono gli anziani non autosufficienti. Se i fatti saranno confermati, queste persone meritano il massimo della pena". Di fronte al ripetersi di episodi “davvero ignobili”, ribadisce Venturi, la Regione Emilia-Romagna chiederà di modificare la legislazione nazionale per consentire controlli preventivi, prima di autorizzare l’apertura di Case famiglia, soprattutto alle amministrazioni comunali e alle Aziende sanitarie. "Ringraziamo l’operato di Procura e Carabinieri- prosegue Venturi-, che hanno portato alla luce quanto stava accadendo. Come Regione, a legislazione vigente, abbiamo fatto tutto il possibile, attraverso le Linee guida condivise con i Comuni dell’Anci e le organizzazioni sindacali, per tutelare gli ospiti delle Case famiglia, prevedendo attività strutturate di vigilanza e controllo, senza preavviso né limiti di orario, per verificare non solo il possesso e il mantenimento degli standard richiesti, ma anche per scongiurare episodi di abusi e maltrattamenti. Abbiamo previsto la creazione di specifici elenchi comunali con le strutture d’eccellenza, le cosiddette ‘Case famiglia di qualità’, che, su base volontaria, e non avremmo potuto fare diversamente, dimostrino di possedere elementi in più per migliorare la qualità della vita e l’assistenza degli ospiti". “Purtroppo, un caso come quello di San Benedetto ci dice che tutto ciò che abbiamo messo finora in campo, tanto rispetto alle competenze oggi definite, non basta ancora: servono ulteriori strumenti per intercettare eventuali rischi. Per questo- annuncia l’assessore- chiederemo una modifica della legislazione nazionale per consentire a Comuni e Aziende sanitarie di effettuare controlli e verifiche su gestore, ambiente di vita e personale prima di autorizzare l’apertura di nuove Case famiglia, mentre attualmente non è così”.
Il vescovo: "Anziani sono un business". "Il problema degli anziani è e sarà un problema enorme, servono tanti controlli e tanta attenzione. Perché, purtroppo, gli anziani sono anche un business e dobbiamo davvero avere tantissima attenzione. E difendere la vita dall'inizio alla fine": è il commento sulla vicenda dell'arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, interpellato a margine di un convegno.
Estratto dell’articolo di Renato Farina per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. A Palermo è stato scoperto il solito lager per anziani. In una struttura chiamata "Anni Azzurri", un signore di 84 anni, invalido, è stato sottoposto per chissà quanto tempo a ogni tipo di umiliazione, trattato come se fosse uno straccio sudicio di escrementi, e schifato con lo stesso disgusto, ostinatamente, ossessivamente, fino all' intervento della polizia. Questo ospizio dell' orrore è stato chiuso, gli anziani restituiti alle famiglie, i presunti colpevoli sono stati semplicemente denunciati, con l' obbligo di residenza nel loro Comune. Non avevano requisiti professionali, una badante era pagata in nero ed è inquisita perché riscuoteva il reddito di cittadinanza. Forse rischia di più per quello che per quel che i video documentano quanto a infamia. […] Il titolare della struttura era affiancato da padre, madre e fratello nella gestione quotidiana dell' attività. Specie di notte si aggiungeva la citata badante, in nero, a cui hanno sequestrato la tessera del reddito di cittadinanza. Il filmato spaventa. Quell' uomo capisce tutto, ma non può muoversi. A 84anni, mendica di essere portato in bagno. Invece no. Gliela fanno fare dentro. Dopo di che parte l' umiliazione che tocca agli incontinenti, trattati come immondizia. La badante è spiccia, la parlata chiara e netta. Gli dice: «Puzzi di merda, maiale che sei, maledetto vecchio, testa di minchia, vatti ad ammazzare». Cento giorni di vessazioni registrate dalle telecamere nascoste. Imbavagliato, percosso, dice l' ordinanza del giudice. Ci domandiamo, ma forse non abbiamo capito bene: cento giorni? Ma come si fa a lasciar continuare la tortura? La flagranza doveva scattare al primo istante. Si voleva vedere in quanti si accanissero? Un signore anziano non può essere considerato una cavia umana per catturare tutta la banda. O forse sono ingenuo e ignoro la necessità burocratica che i carabinieri primi passino le carte ai pm e poi questi attendano che il gip legga e poi scriva le sue pagine esecutive? Attenzione. Uno dice: Palermo, struttura sociale degradata. Non è così. Andando a ritroso si trovano casi recentissimi a Udine, a Rovigo, nel Bolognese, a Siracusa, a Besana Brianza, a Rimini. Quest' ultimo episodio dimostra che non necessariamente le strutture sono fatiscenti e lerce. Nella città romagnola si vede una anziana che con voce tremante cerca di dire qualcosa e viene zittita con un cucchiaio di legno martellatogli sulla canizie, si sente il toc toc sul cranio, e la carnefice intima: «Non ti muovere altrimenti prendiamo la mazza». E la vecchina che cinguetta, povero usignolo dall' ala spezzata: «Non sculacciarmi più». E quella: «Ti spezzo le gambe». Ma poi le immagini mostrano l' ingresso. Spalliere di fiori, luminosità, sembra una casa adatta per la regina madre. E invece... C' è qualcosa di più profondo del disagio sociale a determinare questo stato di cose. È cambiato l' universo mentale, che si somma all' originaria cattiveria della stirpe umana. Ribaltando il lascito della civiltà biblica (onora il padre e la madre), il dizionario dei luoghi comuni contemporanei recita: «I vecchi sono cattivi». E così circolano dicerie a confermare questo dogma post-cristiano. Negli uffici postali, passano davanti alle code imprecando. Hanno il potere e non lo cedono, se non crepando, ma chi li ammazza quelli lì? I vecchi sono avari, non mollano la grana. Soprattutto i vecchi sono tanti, e tendono ad ammalarsi senza morire, riempiendoci di spese croniche e scatarranti. Bisognerebbe rilanciare, come basamento di una cultura alternativa a quella disumana che si è affermata, due pensieri che sono dinamite per aprire radure nella giungla. Benedetto XVI, 12 novembre 2012: «La sapienza di vita di cui siamo portatori (noi vecchi) è una grande ricchezza. La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune. Chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita!». Wolfgang Goethe: «Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo».
Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani. Patrizia Floder Reitter il 30 dicembre 2019 su La Verità. Dovrebbero essere coloro che tutelano invalidi, non autosufficienti e disabili da squali affamati dei loro beni. Invece gli Amministratori di Sostegno spesso si rivelano figure che tradiscono la fiducia loro accordata: circuiscono le persone che dovrebbero assistere e ne approfittano per impadrionirsi di ingenti quantità di denaro.
Uso ed abuso del potere di nomina degli amministratori da parte dei magistrati.
L’ex-magistrato Saguto alla sbarra: «Ecco chi sono i colleghi che mi chiesero favori». Paolo Lami mercoledì 20 febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. Una deposizione fiume, tirando in ballo decine di altri colleghi magistrati, per ribadire con forza che lei, Silvana Saguto, ex-presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ora a processo a Caltanissetta con l’accusa di associazione a delinquere, corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio, non c’entra nulla con quelle accuse che le sono piovute addosso da più parti, soprattutto da chi la conosceva molto bene, come il suo caposcorta per 15 anni. L’esordio della Saguto alla sbarra, davanti ai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti che l’accusano di aver guidato una sorta di “cerchio magico” per l’amministrazione dei beni giudiziari, è un capolavoro mediatico: «La mia carriera in magistratura – lascia cadere la magistrata considerata una specie di zarina dei beni sequestrati – nasce nel 1981 e ho avuto tra i miei maestri magistrati come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici. In quegli anni eravamo in piena guerra di mafia». Guidata dalle domande del suo avvocato Ninni Reina, lei, che certo non ha bisogno di suggeritori per muoversi agevolmente in un’aula di un Tribunale, sia pure, stavolta, dalla parte dell’imputato, ripercorre la sua lunga carriera giudiziaria finita improvvisamente contro un muro quando quelle voci che circolavano da tempo nei Tribunali si sono fatte via via più insistenti e consistenti diventando un’accusa processuale. «Come prima funzione sono andata a Trapani – ricorda la Saguto rispondendo alle domande del suo difensore – Per una sorta di destino, ho fatto misure di prevenzione dal primo minuto in cui sono entrata in magistratura. Si capì subito che il modo di attaccare la mafia era quello di attaccare i patrimoni. Non vorrei per nulla sminuire la lotta alla mafia, ma posso dire, in base alla mia esperienza, che i mafiosi odiano perdere i loro patrimoni». La Saguto si ritiene una specie di Nobel dell’amministrazione dei beni giudiziari, una donna nata per fare proprio questo lavoro e farlo al meglio e cita, ad esempio e a sostegno della sua tesi, le molte volte che la ex-presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Rosy Bindi ha elogiato il suo lavoro. Ma all’epoca molte cose dovevano ancora venire fuori. Per non dire del cortocircuito che, a un certo punto, si è creato nel circo Barnum dell’Antimafia da salotto. Non si può dire che la Saguto non si sia preparata a fondo, in maniera pignola e quasi maniacale, per replicare alle accuse dei pm che la stanno processando. Snocciola cifre e dati – «da quando sono tornata alla Sezione Misure di prevenzione al Tribunale di Palermo c’è stato un aumento del 400 per cento delle misure. Non lo dico io, ma è un dato del Ministero che ci ha chiesto il valore dei beni sequestrati e confiscati che amministravamo. Noi amministravamo il 45 per cento delle misure di prevenzione di tutta Italia» – e ricorda alla Corte come Cosa Nostra avesse progettato di ucciderla: «Ricordo che una volta fui raggiunta a Piano Battaglia, dove ero in vacanza con la mia famiglia, e portata via perché c’era una intercettazione di un latitante che diceva che dovevo saltare in aria». Ma i suoi ex-colleghi magistrati che ora la stanno processando a Caltanissetta non le imputano né di aver lavorato poco né di aver aiutato la mafia quanto, piuttosto, di aver agevolato un gruppo di persone, fra cui il marito, a un certo punto divenuto collaboratore dell’avvocato Seminara, per gestire, con guadagni stratosferici il business delle misure di prevenzione con incarichi che andavano, guarda caso, sempre agli stessi soggetti. In piazza sono così finiti gli stipendi dei due coniugi – lei 5.500 euro al mese come magistrato, 1.500 ero lui come insegnante al Cnos – ma, soprattutto, le esosissime parcelle che la corte di incaricati, scelti dalla Saguto, staccava. Ed è finita la vita da nababbi che la famiglia della Saguto, figli compresi, faceva, secondo quanto ha raccontato il suo ex-caposcorta ai magistrati. Ha buon gioco, ora, al processo, Silvana Saguto a squadernare, con uno studiato Coup de théâtre, sul tavolo della Corte di Caltanissetta, la sua vecchia agendina con i nomi di quelli che hanno fatto pressioni su di lei per ottenere incarichi nella gestione delle misure di prevenzione: «L’altra sera ho ritrovato per caso l’agenda in cui mettevo i biglietti che ricevevo ogni giorno – rivela accendendo l’attenzione della Corte – Mi venivano segnalati gli amministratori giudiziari da nominare. Anche da parte di colleghi magistrati. La consegnerò al Tribunale questa agenda». E inizia a fare un elenco di persone: «Intanto, le segnalazioni arrivavano dai miei colleghi: La Cascia, Guarnotta, D’Agati, Tona. Ma c’erano anche avvocati che mi facevano segnalazioni. Persone di fiducia. Con i beni sequestrati lavoravano anche i figli di miei colleghi, ad esempio dei giudici Ingargiola e Puglisi. Ma non solo. Il fratello di Vittorio Teresi lavorava con l’amministratore giudiziario Collovà. Ma non è un pregiudizio, accadeva così», cerca di sostenere l’ex-presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. E, a rincarare la dose: «In questa agenda ci sono tutti. Tutti mi facevamo segnalazioni. Io chiedevo solo che fossero persone qualificate, soprattutto persone che provenivano dal Dems, il corso voluto dai professori universitari Fiandaca e Visconti – dice elencando i nomi – Marco Nicola Luca, Stefano Mandalà, non so chi siano, provenivano dal Dems». Un siluro che avrà, di certo, conseguenze processuali.
Nonna Maria, i suoi parenti “carcerieri” vanno a processo. Le Iene il 21 novembre 2019. Nina Palmieri ci aveva raccontato la storia di una 94enne che sarebbe stata segregata in casa da una figlia e dal nipote per incassare polizza vita e pensione. Le altre due figlie, che non l’avevano potuta incontrare per quattro anni, li hanno denunciati per sequestro di persona. Ora il gip li ha rinviati a processo. Rinvio a giudizio per sequestro di persona per i presunti “carcerieri” di Nonna Maria. Ve ne abbiamo parlato in più servizi di Nina Palmieri (l’ultimo lo potete rivedere qui sopra). Nonna Maria, 94 anni, per quattro lunghissimi anni era stata segregata in una casa dalla figlia e dal nipote, che non le consentivano di uscire e di avere contatti con il resto della sua famiglia. Tutto inizia nel 2015, quando il nipote Davide e la figlia Franca prelevano Maria da una clinica dove stava facendo riabilitazione, dopo la rottura del femore. Da quel giorno le altre due figlie, Santa e Teresa, non l’hanno più rivista. Hanno provato più volte a citofonare, raccontano le due donne a Nina Palmieri, ma nessuno ha mai aperto. E così si sono ritrovate a denunciare la sorella e il nipote per sequestro di persona. Ora per i due imputati è arrivato il rinvio a giudizio: il dibattimento, nel quale sia le due figlie che l’amministrazione di sostegno di nonna Maria si sono costituite parte civile, dovrebbe iniziare nel luglio prossimo. Nonna Maria non sarebbe solo stata privata della libertà: la donna infatti si sarebbe vista sottrarre anche una polizza vita del valore di 160mila euro, girata al nipote e la pensione mensile e altre entrate, per un ammontare di circa 2.000 euro al mese. Nel dicembre scorso eravamo riusciti a incontrarla, in quella casa, per pochi minuti. Ma il 12 marzo di quest’anno, finalmente, un giudice onorario ha autorizzato l’amministratore di sostegno di nonna Maria a collocarla in una struttura idonea, consentendo così la sua “liberazione”. Le sue prima parole, prima di scoppiare in un pianto dirotto, erano state queste: “Voglio vedere i miei nipoti Daniele e Mimmo”.
Un figlio è obbligato a prendersi cura di un genitore? Laleggepertutti.it il 30 Dicembre 2019. Mantenimento e alimenti dei figli nei confronti del padre e della madre quando la pensione è assente o insufficiente: quali doveri incombono sulla prole verso i genitori anziani? Hai un genitore, con cui non vai molto d’accordo, che vive di una semplice pensione. La sua vita è sregolata: sperpera la pensione nel gioco, nelle scommesse ed in altre spese futili. Spesso, non arriva a fine mese, così viene a piangere da te affinché gli presti dei soldi. Sostiene che è tuo obbligo di figlio prenderti cura di lui e non lasciarlo nell’indigenza. In verità, se lui gestisse in modo oculato le sue – seppur ridotte – risorse economiche, potrebbe ben vivere in modo autonomo e indipendente. Ti chiedi allora se, al di là degli obblighi morali, un figlio è obbligato a prendersi cura di un genitore. Esiste un dovere giuridico per il figlio di mantenere il padre e/o la madre? E se i figli sono più di uno, come viene ripartito tra loro questo onere: in pari misura o secondo le rispettive possibilità? Ecco alcuni chiarimenti pratici sul punto che potrai trovare d’aiuto per districarti da questa delicata situazione.
Esiste un dovere dei figli di mantenere i genitori? Se da un lato esiste il dovere dei genitori di mantenere i figli fino a quando questi non raggiungono l’indipendenza economica (provvedendo così ai loro bisogni anche qualora decidano di andare a vivere da soli), non esiste un generale dovere a carico dei figli di mantenere il padre e la madre quando questi non hanno risorse economiche sufficienti. Salvo due eccezioni di cui a breve parleremo, i figli non devono prendersi cura dei genitori che sono in pensione e che, con l’assegno erogato dall’Inps, non sono in grado di condurre un tenore di vita dignitoso. Ciò vale a maggior ragione se la pensione è di per sé sufficiente alla sopravvivenza ma non viene spesa con oculatezza come nel caso, ad esempio, del padre che spende tutti i soldi in gratta e vinci o scommesse o che regala il denaro a terzi. Tutt’al più, qualora vi sia una situazione di obiettiva incapacità a gestire il patrimonio si potrà valutare la nomina di un amministratore di sostegno che possa guidare l’anziano nella gestione dei propri risparmi, ma anche questo adempimento non costituisce un obbligo per i figli, ma solo uno strumento per tutelare i beni familiari. Se tutto ciò ha senso da un punto di vista economico lo ha, ancor di più, da un punto di vista affettivo. Almeno dinanzi alla legge, nessun figlio ha il dovere di prestare amore ai genitori, di telefonare loro o fargli gli auguri in occasione delle feste, di andarli a trovare e onorarli come la morale comune richiede. Un genitore che si sente abbandonato dal figlio non potrà mai fargli causa.
Quando i figli devono mantenere i genitori. Incidentalmente, nel paragrafo precedente, abbiamo fatto riferimento a due eccezioni che implicherebbero, invece, un impegno economico per i figli nei confronti dei genitori. La prima si riferisce all’obbligo degli alimenti; la seconda scatta, invece, quando c’è una situazione di affidamento, come nel caso del figlio convivente. Vediamo cosa dice a riguardo la legge.
Il dovere di versare gli alimenti ai genitori da parte dei figli. In casi eccezionali, i figli possono essere tenuti a versare, nei confronti dei propri genitori, i cosiddetti alimenti. Si tratta di un concetto completamente diverso da quello del mantenimento. Innanzitutto, sotto un aspetto quantitativo, gli alimenti sono una misura economica notevolmente inferiore: servono solo a garantire lo stretto necessario per vivere (vitto e alloggio). Inoltre, scattano solo quando il soggetto debole si trova in una situazione di oggettiva e completa incapacità di procurarsi il proprio sostentamento (si pensi a un genitore disabile al 100% che non può procurarsi il denaro per mangiare). Si tratta di un’ipotesi “limite” – quasi scolastica – visto che, il più delle volte, nei confronti dei soggetti indigenti ci sono sempre forme di sostegno sociale previste dalla Pubblica Amministrazione e dallo Stato. In tal caso, l’obbligo degli alimenti grava su tutti i figli, ma non in pari misura bensì in proporzione alle rispettive capacità economiche. Così il figlio più benestante dovrà versare di più rispetto agli altri fratelli.
L’abbandono di incapace. Altra situazione in cui scatta l’obbligo di prendersi cura dei genitori è quando questi sono soggetti alla custodia dei figli, come nel caso del figlio convivente o del tutore. Se, ad esempio, quest’ultimo dovesse lasciare il genitore per molto tempo solo a casa, in completa incapacità di provvedere a se stesso, esponendolo a un serio rischio per la sua sopravvivenza, ne risponderebbe penalmente per il reato di abbandono di persone incapaci.
La vendita della nuda proprietà. Un’ultima ipotesi in cui scatta l’obbligo di mantenere il genitore è quando questi cede al figlio la proprietà di un immobile (o anche solo la nuda proprietà con riserva di usufrutto), in cambio di un vitalizio: il figlio si impegna cioè a prendersi cura del genitore finché questi vive. Leggi Casa dietro vitalizio. Si tratta di un vero e proprio contratto dove, in caso di inadempimento da parte del beneficiario, gli eredi del cedente possono chiedere la revoca del trasferimento del bene.
Chi è e cosa fa l’amministratore di sostegno: compiti, durata dell’incarico e come fare richiesta. Isabella Policarpio il 7 Ottobre 2019 su money.it. L’amministratore di sostegno assiste persone con problemi fisici o psichici nel compimento di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Vediamo chi è come farne richiesta al giudice. Chi è cosa fa l’amministratore di sostegno è stabilito dalla legge 6 del 2004, con la quale questa figura è stata introdotta. L’amministratore si occupa dell’assistenza, della rappresentanza e del supporto di persone che, a causa di problemi fisici o psichici, non sono in grado di provvedere autonomamente agli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Si pensi agli anziani, ai tossicodipendenti o agli invalidi che, seppur mantenendo una certa capacità intellettiva non sono completamente autosufficienti, e quindi non possono pagare le bollette o gestire delle compravendite in autonomia. Lo scopo dell’amministratore di sostegno, quindi, è di garantire la protezione giuridica al soggetto in difficoltà, ma senza limitare in maniera eccessiva la sua capacità di agire. Di seguito faremo chiarezza sui poteri attribuiti, chi può essere nominato amministratore di sostegno, eventuali costi e come fare il ricorso al giudice tutelare.
Amministratore di sostegno: chi può richiederlo? Coloro che sono affetti da infermità o menomazione fisica o psichica, anche parziale, possono beneficiare dell’assistenza di un amministratore di sostegno. Precisamente questa figura è prevista per: anziani; disabili; alcolisti, tossicodipendenti; carcerati; malati terminali; ciechi.
Quanto costa l’amministratore di sostegno? Per legge l’amministratore di sostegno non ha diritto ad alcun compenso, si tratta infatti di una curatela a titolo gratuito. Tuttavia in alcuni casi il giudice può stabilire che gli venga corrisposta un’equa indennità, soprattutto quando la persona che amministra dispone di un grande patrimonio. L’equo indennizzo non deve essere considerato una retribuzione ma piuttosto un rimborso spese, e viene stabilito dal giudice con apposita istanza, tenendo in considerazione le condizioni economiche di amministratore e beneficiario e la qualità del servizio effettuato. Per maggiori informazioni sull’equo indennizzo dell’amministratore e il rimborso spese si consiglia la guida dedicata su chi paga l’amministratore di sostegno.
Chi può essere nominato amministratore di sostegno. La persona che rivestirà l’incarico di amministratore di sostegno è scelta dal giudice e nella maggior parte dei casi la scelta cade sulla persona indicata dallo stesso beneficiario. Infatti, ove sia possibile, è sempre preferibile nominare una persona che abbia uno stretto legale o un rapporto di fiducia con la persona da amministrare. per questo nell’atto di nomina il giudice deve preferire: il coniuge; padre o madre; figlio; fratello o sorella; parente entro il 4 quarto grado. Se nessuno dei predetti soggetti risulta idoneo, il giudice potrà nominare un soggetto estraneo al beneficiario scelto tra quelli presenti in un apposito elenco di professionisti e non depositato presso l’ufficio del Giudice tutelare. generalmente questi soggetti sono avvocati, notai, psicologi ed educatori.
Come presentare ricorso per l’amministratore di sostegno. Per ottenere l’amministratore di sostegno occorre presentare ricorso al giudice tutelare del luogo in cui si ha la dimora abituale. Il ricorso può essere proposto direttamente dall’interessato oppure da: coniuge o dalla persona stabilmente convivente; parenti entro il quarto grado; affini entro il secondo grado; tutore o curatore; pubblico ministero. Per presentare la domanda al giudice non è richiesta l’assistenza tecnica dell’avvocato a titolo obbligatorio, anche se è sempre consigliata in quanto l’atto di ricorso deve contenere dettagliatamente le capacità residue del beneficiario e le sue esigenze. Entro 60 giorni dalla data di presentazione del ricorso il Giudice nomina, con decreto motivato immediatamente esecutivo, un amministratore di sostegno che può essere sia la persona prescelta nel ricorso, sia persona diversa. L’importante è che, come stabilito dall’articolo 408 del Codice Civile, “la scelta dell’amministratore di sostegno avvenga con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario”. Nel compiere la scelta, il giudice prende in considerazione esclusivamente la cura e l’interesse del beneficiario; per questa ragione in genere l’amministratore di sostegno viene individuato tra i parenti più prossimi o il coniuge. Sono esclusi dalla nomina, invece, tutti gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il soggetto beneficiario. Il decreto di accoglimento o rigetto del ricorso deve riportare la durata dell’incarico, gli atti per i quali l’amministratore si dovrà sostituire o affiancare la persona assistita, la durata dell’incarico e ogni dovrà rendere conto al giudice del suo operato.
Abbiamo visto che per il ricorso avverso la nomina dell’amministratore bisogna presentare domanda al giudice tutelare del luogo di residenza del beneficiario. Vediamo quali sono i documenti che occorrono per fare ricorso:
Atto di nascita del beneficiario
Certificato di residenza del beneficiario
Certificato di residenza dei ricorrenti
Codice Fiscale del beneficiario e dei ricorrenti
Documentazione medica comprovante la condizione di salute del beneficiario
Documento di identità dei ricorrenti.
Quanto dura l’incarico dell’amministratore? L’incarico dell’amministratore di sostegno può essere a tempo determinato o indeterminato, in base alle esigenze personali. Quando è a tempo determinato si potrà sempre fare una proroga prima della scadenza del termine. La durata dell’amministratore di sostegno è disciplinata dall’articolo 413 del Codice civile. Qui si prevede che la cessazione o la sostituzione dell’incarico possono essere chiesti quando:
il beneficiario, il Pubblico Ministero, o lo stesso A.d.s. ritengono che ne sono venuti meno i presupposti;
l’amministratore di sostegno non ha realizzato la piena tutela del beneficiario, come invece avrebbe dovuto.
Dopo la richiesta, spetta al giudice valutare se ci sono i presupposti per cessare l’incarico o sostituire l’amministratore tramite decreto motivato.
Cosa fa l’amministratore di sostegno: poteri e doveri. I poteri e i doveri dell’amministratore di sostegno sono tassativamente previsti dagli articoli 409 e 410 del Codice civile. Nel primo si prevede che: “Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana.”
In altre parole, l’amministratore può compiere solo quegli atti riservati dal Giudice Tutelare alla propria competenza esclusiva o parziale. Al beneficiario, invece, spetta la piena titolarità nel compiere gli atti necessari al soddisfacimento delle esigenze della vita quotidiana.
In sintesi, l’amministratore deve svolgere l’incarico:
tenendo conto dei bisogni del beneficiario;
informando tempestivamente il giudice in caso di dissenso;
informare il beneficiario di tutti gli atti portati al termine;
svolgere l’incarico per 10 anni, a meno che l’amministratore non sia il coniuge (o il convivente) un ascendente o un discendente.
Per quanto riguarda i poteri invece, questi sono divisi in due grandi categorie:
atti di ordinaria amministrazione, come l’acquisto di beni mobili e lo svolgimento di faccende quotidiane. In questi casi non occorre l’autorizzazione del giudice tutelare;
atti di straordinaria amministrazione, ad esempio la compravendita di un immobile o di beni molto costosi; per questi è necessario chiedere l’autorizzazione del giudice.
Caso particolare è il matrimonio. Anche se verrebbe da pensare che si tratta di un atto che necessita dell’autorizzazione, la Corte di Cassazione con la sentenza n°11536 di giovedì 11 maggio 2017 ha stabilito che il beneficiario è libero di convolare a nozze anche senza il consenso dell’amministratore di sostegno o del giudice.
Un aiuto alle persone fragili: chi è e quanto costa l’amministratore di sostegno. Dagli anziani ai ludopatici, dai disabili ai malati, l’amministrazione di sostegno è uno strumento a disposizione di chi non riesce a badare ai propri interessi ma non è in condizioni così gravi da essere interdetto o inabilitato. Selene Pascasi il 19 dicembre 2019 su ilsole24ore.com. L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione a tutela di chi, per infermità o menomazione fisica o psichica non riesca, anche solo temporaneamente, a badare ai propri interessi e abbia bisogno di essere affiancato, appunto, da un amministratore di sostegno. La figura è prevista dall’articolo 404 del Codice civile e ha il compito di aiutare il beneficiario a compiere varie operazioni interferendo il meno possibile con le sue scelte. Del resto, è un sistema pensato per i soggetti fragili e non per gli incapaci di intendere e volere, per i quali è necessario nominare un tutore.
I presupposti della nomina. Perché sia nominato un amministratore di sostegno occorrono due requisiti:
1) l’infermità o la menomazione fisica o psichica, anche passeggere;
2) e la mancanza di residue capacità legate all’esperienza maturata con lo studio o con il lavoro che possano consentire alla persona di cavarsela da sé.
Ad esempio, sarà opportuno sostenere chi sperperi soldi dissennatamente, il ludopatico, il malato oncologico o comatoso non interdetto, chi soffra di problemi motori anche transitori, il bipolare raggirabile nei periodi di scompenso, il detenuto, l’alcol o il tossico dipendente, l’affetto da Alzheimer o da un’altra forma di demenza. Ma l’amministratore di sostegno è utile anche per limitare la capacità di donare o di predisporre testamento dei soggetti manipolabili.
Chi può fare la richiesta. Possono chiedere il sostegno, con ricorso al giudice tutelare della città dove vive, lo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato), il coniuge o il convivente, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo grado, il tutore, il curatore, il pubblico ministero, i responsabili dei servizi sanitari e sociali che si occupano di lui. È ammessa che l’iniziativa d’ufficio da parte del giudice.
La procedura. La misura, nonostante sia tesa ad aiutare il beneficiario senza privarlo della libertà d’agire, inevitabilmente la comprime. Serve, quindi, un procedimento accurato che ne accerti l’effettiva esigenza. L’iter si avvia con ricorso – non necessariamente predisposto da un avvocato – che indichi i dati delle parti e i motivi della richiesta. L’atto, poi, deve essere notificato all’interessato e a tutti i soggetti ammessi a prendere l’iniziativa. Entro 60 giorni, il giudice, prese le dovute informazioni, può bocciare la domanda o accoglierla e nominare un amministratore con decreto motivato. Nel decreto, però, deve indicare la durata e l’oggetto dell’incarico, gli atti che l’amministratore di sostegno può compiere in nome e per conto del beneficiario, quelli che il beneficiario non può compiere da solo e il tetto delle spese sostenibili. Nella procedura interviene il Pm. L’incarico sarà revocato quando vengono accertate violazioni da parte dell’amministratore, per sopraggiunta incompatibilità, per il venir meno dei motivi alla base della nomina (si pensi a chi, superate le difficoltà, possa di nuovo curare le sue faccende) o per l’aggravarsi delle condizioni del beneficiario, tanto da rendere necessarie l’interdizione o l’inabilitazione.
A chi va l’incarico. In alcuni casi sono i familiari a mettersi a disposizione per aiutare il parente in difficoltà nel gestire i propri affari, senza entrare in conflitto con lui. Nelle altre ipotesi, occorre individuare una persona che possa essere nominata amministratore di sostegno. Per scegliere l’amministratore di sostegno bisogna tenere conto degli interessi del beneficiario che, redigendo un atto pubblico o una scrittura privata autenticata quando è ancora in condizioni di farlo, può indicare un nome per future evenienze. Non può, però, essere designato un operatore dei servizi che si stiano già occupando della situazione.
Il compenso. L’incarico, dice l’articolo 379 del Codice civile, è gratuito ma il giudice – per entità del patrimonio o particolari difficoltà di gestione – può riconoscere all’amministratore di sostegno nominato un indennizzo calcolato in base alle mansioni svolte o autorizzarlo a collaborare con persone stipendiate. Gli spetta, comunque, un rimborso spese. Se, invece, l’amministratore di sostegno è un legale, la sua si ritiene attività professionale di natura remunerativa tassabile. L’indennità e i costi sono a carico del beneficiario (a meno che non sia indigente e la spesa sia coperta dallo Stato) o dei suoi eredi, che potranno evitare l’esborso rinunciando all’eredità o accettandola con beneficio d’inventario.
Poteri e doveri. Il raggio d’azione dell’amministratore di sostegno varia con il decreto di nomina perché il giudice, in base alle caratteristiche del caso, deve specificare - appunto nel decreto - per quali atti il beneficiario, che mantiene la capacità di agire e di compiere le operazioni quotidiane, si deve avvalere dell’aiuto dell’amministratore e per quali deve invece lasciargli la rappresentanza esclusiva. Tuttavia, l’incaricato deve muoversi tenendo conto delle esigenze e delle aspirazioni del beneficiario e informarlo tempestivamente dei suoi passi per confrontarsi con lui e sollecitare l’intervento del giudice in caso di divergenze. Discorso a parte per le scelte sulla salute del beneficiario. Dato che si tratta di diritti personalissimi, l’amministratore di sostegno non può, senza l’ok del giudice, rifiutare i trattamenti necessari a evitare il decesso della persona assistita ma può essere autorizzato a opporsi a interventi rinviabili senza rischi o prestare il consenso al ricovero o all’inserimento in una residenza sanitaria assistenziale.
Sull’equa indennità dell’amministratore di sostegno. Davide Pizzi, Assistente Sociale dell’Ordine Regionale della Puglia. L’articolo pubblicato su Scambi di Prospettive. Si ribadisce frequentemente durante i corsi di formazione che l’amministrazione di sostegno non è né una professione, né un lavoro, né un business. La legge 6/2004 che istituisce l’istituto, non accenna in nessun modo, ovvero, non menziona, l’esistenza di una forma di compenso/retribuzione, per chi svolge il compito di amministratore. Il comma 1 dell’art. 411 cod. civ., dove trova applicazione l’amministrazione di sostegno, e l’art. 379 cod. civ. che prevede la disciplina in materia di tutela, stabiliscono che l’ufficio tutelare è gratuito. L’amministratore di sostegno presta quindi la sua opera gratuitamente? È possibile ottenere un riconoscimento in termini economici per tutta l’attività svolta a favore dell’amministrato?
L’equa indennità. Il primo comma all’articolo 379 del codice civile che si riferisce alla tutela, è esteso anche all’amministrazione di sostegno. L’amministratore di sostegno perciò, può avvalersi della possibilità di chiedere al giudice tutelare l’equa indennità. Per ottenere il provvedimento che liquida l’indennità è necessario depositare in cancelleria del tribunale un’istanza.
A chi spetta pagare l’equa indennità? “Il giudice tutelare tuttavia, considerando l’entità del patrimonio e le difficoltà dell’amministrazione, può assegnare al tutore un’equa indennità”. Così recita il comma 1° dell’articolo 379 c.c., e gli elementi da prendere in considerazione sono due: l’entità del patrimonio; le difficoltà dell’amministrazione. Per il calcolo dell’entità del patrimonio, si deve intendere non soltanto il patrimonio dell’amministrato, ma anche una quota da stabilire e da addebitare ai parenti civilmente obbligati.
Alcuni siti web di studi legali propongono facsimili di istanze, che suggeriscono le seguenti formule: l’Ill.mo Giudice Tutelare, Voglia liquidare in favore dell’A.d.S. per l’attività svolta, la somma di € (di cui € tot. per spese sostenute, ed € tot. come equa indennità per l’impegno profuso ed il tempo dedicato all’ufficio), o altro maggiore o minore importo ritenuto di giustizia, da porre a carico del. Sig. e/o della sua famiglia. Nell’equa indennità sono quindi richiesti tutti i rimborsi delle spese sostenute dall’amministratore di sostegno, quali: lettere, raccomandate, fax, telefonate, spese per spostamenti, marche da bollo, ecc. Ma anche un vero e proprio compenso, quale riconoscimento dell’impegno e del tempo profuso, stabilito in proporzione al patrimonio dell’amministrato, e che può essere posto a carico dei parenti civilmente obbligati!
Il caso del sig. Francesco. Portatore di handicap in condizione di gravità, ai sensi dell’art. 3 comma 3 della legge 104/92, dispone come unica fonte di sostentamento: la pensione di invalidità civile e l’indennità di accompagnamento. I genitori anziani, dopo avergli offerto assistenza continuativa per oltre trent’anni, non potendo più badare a lui, e preoccupati del suo futuro quando loro non ci saranno più, hanno deciso di inserirlo in una struttura protetta. Essi hanno presentato istanza al Tribunale, e hanno ottenuto la nomina di un amministratore di sostegno. Il giudice tutelare, avendo riscontrato l’assenza di parenti entro il quarto grado nella rete familiare che si facesse carico dell’amministrazione, ne ha nominato uno d’ufficio: un avvocato.
L’iniqua indennità pagata dal sig. Francesco. Al termine del primo anno di amministrazione, il sig. Francesco ha pagato € 3000,00 al proprio amministratore, pari a € 250,00 mensili. Il compito dell’amministratore di fatto, consisteva ogni mese nel pagare la retta di € 750,00 alla RSSA, e di depositare € 50,00 per le spese personali del suo amministrato. Il sig. Francesco come unica entrata ha la pensione d’invalidità civile, più l’indennità di accompagnamento, il cui totale ammonta a € 800,00 circa, e possedeva un libretto di risparmio con circa € 15.000,00. I genitori inoltre, pagano tutte le altre spese extra: farmaci, vestiario, ecc. Bastano pochi conti per capire che, se il Giudice tutelare continuasse ad assegnare ogni anno lo stesso importo per l’equa indennità, il sig. Francesco nel giro di cinque anni non avrà neanche più un centesimo sul libretto di risparmio!
…considerando l’entità del patrimonio e le difficoltà dell’amministrazione. In base a quale criterio il Giudice tutelare ha stabilito un’equa indennità pari a circa 1/5 delle sostanze del sig. Francesco? Se si prende in considerazione il criterio precedentemente espresso nel punto A, si capisce presto che il patrimonio è basso, e che i risparmi serviranno per sostenere le spese future, per esempio protesi dentarie ecc. Se si prende in considerazione poi, il criterio B, quali difficoltà può avere un amministratore il cui compito è pressoché quello di effettuare il facile pagamento mensile della retta?
Il nuovo ricorso dei genitori. Dopo poco meno di due anni di amministrazione, il sig. Francesco ha sul libretto di risparmio €4500,00 in meno. A quel punto suo padre ha deciso chiedere al giudice di subentrare al posto dell’amministratore, almeno fino a quando le sue forze lo accompagneranno, nonostante la sua età non più giovane, e nonostante in un primo momento aveva preferito una persona scelta dal tribunale, per garantire a suo figlio un amministratore che svolgesse il compito per un periodo di tempo più lungo rispetto al suo. Mi riferisce durante un colloquio: “non avevo scelta, se continuava ad andare avanti così, mi figlio sarebbe restato senza un centesimo in tasca. Non capisco come il Giudice tutelare possa autorizzare indennità così alte. Ho scoperto che nella richiesta d’indennità, l’amministratore di sostegno aveva dichiarato la mia possibilità di sostenere economicamente mio figlio con € 250,00 mensili, cosa che io avevo si affermato, e che di fatto stavo facendo tramite l’acquisto dei farmaci e tante altre cose necessarie”.
Conclusione. Questa esperienza, verosimilmente non un caso isolato in Italia, deve servire a suscitare una seria riflessione a distanza di dieci anni dell’istituzione dell’amministrazione di sostegno, per puntellare qua e la alcune cose che sarebbero da migliorare. Essa dimostra che basterebbe avere almeno quattro persone come il sig. Francesco da amministrare, per percepire circa € 1000,00 al mese, e senza tassazione alcuna, poiché trattasi di una indennità. Nei casi poi, di persone più facoltose, l’indennità potrebbe raggiungere quote anche più consistenti! L’equa indennità, così diffusa e assegnata con tanta facilità, rende di fatto l’amministrazione di sostegno una professione, e anche ben retribuita, nelle mani di persone, quasi sempre avvocati. Quest’ultimi, se non adeguatamente formati, a un compito così delicato, che richiede un significativo coinvolgimento empatico, rischiano di essere carenti di sensibilità, conoscenze, strumenti e saperi, di cui invece dispongono gli operatori che esercitano ogni giorno la professione sociale.
Qual è la differenza tra amministratore di sostegno e tutore nel 2019? Da Avvocatoflash.it. Nella giurisprudenza, vige la distinzione tra amministratore di sostegno e tutore. Il primo è nominato quando un soggetto abbia un grado di infermità o impossibilità e il suo compito è di adeguarsi alle esigenze del soggetto assistito. Il secondo invece, è protettore delle persone incapaci, quali i minori e gli interdetti per legge.
1. Amministratore di sostegno. L'amministratore di sostegno è una figura con compiti di assistenza, sostenimento e rappresentanza di chi è impossibilitato a provvedere ai normali adempimenti quotidiani, in maniera totale o parziale. Tale soggetto è stato introdotto nell'ordinamento dalla Legge n. 6 del 2004. Gli atti che l'amministratore di sostegno può compiere in nome e per conto del beneficiario, si distinguono in atti di ordinaria amministrazione (previa autorizzazione del giudice tutelare) e atti di straordinaria amministrazione (in questo caso l'autorizzazione proverrà da decreto). Tutti gli atti che non ricadono nella competenza dell'amministratore di sostegno (ovvero quelli necessari per il soddisfacimento delle esigenze quotidiane) rimangono in capo al soggetto beneficiario.
L'amministratore, periodicamente, dovrà presentare al giudice tutelare una relazione sull'attività svolta, le condizioni in cui versa il beneficiario e il conto economico della gestione.
2. I doveri dell’Amministratore di sostegno. L'articolo 410 del Codice Civile, statuisce che l'amministratore di sostegno ha l'obbligo di tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario e di informarlo in maniera tempestiva. Si assiste, dunque, ad una sorta di collaborazione tra amministratore di sostegno e beneficiario; collaborazione assente nel caso di interdizione, dove l'interdetto è semplicemente sostituito dal tutore. La Corte di Cassazione, in due importanti sentenze (sent. n. 9628/2009 e sent. n. 22332/2011), ha stabilito che ”la scelta dell’amministrazione di sostegno non deve essere semplicemente basata sul grado d’infermità o d’impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto, ma piuttosto sulla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle sue esigenze, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa”. Da ciò discende che si ricorrerà alla figura dell'amministratore di sostegno quando risulti necessaria “un'attività di tutela minima, in relazione, tra le altre cose, alla scarsa consistenza del patrimonio del soggetto debole, alla semplicità delle operazioni da svolgere, e all'attitudine del beneficiario a non porre in discussione i risultati dell'attività svolta nel suo interesse”.
3. Il tutore. Distinta dalla figura dell'amministratore di sostegno è quella del tutore. L'istituto della tutela serve per proteggere le persone incapaci di provvedere autonomamente ai propri interessi, ovvero i minori e gli interdetti. In questa seconda categoria, possono rientrare il maggiorenne e il minorenne emancipato, che si trovino in condizione di infermità mentale tale da renderli incapaci di provvedere ai propri interessi. Il tutore è nominato dal giudice tutelare, solitamente nella cerchia familiare dell'interdetto. Oltre al tutore, il giudice può nominare un protutore nei casi di conflitto di interessi dell'interdetto con il tutore.
Fonti normative. Art. 410 C.C. Corte di Cassazione, sent. n. 9628/2009 e senti. n. 22332/2011. Legge n. 6/2004
Qual è il ruolo del giudice tutelare? Chi sono gli interdetti? Quando si ricorre all'amministratore di sostegno e quando al tutore? Esponici il tuo caso. AvvocatoFlash ti metterà in contatto con i migliori avvocati online. Tre di loro ti invieranno un preventivo gratuitamente e sarai tu a scegliere a chi affidare il tuo caso.
Amministratore di sostegno: la guida completa. La procedura di nomina, le modalità di scelta, le competenze, gli obblighi ed il compenso. Paola Loddo. Pubblicato il 24/10/2019 su Altalex. L’amministratore di sostegno è una figura istituita per tutelare quelle persone che, a causa di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.
1. L’amministrazione di sostegno: la legge di riferimento. La misura di protezione dell’amministrazione di sostegno è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, che ha attuato una vera e propria rivoluzione giuridica e culturale nella tutela delle persone fragili, affiancando ai più rigidi istituti tradizionali (interdizione e inabilitazione) un nuovo strumento, più flessibile e quindi maggiormente adattabile alla specificità delle singole situazioni. L’art. 1 prevede, infatti, che “la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. L’amministrazione di sostegno si pone, così, come uno strumento modulabile, in grado di fornire ai soggetti deboli un supporto (declinato in termini di rappresentanza o di assistenza), che miri a sostenere la capacità residua del soggetto, valorizzando la centralità della persona e il principio di autodeterminazione. La disciplina normativa del nuovo istituto è contenuta negli articoli 404 e ss. del codice civile.
2. A chi spetta la tutela? Ai sensi dell’art. 404 c.c., la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno può essere disposta nei confronti della persona “che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”. La norma individua, dunque, due requisiti, uno di tipo soggettivo (la menomazione fisica o psichica), l’altro di tipo oggettivo (l’impossibilità di provvedere ai propri interessi), che devono coesistere ed essere legati da un rapporto di causalità. I sostenitori di un’interpretazione estensiva della misura di protezione, richiamandosi al sopracitato art. 1 della legge n. 6/2004, ritengono inoltre che essa vada applicata, anche al di là della sussistenza di una specifica infermità o patologia, in tutti i casi in cui il soggetto sia privo di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. In concreto, la misura è stata disposta in favore di un’ampia categoria di beneficiari, tra i quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo:
persone affette da infermità mentali e menomazioni psichiche: patologie psichiatriche, ritardo mentale, sindrome di down, autismo, malattia di Alzheimer, demenze, abuso di sostanze stupefacenti e alcoldipendenza; ma, anche, prodigalità, shopping compulsivo, ludopatia (talvolta anche in assenza di una specifica patologia (Cass. Civ., 07/03/2018, n. 5492).
persone affetta da infermità fisiche: ictus, malattie degenerative o in fase terminale, handicap fisici e motori, condizioni di coma e stato vegetativo, patologie tumorali.
Resta complesso il tema della demarcazione tra l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno e dell’interdizione: in linea generale, si può affermare che, pur con alcune differenze su base geografica, l’istituto interdittivo trova sempre minore spazio in favore della nuova misura.
3. Chi può avviare la procedura? Ai sensi degli artt. 406 e 417 c.c., la legittimazione attiva alla proposizione del ricorso spetta ai seguenti soggetti: Pubblico Ministero; beneficiario della misura (anche se minore, interdetto o inabilitato); coniuge; persona stabilmente convivente; parenti entro il quarto grado; affini entro il secondo grado; tutore dell’interdetto; curatore dell’inabilitato; unito civilmente in favore del proprio compagno. Inoltre, ai sensi dell’art. 406 comma 3° c.c., sono destinatari di un vero e proprio obbligo giuridico “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”. Essi dovranno proporre il ricorso ex art. 407 c.c. al Giudice Tutelare, o, in alternativa, dovranno fornire notizia delle circostanze a loro note al Pubblico Ministero tramite apposita segnalazione. In questo secondo caso, sarà poi la Procura della Repubblica a valutare l’eventuale proposizione del ricorso. Nel procedimento, non è necessaria la difesa tecnica. Pertanto, il ricorso potrà essere presentato direttamente dal ricorrente, senza il ministero di un difensore (si veda, però, Cass. Civ., 29/11/2006, n. 25366).
4. Come viene nominato l'amministratore di sostegno? Il ricorso per la predisposizione della misura. Ai sensi degli artt. 404 e 407 c.c., il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno si propone con ricorso da depositarsi presso il Tribunale (ufficio del Giudice Tutelare) del luogo di residenza o domicilio del potenziale destinatario della misura.
Il ricorso deve contenere:
l’indicazione del Giudice Tutelare territorialmente competente;
le generalità del ricorrente e del beneficiario;
l’indicazione della residenza, del domicilio e della dimora abituale del beneficiario;
il nominativo e il domicilio dei congiunti e dei conviventi, come individuati nell’art. 407 c.c.;
le ragioni per cui si chiede la nomina dell’amministratore di sostegno, con specificazione degli atti di natura personale o patrimoniale che debbano essere compiuti con urgenza. E’ inoltre utile, benché non necessario, fornire una descrizione delle condizioni di vita della persona ed effettuare una prima ricognizione della situazione reddituale e patrimoniale della stessa, onde delineare fin da subito il progetto di sostegno che dovrà essere poi messo a punto dal Giudice Tutelare. Se non sussistono particolari ragioni di urgenza, il Giudice Tutelare, letto il ricorso, fissa con decreto la data di udienza per l’audizione del beneficiario e per la convocazione del ricorrente e degli altri soggetti (congiunti, conviventi, ecc.) indicati nell’art. 406 c.c. Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura del ricorrente, al beneficiario; entrambi gli atti devono essere comunicati agli altri soggetti indicati nel ricorso. La fase istruttoria può esaurirsi con l’audizione del beneficiario, del ricorrente e dei congiunti (se presenti) e con la sola acquisizione della documentazione allegata al ricorso; tuttavia, il Giudice Tutelare, in virtù degli ampi poteri istruttori che gli sono riconosciuti dall’art. 407 c.c., può disporre, anche d’ufficio, ogni ulteriore accertamento, anche disponendo apposita consulenza tecnica in ordine alla capacità e autonomia del beneficiario. Il Giudice Tutelare provvede, quindi, con decreto motivato e immediatamente esecutivo. Ai sensi dell’art. 405 c.c., qualora, invece, sussistano particolari ragioni d’urgenza, il Giudice Tutelare, subito dopo il deposito del ricorso, potrà adottare, anche d’ufficio, inaudita altera parte, i provvedimenti necessari per la cura della persona e per la conservazione e l’amministrazione del patrimonio, a tal fine anche nominando un amministratore di sostegno provvisorio. In tale eventualità, l’udienza per l’audizione del beneficiario verrà fissata in seguito e, espletato ogni opportuno approfondimento istruttorio, la misura di protezione potrà essere confermata o revocata con decreto definitivo.
5. L’amministratore di sostegno: scelta e sostituzione. La scelta dell’amministratore di sostegno viene effettuata dal Giudice Tutelare “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona beneficiaria”. L’art. 408 c.c. individua un ordine preferenziale a cui il Giudice Tutelare dovrà attenersi in tale valutazione:
in primo luogo, deve essere valorizzata l’eventuale designazione dell’amministratore di sostegno già effettuata dal beneficiario, in previsione della propria futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata; parimenti, dovrà tenersi conto dell’eventuale preferenza manifestata dal beneficiario nel corso del procedimento, sempre che egli conservi adeguata capacità di discernimento;
in mancanza di designazione o in presenza di gravi motivi (quando, ad esempio, il soggetto designato non è idoneo allo svolgimento dell’incarico), il Giudice Tutelare, con decreto motivato, potrà nominare un amministratore di sostegno diverso; nell’effettuare tale scelta, il Giudice Tutelare dovrà preferire, se possibile, uno dei seguenti soggetti:
il coniuge che non sia separato legalmente;
la persona stabilmente convivente;
il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella;
il parente entro il quarto grado;
il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata;
inoltre, in caso di opportunità, o – se sussista la designazione da parte del beneficiario – in presenza di gravi motivi, il Giudice Tutelare potrà nominare un soggetto terzo di propria fiducia. A tal fine, egli potrà attingere, ad esempio, ad appositi elenchi istituiti presso i singoli Uffici giudiziari che contengono i nominativi di professionisti in materie giuridiche ed economiche disponibili allo svolgimento dell’incarico. Ai sensi dell’art. 413 c.c., laddove ne ricorrano i presupposti, il Giudice Tutelare, su istanza motivata del beneficiario, del Pubblico Ministero, dell’amministratore di sostegno o di uno dei soggetti di cui all’art. 406 c.c., potrà disporre la sostituzione dell’amministratore. La norma non indica dei presupposti specifici per la sostituzione dell’amministratore, con la conseguenza che la valutazione è lasciata alla discrezionalità del Giudice: in concreto, la sostituzione potrà avvenire, anche al di fuori di un intento sanzionatorio, in caso di persistente dissenso con il beneficiario, in caso di decorso del termine decennale previsto dall’art. 410 ultimo comma c.c. o nell’ipotesi di trasferimento dell’amministratore di sostegno in luogo lontano dalla residenza abituale del beneficiario.
6. L'amministratore di sostegno: compiti e poteri. L’art. 505 comma 5° c.c. dispone che il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno deve contenere l'indicazione:
“1) delle generalità della persona beneficiaria e dell'amministratore di sostegno;
2) della durata dell'incarico, che può essere anche a tempo indeterminato;
3) dell'oggetto dell'incarico e degli atti che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario;
4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con l'assistenza dell'amministratore di sostegno;
5) dei limiti, anche periodici, delle spese che l'amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità;
6) della periodicità con cui l'amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l'attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.
L’oggetto dell’incarico, determinato nel decreto di nomina, individua i compiti dell’amministratore di sostegno.
Essi potranno riguardare i due seguenti ambiti (alternativamente o congiuntamente):
la cura della persona, intesa sia come cura della salute (eventuali scelte sanitarie, rapporti con il personale medico, espressione del consenso informato, ecc.), sia come gestione degli aspetti relazionali e sociali (scelta del luogo dove vivere, avvio di un percorso di psicoterapia o sostegno nella ricerca di un’occupazione lavorativa, ecc.);
la cura del patrimonio, riferita alla gestione reddituale e patrimoniale del beneficiario (amministrazione di beni mobili – stipendi, pensioni, portafoglio titoli, ecc. – o di beni immobili), volta alla conservazione delle risorse finanziarie dello stesso e al soddisfacimento delle necessità ordinarie e straordinarie del medesimo.
Sotto il profilo dei poteri dell’amministratore, egli, in relazione alle condizioni di salute e all’autonomia residua del beneficiario, potrà essere investito dal Giudice Tutelare di un ruolo di rappresentanza esclusiva (sostituendosi integralmente al soggetto) o di mera assistenza (affiancandosi al soggetto nell’assunzione delle decisioni).
7. L’amministratore di sostegno: il compenso. La materia è disciplinata dall’art. 379 c.c., dettata in materia di tutela, ma applicabile in virtù del richiamo contenuto nell’art. 411 comma 1° c.c. anche all’amministrazione di sostegno. La norma afferma la tendenziale gratuità dell’incarico, disponendo tuttavia che il Giudice Tutelare, considerando l’entità del patrimonio del beneficiario e la difficoltà dell’amministrazione, possa liquidare in favore dell’amministratore un’equa indennità. Contestualmente al deposito del rendiconto annuale, l’amministratore di sostegno potrà formulare istanza al Giudice Tutelare per richiedere il riconoscimento di tale indennità. Peraltro, non esistono criteri univoci per la determinazione della stessa, che è riservata unicamente alla discrezionalità del Giudice Tutelare. Il decreto che liquidità l’indennità può essere oggetto di impugnazione davanti al Tribunale in composizione collegiale, laddove appaia palesemente esorbitante o sproporzionato in relazione ai parametri indicati dall’art. 379 c.c.
Amministratore di sostegno: dalla domanda alla nomina. Da asst-pg23.it. Affinché sia nominato un Amministratore di Sostegno per una persona in condizioni di bisogno (chiamato anche beneficiario) è necessario presentare al Giudice Tutelare una specifica domanda (detta tecnicamente ricorso). Il ricorso può essere presentato dal beneficiario stesso, dal coniuge (non legalmente separato), dalla persona stabilmente convivente oppure dai parenti entro il IV e gli affini entro il II, dal tutore o il curatore (per coloro che già godono di una delle altre due misure di protezione), il Pubblico Ministero, i responsabili dei Servizi Sanitari e Sociali che hanno in cura la persona interessata. Non è necessario il ricorso ad un avvocato per la predisposizione del ricorso.
Il ricorso. Elenco dei documenti necessari:
certificato integrale (o estratto) dell’atto di nascita del beneficiario (la mancanza di tale certificato è causa di sospensione della procedura)
certificato di residenza e di stato di famiglia del beneficiario
relazione clinica sullo stato di salute del beneficiario redatto in data recente riportante anamnesi, diagnosi e capacità residue del paziente (la relazione clinica andrebbe compilata sulla base del format e redatta da specialista di struttura sanitaria pubblica o accreditata; nel caso sia redatta dal medico di base la firma deve essere accompagnata dal codice regionale mediante il timbro o l’indicazione del codice stesso)
certificato che attesti l’eventuale intrasportabilità del beneficiario
eventuale relazione sociale che inquadri il contesto di vita del beneficiario
documentazione relativa alla situazione patrimoniale del beneficiario (stipendi percepiti per attività lavorativa, pensioni di anzianità o vecchiaia, pensioni di invalidità, pensioni di reversibilità, assegni di accompagnamento, rendite provenienti da affitti, investimenti, conti correnti, titoli, immobili, ecc.). Può bastare, se disponibile, un estratto conto bancario dove sono evidenti gli accrediti per la pensione, in alternativa il prospetto annuo che l’Inps invia fotocopia carta identità del beneficiario, del ricorrente e dell’eventuale amministratore di sostegno
elenco nomi e indirizzi dei parenti dei beneficiario fino al IV grado (maggiorenni): genitori, fratelli, figli, coniuge e nipoti
stato di famiglia storico (dal momento del matrimonio se coniugato o dalla nascita se nubile o celibe).
Compilazione del ricorso. Per la compilazione del ricorso non è richiesto l’utilizzo di un modulo specifico, in quanto la forma è libera. I modelli, presenti sul nostro sito e su quello del Tribunale, hanno funzione indicativa e possono essere d’aiuto per la presentazione del ricorso. E’ sempre utile modellare il ricorso rispetto alle esigenze del possibile beneficiario, soprattutto per i poteri da attribuire al futuro Amministratore di sostegno. Nel caso si sia già nelle condizioni di dover chiedere autorizzazioni per atti di straordinaria amministrazione si consiglia di farlo già nel ricorso (ad es. le accettazioni di eredità, documentando e motivando la richiesta) così da accelerare il provvedimento.
Marche da bollo. La marca da bollo richiesta è di € 27,00; è opportuno produrre sin da subito anche un’ulteriore marca da € 11,63 (da allegare al ricorso) per il successivo ritiro del Decreto di fissazione dell’udienza.
Presentazione. La presentazione del ricorso, unitamente alla nota accompagnatoria, va fatta direttamente dal ricorrente; è ammessa, in via eccezionale, la delega a terzi mentre non è ammessa la spedizione postale, eccezion fatta nel caso in cui il ricorso sia proposto direttamente dal servizio sociale, sanitario o sociosanitario che ha in cura il beneficiario.
La cancelleria alla quale presentare il ricorso è quella della Volontaria Giurisdizione (Tribunale). La Cancelleria, al momento della presentazione, rilascia all’interessato il numero con la quale viene registrato, che diventa il riferimento preferenziale dell’intera procedura. Se si desidera una copia del ricorso come ricevuta, va portata in Cancelleria una ulteriore marca da € 3.84. Sulla nota accompagnatoria, se disponibile, va indicato un indirizzo mail. Una volta presentato il ricorso presso la Cancelleria del Tribunale di competenza (la competenza è riferita al Comune di residenza o di domicilio del beneficiario) si deve attendere il decreto di fissazione dell’udienza presso il Giudice Tutelare (o presso il domicilio del beneficiario se questi non e' trasportabile come eventualmente evidenziato nella relazione clinica), che normalmente viene emesso all’incirca un mese e mezzo prima della data dell’udienza. Il decreto di fissazione riporta la data dell'udienza e alcuni elementi che è importante verificare, come eventuali richieste di integrazione di documenti che, se non si producono, portano alla sospensione della procedura.
Fissazione dell'udienza e ritiro decreto fissazione udienza. Per il ritiro del decreto di fissazione dell’udienza, la Cancelleria avvisa il ricorrente prioritariamente via e-mail, posta e telefono. Attenzione: l’indirizzo mail della Cancelleria della Volontaria Giurisdizione non può essere utilizzato né per la presentazione di ricorsi, né per presentazione istanze, né tanto meno per informazioni generali oppure riguardanti lo stato della procedura. Nel caso, già in questa fase, fosse necessario presentare una copia autenticata del decreto di fissazione dell'udienza (ad esempio per le banche) serve una marca da bollo di € 11,63.
Comunicazione. Il ricorrente ha l’obbligo di comunicare il decreto di fissazione dell’udienza, unitamente al ricorso presentato, al possibile beneficiario e a tutte le persone indicate dal giudice tutelare che lo stesso ritiene utile convocare (queste sono indicate nel decreto), comprovando l’avvenuta comunicazione mediante ricevuta di raccomandata postale (non sono ammesse altre modalità) in sede di udienza. E' importante che le persone convocate si presentino all’udienza; se per qualsiasi motivo (ad esempio problemi di salute, età avanzata o impedimenti di altro tipo) le stesse non sono in grado di presentarsi, possono far pervenire al Tribunale una dichiarazione sottoscritta (con allegata copia del documento d'identità) con il loro parere in ordine alla nomina o meno dell'Amministratore di Sostegno. E' opportuno, quindi, che il ricorrente preavvisi i familiari interessati della possibilità di essere convocati dal Giudice Tutelare già in fase di predisposizione del ricorso; ciò, ovviamente, nei limiti del possibile e tenuto conto delle relazioni familiari. Comunque sia il ricorrente ha assolto il proprio dovere con l'invio della convocazione (del ricorso presentato) ai convocati e l’esibizione delle ricevute postali.
La nomina e l'udienza. Il Giudice Tutelare sente obbligatoriamente il beneficiario, il ricorrente e – se presenti – tutte le persone convocate; Il beneficiario è convocato presso il Tribunale salvo che ci sia la condizione di intrasportabilità.
Decreto. Il fascicolo, prima dell'emanazione del decreto, viene inviato al pubblico ministero per il previsto parere.
Giuramento. L'amministratore di sostegno designato viene convocato per il giuramento; il decreto e il verbale di giuramento possono essere ritirati dopo almeno 3 giorni dal giuramento, consegnando contestualmente una marca da bollo di € 11,63. Nel caso sia necessario ritirare il tutto prima dei 3 giorni la marca da bollo è di € 34,89 (diritti d'urgenza). Se dovete darne copia a terzi (principalmente banche e/o uffici postali) è consigliabile non consegnare la copia autenticata rilasciata dalla Cancelleria ma, esibendo la stessa, lasciarne una copia non autenticata. La richiesta di copie autenticate alla Cancelleria è infatti onerosa poiché necessita di marca da bollo. Il decreto di apertura e di chiusura dell'Istituto sono comunicati all'ufficiale dello stato civile, direttamente a cura del Tribunale, per le annotazioni in margine all'atto di nascita del beneficiario.
Il dopo: le relazioni. Entro il termine fissato dal Giudice Tutelare, l'Amministratore di Sostegno ha l'obbligo di produrre la relazione iniziale, con la quale viene effettuata una ricognizione dell'intera situazione patrimoniale del beneficiario; successivamente, nei termini stabiliti dal Giudice Tutelare, deve essere prodotto anche il rendiconto periodico.
Istanze di autorizzazione a compiere atti di straordinaria amministrazione. Nel provvedimento, generalmente, è contenuta l'autorizzazione a compiere esclusivamente atti di ordinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è necessaria specifica autorizzazione rilasciata su specifica istanza. Anche queste istanze devono essere depositate direttamente presso la cancelleria (le istanze non sono da presentare in marca da bollo). Per l'istanza di autorizzazione all'alienazione di beni immobili (case, terreni, ecc.) è necessario produrre anche una perizia estimativa asseverata recente e marca da bollo da € 27 (la perizia indica il valore di vendita).
La mia esperienza come Amministratore di Sostegno. Nicola Lorenzi, Avvocato in Milano. L’articolo pubblicato su Scambi di Prospettive. Da giovane avvocato e da interessato alla materia della tutela della persona da tempo nutrivo l’ambizione di “testare sul campo” le conoscenze sull’Amministrazione di Sostegno acquisite sui libri e durante un corso di formazione. All’inizio dell’estate del 2015 venivo a conoscenza del fatto che un amico di famiglia, ormai anziano, stava vivendo con estrema apprensione la diagnosi fatta al proprio fratello, di poco più giovane, relativa al morbo di Alzheimer. Questa persona, ormai da mesi, stava subendo una rilevante contrazione delle capacità mnemoniche e appariva sempre più spesso in stato di confusione, ed era patologicamente prodigo, elargendo denaro a più persone in assenza di ragioni e giustificazioni, il tutto senza che il fratello in salute fosse in grado di porvi alcun rimedio e avesse la forza, anche fisica e psichica, di proteggerlo, soffrendo quindi a sua volta. Coinvolto professionalmente nella questione, decidevo di aiutare i due fratelli e, infine, mi rendevo disponibile a ricoprire personalmente il delicato ruolo di Amministratore di Sostegno in favore della persona malata, certo che potesse essere un’occasione di crescita non solo professionale ma anche umana e pur con i dubbi legati all’inevitabile intromissione nella vita di altre persone che ne sarebbe derivata in ragione dell’assenza di legami familiari tra noi. Svolta la famiglia la procedura dinnanzi al Giudice Tutelare del tribunale di Milano e ricevuto il sottoscritto l’incarico formale, aveva così inizio sul campo la mia esperienza di Amministratore di Sostegno (in sigla anche A.d.S.), che mi ha definitivamente dimostrato come tra il dire e il fare, tra le nozioni scolastiche e le applicazioni pratiche, ci sia di mezzo … la vita vera, con tutte le complicazioni burocratiche, le difficoltà legate alla malattia e alla cura della persona, alla gestione delle più disparate problematiche che di volta in volta si presentano, il tutto reso ancora più complesso dalla necessità di interfacciarsi costantemente con un Giudice che, se per me è soggetto ben noto per la professione che svolgo, a un cittadino comune trasmette spesso un senso di preoccupazione e timore.
Ho quindi imparato o comunque visto sul campo quali siano le reali ed effettive difficoltà con cui ogni giorno i familiari, già provati dal dispiacere e dalle preoccupazioni, devono scontrarsi e cercare di superare per il bene del proprio congiunto malato e per effettivamente poter gestire i problemi con cui il ruolo di A.d.S. fa inevitabilmente entrare in contatto. A titolo esemplificativo (e a prescindere dalle specifiche complicazioni di ogni situazione, magari legate all’ammontare del patrimonio o alla specifica patologia del beneficiario), ho conosciuto le difficoltà nel convincere le banche a concedere l’utilizzo dell’home banking per procedere con i pagamenti e il controllo delle spese (nonostante i decreti di nomina, ormai sistematicamente, ordinino agli Istituti di credito di dotare gli A.d.S. di detti strumenti, così da evitare di doversi recare di persona in una filiale per ogni necessità). Ho conosciuto sul campo le complicazioni burocratiche dell’iter per richiedere e ottenere l’indennità di accompagnamento, gli ausili per l’incontinenza, nonché, più in generale, la difficoltà nel consegnare al giusto Ufficio del giusto Ente la documentazione a riprova del proprio ruolo, indispensabile per la corretta identificazione dell’A.d.S. come soggetto legittimato a svolgere determinati adempimenti; oppure, la difficoltà anche solo di comprendere il significato (ancor prima delle problematiche relative alla sua compilazione e, soprattutto, trasmissione) del Modello ICRIC. Ho, altresì, conosciuto le difficoltà nel reperire un fidato collaboratore familiare, rendendomi conto di come alcune parole risultino prive di significato per coloro i quali le abbiano solo udite e non approfondite: dietro a un “badante” c’è un essere umano, con i propri problemi e con le proprie difficoltà (spesso anche comunicative), al quale però si pretenderebbe di affidare compiti di assistenza di persone con patologie gravi e complesse che richiederebbero conoscenze psicologiche e mediche, stupendosi poi che detto compito non venga svolto al meglio. Ho quindi avuto, una volta di più, dimostrazione dell’importanza di conoscere direttamente la persona a cui chiedi di lavorare, di approfondire con lei le problematiche che deve affrontare nella quotidianità e di trovare di volta in volta una soluzione, così da verificare che il soggetto a cui viene chiesto di vivere in simbiosi con il malato, sia effettivamente in grado di svolgere il suo delicato compito e di sopportarne anche psicologicamente i risvolti. Ho quindi visto sul campo l’ingente lavoro a cui la Sezione Tutele del Tribunale di Milano è costantemente chiamata e che compie quotidianamente al meglio possibile, seppur certamente in carenza di organico e priva di giuste risorse pubbliche, sia dal punto di vista della Cancelleria sia dal punto di vista del Giudice Tutelare. Ho sperimentato le lunghe code che i cittadini devono fare per poter depositare istanze, documenti, rendiconti e per ritirare i relativi provvedimenti. Ho soprattutto compreso la decisiva importanza di potersi interfacciare con un Giudice Tutelare capace e attento alle effettive necessità rappresentate nelle istanze depositate, apprezzando i risultati ottenuti grazie a questa sinergia tra i vari ruoli. Da ultimo, ma certamente non per ultimo, ho conosciuto da vicino la malattia e le conseguenze che questa comporta sulla persona. Ho vissuto da vicino i cambiamenti che una malattia come l’Alzheimer provoca in un lasso di tempo brevissimo, così da costringere il malato in uno stato di assoluta alienazione, incapace di gestirsi nei più elementari bisogni e così da farlo assomigliare sempre più, purtroppo negativamente, a un infante con necessità di controllo e gestione costanti. Solo in questo modo ho potuto comprendere il dramma che un familiare è costretto a vivere quotidianamente, chiamato non solo a dover gestire il proprio malato, ma altresì a sostituirsi a quest’ultimo nella gestione di tutto quanto lo stesso non è più in grado di fare, che, però, non per questo, scompare. Più banalmente ho compreso le gravose problematiche che le famiglie sono chiamate a sopportare, spesso in assenza di aiuti esterni, per cercare di “sopravvivere” nonostante la malattia. Ora che la persona che assistevo non c’è più, oltre al ricordo della stessa, mi resta tutto quanto di positivo un’esperienza come quella raccontata può lasciare a livello di arricchimento e approfondimento non solo professionale e, soprattutto, la consapevolezza che molte famiglie – prive di nozioni giuridiche e ancor prima inesperte e comunque non pronte alle formalità – hanno certamente necessità di supporto per lo svolgimento del loro incarico. Un supporto che un’associazione come quella che ho incontrato nel mio cammino, l’Associazione InCERCHIO per le persone fragili, offre con grande competenza e passione, motivo per cui ho deciso di unirmi a loro per mettere a disposizione di familiari e beneficiari il mio contributo e le mie competenze. Il tutto nella convinzione – espressa al termine di questa narrazione ma che è in realtà il motivo alla base del mio impegno – che l’introduzione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno sia stata una delle più riuscite iniziative legislative del nostro Paese e che pertanto è dovere anche dei professionisti impegnarsi affinché l’Amministratore di Sostegno assuma sempre più un ruolo fondamentale per la cura e l’assistenza delle persone non più capaci, essendo l’unico strumento effettivamente in grado di dare le migliori risposte alle varie effettive esigenze del singolo beneficiario e con la corretta determinazione dei confini dei poteri da concedere all’A.d.S. di volta in volta nel caso specifico.
L'amministratore di sostegno raccolta di casi e controversie. Da Leale De Feroci. Che cos’è l’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno è un istituto giuridico recente, creato per assistere persone che hanno blande difficoltà psicologiche o fisiche ad amministrare i propri beni, evitando loro le gravi limitazioni della libertà di agire che sono proprie dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’incarico di amministratore di sostegno dovrebbe essere gratuito, ed il Tribunale dovrebbe affidarlo di preferenza a famigliari o conviventi e controllarne adeguatamente gli atti e le contabilità. Ma in concreto buona parte dei Tribunali italiani non ha personale sufficiente a garantire controlli efficaci, sottopone le persone ad amministratore di sostegno su richiesta di terzi senza adeguate controperizie difensive, conferisce gli incarichi ad avvocati, praticanti o commercialisti autorizzandoli a prelevare compensi dalle risorse degli amministrati, e spesso assegna loro poteri analoghi a quelli del tutore dell’interdetto.
Gli abusi, le coperture e la politica. Il sostegno viene così trasformato arbitrariamente in un’interdizione impropria con garanzie di gestione e controllo minori. E questo favorisce abusi di vario genere sulla vita, il denaro e gli immobili degli amministrati, molti dei quali si trovano così non sostenuti, ma espropriati della disponibilità del proprio denaro, dei propri immobili e persino della posta. Ed accade pure che se si oppongono finiscano all’ospizio con vendita della casa, mentre le proteste di loro famigliari vengano zittite sottoponendo anche loro ad amministrazione di sostegno analoga. Questo ciclo perverso si perpetua in proporzione alle condizioni ambientali di omertà e copertura che trova sia nei tribunali e nelle altre istituzioni che sui media; è stato inoltre favorito da tentativi impropri di sovrapporre al problema oggettivo uno scontro politico tra destra colpevolista e sinistra assolutoria.
Il caso Trieste e le indagini giudiziarie. La legge sulle amministrazioni di sostegno è nata a Trieste negli ambienti della celebre psichiatria aperta di Franco Basaglia, ma proprio qui è stata paradossalmente applicata anche senza necessità, in eccesso numerico, alimentando avvocati e commercialisti, con maggiore arbitrio repressivo delle libertà fondamentali degli assistiti, e queste anomalìe vengono tuttora coperte sia dal Tribunale che dai politici e dal quotidiano monopolista locale Il Piccolo (gruppo Espresso). Il tutto è ora sotto indagini giudiziarie della Procura esterna competente per legge, avviate su esposti-denuncia di alcune vittime e su una querela che la giudice più coinvolta nei fatti ha sporto contro Paolo G. Parovel per le notizie, le analisi ed i commenti che ne ha pubblicati. Trieste diventa perciò un caso-pilota anche per il contrasto agli abusi nelle amministrazioni di sostegno in tutt’Italia. La denuncia, che non ha precedenti ed espone il problema in 20 cartelle d’analisi giuridica e riferimenti fattuali, segnala una concentrazione che definisce “abnorme” di questi abusi a Trieste su sottrazioni giudiziarie di bambini alle famiglie e nelle “amministrazioni di sostegno” di adulti in difficoltà. ambedue categorie di soggetti deboli. In Italia gli affidi e le amministrazioni di sostegno vengono decisi dal Giudice Tutelare per semplice decreto su istruttoria discrezionale senza difesa processuale degli interessati e delle famiglie, ed una gran parte delle “amministrazioni di sostegno” viene affidata non all’attività gratuita di famigliari, ma ad avvocati e privando la persona del diritto di amministrare i propri beni, di decidere le proprie cure e di ricevere la corrispondenza. Si tratta perciò di violazioni dei diritti fondamentali e costituzionali della persona e della famiglia, con provvedimenti in buona parte ingiustificati che causano sofferenze gravi sino al suicidio e vanno ad alimentare due “mercati“ anomali: uno degli elevati costi di ricovero pagati dai Comuni per ogni bambino, e l’altro di operazioni sui patrimoni mobiliari ed immobiliari degli amministrati. I due “mercati anomali”, che ammontano a centinaia di milioni di euro, sono perciò coperti dal silenzio interessato di influenti categorie coinvolte, e Trieste avrebbe da sola il 40 % del totale nazionale degli affidi di minori al circuito delle “case-famiglia” (dati ISTAT), più 4000 “amministrazioni di sostegno” affidate per oltre metà ad avvocati. Il Movimento Trieste Libera ha inviato la propria denuncia anche alle autorità europee e internazionali rilevando che le leggi italiane non possono avere applicazione diretta a Trieste, perché secondo gli strumenti internazionali specifici (Trattato di Pace di Parigi del 1947 e Memorandum d’intesa di Londra del 1954) la città-porto franco adriatica si trova ancora sotto amministrazione fiduciaria del Governo italiano e non dello Stato italiano. Sullo status internazionale di Trieste è in atto un vivace dibattito politico e storico-giuridico. Fonte: giuliocomuzzi.it.
SE QUESTO E' UN AVVOCATO. NOMINATO AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO SVUOTA I CONTI DELLE PERSONE DEBOLI A LEI AFFIDATE. Rimini, avvocatessa ruba 200 mila euro a un senza tetto per comprarsi un Suv. Se un furto è sempre odioso a Rimini ce n'è stato uno insopportabile. Avrebbe dovuto prendersi cura delle finanze dei suoi assistiti, come amministratore di sostegno nominata dal Tribunale per la tutela delle fasce più deboli, e invece ne ha svuotato i conti correnti. Vittima di Lidia Gabellini, 38 anni avvocato del Foro di Rimini e arrestata questa mattina dai carabinieri per peculato, anche il clochard sopravvissuto nel 2008 all'incursione di un gruppo di teppisti che gli diedero fuoco mentre dormiva su panchina. Pure il risarcimento danni che il senzatetto aveva avuto all'epoca del processo, circa 190 mila euro, è finito nelle tasche dell'avvocatessa che da questa mattina si trova nel carcere femminile di Forlì. È questo l'epilogo di una indagine lampo della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Rimini, coordinati dal sostituto procuratore Davide Ercolani, nell'inchiesta denominata in maniera evocativa, «Vampiro». Secondo gli inquirenti, l'avvocato Gabellini dal 2010 fino all'ottobre 2013, mese in cui il Tribunale le ha revocato il mandato di amministratore di sostegno, ha prosciugato i conti correnti dei suoi assistiti. In particolare, nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Sonia Pasini, si contestano due condotte: una relativa alla gestione dei beni di un 22enne di Perticara, invalido al 100 per 100 dopo un incidente domestico, e quello del clochard già miracolosamente scampato alla morte nel 2008. Secondo le accuse il denaro è stato utilizzato dall'avvocato per l'acquisto di autovetture e altri beni di consumo. Questa mattina nel corso della perquisizione dell'appartamento della professionista, di ottima posizione sociale, sposata con un medico anestesista e madre di una bimba piccola, i carabinieri hanno trovato le tracce della falsificazione dei rendiconto bancari che l'avvocato mostrava ai suoi assistiti per non destare sospetti. Rendiconto alterati con del semplice bianchetto di cui gli originali sono stati sequestrati per gli atti della Procura. Gli inquirenti hanno anche provveduto al sequestro per equivalente della somma di 205 mila euro (quella che si presume sia stata provento del reato), metà della casa di famiglia, una Volkswagen Touareg, una Smart e alcuni conti correnti. L'indagine della Procura partì quando il padre del giovane invalido si accorse che sul conto corrente del figlio c'erano delle anomalie. Il ragazzo, invalido per un caduta dal tetto di casa, aveva ricevuto un indennizzo di 30mila euro e percepiva ogni mese una pensione da 680 euro. Sul conto però, dopo le incursioni dell'amministratore di sostegno, dopo 22 mesi c'erano solo pochi spiccioli. Quando l'avvocato si è vista smascherare, e intuendo di essere indagata dopo essere stata revocata dal tribunale, ha continuato ad avere rapporti con i suoi assistiti tentando in alcuni casi anche di convincerli di cambiare residenza per sviare i sospetti. All'avvocato arrestato il Tribunale aveva affidato 6 casi di persone sotto tutela. Ora la magistratura vaglierà le ulteriori 4 posizioni ancora non oggetto d'indagine. Lidia Gabellini è difesa dall'avvocato Alessandro Petrillo. Fonte: ultimocamerlengo.blogspot.it.
“MIO PADRE HA SUBITO DELLE INGIUSTIZIE, COME BENEFICIARIO DI ADS”. Alcuni si riconosceranno in questa storia e potrebbero avere delle reazioni nei miei confronti, ma io non ho paura, ho solo voglia di giustizia. Mi chiamo E, vivo a V. M. e ho 28 anni. Da qualche giorno sono amministratrice di sostegno di mio padre. I miei genitori si sono separati che ero bambina e oggi sono divorziati. Per me è venuto molto presto il momento in cui ho dovuto abbandonare il ruolo di figlia per prendermi cura di mio padre, lo faccio con convinzione, con amore, ma ho dovuto lottare, e lo sto ancora facendo, contro un muro di gomma fatto di ingiustizie e lungaggini burocratiche e giudiziarie. I fatti in breve:
Cinque anni fa moriva mio nonno, mio padre allora era seguito dai servizi psichiatrici per una grave depressione, avevo 23 anni e non sentendomi preparata a gestire le beghe legali con i familiari di mio padre, mi sono affidata alla giustizia acconsentendo che mio padre avesse come amministratore di sostegno una avvocatessa che avrebbe dovuto occuparsi (così recita il decreto di nomina del giudice tutelare) solo ed esclusivamente della divisione patrimoniale. E qui è cominciato per me e mio padre un vero e proprio incubo. La causa legale per la divisione dell’eredità si è conclusa nel novembre del 2011 e mio padre è così venuto in possesso di una casa e alcune biolche di terra. La amministratrice nominata sin dal 2008 ha cominciato a gestire il conto corrente di mio padre, fuori da ogni mandato del giudice, e fargli mancare persino il necessario per mangiare o per andare a curarsi i denti per esempio. Nonostante le mie lettere raccomandate all’amministratrice, nonostante le segnalazioni ai servizi sociali, a mio padre veniva persino negato di avere l’estratto conto del proprio conto corrente. Una vita ai limiti della sopravvivenza. E le risparmio le umiliazioni che questa donna mi ha fatto subire. Mi sono allora iscritta a un corso per amministratori di sostegno, durante il corso ponevo ai docenti tante domande e ho cominciato a raccontare i soprusi che stavamo subendo e che finalmente capivo di subire, insieme a mio padre. Ho fatto richiesta per diventare io l’amministratore di sostegno di mio padre e finalmente ci sono riuscita. A quel punto forte della consapevolezza delle leggi ho raccolto tutta la documentazione necessaria. Durante il corso mi hanno spiegato che per agire sul conto corrente di una persona, bisogna avere un mandato specifico di un giudice, che tale mandato va consegnato alla banca. Nella banca di cui mio padre era correntista non risultava essere nessun mandato del giudice in tal senso (e questo lo sapevo benissimo: uno perché l’incarico come amministratrice della avvocatessa non prevedeva questa specie di atti e due per il comportamento molto evasivo della funzionaria di banca). Ho raccolto tutte le prove di quanto ho appena denunciato. A novembre del 2012 ho presentato alla procura di Mantova un dettagliato esposto contenente tutte le prove di quelli che a me sono apparsi come soprusi e illeciti, perché un giudice si pronunciasse. Ho presentato un esposto convinta di avere giustizia e non c’è nessuna affermazione contenuta in questa lettera che non io possa provare. Purtroppo ad oggi non ho nessuna notizia dei provvedimenti presi per sanare questa ingiustizia. Io e mio padre ce la stiamo facendo a venirne fuori, ma penso a tutte quelle persone fragili magari senza familiari, e ce ne sono tante mi creda, facili prede, a cui viene di punto in bianco tolto persino il diritto di desiderare, perché durante il corso ho conosciuto storie molto simili alla mia in cui la stessa avvocatessa si era comportata nella stessa modalità anche nel mio stesso paese e, a quanto mi risulta, continua ad agire. EB. Fonte: personaedanno.it.
Lo ritengo un "Abuso di potere". Sono il figlio di una persona invalida al cento per cento non autonoma, da anni dietro alle esigenze di mia madre, con il contratto di affitto cointestato. Da anni a causa di difficoltà economiche la nostra famiglia è seguita dalla assistente sociale che inizialmente, diversi anni fa, ci è stata di aiuto dal momento che mentre lavoravo venivano gli operatori accompagnando mia madre a fare le spese e lavandola, fino al momento in cui questi servizi sono arrivati sempre più a peggiorare. Col tempo mi sono sposato con una ragazza con due figli, creandomi una famiglia e mia moglie mi aiutava ad occupandosi di gran parte lei delle faccende in casa con mia madre e dopo insistenze varie della assistente sociale abbiamo inserito mia madre in un centro diurno, lei inizialmente non voleva perché preferiva stare in casa dove secondo lei avrebbe avuto le sue libertà ma a causa di forza maggiore accettò. Le persone anziane spesso parlano male dei propri famigliari e mia madre è gelosa della nuora e dei suoi figli e quando andava al centro si lamentava con i degenti e con mia zia creando pettegolezzi in cui secondo lei noi famigliari avremmo speso i suoi soldi e, tengo a fare presente che era lei a gestire interamente i suoi soldi e quando doveva fare qualche spesa veniva accompagnata e decideva lei cosa comprare. E, come il risultato di queste sue chiacchiere che arrivarono all’orecchio della assistente sociale già turbata dal fatto che mia madre non pagava la retta del centro perché si era vista costretta ad andarci e non trovava giusto il fatto che dovesse anche pagare che, senza nemmeno interpellare i famigliari mise in atto tutte le procedure di avvio per un amministratore di sostegno. Un bel giorno tutti noi famigliari stretti e zia compresa veniamo convocati davanti al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno, io sinceramente parlando avrei dovuto in quell’occasione accettare l’ incarico ma, conoscendo le reazioni di mia madre che non voleva farsi gestire i soldi da nessuno ho preferito che ad occuparsi dell’ ingrato compito fosse mia zia ignaro del fatto di quanto sarebbe successo dopo. Cominciò allora un periodo in cui la zia che avrebbe che avrebbe dovuto occuparsi solo di tenere un amministrazione dei soldi di mia madre gestendo una misera pensione di mille euro, aveva invece in mano le redini per decidere l’ intera vita di mia madre e della nostra e naturalmente era affiancata dalla assistente sociale artefice di tutto e, assomigliava il tutto come un abuso di ufficio legalizzato. Come se non bastasse i rapporti con mia zia non erano dei migliori determinato dal fatto che in passato lei e mia madre si erano denunciate penalmente ed erano naturalmente rimasti dei rancori. Per farla breve, in famiglia lavoriamo io e mia moglie la quale deve anche assistere mia madre in tutto e per tutto dal momento che mia madre non è assolutamente in grado di fare niente da sola e la pensione di mia madre viene spesa come ritiene sia giusto l’ assistente sociale la quale manda degli operatori in casa che non le fanno niente, una spesa completamente inutile dal momento che a tutte le esigenze di mia madre ci deve pensare la famiglia. Non solo abbiamo avuto dei problemi di morosità con l’ affitto e con relativa ingiunzione di sfratto e a gennaio ci siamo concordati per un piano di rientro rateizzato pagando una somma stabilita insieme all’ amministratore di sostegno che avremmo dovuto pagare sia io che mia madre in quanto cointestatari dell’appartamento in questione, a Maggio mia zia ha lasciato l’ incarico per motivi di salute e mia madre ed è rimasta senza riscuotere la pensione fino alla fine di Luglio nel frattempo non avendo i soldi per riuscire a tamponare l’affitto ed in più anche la rateizzazione abbiamo saltato delle rate e ci è stato detto che ad Ottobre avremo un'altra ingiunzione di sfratto esecutivo se non arriviamo ad un accordo versando altri soldi che non abbiamo. In casa non abbiamo la lavatrice perché tutte le tubature sia della cucina che della doccia sono intasate e dobbiamo anche andare a lavare i piatti in bagno siamo in questa situazione da quando siamo entrati nel appartamento i lavori spetterebbero al proprietario il quale fino che non avremo pagato gli arretrati non farà mai nessun lavoro. Ci mancava solo l’ operatore mandato dalla assistente sociale che ci addita contro dicendoci che mia madre ha un solo asciugamano e con l’ intenzione di comandare in casa mia anche… F.L. Fonte: Leale De Feroci.
Al di là della volontà delle famiglie degli assistiti da ADS. Psichiatria: amministratore di sostegno o emarginatore dei familiari? Due casi di nostra conoscenza pongono dubbi sulla corretta applicazione della legge che istituisce l'amministratore di sostegno una «figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’ impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi». «L'amministratore di sostegno è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi». Inizia così, sul sito internet del Ministero della Giustizia, la scheda informativa relativa a questo istituto, così come previsto dalla legge 6 del 2004 che lo ha profondamente riformato. Anziani e disabili, ma anche alcolisti, tossicodipendenti, detenuti e malati terminali possono chiedere mediante ricorso – anche se minori, interdetti o inabilitati – che «il giudice tutelare nomini una persona che abbia cura della loro persona e del loro patrimonio». Ma tale richiesta – che non necessita dell’assistenza di un avvocato – può anche essere presentata dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado (relativo a cugini, pronipoti e prozii), dagli affini entro il secondo grado (suoceri, generi e nuore, cognati), dal tutore o curatore e dal pubblico ministero. Tuttavia la scheda precisa anche che «i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero». Ed è proprio quest’ultima possibilità che ha consentito il verificarsi di un paio di casi di cui siamo venuti a conoscenza, entrambi relativi a pazienti psichiatrici fiorentini e caratterizzati dalla nomina di un amministratore di sostegno al di là della volontà delle loro famiglie, nonostante che queste avessero sempre avuto a cuore la salute ed il bene dei loro congiunti. In sostanza, dietro la richiesta di servizi psichiatrici e assistenti sociali che avevano in carico i suddetti pazienti, il giudice tutelare avrebbe operato in entrambi i casi una scelta che sembrerebbe andar contro quanto prevede la legge stessa, laddove indica di preferire come amministratore di sostegno, nell’ordine, il coniuge che non sia separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre o la madre, il figlio, il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado, il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata. C’è però un «se possibile» che di fatto lascia una discrezionalità forse troppo ampia, che alla fine, probabilmente anche per un certo scarico di responsabilità, si indirizza fatalmente verso la ratifica del quadro fornito dai professionisti interessati rispetto a quello presentato dai familiari. La delicatezza della questione non è di poco conto soprattutto se si tiene conto del fatto che il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere tutta una serie di indicazioni decisamente «sensibili», quali la durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato, il suo oggetto, gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario e, viceversa, quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza del primo, la periodicità con cui l’amministratore deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario e infine, quel che più conta, i limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità. In entrambi i casi di nostra conoscenza, non a caso, tale disponibilità economica era presente. Sebbene la legge preveda espressamente che gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il beneficiario non possono ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno, si crea però di fatto un meccanismo in cui i familiari interessati vengono emarginati e privati anche della possibilità di una cogestione del patrimonio comune, casa compresa. È quanto successo, in uno dei due casi, alla sorella del beneficiario, amareggiata e sconcertata per essere stata esclusa insieme a tutta la famiglia dalla possibilità di affiancare il fratello nel percorso di cura. E pur non intendendo affatto mettere in dubbio la buona fede del giudice tutelare e degli operatori in questione, non possono non emergere dubbi sulla gestione della vicenda, nata in seguito alla morte del padre dei due fratelli, che ha portato anche a richiedere, pochi mesi dopo la presa in carico, una visita per l’incremento dal 75 al 100% dell’invalidità del soggetto assistito, con possibile perdita dell’idoneità al lavoro in cui, pur con tutti i suoi limiti, era impegnato. Fattore scatenante dell’altro caso è stato invece un contenzioso tra i tre fratelli del disabile e la struttura psichiatrica di riferimento in merito alle nuove modalità di assistenza loro prospettate (che di fatto si configuravano come un forte allentamento, se non addirittura una rinuncia, della presa in carico). In casi come quelli citati (ma sembra che ce ne siano anche altri, secondo quanto ci riferisce il Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale, che intende approfondire il tema), il circolo che si crea tra servizi psichiatrici, assistenti sociali, giudice tutelare e amministratore di sostegno chiude di fatto fuori la famiglia del disabile anche quando in quest’ultima è chiaramente presente un rapporto affettivo senza secondi fini nei confronti del proprio congiunto. Problemi di rapporto dei familiari con i servizi o eventuali giudizi di inadeguatezza dei rapporti interfamiliari non sono certo sufficienti a giustificare una simile emarginazione, anche per le ripercussioni negative che questa potrebbe avere sugli stessi disabili che almeno a parole si vorrebbero invece tutelare. Tenendo anche conto del fatto che, secondo quanto previsto dalla legge, la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire »con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario». Fonte: Leale De Feroci.
Decisioni prese dal giudice tutelare. Salve a tutti, sono vittima di abusi sia da parte di un amministratrice di sostegno che del giudice tutelare e mi chiedevo se tutto questo ? davvero lecito oppure no. Vi espongo brevemente i fatti. Mia madre soffre di demenza senile su base variabile, e per lei ? stata nominata a dicembre scorso un'amministratrice di sostegno, senza n? il consenso, n? la consapevolezza della beneficiaria, che a tutt'oggi ? ignara del fatto che il suo patrimonio e i suoi conti sono amministrati da una persona di cui, tra l'altro, lei, in vita sua , non si ? mai fidata. A settembre scorso (quindi prima che l'amministratrice venisse investita dell'incarico) mia madre, senza il mio consenso e senza nemmeno sentire il mio parere, in qualità di figlia, è stata ricoverata dall'attuale amministratrice di sostegno con l'inganno presso una struttura sanitaria, facendole credere che si trattasse di ricovero temporaneo a causa di un suo male. A tutt'oggi mia madre, ignara del fatto che trattasi di ricovero permanente e progetta in continuazione "le cose che fare" quando finalmente la dimetteranno. Intanto le è stata tolta ogni libertà e privata dei suoi soldi. Io, sola contro tutti gli altri fratelli, mi sento con le mani legate, e non posso dirle niente. Da aprile ho iniziato a portar fuori mia madre almeno per pranzo (dopo mesi di segregazione), ma ho incontrato subito l'ostilità da parte dell'amministratrice. Per metterla a tacere, ho chiesto al giudice tutelare di poter avere un permesso suo scritto che mi autorizzasse a portare a pranzo fuori mia madre dalla struttura sanitaria almeno qualche domenica. Il giudice tutelare, nonostante il decreto da lui stesso emanato menzionasse solo compiti di natura economica (pagare spese, ritirare pensione e cose varie) e sanitaria (informarsi del suo stato di salute e preoccuparsi qualora abbia bisogno di ulteriori cure), in seguito all'istanza da me presentata ha invitato l'amministratrice a prendere posizione circa l'opportunità? o meno che mia madre potesse frequentare la mia abitazione. Forte di questo fatto, l'amministratrice oggi mi ha proibito di poter portar via mia madre fuori per pranzo (l'amministratrice non ? altro che una nuora), nonostante mia madre lo desiderasse. Tutto questo senza alcuna motivazione, semplicemente per pura ripicca nei miei confronti. La struttura sanitaria ovviamente ha obbedito ai suoi ordini. Il mese scorso, io, viste le prime opposizioni, ho presentato una comparsa di costituzione in cui esponevo tutti i fatti (ricovero non autorizzato, non consapevolezza dei fatti da parte della beneficiaria e opposizione dell'amministratrice al fatto che la beneficiaria frequenti la figlia), chiedendo, tra l'altro, con un'istanza al giudice tutelare di poter essere informata sui fatti di mia madre, dal momento che stanno avvenendo cose, tra cui denunce di badanti e sparizione di soldi dai C/C di mia madre, di cui, tutto il paese informato, tranne me che sono la figlia. Il giudice ha rigettato l'istanza, motivandola col fatto che ormai per lui il procedimento risulta chiuso nel momento in cui ha emesso il decreto di amministrazione di sostegno e che avevo tempo solo 10 giorni per potermi muovere. In sostanza, ho agito troppo tardi. Ma io mi chiedo: dal momento che trattasi semplicemente di amministrazione di sostegno e non c'è alcuna interdizione nè tutela legale per mia madre, è lecito che un amministratore di sostegno vieti alla sua beneficiaria di poter frequentare una figlia, opponendosi al volere della beneficiaria stessa? E' altresì? lecito che un giudice tutelare avvalli un tale comportamento (ripeto: senza alcuna motivazione) facendomi tra l'altro redarre una domandina per un permesso di cui pensavo non aver bisogno? Possibile che il giudice tutelare abbia i poteri di un Dio supremo e decida lui cosa va fatto e cosa no a prescindere dalle motivazioni e a prescindere dal fatto che sia contro quando la legge afferma sull'amministrazione di sostegno? Io attualmente mi trovo con le mani legate su tutti i fronti. HANNO PROIBITO A MADRE E FIGLIA DI POTERSI FREQUENTARE SENZA ALCUN MOTIVO, semplicemente perchè? all'amministratore "va così?". Mi sento vittima di una grave ingiustizia. Fonte: Leale De Feroci.
In 700 "amministrano" anziani. Sono quasi 700 a Trieste gli amministratori di sostegno in carica e il loro numero sta crescendo a grande velocità. Ugo Salvini 28 giugno 2009 su La Repubblica.
LA FIGURA. Al centro di quello che a pieno titolo può essere definito un nuovo fenomeno sociale, l'amministratore di sostegno è una figura recente dell'ordinamento giuridico italiano, essendo stata istituita con la legge del 9 gennaio 2004, n. 6, entrata in vigore il successivo 20 marzo e che prevede, accanto all'interdizione e all'inabilitazione, come forma morbida di assistenza e aiuto alle persone in difficoltà.
LE FINALITÀ. La legge ha la «finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire – si legge nell'articolo 1 - le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». La nomina dell'amministratore di sostegno è fatta dal Giudice tutelare competente per territorio e molto spesso riguarda un familiare stretto della persona bisognosa di aiuto.
COSA SERVE. Le problematiche che si possono affrontare con l'istituto dell'amministrazione di sostegno sono molteplici: si va dalla più semplice gestione della pensione per il pagamento di affitti, rette e bollette, a quelle più complesse di patrimoni e rapporti bancari o di immobili ed eredità.
IL BOOM. A Trieste, città di anziani per definizione, il ricorso a questa soluzione, che è la più leggera delle tre previste dall'ordinamento, poichè inabilitazione e soprattutto interdizione sono molto più limitative, è letteralmente esplosa. Nel 2004, primo anno di applicazione, furono nominati 5 amministratori di sostegno, nel 2005 49, nel 2006 125, nel 2007 190, lo scorso anno sono stati 281.
LE RICHIESTE. Un trend in continuo aumento, come spiega il giudice tutelare Gloria Carlesso, che si occupa della gran parte delle istanze di questa natura: «Nei primi due mesi di quest'anno – dice – siamo già a quota 36 e il trend è in netto aumento». Utile anche confrontare le domande presentate: nel 2004 furono 28, nel 2005 152, nel 2006 224, nel 2007 273, nel 2008 361, quest'anno finora sono state un'ottantina.
I PROVVEDIMENTI. I dati evidenziano, nell'ambito di una chiara crescita del ricorso all'istituto, un avvicinamento fra il numero delle richieste e quello dei provvedimenti di nomina emessi: segnale di una conoscenza sempre più approfondita da parte della popolazione dell'esistenza di questa possibilità non invasiva di aiuto alle persone anziane o afflitte da problemi di memoria. «Vorremmo però – sottolinea la Carlesso – che questo istituto fosse noto veramente a tutti, perché la sua utilità è notevole».
LA NOMINA. I dati parlano chiaro: in città sono circa 25mila le persone in condizione di parziale disabilità, di impossibilità a muoversi e di provvedere a se stesse. Probabilmente molti di questi casi potrebbero essere risolti con il ricorso all'amministratore di sostegno.
LA PROCEDURA. Ma l'istituto è riconosciuto solo in determinate condizioni. «La nomina – precisa il giudice tutelare Carlesso – deve essere effettuata quando serve, dopo un'attenta analisi della situazione e uno o più colloqui con le parti interessate. Il mio lavoro prevede sì l'applicazione delle regole, ma sono decisive le visite alle persone al loro domicilio, spesso nelle case di riposo, e l'uso di una buona dose di psicologia».
L'IMPEGNO. Anziani che scelgono l'amministratore di sostegno soprattutto nella gestione della pensione, in modo da pagare le rette, oppure le bollette, fino a situazioni finanziarie più complicate. «Su questo fronte – conclude la Carlesso – dovrebbe esserci anche un maggiore impegno delle pubbliche istituzioni e delle strutture sanitarie". Ugo Salvini 28 giugno 2009 su La Repubblica.
l DOSSIER - abusi nelle amministrazioni di sostegno: due anni di indagini, i silenzi scandalosi, le domande Il 18 e 19 aprile a Trieste una manifestazione ed un primo convegno nazionale. DOSSIER SPECIALE. La Voce di Trieste, pag. 7, 16 aprile 2013. L’investigazione giornalistica è molto più difficile e rischiosa di quella giudiziaria e d’intelligence: non hai i loro mezzi materiali e giuridici, né le spalle coperte dallo Stato, ed i risultati non vengono verificati né consolidati in processi e sentenze. Ma sei egualmente responsabile verso la collettività ed i singoli, e se sbagli paghi di persona. Il vantaggio è invece di poter essere liberi ed indipendenti, anche se questo si associa ad una maggiore necessità di equilibrio nella valutazione dei fatti e degli indizi. Soprattutto quando ti trovi ad indagare su ipotesi che sembrano incredibili. Nel maggio 2010, quando incominciai a dirigere un primo periodico triestino d’inchiesta, “il Tuono”, non avevo motivi per ritenere che qualcosa non funzionasse nel celebrato laboratorio triestino della riforma psichiatrica d’origine basagliana che con la legge 180 del 1978 aveva finalmente abbattuto le mura dei manicomi, sperimentando modelli di assistenza esterna studiati ed accreditati in mezzo mondo, e dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli altri media non segnalavano infatti nulla di anomalo, presentando anzi quell’ambiente come una sorta di comunità laica e progressista di santi e redenti fondata su certezze terapeutiche, profonda umanità, ottimi risultati e disinteresse venale assoluto. Un paradiso in terra, che come tale faceva passare le poche proteste per assurde, patologiche e strumentalizzate da una destra illiberale nefanda. Non avevo nemmeno motivi per dubitare che la collaborazione fra quella psichiatria esemplare e gli ambienti giudiziario e forense fossero meno che ineccepibili. Anche nelle nuove e celebrate amministrazioni di sostegno, che dovevano risparmiare alle persone in difficoltà limitate i rigori umilianti dell’interdizione e dell’inabilitazione, fornendo una tutela blanda, consensuale ed affidata ai famigliari. Poi sono incominciate ad arrivare le lettere che l’altra stampa, semplicemente, censurava da anni. E denunciavano abusi gravissimi nelle amministrazioni di sostegno, a danno di persone con qualche risorsa in denaro e beni immobili. Affermavano infatti che con arbitrio sistematico crescente alcuni operatori psichiatrici, sociali e giudiziari stessero imponendo loro, senza difesa legale né contraddittorio, l’amministrazione di alcuni giovani avvocati, praticanti o commercialisti, dotandoli di poteri sproporzionati e propri dell’interdizione, ed escludendone i famigliari. La persona finiva così espropriata dei diritti fondamentali di amministrare i propri beni, decidere le proprie cure e ricevere la corrispondenza, che il giudice delegava per decreto unilaterale a quei giovani estranei. Autorizzandoli a prelevare compensi ed effettuare spese dal patrimonio della persona amministrata, venderne gli immobili e la stessa casa d’abitazione, imporle cure e ricovero. Ed a negarle la possibilità di pagare un legale di fiducia per difendersi da tutto questo. Il quadro indiziario era dunque di predazione giudiziaria dei diritti umani e di sostanziale riduzione in schiavitù, con erosione dei beni della persona e della famiglia a beneficio di terzi, entro una trappola psichiatrico-giudiziaria cui era difficilissimo sfuggire. Al punto che anche le proteste di parenti venivano paralizzate sottoponendoli allo stesso genere di interdizione impropria. Ed a Trieste i decreti d’amministrazione di sostegno, corretta od arbitraria che fosse, risultavano anche in aumento esponenziale sorprendente e senza paragoni altrove: già oltre i 1500, in un Tribunale che era ed è inoltre privo degli organici necessari per controllare efficacemente anche questa nuova massa abnorme di gestioni finanziario-sanitarie coattive e delicatissime. Se le cose stavano così, si stava dunque sviluppando impunemente a Trieste, e sotto gli occhi di tutti, un meccanismo senza precedenti d’abuso attivo e passivo di strumenti giuridici e di posizioni di potere pubblico su soggetti deboli, col silenzio od avallo praticamente totale delle altre istituzioni, dei politici e degli altri media, e su un obiettivo o bacino d’utenza locale di addirittura 25.000 persone, per lo più anziane: si veda l’articolo del quotidiano monopolista locale “Il Piccolo” riprodotto qui sotto. E questo con origine e supporto paradossali nell’ambiente della riforma psichiatrica libertaria triestina, che in 35 anni di beatificazioni è divenuta una sorta di repubblica autonoma, sottratta a qualsiasi intervento critico e superprotetta dalla sinistra per motivi ideologici ed elettorali. Favorendone così anche la trasformazione in terreno di sviluppo avanzato ed indisturbato della peggiore degenerazione antilibertaria di una corrente fortissima della psichiatria moderna. È la corrente che dopo la giusta liberazione e restituzione alla società dei malati veri o presunti si ritiene libera essa di invadere la società psichiatrizzandola. Col fondare su una nuova classificazione totalitaria, ideologica prima che scientifica, di cosa sia comportamento normale o meno, un proprio diritto ad imporlo alle persone sin dentro le loro case e famiglie. Per mezzo di nuovi strumenti giuridici che condizionino di fatto l’intervento del giudice ordinario (come tale imperito della materia) ad un parere peritale psichiatrico unilaterale e senza contraddittorio. Cosa cui le imperfezioni della legge italiana sulle amministrazioni di sostegno si presta perfettamente. Anche se qui a Trieste sembrava incredibile accadesse. Ma la sofferenza delle persone in difficoltà che ci scrivevano era così evidentemente reale che siamo andati a verificare doverosamente situazioni e prove. Riscontrandole fondate, e perciò pubblicando ormai da due anni lettere, documenti, articoli di analisi giuridica e di denuncia etica, contribuendo ad indagini giudiziarie da fuori Trieste, ed esponendoci così anche a tutte le conseguenze. Mentre le istituzioni, i politici ed il resto della stampa hanno continuato a coprire egualmente, ed a questo punto sempre più scandalosamente, l’intero problema. Il risultato è il dossier che pubblichiamo qui completo, come contributo al Primo convegno nazionale sui NUOVI ABUSI IN PSICHIATRIA - l’invasione della vita privata, che si terrà a Trieste questo venerdì 19 aprile (15.30-19.30, via don Sturzo 4, sala Oratorio Madonna del Mare - Piazzale Rosmini) aperto al pubblico. Ed alla manifestazione di giovedì 18 aprile mattina, dalle 9.30 davanti al Tribunale, per il caso della bambina scandalosamente sottratta in fasce ai genitori, trattato qui nel dossier. Rimangono però delle domande fondamentali sull’aspetto profondo, psicanalitico prima che psichiatrico, dell’intero problema: quali possono essere l’etica, e la visione anche inconscia del mondo, dei diritti e della dignità della persona, e quale la coerenza logica (a prescindere dalla connessioni personali) di coloro che dietro a tante belle parole hanno dato origine, compimento e copertura o giustificazione a questo genere di abusi? Ve ne proponiamo qui, alla luce del dossier, una sintesi significativa perché proposta in replica alle critiche dall’avvocato e docente di diritto civile Paolo Cendon, il padre ed ideologo celebrato della legge sull’amministrazione di sostegno. Della quale egli legittima sorprendentemente l’applicazione interdittiva dichiarando che la giudice protagonista Gloria Carlesso è tra i suoi “più fidi seguaci nel lottare per l’abrogazione dell’interdizione, che della schiavitù è il simbolo peggiore”. E riassumendone così i criteri “Chi sta male non sopporta talvolta che ci si occupi di lui e fa di tutto per screditare gli operatori - il drogato non vuole smettere, l’alcolista vuole bere e basta, il dipendente dal gioco idem, il vecchietto vuol sposare la giovane badante, il fanatico religioso vuol regalare tutti i suoi soldi alla chiesa, il giovane e ricco scemo al guru di turno, i genitori possessivi e fuori di testa vogliono che non ci si occupi del loro figlio oppresso e sfruttato, i parenti sono spesso il male puro, gli avvoltoi e i malintenzionati sono dappertutto, magari mascherati da ipocriti, o semplicemente più pazzi e svitati del loro assistito casalingo -- e potrei continuare a lungo.” Sembrano considerazioni di buon senso comune, ma non lo sono più nel momento in cui si pretende di farne criterio per arrogarsi il diritto di giudicare, espropriare e sopprimere per legge quelle che sono, nel bene e nel male, libertà fondamentali di scelta della persona, e sostituirvi l’imposizione di una normalità di Stato. Si veda il caso noto del giovane commerciante toscano che, in conflitto con la famiglia, ha donato tutti i suoi beni alla chiesa ed ai bisognosi per ritirarsi a meditare in povertà e privazioni estreme nei boschi, quasi morendone di polmonite, con una schiera di ‘fanatici religiosi’ come lui, inclusa una minorenne. Con la legge ed i criteri di Cendon e ‘seguaci’ sono tutti da interdire e psichiatrizzare a vita sotto amministrazione di sostegno. Anche se erano Francesco e Chiara d’Assisi, tra i più grandi mistici dell’umanità, ed i compagni che con essi hanno dato vita a due dei più straordinari ordini monastici della storia. E se, come le loro, vanno difese dai cattivi maestri le libertà materiali, spirituali ed affettive ogni altro essere umano. Paolo G. Parovel
(Il Tuono n. 9 del 26.6.10, p. 6) Tutele, tutori e corresponsabili sotto indagine giudiziaria. Stiamo svolgendo un’inchiesta giornalistica anche sul pesante problema delle interdizioni ed inabilitazioni a Trieste, con i relativi meccanismi di tutela, curatela ed amministrazione di sostegno. Si tratta infatti di verificare il trattamento di persone tra le più deboli. I primi risultati, tutti su basi documentali ci dicono che vi sono situazioni normali, ma anche numerose altre che non sembrano affatto tali. E che alcune di queste sono già oggetto di indagini da parte delle sedi giudiziarie che hanno competenza a verificare comportamenti di organi del Tribunale di Trieste. Si tratta di casi la cui tipologia coincide esattamente con quanto segnalato dalla lettera, che perciò appare veritiera e pubblichiamo doverosamente di seguito, omettendo gli elementi identificativi delle persone coinvolte, che rimangono coperti dal nostro segreto professionale. La gravità dei fatti esposti non richiede commento, e giriamo immediatamente noi stessi la lettera alla predetta sede d’indagine, precisando qui che siamo assolutamente determinati a fare tutto il nostro dovere di giornalisti per dare all’opinione pubblica chiarezza e piena informazione sul problema. Riteniamo che lo stesso Tribunale di Trieste debba comunque attivarsi con pari immediatezza e col massimo rigore per impedire, avendone i poteri, che queste situazioni proseguano o si ripetano. Invitiamo inoltre i responsabili a non sottovalutare la vigilanza stampa su questi casi.
Colpevoli di essere anziani (1.a lettera pubblicata). Scrivo questa lettera per aiutare oltre alla mia famiglia altre persone che potrebbero avere gli stessi problemi per la sola colpa di essere anziani a Trieste città notoriamente con una percentuale alta di persone vecchie. Sono una donna di oltre settant’anni anni sposata con un uomo di quasi ottanta. La primavera passata una giudice del tribunale di Trieste ha deciso che il nostro tenore di vita non era conforme a ciò che secondo lei avrebbe dovuto essere e ci hanno affidato ad un “amministratore di sostegno”. A settembre una persona praticante avvocato si è presentata a casa nostra con grandi promesse e sorrisi (purtroppo di circostanza) e ci ha fatto capire subito che gli ultimi anni della nostra vita sarebbero stati un paradiso. Purtroppo già dai giorni seguenti la musica è iniziata a cambiare, e ciò che si prospettava per noi un bel sogno è diventato un atroce incubo: la nostra posta in entrata è stata bloccata e deviata allo studio del nostro tutore che decide se e quando consegnarcela, le nostre pensioni di circa 2.500 euro totali sono state bloccate e ridotte a scaglioni fino a raggiungere gli attuali 600 euro mensili da dividere in due persone, che sono ben sotto il tenore di povertà, mentre con il resto sono state fatte delle spese nella maggior parte superflue o esagerate. La sua opera distruttrice è continuata andando ad intaccare inoltre i beni di famiglia costruiti con anni di sacrifici miei, di mio marito, dei miei genitori e dei nostri figli, che avrebbero dovuto restare alla nostra famiglia per garantire un eventuale “paracadute” per il futuro in casi di straordinaria necessità; nonostante che, secondo la legge, l’amministratore di sostegno avrebbe dovuto amministrarli con l’oculatezza di un padre di famiglia ed eventualmente decidere assieme e a noi beneficiari, in base alle nostre esigenze, se e come utilizzare il denaro ed i cespiti. A marzo, è stato venduto contro la nostra volontà un appartamento sito a Lignano City (nel centro di Sabbiadoro) al costo di un box auto all’aperto, nonostante non ci fosse urgente bisogno di liquidità nel libretto gestito dal nostro tutore. Sono passati ormai più di sei mesi, la situazione non è migliorata, anzi, siamo soli, infelici, con il frigorifero e la dispensa sempre più vuoti mentre vediamo i nostri beni e risparmi velocemente diminuire. In realtà all’inizio mio marito ha lasciato fare a quella persona, prima ammaliato dalle sue promesse e poi perché diceva che se stavamo buoni non ci avrebbe più fatto così tanto male, e senza motivo, visto che abbiamo lavorato tutta la vita e non abbiamo fatto alcun reato tale da giustificare un trattamento simile. Tengo a precisare che mio marito, pur se affetto da una malattia che provoca piccoli movimenti incontrollati del corpo, è perfettamente capace di pensare e fare ragionamenti di base, logici e tali da non giustificare la necessità di una persona che decida per lui. Da un po’ di tempo lui si è rivolto ad un legale per tentare di difendersi, mentre io ho provato a chiamare più volte i carabinieri che, purtroppo, non hanno potuto aiutarmi poiché io dovrei andare in una loro stazione, ma ho forti difficoltà di movimento per motivi di salute. Però vorrei lanciare un appello ai lettori del giornale se qualcuno può consigliare a me cosa fare a come comportarsi per difendersi (potete scrivere alla mail ippocampo@tiscali.it di mio figlio). Ringrazio anticipatamente chi vorrà o potrà aiutarci a tornare a vivere in pace gli ultimi anni della nostra vita, e la redazione per l’accoglienza che sicuramente darà al mio problema, e mi auguro che non capiti più a nessun’altra persona anziana di ritrovarsi nella loro situazione. (lettera firmata)
- Gentile signora, abbiamo attivato immediatamente quanto detto sopra in premessa, ed invitiamo i tutti lettori sia a sostenervi, sia a segnalarci ogni altro caso analogo.
(Il Tuono n. 10 – 3.7.2010, prima pagina e p. 6) PRIVATE DELLE LIBERTÀ CIVILI ED ECONOMICHE ANCHE PERSONE NON INCAPACI. Amministratori di sostegno: denunciati abusi. Presentate denunce a carico di responsabili istituzionali ed amministratori. Sul numero recedente del giornale abbiamo pubblicato a pag. 6, con premessa e richieste d’intervento adeguate, una lettera firmata drammatica su quello che sembra essere un caso di abuso locale gravissimo e non isolato dell’istituto giuridico dell’amministratore di sostegno. Poiché non vi è stata ancora risposta istituzionale (come per le speculazioni illecite del sindaco Dipiazza denunciate documentatamente sullo stesso numero) insistiamo nella nostra doverosa azione informativa e di denuncia, rinforzandone per chiarezza le premesse ad evitare ogni possibile equivoco su materia così delicata. Personalmente, ma anche da giornalista investigativo con trent’anni d’esperienza ed ora da direttore responsabile di questo giornale (come già di una combattiva emittente radiofonica controcorrente), ho sempre ritenuto che la sanità e la giustizia, come tutte le altre necessità fondamentali delle persone e della società, debbano essere praticate e valutate anzitutto sulla loro dimensione umana concreta, e non ridotte a battaglie politiche e di interessi nello stile del tifo calcistico. Così ho sempre apprezzato il fatto che la riforma psichiatrica riferita a Basaglia abbia liberato da trattamenti e contenzioni ingiusti, violenti e disumani tutte le persone con problemi psichici - nella vita reale, mano sulla coscienza: chi non ne ha? - che possono e devono essere e rimanere inserite al meglio in ogni società che si pretenda civile. Com’era anche ab immemorabili nella tradizione premoderna. Mi ha però sempre scandalizzato la penuria dei mezzi e controlli pubblici per garantire ai sofferenti ed alle loro famiglie le assistenze ed i sostegni di cui hanno non solo bisogno, ma necessità assoluta, perché la giusta liberazione non si converta in nuove forme di schiavitù all’esterno delle vecchie strutture ed in nuove violenze, disgrazie e rovine, estese inoltre ai famigliari. Il tutto sull’osservazione sia di recuperi straordinari, sia di spaventose cadute. Che in ambedue i casi proprio la scarsità di mezzi e controlli condiziona anzitutto alle capacità ed alla dedizione del personale di assistenza medica, infermieristica e sociale, in molti casi brillante ed anche eroico, ma in altri insufficiente, o peggio. Rimanendo inoltre drammatico il problema altrettanto concreto dei pazienti psichiatrici che le conoscenze mediche attuali o lesioni definitive non consentono obiettivamente di recuperare e reinserire, ed il cui rilascio irresponsabile ha causato tragedie evitabili. Per questi motivi ho anche sempre trovato osceno che si sovrappongano a questi delicatissimi problemi umani i fanatismi politici ottusi di un’asserita destra che giunge a voler negare e sopprimere la riforma liberatoria, e di un’asserita sinistra che giunge invece a negare l’esistenza della malattia psichiatrica al di fuori dei disadattamenti e dalle repressioni sociali. E non ho mai capito perché ci si dovrebbe schierare, in questo come in altri casi, per l’una o l’altra di due sciocchezze opposte, evidenti e clamorose.
Quanto al problema connesso delle tutele e curatele delle persone psicologicamente deboli per condizioni morbose od età minorile, si tratta di cosa altrettanto straordinariamente delicata, perché consiste nel privare giuridicamente la persona, in via temporanea o permanente, di diritti civili fondamentali che vengono delegati ad un terzo, famigliare o meno. Ed una situazione di questo genere, se arbitraria od abusata, si trasforma facilmente in forme criminose di riduzione in schiavitù e di appropriazione indebita di beni degli assistiti, che qui sono in aumento continuo, in particolare sugli anziani. Me ne sono quindi interessato da anni (come ricorderà anche il Presidente del Tribunale, Arrigo De Pauli) sia in relazione a casi concreti di abuso da parte di qualche tutore, sia al fatto che il Tribunale di Trieste non aveva e non ha notoriamente da molti anni (direi dopo la scomparsa del giudice Rosario) personale e mezzi sufficienti per gestire debitamente questo settore. Cioè per garantirne una gestione adeguata nelle valutazioni, ed adempimenti critici indispensabili come la revisione autonoma dei casi ed il controllo dell’operato dei tutori, delle loro contabilità e delle loro operazioni immobiliari, aste incluse (così come sono insufficienti i controlli sulle gestioni degli anziani e dei loro testamenti nelle case di riposo). Con conseguenze ovvie, e tanto più critiche quanto più aumentano drammaticamente in città i problemi sanitari degli anziani, quelli di disadattamento dei giovani, le crisi del lavoro e quelle delle famiglie. Perciò ho sempre concordato anche con amici psichiatri e magistrati nel ritenere positiva l’istituzione dell’amministratore di sostegno per sostituire ed attenuare il peso del tutore o curatore, ripristinando la dignità umana degli assistiti ed in concordia con le loro famiglie. Formando e selezionando inoltre una categoria specializzata di giudici e di persone adeguate a svolgere correttamente la nuova funzione di sostegno, il tutto finalmente anche con adeguati controlli. Non ho dubbi che ciò accada per una quantità di casi, e sono anche tra i difensori convinti della dignità della magistratura. Ma stanno purtroppo emergendo anche casi diversi, a delineare quantomeno un gruppo di situazioni allarmanti, degradanti ed illecite. Come abbiamo infatti accennato qui sul numero precedente del giornale, i casi documentati e già segnalati alla magistratura penale risultano essere più di uno. Seguono inoltre tutti un identico schema nel quale muta l’identità delle vittime, ma i responsabili istituzionali denunciati sono gli stessi. Questo schema sinora documentato nelle denunce è molto semplice: persone che dalle loro condizioni obiettive e da accertamenti psichiatrici indipendenti risultano perfettamente capaci di amministrarsi sono state invece dichiarate incapaci con perizia psichiatrica istituzionale e sottoposti costrittivamente da una giudice ad un amministratore di sostegno. Scelto tra giovani avvocati o praticanti, o comunque tra estranei, invece che tra i famigliari, e senza il consenso o contro la volontà di questi. La persona così ridotta ad amministrazione forzata risulta inoltre sottoposta ad un regime di espropriazione dei diritti civili sostanzialmente analogo alla vecchia tutela. Per cui non può più disporre dei suoi beni e nemmeno della corrispondenza, né denunciare l’amministratore, è ridotta a vivere con circa 300 euro al mese, non viene informata della gestione finanziaria dell’amministratore, nemmeno per le compravendite di immobili, e non può comunque opporvisi. Tutti i casi sinora denunciati riguardano persone proprietarie di immobili e depositi bancari, ed in qualche caso si tratta di soggetti che avevano protestato perché assistevano un famigliare in condizioni di incapacità effettiva ma la giudice ne aveva nominato amministratore di sostegno un estraneo. Ripetendo poi l’operazione su chi protestava. Dagli atti risultano anche tentativi istituzionali di delegittimare coloro che denunciavano queste situazioni, come fossero degli squilibrati o per loro vere o presunte opinioni politiche di destra o religiose. Ed a questo punto occorre anche capire chi controlla, e come, le contabilità degli amministratori di sostegno. Preciso che le nostre informazioni e fonti documentali, che includono anche relazioni di Polizia Giudiziaria, sono tutte di fonte ed uso perfettamente legittimi. I fatti risultano inoltre confermati da un provvedimento con cui la stessa giudice tutelare ha dovuto liberare dopo tre anni dall’amministratore di sostegno un combattivo anziano imprenditore. Che vi era stato sottoposto, con i suoi beni rilevanti, dopo avere protestato perché avevano affidato ad estranei l’amministrazione di famigliari stretti che assisteva invece da sempre lui, a sua cura e spese. E ce l’ha fatta solo perché si è rivolto ad un legale di fuori Trieste, che ha agito con decisione mettendo alle strette amministratore di sostegno e giudice, e costringendoli a liberarlo. Con un atto rivelatore, poiché consiste nella dichiarazione che in realtà l’anziano era sempre stato capace di amministrarsi da sé, redatta dall’amministratore perciò inutile (che chiede egualmente 600 euro per il disturbo) e controfirmata dalla giudice tutelare responsabile del tutto, ora rimossa perché promossa alla corte d’appello penale. Ma, scusate il mio dubbio di cittadino e giornalista, non vi sono ipotesi di rilevanza penale da verificare anche in un fatto simile? E proprio sulla base di questo documento di liberazione doverosa, che costituisce anche prova di come i firmatari abbiano privato indebitamente per tre anni una persona dei suoi diritti civili sulla base di una perizia medica rivelatasi perciò infedele, ed omettendo di chiedere od attuare spontaneamente la revoca del provvedimento appena si sono accorti (quantomeno l’amministratore di sostegno) che la persona era capace. E lo scrivo personalmente e pubblicamente qui non ad offesa, ma proprio per il rispetto e la tutela dovuti alle istituzioni giudiziarie e psichiatriche, oltre che ai cittadini. Rinnoviamo quindi la richiesta di provvedimenti di giustizia immediati ed efficaci, e vi sottoponiamo queste nuove lettere di testimonianza riservandoci di pubblicare, se necessario e previe autorizzazioni, le inchieste giornalistiche dettagliate e documentate sui casi principali. Chi ha altre informazioni è pregato di scrivercele o farcele avere in redazione, anche se riguardassero persone ormai decedute. Paolo G. Parovel
Overdose di ipocrisia? (2.a lettera pubblicata) La collaudata macchina della propaganda in azione a Trieste. Gli ingranaggi arrugginiti del sistema psichiatrico cigolano da tempo, sono sempre gli stessi fin dai leggendari tempi delle dimissioni forzate dei pazienti. Ma la retorica, la mimica, gli slogan sono professionali, sembra di essere in uno di quei caffè-ritrovo di Liegi o di Parigi frequentati da vecchi attori di teatro in pensione che si divertono esibendosi fra di loro con pezzi di repertorio recitati per decenni. L’overdose di ipocrisia si somministra quindi, come sempre, in famiglia; ma lo scopo è raggiunto perché il vero lavoro lo fanno i media, a cominciare dall’intrepido quotidiano unico di Trieste, più i vari siti e forum che divulgano le veline logore della “capitale mondiale della psichiatria”, e i giornali e la televisione appiattiti da decenni sui dogmi politici prevalenti in materia. Così ogni rimpatriata di questi loro consumati ex profeti, che avvenga a Trieste o altrove, diventa comunque un evento. Un convegno di 3 giorni nel 2007 li ha visti impegnati in un vero e proprio “Concilio” a Serra d’Aiello: molti illustri personaggi della psichiatria, della politica, dei sindacati, perfino un giudice della corte costituzionale. Il Giovanni XXIII di Serra d’Aiello era una struttura di eccellenza, frequentata dai maggiori luminari, che ovviamente non hanno notato niente di strano. Scene di questi giorni anche dal forum di Trieste, con le apparizioni degli storici personaggi che non hanno bisogno di presentazione. Infatti sono sempre gli stessi da almeno quarant’anni. Tra gli altri interventi, Giovanna Del Giudice sviluppa un tema impegnativo: “Conoscenze e strategie per rendere spendibile il diritto riconosciuto”. I diritti dei malati vengono ancora calpestati “altrove”, com’è noto. Luigi Balzano condivide il tema col suo apporto di conoscenza delle fonti giuridiche. Parecchi interventi dal pubblico, anche se le facce non sono nuove. E quali sono stati gli argomenti discussi? Soprattutto gli abusi che si compiono, naturalmente altrove. Insistente il tema della contenzione, con la citazione di casi gravissimi fra cui il povero Mastrogiovanni, filmato nel lettino dov’è rimasto legato fino alla morte. Episodi commentati con commossa compassione, esprimendo tutto lo sdegno per queste pratiche abominevoli. Tant’è vero che dopo hanno relazionato su “Le buone pratiche”. L’alto livello scientifico del forum viene confermato poi dal contributo di due personaggi che molto si sono occupati di me. Utenti (o ex utenti) dei servizi di salute mentale, due anni fa si sono accaniti contro di me su youtube, su Aipsimed, sul Mondo di Holden e altri ambienti mediatici con una ferocia che io non ho mai trovato da nessuna parte in tutta la vita, pubblicando addirittura informazioni che, per quanto malignamente deformate, contenevano dati riservati che erano a conoscenza professionale solo di uno psichiatra a me noto. Uno dei due personaggi già fra i convenuti a Serra D’Aiello, ed il contributo dell’altro è stato letto da Fabrizio Gifuni, interprete cinematografico di Basaglia. Ho voluto tratteggiare qualche scena del forum per ritornare su un punto che ripetutamente è emerso diventandone un tema centrale: la contenzione. Io ho imparato che ci sono vari tipi di contenzione che possono venire inflitti: 1) la vittima viene legata con cinghie di cuoio o con altri mezzi a un letto; 2) la vittima viene schiantata con dosi massicce di psicofarmaci (camicia di forza chimica); 3) la vittima viene sequestrata a forza e internata in luoghi dai quali non può allontanarsi; 4) la vittima viene privata dei tutti i suoi diritti sottoponendola ad amministratore di sostegno; 5) la vittima viene sequestrata dalla forza pubblica e fatta scomparire per sempre; 6) la vittima viene denunciata alla forza pubblica e sequestrata per destinazione ignota. E questi vari tipi di contenzione li ho “scoperti” da quando ho a che fare con la psichiatria pubblica, asseritamente basagliana, di Trieste, per quanto segue, punto per punto:
1) Mio figlio Giulio ricoverato perché colpito da psicosi, ha avuto così il suo primo contatto con la psichiatria di stato: senza alcun motivo è stato vigliaccamente assalito e pestato da due operatori, evidentemente pratici di queste cose, siringato e ridotto all’incoscienza, legato ai due polsi a un letto e trattenuto così costretto per quasi una settimana, come il povero Mastrogiovanni. Il primo giorno hanno spiegato a me e a mia moglie: “Non possiamo chiudere le porte”. Al secondo giorno abbiamo chiesto se avevano riparato le serrature. Ci hanno spiegato meglio: “Abbiamo ordine di non chiudere le porte”. E’ un protocollo “basagliano” che serve a far godere agli utenti la libertà terapeutica. Credo si tratti dei diritti di cui parlava Giovanna Del Giudice.
2) Un anno dopo. Giulio aveva accettato alcuni giorni di ricovero per controllo. Entrato in forma fisica smagliante, dopo mezz’ora era ridotto a uno straccio, non stava in piedi, si soffocava anche a bere un po’ d’acqua. Così fino al terzo giorno. Stroncato dai sedativi all’Spdc di Trieste per ordine dei due psichiatri di servizio. I protocolli “basagliani” vietano di chiudere le porte, mi è stato spiegato un’altra volta dal personale. Voci che si raccolgono parlano anche di vittime, specialmente giovani, decedute per collasso. [precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: Giulio Comuzzi, 24 anni, pianista, è morto a seguito di questi trattamenti senza che ne siano ancora stati adeguatamente perseguiti o condannati i responsabili].
3) Sequestri delle persone decisi da psichiatri e condotti da loro stessi con l’aiuto degli operatori, ottenendo l’appoggio di polizia, vigili urbani, carabinieri. La destinazione di solito è un centro di salute mentale, ma può essere anche una “residenza privata”, gestita da terzi, in cui nessuno può entrare né vedere i reclusi. Come ha provato di persona anche la giornalista Cristiana Lodi a Trieste: la ragazza che cercava di incontrare era reclusa da 22 mesi. Un amico anziano, qui a Trieste, è stato sequestrato con l’aiuto dei carabinieri e internato in un Csm fuori città. Trattenuto per quaranta giorni, obbligato ad assumere psicofarmaci, è stato liberato praticamente in fin di vita. Prima di entrare era un uomo vigoroso. Perseguitato da alcuni anni, si difendeva anche con perizie psichiatriche; il direttore della Clinica psichiatrica, prof De Vanna, gli aveva rilasciato due perizie, in tempi diversi, nelle quali ne dichiarava l’integrità mentale, e una l’aveva indirizzata allo stesso psichiatra di quel Csm. Non è servito, a Trieste non è sufficiente. Così lo hanno trasformato in un “utente”.
4) L’amministrazione di sostegno a Trieste è praticata su larga scala. La giudice tutelare Carlesso in un intervista pubblicata sul Piccolo l’anno scorso valutava addirittura in 25.000 le persone da sottoporre ad amministratori di sostegno (a.d.s). Procedeva infatti al ritmo di parecchie decine di persone al mese. Trieste ha 200.000 abitanti.
L’anziano di cui al punto precedente, malgrado le perizie citate, era stato sottoposto ad amministratore di sostegno entro rapporti collaudati fra uno psichiatra del Csm Domio e la giudice tutelare stessa. Che è stata sostituita solo da poco. Cosa comporta subire l’Ads? Doveva essere una forma di tutela più blanda ed umana dell’interdizione. Invece qui alla persona colpita viene tolto il diritto di usare i propri soldi, pensioni, depositi bancari, beni immobili. Non può più fare transazioni di alcun genere. L’Ads decide una quota mensile di cui l’amministrato può disporre per sopravvivere, in genere sui 300 euro. Gli viene intercettata la corrispondenza. Di solito viene privato anche della facoltà di decidere in materia di salute. Una donna di nostra conoscenza si è trovata con un giovane avvocato, che non l’aveva mai vista nemmeno in fotografia, a decidere per lei in materia di salute; lo aveva deciso la giudice tutelare escludendo anche la madre, che non aveva nemmeno avvisato. Eppure la giurisprudenza prevede il consenso dei famigliari. Un’altra signora così “amministrata” voleva denunciare gravi abusi ai suoi danni ai carabinieri, ma questi le hanno detto che non poteva fare le denunce lei, avendo l’Ads Come se fosse interdetta. Questa signora, costretta a vivere con pochi euro pur avendo un deposito in banca, deve ricorrere alla Caritas per fame, e all’aiuto di qualche persona pietosa. La sua contenzione consiste nel rimanere bloccata in casa per mancanza di mezzi, perché le hanno tolto l diritto di disporne liberamente. Ha rinunciato per dignità persino a un ricovero ospedaliero non potendo comprarsi almeno una vestaglia e un minimo da toilette. Era abituata a frequentare il teatro, ma non può permettersi più niente. I numerosi casi documentati che conosciamo, alcuni già segnalati alla magistratura penale competente, si devono a segnalazioni di alcuni particolari psichiatri a quella giudice tutelare. E tutto questo giova all’equilibrio psichico delle persone? O può anche ridurle in condizioni che giustifichino a posteriori una decisione di interdirle assunta quando invece non ve ne erano i presupposti? 5) Sequestro e occultamento della vittima. Il caso di una bambina strappata alla mamma quando aveva otto mesi. L’hanno condannata ad un ergastolo. Sono passati quattro anni. I genitori seviziati con i quiz degli psicologi, avvocati, udienze in tribunale. All’origine di questa spaventosa tragedia ci sono un’assistente familiare e uno psichiatra di quel Csm, il quale non ha mai fatto una diagnosi. Margherita Hack ha fatto un appello in video, presente sul sito Aipsimed (associazione italiana psichiatri): http:// www. aipsimed.org/articolo/appello-di-margherita- hack-bimba-tolta-ai-genitori. [Precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: dopo altri due anni anni la bambina non è stata ancora restituita ai genitori, nonostante lei stessa mostri gravi e provate sofferenze psicofisiche dall’esserne privata, e benché ne sia stata revocata l’adottabilità; la sottrazione configura a carico di tutti i corresponsabili istituzionali anche ipotesi penali evidenti, e di straordinaria gravità, che ogni ritardo aggrava ulteriormente.] 6) La vittima viene denunciata alla polizia, sequestrata e avviata a destinazione ignota. É il caso di Riccardo. Due psichiatri di quello stesso Csm non solo insistevano verbalmente per questo con i genitori di Riccardo, ma l’hanno perfino scritto sulla sua “cartella clinica”, almeno tre volte: denunciarlo alla polizia, così sarà finita una volta per sempre. E spiegavano che così l’avrebbero portato via. Nei fatti così è stato. Riccardo non tornerà mai più. Le raccomandazioni degli psichiatri si possono vedere in un video pubblicato dalla famiglia: [Precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: per l’uccisione di Riccardo Rasman in un intervento di polizia sono stati condannati tre agenti: in tutto quattro vite e quattro loro famiglie rovinate] Io mi assumo la totale responsabilità di quanto scrivo e pubblico, anche qui. Non credete che si debbano svolgere indagini e accertamenti molto seri e approfonditi sulle realtà di questi casi umani concreti e terribili di persone sofferenti, invece che fare ideologia pro o contro le affermazioni di principio? Sono questi i modi e le garanzie, ripeto: concreti, con cui alcuni amministrano qui la psichiatria e la giustizia dietro le celebrazioni ufficiali di Basaglia e dell’amministrazione di sostegno? Mario Comuzzi
Amministratore di sostegno solidale (3.a lettera pubblicata) In qualità di amministratore di sostegno, desidero esprimere tutta la mia solidarietà alla famiglia che si è trovata nella pesante situazione narrata nella lettera pubblicata sul numero 9 di questo settimanale. Evidentemente certo noto malcostume ha cambiato nome, ma non la sostanza (e parlo per esperienza diretta e personale). Ciò mette in cattiva luce non solo un istituto qual è l’amministrazione di sostegno che meriterebbe di certo miglior sorte, il cui scopo è quello di assicurare ai cittadini in difficoltà il massimo della protezione possibile, senza giungere a quella sorta di “inumazione di persona viva” propria dell’interdizione, ma pure i tanti “colleghi” che svolgono questa attività con umanità, senza pensare di ottenere profitto alcuno. Senza contare che vanifica gli sforzi degli ideatori di questa leggere tra i quali il prof. Cendon dalla stesura alla sua divulgazione. Credo che un primo e importante passo lo avete già fatto, rivolgendovi a questo settimanale grazie al quale sono certo troverete tanti amici. Marco Marcon
Volontario dalla Toscana (4.a lettera pubblicata) Egregio direttore, sono un cittadino toscano della provincia di Lucca impegnato in volontariato sanitario e nel sociale. Nel giro di un anno sono stato due volte a Trieste per i miei interessi, aggiornandovi per circa un mese in tutto. Sono a conoscenza da uno studio accurato sul sito Internet del Tribunale di Trieste e da incontro personale e brevi corrispondenze con Magistrati locali e cittadini: a) che la pratica dell’amministrazione di sostegno figura studiata dalla seconda metà degli anni ’80 dal Prof. Paolo Cendon (insegnante in Trieste) nei soli primi sei mesi del 2009 faceva risultare 219 richieste - una media di 36-37 richieste pervenute al Tribunale al mese -, mentre ne Il Piccolo del 28 giugno 2009 la Giudice tutelare dott.ssa Gloria Carlesso riferiva di un’ottantina di richieste pervenute sino ad allora per il 2009; b) che l’art. 406 comma 3 del Codice Civile attuale responsabilizza della segnalazione per avvio di pratica a sedi giurisdizionali i responsabili di servizi sanitari e sociali (con passaggio diretto senza alcuna nota sul sentire parenti o altre autorità civili come nel Trattamento sanitario obbligatorio abbiamo ad es. il sindaco); c) che nel marzo 2008 la Giudice tutelare rilasciava intervista presente in Internet in cui si citano altre persone che possono segnalare una persona per essere amministrata al Pubblico Ministero (conoscenti, vicini, funzionari di banca) ; d) il sovraccarico di amministrazioni di sostegno e la pratica più concreta creano degli abusi impensabili da parte di magistrati civili e amministratori stessi (cumulo di amministrati sotto un solo amministratore, impossibilitò a tenere contatti con il proprio amministrato in modo tale da non rendersi conto quando costui può versare in condizioni finanziare o di salute da richiedere una presenza più tempestiva, forme di falso ideologico, violazione di domicilio, protrarsi di rinvii e altri atti che rendono la vita dell’interessato presa in una sorta di ”persecuzione giurisdizionale” , e altri fatti deleteri. Il dramma pare che sia anche una sorta di paura inferta a chi si permette di parlare, ed è dal mese di marzo all’attenzione di sedi dell’Esecutivo una vera e propria ipotesi eversiva di poteri pubblici a danno di cittadini meno garantiti. Questo da mesi, anni, mette in condizioni cittadini, professionisti e/o lo stesso giornalismo di temere querele o azioni di ”criminalità ” (per quanto ciò possa sembrare paradossale). Resto a Sua disposizione per qualsiasi precisazione. Mirko Gabriele Salotti Volontario salute mentale CESVOT (centro servizi volontariato toscano) Iscritto all’Albo nazionale dei soccorritore del 118 Membro associazione “ Voceallavittima! “ onlus- Roma
Associazioni dal Lazio (5.a lettera pubblicata) Egregio direttore, le comunico di essere segretario della Fisam (Unione Nazionale di Associazioni per la Salute Mentale) e presidente di altra associazione, ragion per cui sono a conoscenza di fatti di cui l’associazione si è occupata, ma anche di accadimenti riguardanti più direttamente la mia persona. I casi in riferimento si sviluppano nella Regione Lazio. Io non avrei difficoltà a mettere a sua disposizione quanto di significativo ed emblematico mi sta accadendo, sentito ovviamente il parere del legale. Per dare seguito a quanto detto, avrei bisogno di sentirla, per comprendere a pieno i suoi intendimenti e per un necessario confronto. Ringraziandola per tutto quanto sta facendo emergere, resto a disposizione e la saluto cordialmente. Augusto Pilato
Operatrice da Viareggio (6.a lettera pubblicata) Come membro dell’associazione “progetto RISM” (Responsabilità Interventi Salute Mentale) scrivo a conoscenza del vostro servizio “Tutele, tutori e corresponsabili sotto indagine giudiziaria”. Solidarizzo con il vostro coraggio anche a nome di miei amici e colleghi. Purtroppo vi diranno che l’amministrazione di sostegno è nata per non dichiarare più le persone inabili o interdette, e Trieste è la capitale mondiale dei diritti civili contro ogni pregiudizio, oltreché la capitale mondiale della salute mentale. In realtà l’amministrazione di sostegno se non chiama più inabili o interdette le persone e le “libera” da tutori e curatori, le lega ben più strettamente al mal-vivere di giovani avvocati o praticanti che invadono la loro esistenza sia sul piano finanziario che sul piano di un sano vivere civile - provocando stalking, incurie e furti a tutta una serie di persone condannate per mesi o anni ad un regime di silenzio dei non garantiti -. Per cui auguro che possiate superare gli inganni della concessione di falsi diritti con questa figura di amministratori di sostegno. Patrizia Lorenzetti operatrice socio-sanitaria Viareggio
- Come si può già constatare da questi interventi che provengono da altre regioni, il problema aperto a Trieste ha anche, purtroppo, riscontri nazionali, evidentemente connessi al problema fondamentale dei controlli sulla gestione di questo istituto giuridico: quis custodiet custodes?
(Il Tuono n. 11 – 10.7.2010, prima pagina e p. 2) UNA MINACCIA CONCRETA PER TUTTE LE PERSONE IN DIFFICOLTÀ CHE HANNO BENI. Quali abusi consente la legge sugli amministratori di sostegno Abbiamo aperto una questione anche nazionale, tanto grave quanto nascosta. Con le nostre notizie in prima pagina del numero precedente sulle denunce di abusi dell’istituto giuridico dell’amministratore di sostegno abbiamo aperto un caso anche nazionale, tanto grave quanto nascosto. Riceviamo anche richieste di spiegare esattamente, ma in termini semplici, come e perché la legge consente degli abusi, e quali. Provvediamo subito, dato che c’è appena stato anche un convegno pubblico celebrativo con relatore principale la dott. Gloria Carlesso, ex giudice tutelare responsabile di non pochi dei provvedimenti oggetto di critica, proteste e denunce da Trieste. Interdizione ed inabilitazione Sino all’introduzione dell’amministratore di sostegno con legge n. 6 del 2004, gli istituti giuridici a protezione permanente o temporanea dei soggetti variamente incapaci di provvedere a se stessi erano soltanto quelli obbligatori dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’interdizione, applicata nei casi più gravi, priva la persona della capacità giuridica di agire, delegandola interamente, salvo eccezioni infrequenti, al tutore. L’inabilitazione si applica invece nei casi meno gravi, assegnando alla persona un curatore in funzione di assistente cui vengono delegate alcune categorie di atti particolarmente impegnativi, mentre l’inabilitato conserva la capacità di compiere gli altri e di stare personalmente in giudizio con l’assistenza del curatore. In ambedue i casi si tratta della privazione giudiziaria di diritti civili fondamentali, che se ingiustificata comporta perciò reati di riduzione in schiavitù. La legge stabilisce comunque espressamente obblighi di revisione, inventario dei beni e rendiconto. Nonostante i quali vi è una vasta casistica di possibili abusi, specie quando e dove i tribunali non hanno personale sufficiente od adeguato a svolgere i ruoli di controllo. L’amministrazione di sostegno L’amministrazione di sostegno (Ads) è invece un istituto alternativo nuovo, pensato appunto come sostegno e non sostituzione della persona, per gestirne le incapacità lievi con uno strumento facoltativo più flessibile e meno invasivo delle libertà e della dignità, proteggendo appunto la persona prima che i suoi interessi patrimoniali. Ma proprio per questo il relativo meccanismo di legge ha dei buchi incredibili, che lo pongono in contrasto sia con principi fondamentali che con norme specifiche dell’ordinamento, e lasciano spazio ad abusi incontrollati. Nell’Ads infatti i compiti di assistenza e rappresentanza non sono adeguatamente definiti, ed i criteri per l’individuazione dei soggetti che vi vanno sottoposti coincidono in parte con quelli per l’interdizione. E questo consente al giudice di applicare l’Ads anche in forme altrettanto restrittive della libertà quanto l’interdizione. Ne mancano invece le garanzie di gestione finanziaria, poiché l’Ads non ha obbligo di inventario, ed il suo dovere di relazione periodica al giudice riguarda genericamente l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, mentre per le contabilità annuali rimane, come per le interdizioni, il problema del controllo impossibile da parte di Tribunali sotto organico. Inoltre il consenso e dell’amministrato agli atti dell’amministratore di sostegno è previsto ma non risulta garantito da formalità adeguate, ed in caso di dissenso il giudice tutelare può decidere lui, come per ogni altra cosa relativa all’amministrato, insindacabilmente, senza controlli collegiali e senza nemmeno avvertire l’interessato né chiedergli un parere (a lesione radicale inammissibile della dignità e libertà della persona, del diritto alla difesa e di quello alla proprietà). Ed il tutto, oltre ad assumere particolare delicatezza per le gestioni di conti e depositi bancari e di immobili (compravendite, permute, locazioni, ipoteche, divisioni, ecc.) assorbe comunque quantità anche notevoli di denaro dell’amministrato in spese, parcelle e quant’altro. Rischi ed abusi I rischi sono gravi quanto evidenti, e coincidono esattamente con i contenuti delle denunce documentate che abbiamo potuto sinora esaminare: soggetti benestanti non incapaci risultano forzosamente sottoposti, anche con approcci ingannevoli e l’ausilio di terzi, ad Ads in persona di avvocati o praticanti, invece che di famigliari disponibili o addirittura richiedenti (come previsto dalla legge), e con restrizioni dei diritti analoghe a quelle dell’interdetto; gestioni arbitrarie incontrollate di spese e conti bancari da parte dell’Ads; operazioni immobiliari a svantaggio dell’assistito e profitto di terzi. In sostanza, il meccanismo dell’Ads si presta ad essere abusato per sottrarre ad una persona anche capace la sua libertà e la disponibilità dei suoi soldi ed immobili, che vengono affidati a terzi prima sconosciuti che ne possono anche disporre senza i controlli necessari e doverosi. Mentre l’assegnazione crescente di Ads può anche dar luogo nei Tribunali e fuori a reti trasversali di clientela, solidarietà e complicità pericolose e mal decifrabili. Sul tutto stiamo ricevendo nuove informazioni e testimonianze, anche da diverse regioni. Quanto al fatto che gli altri media tacciano su un problema locale e nazionale di questo genere, non merita nemmeno commento. P.G.P.
(Il Tuono n. 12 del 17.7.10, p. 6) Caso Amministrazioni di sostegno. Pubblichiamo due delle numerose lettere che ci stanno arrivando da varie parti d’Italia sul problema di abusi nel campo delle amministrazioni di sostegno, in particolare con riferimento a Trieste, di cui ci siamo occupati in dettaglio nei numeri precedenti. La prima lettera non ha bisogno di commento. Ne ringraziamo il mittente.
Psicologo clinico da Arezzo (7.a lettera pubblicata) Egregio direttore, ho acquisito i recenti molteplici articoli sulle criticità giuridiche e sanitarie in Trieste. Nella seconda metà dell’ottobre 2009 io stesso come cittadino messo a conoscenza dei fatti intervenivo con esternazioni presso il Tribunale civile di Trieste per una vicenda che concerneva pure la grottesca imposizione di una amministrazione di sostegno. Non mi fu data risposta se non quando inviavo ex novo la mia missiva il 17 febbraio u.s., inviandola anche a sedi dell’Amministrazione della Regione Friuli Venezia Giulia. La risposta dell’autorevole Giudice, di cui eviterei fare il nominativo ma che troverà facilmente negli allegati che alla Sua sede unicamente vorrei sottoporre a convalidare quanto affermo, mi pervenne dunque il 18 febbraio u.s. corretta e gentile; ma mi provocò considerazioni a quel Giudice in data 18 marzo u.s. quali: - non riesco a concepire tanti accertamenti medici, verbalizzazioni, imposizioni di limitazioni civili protrarsi per anni e tuttora in corso per (omissis) maggiorenni di buona cultura che ad un certo punto possano materialmente non gradire tanta invadenza nella loro famiglia quali persone non pericolose socialmente, non conosciute per atti di automutilazione, non soggette ad interdizione, non ritenute di pubblico scandalo (come dicevasi a suo tempo); - la giurisdizione in Trieste non ha la percezione, sotto un aspetto materiale, di mancare di ascolto dei cittadini e di mostrare un certo accanimento giudiziario? - dichiaro senza indugi che esiste una Costituzione materiale che impedisce in Italia atti formalmente regolari ed efficaci ma volti a distruggere e rendere schiavi cittadini tra i più semplici. Non mi pervenne altra risposta! Col senno di poi osservo che le missive si sono estese per cinque mesi unicamente per ribadire due posizioni diverse in dialogo, senza velleità di un più genuino ascolto e di cambiamento: e la vicenda così lasciata in essere al 18 marzo u.s. prosegue tuttora! Ringrazio per l’opera di svelamento del Suo periodico. Dr. Gianfranco Borgonuovo
Psicologo clinico a riposo, Arezzo L’AsSostegno smentisce, noi replichiamo (8.a lettera pubblicata) A nome dell’associazione “AsSostegno” – sorta recentemente a Trieste, per impulso di Paolo Cendon, con l’apporto di vari operatori, avvocati, commercialisti, familiari, volontari, allo scopo di migliorare la conoscenza e l’applicazione in città della nobilissima legge 6/2004 - mi corre l’obbligo di far rilevare, in relazione ai materiali apparsi di recente sul vostro giornale, alcune imprecisioni che essi contengono, sotto il profilo sostanziale e processuale. In particolare: - non è esatto che istituire l’AdS significa “privare giuridicamente, in via temporanea o permanente, la persona dei diritti civili fondamentali”: la verità è che spesso il Giudice Tutelare non toglie al beneficiario proprio nulla, semplicemente gli affianca un fiduciario, che compirà certe operazioni in luogo dell’interessato, il quale potrebbe pensarci ancora lui se vuole e se può (art. 409 c.c.), posto che la sua sovranità, nella maggioranza dei casi, non viene toccata; - non esiste nessun automatismo fra incapacità (parola comunque fuori luogo qui) e protezione giuridica: anche un disabile fisico, pur lucidissimo, può trovarsi in difficoltà nella gestione della propria quotidianità e abbisognare di qualcuno che faccia le cose al suo posto (art. 404 c.c.); - non è affatto strano che un provvedimento istitutivo di AdS venga ad essere successivamente modificato, e al limite revocato dal Giudice Tutelare; anzi dovrà essere così tutte le volte che vengano meno, e talvolta succede, le ragioni che avevano reso opportuna l’apertura del procedimento (art. 413 c.c.); - il beneficiario, anche con qualche ombra, conserva tendenzialmente le redini in materia sanitaria; nessun altro può decidere al suo posto: soluzioni diverse, non da escludersi quando ineluttabili per la vita o la salute della persona, postulano comunque la costante ricerca del consenso di quest’ultima (dialogo, scambio, ascolto, rassicurazioni, empatia); il consenso in materia sanitaria da parte dell’amministratore di sostegno interviene di regola quando è impossibile per il paziente prestarlo personalmente proprio a causa dell’infermità che lo affligge (si pensi alle persone in coma o affette da infermità che impediscano di percepire validamente un’ informazione sanitaria); - non è vero che nell’AdS “i compiti di assistenza e rappresentanza non sono adeguatamente definiti” perché con il decreto di nomina il giudice tutelare indica analiticamente l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art 405 c.4 n. 3 e 4 c.c.) e questo affinché ogni beneficiario abbia una protezione adeguata solo a lui, come “un vestito” che si confeziona su misura; - quando vengono previste limitazioni all’esercizio di determinate facoltà (es fare testamento, vendere la casa, operare sul proprio conto corrente, ecc) è perché la persona soffre di una infermità che potrebbe farla agire in danno di se stessa o esporla, per la sua fragilità, a essere manipolata da altri; - l’esperienza avverte che un soggetto al quale viene per il suo stesso bene (un tossico, un alcolista, un prodigo, etc.) diminuito l’ “argent de poche” quotidiano è, di solito seppur non sempre, tutt’altro che contento: ma accontentarlo non significherebbe abbandonarlo? E dinanzi al novantacinquenne ansioso di regalare “case e alberghi” alla radiosa badante di diciannove anni che dice di amarlo perdutamente, come dovrà reagire il Giudice Tutelare? - succede che i familiari protestino quando il Giudice Tutelare sceglie l’amministratore fuori dalla cerchia domestica; non si può dubitare però che ciò avvenga quando il GT, o gli amici, o i Servizi, o l’amministrato stesso si accorgono che quei familiari facevano/farebbero, in realtà, il contrario della felicità per il congiunto (art. 408 c.c.); - non è vero che “mancano le garanzie di gestione finanziaria”: l’amministratore sostegno – sia esso un avvocato o un familiare - deve riferire e riferisce periodicamente (ogni tre mesi, ogni sei, ogni anno a seconda dei casi) al Giudice Tutelare dell’attività svolta e delle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, n. 6 cc), ha un limite di spesa e opera sotto la stretta vigilanza del Giudice Tutelare, i cui decreti vengono controllati dal Pubblico Ministero; - non è dunque vero che il Giudice Tutelare decide senza controlli e senza sentire l’interessato: l’audizione del beneficiario è, infatti, una fase del procedimento essenziale per conoscere la persona, dove e come e con chi vive, i suoi bisogni ed aspirazioni, i suoi problemi e le sue esigenze di assistenza, di sostegno di protezione (art. 407 c.c); - in caso di dissenso con l’Amministratore di sostegno viene sempre sentito il beneficiario, seppure il Giudice Tutelare non sempre possa “accontentarlo” poiché il beneficiario proprio a causa della sua infermità, non sempre è in grado di comprendere quale sia il suo vero interesse: dinanzi a chi, affetto da dipendenza dal gioco, si spende appena riscossi tutta la pensione o lo stipendio al casinò e non ha poi più uno spicciolo per mangiare, pagare l’affitto, le bollette, mantenere la propria famiglia, che si indebita a catena con le finanziarie, che si riduce a perdere tutti i propri risparmi, come dovrà reagire il Giudice Tutelare? Lasciandolo fare? - non è vero che “il meccanismo dell’AdS si presta a essere abusato per sottrarre a una persona i suoi beni”: esso, al contrario, costituisce uno strumento di protezione flessibile che consente di rispettare (assai di più che nell’interdizione e inabilitazione) la persona, ponendola al centro dell’attenzione del Giudice Tutelare, dell’Amministratore di sostegno, di operatori sociali e sanitari che lavorano tutti dentro una comune rete di solidarietà e di servizio. Beninteso non si esclude, con ciò, che errori possano commettersi a Trieste come nel resto d’Italia; occorre però inserire gli errori, ove vi siano, in una indagine attenta, leale e completa di tutti e tanti casi che, a Trieste (circa 1700) come nel resto d’Italia, hanno apportato efficace sostegno e protezione e qualità di vita, a tante persone e ai loro famigliari. Il grande vantaggio dell’AdS poi è, che si tratta di un istituto trasparente, democratico, una casa di vetro, dove le cose si sanno fino in fondo (almeno nella cerchia degli interessati), dove la porta del Giudice Tutelare è sempre aperta e dove tutti possono protestare, segnalare, impugnare, quando ritengono che si stiano calpestando gli interessi dell’assistito (solo in questo caso però!), a cominciare dal beneficiario stesso: presso il Giudice Tutelare, presso il Pubblico Ministero, presso la Corte d’Appello, magari con una lettera al giornale. Dipingere l’amministrazione di sostegno come se fosse una sorta di trappola per gli anziani, in cui giovani avvocati perseguitano le persone o le privano dei propri beni e dove si scatenano gli abusi di giudici tutelari (nessuno dei quali, è doveroso precisarlo, è stato “rimosso” dalle proprie funzioni e la dott. Carlesso – che ha lavorato con autentica dedizione in questo settore - si è trasferita su sua richiesta alla Corte di Appello in una ordinaria progressione di carriera), è voler offuscare la efficacia di uno strumento, quale è l’amministrazione di sostegno, che costituisce una vera e propria risorsa per tanti anziani e disabili della nostra città e che un giornale, di larga diffusione come il vostro aspira a essere, ci auspichiamo vorrà concorrere a promuovere Il Presidente dell’associazione AsSostegno Dott Giuseppe Garano
- Risponde il direttore. Ringrazio il cortese Dott. Garano per queste puntualizzazioni, che non interpretano tuttavia esattamente quanto ho scritto. Non ho dubbi che quanto lui afferma possa valere per i casi, spero di maggioranza, in cui la legge e lo spirito originario dell’istituto dell’amministrazione di sostegno siano applicati correttamente. Ma purtroppo gli abusi ci sono, perfettamente documentati in denunce circostanziate alle autorità giudiziarie, credibili e convergenti, in particolare riguardo a Trieste e dalla gestione della giudice tutelare da poco promossa ad altro incarico. Fermo restando questo, ci si può dunque augurare che chi le è succeduto faccia esercizio della più rigorosa prudenza sinché le cose non siano adeguatamente chiarite.
(Il Tuono n. 13 del 24.7.10, p. 2 e 7) Amministrazioni di sostegno: un’Associazione per il controllo Continuiamo a ricevere, da Trieste ed altrove, nuove segnalazioni di abusi dell’istituto delle amministrazioni di sostegno, qui nella gestione giudiziaria precedente l’attuale. Il problema è ormai noto: la legge e le risorse delle strutture delegate ad attuarla non bastano purtroppo a consentire, in concreto, controlli adeguati sull’applicazione corretta delle norme, né sull’operato effettivo degli amministratori, e questo pone provatamente a grave rischio i diritti civili, le condizioni di vita ed i beni degli amministrati e delle loro famiglie. In concomitanza con la nostra campagna stampa di chiarimento è sorta inoltre a Trieste un’associazione, la AsSostegno, che risulta includere anche alcuni dei corresponsabili di questa penosa situazione e sembra volerla invece negare o minimizzare (si veda il nostro numero 12, pag. 6 e qui a pag. 7). Per contribuire invece a risolverla sta ora sorgendo tra le persone e famiglie colpite dal problema e chi vuole aiutarle una nuova associazione privata, locale e nazionale, che ha lo scopo di organizzare per intanto da parte della società civile le necessarie funzioni di controllo sull’applicazione e gestione delle amministrazioni di sostegno, ma anche delle tutele e delle curatele. Ve ne terremo al corrente.
Lettera aperta (9.a lettera pubblicata) Preg.ma Giudice Dott.ssa Gloria Carlesso, Preg.mo Professor Paolo Cendon, Preg.ma Dott. Alessandra Marin, tramite Internet mi è possibile leggere stampa locale ed il sito “persona e danno” curato dal Professore. Ho letto così della costituzione in maggio u.s. di AsSostegno e le motivazioni corredate di punti legislativi a difesa dell’istituto dell’Amministratore di sostegno (Ads). Dal 26 giugno “Il Tuono” settimanale di Trieste e dintorni ha curato vari commenti di civili impegnati anche in associazioni soprattutto sulla prassi dell’Ads. I commenti provengono anche da Lazio, Viareggio, Arezzo, e con il mio ancora dalla Toscana, provincia di Lucca. L’argomento del contendere, per quanto mi riguarda, è eminentemente materiale. A titolo di esempio: nel mio intervento citavo la responsabilizzazione dei servizi tramite l’art. 406 comma 3 del Codice Civile come appunto modificato dalla L.6/2004: non era una critica alla disposizione, ma un cenno di come si possa tramite quella by-passare amministrando, parenti, autorità civili, ed esperire vie d’urgenza. Le specificazioni appena dette nemmeno erano tutte presenti nel mio commento, ma il “caso Zafran” (citato come ho visto in convegni come necessità di “diritto alla cura”) rientrò proprio in questo sorpassamento totale dei consociati - da allora percepiti inesorabilmente come dannosi o inaffidabili -. I danni rimostrati altro non si giocano che su un piano strettamente sostanziale, e sulla percezione di famiglie che si sono sentite espropriate, maltrattate, violate... L’alternativa ad un abbandono lato sensu ( di un prodigo, di un tossicodipendente,...) non può mai essere la costruzione di un illecito grottesco da parte di un servizio di potere pubblico: citando il dottor Garano su “Il Tuono” del 17 u.s., che riferisce una fattispecie astratta di ultranovantenne invaghito di diciannovenne a cui voglia donare tutti i suoi patrimoni (infelice esempio, che associa perversione alla nostra gente anziana!), è certo preferibile per la sua vita che sussista abbandono piuttosto che – sempre sul lato eminentemente materiale – gli siano trattenute tutte le proprie sostanze e venga magari internato in uno dei tanti ricoveri per anziani (biasimati il 23 luglio 2009 anche dal Direttore emerito ASS Dr. Rotelli su Il Piccolo). Sarebbe invece auspicabile una condotta ragionevole di Ads “da manuale”. Sebbene io non sappia quanto l’invadenza del Pubblico nel privato, la Drittwirkung [efficacia orizzontale, ndr] come percepita a Trieste possa essere trasferita nel resto d’ Italia, ritengo comunque mettere Loro a conoscenza come primi firmatari di AsSostegno le linee dispositive in materia di Ads, alla cui redazione sto partecipando tuttora in Toscana. Per la Toscana si propone un’etica migliore dell’istituto dell’amministratore di sostegno iniziando con dei punti fermi e dei correttivi, quali ad esempio: a) assicurare che un amministratore non cumuli più di 10 amministrati (per ribadire l’importanza dell’ascolto e attenzioni concrete alle persone beneficiarie – stabilendo anche un tempo di ascolto determinato e settimanale in ipotesi 2 ore per ogni beneficiario, un’ora per l’interessato ed un’ora per i famigliari che desiderino parlare con l’AdS); b) assicurare che le persone interessate siano debitamente informate (tornare anche all’avviso su carta, e dove questo non sia possibile si procuri un “protocollo” di comunicazione che fornisca dovute garanzie agli interessati); c) assicurarsi che quando l’amministratore viene chiesto da persone non interessate direttamente o che si rivelino distanti ai bisogni dell’interessato, o siano amministrazioni pubbliche, si proceda a moduli cartacei specifici che verbalizzino presso il Giudice tutelare il rapporto con la persona interessata e con la famiglia; d) mai lasciar fuori gli interessati ed i cari che si prendono cura di loro, malgrado qualsiasi difficoltà di comunicazione; e) andare oltre la “visita” al luogo di dimora della persona che dev’essere amministrata ed alla pseudo-psicologia clinica, specie in salute mentale; f) il Giudice tutelare deve avere cognizione tecnica, o munirsi di una consulenza permanente, che precocemente connetta il farmaco al luogo (ad es. la clozapina non va sempre d’accordo con soluzioni domiciliari in cui si usa fumo o caffè che interagiscono con l’emivita dell’importante farmaco); g) in pratica l’amministratore non deve essere un ratificatore “alla buona” di scelte deleterie, ma una persona che opera con consapevolezza del valore e dei bisogni della persona che assiste. Invio un saluto cordiale, restando a Loro disposizione. Mirko Gabriele Salotti Volontario salute mentale CESVOT (centro servizi volontariato toscano) Iscritto all’Albo nazionale dei soccorritore del 118 Membro associazione “ Voceallavittima! “ onlus- Roma
Quale difesa? (10.a lettera pubblicata) In risposta alla lettera a firma Dott. Giuseppe Garano, pubblicata sul vostro settimanale in data 17/07/2010, il sottoscritto amministratore di sostegno indipendente, cioè non iscritto ad associazione alcuna, Marco Marcon, desidera anche alla luce della propria esperienza nel campo delle tutele sottolineare quanto segue: pur condividendo i meriti della legge sull’amministrazione di sostegno non posso non esprimere forti perplessità in merito all’operato dei giudici tutelari che si sono succeduti a Trieste da Camerlengo alla Carlesso. Sebbene essi fossero a conoscenza dei pesanti comportamenti dannosi di alcuni avvocati, si sono ben guardati dal sollevarli dalle rispettive nomine, nonostante segnalazioni ricevute. Ciò conferma quanto scritto dal Dott. Borgonuovo da Arezzo nella lettera pubblicata dal vostro settimanale lo stesso giorno. È altresì impensabile che tale comportamento non sia stato attuato in virtù di una adeguata copertura. Si era sperato che fosse il risultato di pressioni, ma tale speranza affievolisce sempre più. Così come è logico immaginare che gli avvocati abbiano goduto di una corsia preferenziale nella scelta del tutore prima e nell’amministrazione adesso, specie nei casi di conflitti famigliari generati dall’errata convinzione che il tutore o Ads una volta nominato diventi padrone di tutto (e mi chiedo se questa errata convinzione non venga artificialmente generata sì da giustificare la nomina di un avvocato). Ciò accade in genere proprio con la nomina di un legale, il quale dispone dei beni in custodia come crede senza interpellare i parenti ai quali è precluso il rendiconto (esperienza diretta – nemmeno al Pentagono c’è una tale segretezza) e che peraltro non sarà passato al microscopio a scansione come quello dell’Ads famigliare non avvocato. Non si capisce infatti come certi rendiconto “incredibili” presentati da avvocati siano stati approvati dal Giudice Tutelare senza batter ciglio. Se non erro, l’amministrazione così come la tutela è gratuita. Ma anche in questo caso l’avvocato riesce a farsi “pagare” per il suo disturbo per la tutela gravosa e complicata, mentre Ads o tutore non avvocato no. Ma la legge non è uguale per tutti? Nel caso che l’avvocato Ads, rubi, provi lei a denunciarlo in un tribunale dove vige l’immunità parlamentare retroattiva (Berlusconi se lo sogna) prima della nomina a parlamentare, o dove uno che grida in una manifestazione “Partigiano di m...” (vilipendio delle forze armate di liberazione) davanti alle forze dell’ordine non viene nemmeno fermato. Mi auguro che la sua associazione sia meritoria in questa fase della vita che solo chi ha provato indirettamente può realmente comprendere, e non sia un rapido sistema per individuare le potenziali vittime di vere e proprie spoliazioni legalizzate di beni e risparmi. Marco Marcon
- Grazie per la lettera su questi problemi. Conosciamo il caso specifico accennato, che è anche perfettamente documentato. [Nota della Voce di Trieste, aprile 2013: il riferimento alle immunità riguarda un’iniziativa abnorme del Tribunale di Trieste di riconoscere al leader estremista neofascista locale Roberto Menia l’immunità parlamentare per reati commessi tre anni prima di venire eletto deputato. L’iniziativa è stata respinta dal Parlamento come abnorme, con richiesta di indagini disciplinari nei confronti giudici che non ci risulta tuttavìa compiuta.]
(Il Tuono n. 14 del 31.7.10, pp. 6,7) Amministratori di sostegno insistono (11.a lettera pubblicata). Egregio Direttore, i nostri vecchi, nella semplicità della vita agreste, nutrivano l’anima con detti popolari. Uno di questi, fra i più veritieri ed apprezzati, recitava più o meno così: “se tuona prima di piovere, resta nel campo e non ti muovere!”. Dal che, abbiamo ben sopportato l’infruttuoso rumore delle precedenti edizioni dedicate all’opinionismo ferito dei pochi che lamentano l’applicazione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a Trieste. Tuttavia, dopo la sua ultima nota in calce alla lettera di AsSsostegno, non possiamo esimerci dal rilevare che il giornalismo investigativo postula l’analisi accurata e documentata dei fatti, e non prescinde dall’irrinunciabile dovere di ascoltare le varie parti coinvolte, sintetizzando il frutto di un contraddittorio. Perché dunque rinuncia ad informare i lettori del fatto che per nessuno dei casi da lei “denunciati” si è mai peritato di contattare amministratori di sostegno o giudici o avvocati coinvolti? La ricerca assoluta della Verità, che dovrebbe essere alla base di un giornalismo costruttivo (ma più in generale della nostra società), ci impone di raccontare anche la nostra esperienza di amministratori di sostegno che hanno vissuto (e sofferto) con i Giudici Tutelari i risvolti pratici di quella manciata di articoli del codice civile che rappresentano un’evoluzione civile per il nostro Paese. Se solo Lei sapesse quante volte abbiamo visto il Giudice Tutelare seduta al fianco dei senzatetto, oppure entrare nelle case facendosi letteralmente largo fra le immondizie, o carezzare il volto di coloro che non hanno più voce per gridare il silenzio cui sono costretti. Abbiamo visto la dott.ssa Carlesso abbracciare ed ascoltare per ore gli anziani,i soggetti deboli, i loro congiunti e tutti coloro che le hanno chiesto un aiuto, anche solo una parola, nell’esemplare espletamento della sua funzione di magistrato. Abbiamo visto la fila di persone nel Palazzo di Giustizia di Trieste davanti alla porta di un Giudice che ha sempre accolto tutti con umana comprensione, nessuno escluso. E non è stata certo l’unica, a Trieste, a dedicare sé stessa al fardello imposto ai magistrati con la legge n.6 del 2004. Noi amministratori di sostegno, nello svolgimento del nostro compito, doverosamente collaboriamo al fianco dei Giudici Tutelari che controllano scrupolosamente la nostra attività, supervisionando con imparzialità, e senso di giustizia, ogni atto da noi compiuto in favore dei nostri beneficiari. Quand’anche il filtro del primo magistrato non dovesse bastare, a garanzia vi è il controllo, altrettanto scrupoloso, del Pubblico Ministero. I Giudici Tutelari, che attualmente rivestono tale ruolo, hanno preso in carico con passione il lavoro iniziato dalla loro collega e si affiancano a chi già riveste questo incarico con dedizione da diversi anni. Non starebbe dunque a Lei redarguirli circa le loro funzioni, né tantomeno allarmare inutilmente l’opinione pubblica. Nei provvedimenti in cui si limita la capacità di agire del beneficiario, quest’ultimo viene invitato a rivolgersi ad un avvocato. Ci si dovrebbe dunque interrogare sul perché, in molti casi, l’attività di difesa culmina con l’adesione o la conferma del provvedimento adottato, se non esclusivamente per la fondatezza stessa dell’indagine che lo ha preceduto. Ricordiamo infatti che dei circa 1700 casi esaminati, solo sette sono stati sottoposti a reclamo alla Corte di Appello ed i decreti di nomina del Giudice Tutelare sono stati, sino ad ora, confermati. L’investigazione, anche dopo trent’anni d’esperienza, è bene che parta dal dubbio! Scriviamo poco, più per puntualizzare che per informare (non ci appare questo infatti il veicolo più adatto) e, come da Sua tradizione, Le lasciamo lo spazio per il suo commento e per un brillante titolo, affinché i lettori non possano formarsi un’opinione senza essere sapientemente accompagnati. Gli Amministratori di Sostegno: Avv. Lorella Marincich, Avv. Alessandra Marin, Avv. Antonella Mazzone, Dott.ssa Gabriella Magurano, Dott. ssa Silvia Panto, Dott.ssa Francesca Martucci, Dott. Matteo Morgia.
- Risponde il direttore. La cortese lettera del dott. Garano per AsSostegno, pubblicata a pagina 6 del nostro numero 12, voleva anch’essa smentire gli abusi concreti di cui abbiamo dato notizia, ma lo faceva richiamando ed interpretando ottimisticamente le norme di legge come se esse potessero impedire di per sé che se ne faccia abuso. Ed abbiamo già spiegato con pari cortesia perché no. Questa lettera di un gruppo di giovani avvocati e praticanti pretende invece di smentire gli abusi con una miscela di affermazioni apodittiche, immagini suggestive e persino offese delegittimanti: contesta infatti la nostra professionalità e funzione giornalistiche, dichiara di voler puntualizzare ma non informare ritenendo inadatto il giornale, e dunque i suoi lettori, accusandomi pure di condizionarne le opinioni con i miei commenti. Rispondo per prima cosa che le persone che ci leggono sono perfettamente capaci di formarsi opinioni proprie valutando criticamente i contenuti sia delle lettere che dei commenti del giornale. Quanto abbiamo scritto, e lorsignori ritengono di avere “ben sopportato”, non è affatto “infruttuoso rumore”, né frutto di quello che definiscono sprezzantemente un “opinionismo ferito dei pochi che lamentano l’applicazione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a Trieste”. Noi facciamo informazione doverosa sul fatto che vi siano gravi abusi, desunto dall’esame di più denunce, credibili perché documentate, coerenti, convergenti e presentate dagli interessati alle sedi giudiziarie extraterritoriali di pertinenza. Lorsignori non pretendano poi di insegnarci le regole del giornalismo investigativo, sostenendo pure che avrei dovuto dare giudizi su quelle denunce dopo averle discusse con gli amministratori di sostegno, giudici ed avvocati coinvolti: se lo avessi fatto avrei violato il segreto professionale sulle fonti, esponendole a ritorsioni, ed invaso competenze delle sedi giudiziarie inquirenti. Anche le lodi difensive che lorsignori fanno di sé e dell’ex giudice tutelare Gloria Carlesso sono fuori luogo, perché ci siamo limitati a precisare doverosamente, anche a tutela degli altri magistrati, che le denunce da noi esaminate riguardano tutte il periodo del suo mandato, ed abbiamo taciuto tutti i nomi delle persone denunciate. Non ho poi affatto “redarguito” (che in lingua italiana significa rimproverato) circa le loro funzioni i giudici tutelari attuali, dei quali ho piena stima. Ho soltanto espresso in forma di auspicio la certezza che essi sapranno affrontare simile situazione esercitando la più rigorosa prudenza. Alla quale non sembra invece ispirata questa lettera di maldestro negazionismo e confusione, da parti interessate, su un problema così drammaticamente palese. Perché consiste nel semplice fatto che, ferme restando le buone intenzioni e pratiche dei più, denunce attendibili provano che l’amministrazione di sostegno può dar luogo anche ad abusi gravi. Che devono essere perciò denunciati dalla società civile, puniti ed impediti dall’Autorità giudiziaria e prevenuti da nuove norme e strutture di controllo adeguate. E se qualcuno pensa di poterci intimidire, ha sbagliato indirizzo e persone.
(Il Tuono n. 15 del 4.9.10, p. 9) Dieci legali che si ritengono chiamati in causa (12.a lettera pubblicata). Scriviamo quali soggetti direttamente chiamati in causa dagli articoli pubblicati nella Vostra rivista dalla fine di giugno in poi atteso che l’intento da Voi dichiarato nel n. 9 ovvero quello “di fare tutto il dovere di giornalisti per dare chiarezza e piena informazione del problema all’opinione pubblica” è stato, volutamente o meno, disatteso ed all’opposto le allarmanti assimilazioni dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a misura di contenzione piuttosto che di riduzione in schiavitù o ancora di strumento atto ad agevolare appropriazioni indebite dei patrimoni dei beneficiari altro non fanno che dare prospettive distorte, parziali e al limite dello scandalo in danno a quelle tante persone che in concreto si avvantaggiano del rapporto instaurato con l’Amministratore di Sostegno, sia esso avvocato o meno. Scriviamo perché è doveroso che l’opinione pubblica sappia che se il Giudice Tutelare ritiene di nominare un avvocato o un praticante avvocato al posto di un familiare quale A.d.S. o tutore o curatore è certamente perché nella cerchia dei famigliari non vi sono persone idonee (per le più svariate ragioni quali possono essere la lontananza, la conflittualità, l’indisponibilità) ad occuparsi degli interessi e dei bisogni del beneficiario, ovvero proprio in sostituzione di quei familiari che non sono stati in grado di adempiere all’ufficio da loro assunto. Rispetto agli articoli e lettere aperte sin oggi pubblicate, riteniamo quindi di dover precisare alcuni aspetti, che per comodità di lettura numeriamo, nel tentativo di riportare le informazioni nell’alveo della realtà. 1) L’infondata assimilazione dell’istituto dell’AdS ad una misura coercitiva e/o di contenzione (n. 10 del Tuono). L’istituto dell’AdS è misura giuridica di protezione di soggetti deboli. Il subdolo accostamento dell’Amministrazione di Sostegno ad una misura di contenzione ingenera un’idea del tutto distorta che danneggia prima di tutti i beneficiari stessi in quanto altera profondamente il rapporto fiduciario che, sebbene con possibile iniziale difficoltà, si instaura tra l’amministratore di sostegno ed il destinatario della misura. Non corrisponde al vero che l’istituto consiste nel privare giuridicamente la persona, in via temporanea e/o definitiva, dei diritti civili fondamentali. L’esatto opposto. L’istituto affianca al soggetto bisognoso, a seguito di un’istanza specifica e documentata, un amministratore di sostegno che lo aiuta a svolgere tutti gli atti della quotidianità che non è più in grado, per diverse ragioni (di malattia, età, competenza) di svolgere da solo: può trattarsi di stipulare un contratto con la banca piuttosto che inoltrare le istanze per percepire le pensioni di accompagnamento e/o altre (continua nella prossima indennità di cui il soggetto ha diritto, piuttosto ancora reperire, assumere e gestire una badante o collaboratrice domestica, ed ancora pagare le bollette, far intervenire un idraulico etc.. Sulla rivista è stata data ripetuta risonanza alla circostanza che l’amministratore di sostegno farebbe vivere in povertà il beneficiario erogandogli al posto della sua pensione indicata in migliaia di euro solo 300,00 o 600,00 € mensili: ma la redazione e la firma che ha avallato questa notizia si è sincerata di appurare che forse, spesso, i beneficiari anziani non hanno una pensione di migliaia di euro oppure quand’anche l’avesse che è l’amministratore di sostegno a pagare tutte le spese mensili perché il beneficiario invece di onorarle accumulava debiti magari senza rendersene conto? È stato scritto che il beneficiario non ha la possibilità di protestare e di far valere le proprie ragioni: ciò non corrisponde a verità. Proprio grazie a questo istituto il beneficiario può sempre proporre, personalmente o a mezzo di un proprio rappresentante (che può essere anche l’Amministratore di Sostegno ma anche un famigliare, un amico, un avvocato), istanza al Giudice Tutelare per revisionare e/o modificare il decreto iniziale o quelli che nel tempo si sono succeduti. È grave che una rivista che voglia chiamarsi tale avalli assimilazioni quali quelle su indicate. 2) La generalizzazione di casi limite. Ogni procedura ed ogni decreto di ammissione dell’amministrazione di sostegno ha una sua storia specifica alle spalle: ha una sua istruzione - non c’è nessun Giudice che si inventi di aprire una AdS senza aver prima analizzato la documentazione alla base della stessa, senza aver prima visitato e/o sentito il beneficiario e senza aver prima valutato nella cerchia dei famigliari le persone idonee a ricoprire questa funzione. Semmai ci fossero stati degli abusi, e lo si dubita fortemente al di là di quanto asseritamente documentato dalla rivista, sarà certamente compito della Magistratura accertarli e sanzionarli: siamo ancora in uno stato di diritto dove le regole, che ci sono e sono precise, vengono fatte rispettare da chi è deputato a farlo e nessuno, nemmeno sotto le mentite spoglie di un giornalismo investigativo e d’inchiesta, può arrogarsi il diritto di allarmare l’opinione pubblica generalizzando casi limite che non fanno certo parte della normalità. Rispetto agli eventuali casi di abusi che certamente la Magistratura accerterà ci sono centinaia di casi seguiti con scrupolo, diligenza ed umanità dagli operatori del diritto (avvocati o praticanti che siano) chiamati all’ufficio, i quali spesso - al di là di quello che si vuol far passare - riescono ad instaurare con i beneficiari, ma anche con i famigliari, rapporti di fiducia e collaborazione proprio perché la figura dell’AdS non va a sostituire gli affetti ma va ad contribuire a dare un sostegno, talvolta tecnico e che richiede competenze specifiche, che gli stessi beneficiari e famigliari piuttosto che gli operatori dei servizi non sono in grado di svolgere. 3) Ruolo svolto dai Giudici Tutelari, dagli Amministratori di Sostegno e dai Servizi Negli articoli che qui si commentano emerge senza mezzi termini un attacco diretto alla Magistratura che attende agli uffici della tutela/curatela/amministrazioni di sostegno da parte di soggetti evidentemente coinvolti in situazioni personali (o per propri infelici vissuti o per essere loro stessi AdS indipendenti …. non si sa poi da chi!) e che utilizzano, con il placet incontrollato della redazione di questa rivista, in modo strumentale i propri punti di vista. È bene che l’opinione pubblica sappia, al di là di quanto precedentemente pubblicato, che tutti i Magistrati che si sono sino ad ora occupati degli istituti in esame, ivi compresa la dott.ssa Carlesso, operano con il controllo del Pubblico Ministero ovvero collegialmente allorché si tratta di risolvere ed assumere decisioni in casi di particolare difficoltà e delicatezza. In ogni caso i Magistrati, piaccia o no a chi ha precedentemente trovato sfogo nella rivista, applicano le norme; e loro stessi sono soggetti alle stesse norme sicché ogni affermazione circa eventuali nomine preferenziali di avvocati e praticanti rispetto a terzi indipendenti piuttosto che di appropriazioni indebite appare giustificata solo dalla necessità di creare scandalo (forse per farsi leggere). Invece è doveroso ricordare, soprattutto in replica alle indegne accuse sottese negli articoli nei confronti della dott.ssa Carlesso, che i Magistrati triestini tutti, per il notevole numero di anziani della nostra città e per la stessa apertura all’altro, al diverso, al debole che il nostro tessuto cittadino ha sempre consentito, sono sempre stati pronti in prima linea unitamente ai diversi servizi coinvolti (Comune, Distretti sanitari, Centri di salute mentale etc.) a prevenire e a sventare gli abusi. Tanti di noi sono stati invero nominati proprio in sostituzione di AdS indipendenti ovvero di tutori famigliari poco attenti, e diversi sono i casi passati in Procura dagli stessi Magistrati tutelari!. Certamente, rispetto ai diversi Magistrati che si occupano degli istituti, la dott.ssa Carlesso ha aggiunto un quid pluris all’ufficio, informato sì al rispetto delle regole giuridiche ma confortato dalla sua calda e sincera umanità, tesa sempre ad ascoltare le diverse problematicità e a trovare la migliore soluzione possibile – mai avulsa dai pareri della rete attivata - per ogni caso. È È certo che a qualcuno spetta di decidere ed è altrettanto certo che a qualcun altro ciò può dar fastidio: nel nostro sistema giuridico la decisione spetta al Giudice Tutelare con la riserva sempre ammessa, perché fortunatamente il nostro è e rimane un sistema di diritto, di revisione in caso di errori e/o modifiche. 4) Sull’indennizzo e sulla gratuità dell’istituto. É stato correttamente scritto che l’adempimento dell’ufficio dell’amministrazione di sostegno è tendenzialmente gratuito così come lo è la tutela. Viene però lamentata la liquidazione esagerata di compensi agli avvocati e praticanti mentre agli amministratori di sostegno indipendenti o ai famigliari ciò non sarebbe consentito. Tale notizia è falsa perché gli indennizzi vengono certamente rifusi, se richiesti e giustificati, anche ai famigliari ed agli amministratori di sostegno indipendenti. Le richieste di indennizzo vengono analizzate dal Giudice Tutelare e autorizzate in base all’attività effettivamente eseguita, al valore del patrimonio gestito, all’apporto dato al beneficiario; non di rado il Giudice tutelare, che controlla analiticamente la relazione dell’amministratore di sostegno, decide di decurtare o aumentare le richieste di indennizzo; è certo che il G.T. non liquida e non autorizza richieste, magari di famigliari e/o A.d.S. indipendenti o no che siano, non confortate da idonea documentazione e non relazionate con il dovuto dettaglio. É altrettanto doveroso rendere edotta l’opinione pubblica che tanti avvocati e procuratori, che non si sottraggono agli uffici per i quali sono chiamati, lavorano e rendono la propria prestazione per tante pratiche gratuitamente se non anche spendendo di propri denari personali, in virtù della difficile situazione dei beneficiari. Ci è sembrato quindi doveroso scrivere queste poche righe, non per polemizzare oltre ma per puntualizzare il nostro ruolo constatata la diretta chiamata in causa degli amministratori di sostegno (avvocati e dottori in legge) in assenza di qualsivoglia contraddittorio ed accurata indagine sull’effettiva attività da noi svolta, sulla fondatezza delle notizie pubblicate dalla testata condite vieppiù da titoli d’effetto o con commenti di natura soggettiva che, visti i precedenti, probabilmente la redazione dispenserà anche in questa occasione, continuando così a disattendere quella garanzia dovuta ai lettori e alla pubblica opinione del dovere di corretta e piena informazione che il Giornalismo, ma solo quello con la “G” maiuscola, assicura. Alcuni amministratori di sostegno: Avv. Donatella Varglien Boico, Avv. Antonella Stella , Avv. Annalisa Fedele, Avv. Alessandra Marin, Avv. Alessia Morandini, Avv. Barbara Fontanot, Avv. Francesca Marchetti, Avv. Elena Bellodi, Dott. Alice Spaventi, Avv. Andrea Miozzo, Avv. Maria Rosaria Amari.
- Risponde il direttore. Consentitemi di osservare che questa lettera è ancora più arrogante ed offensiva di quella analoga già ricevuta e pubblicata sul nostro numero precedente. Non si vede anzitutto come e perché gli amministratori di sostegno (Ads) firmatari si ritengano chiamati in causa per il semplice fatto che abbiamo scritto di abusi documentati di tale istituto, spiegando anche di quale genere ma senza fare altro nome di riferimento che quello della giudice. Se hanno, come non dubitiamo, la coscienza a posto, non possono esserne coinvolti. La loro prima preoccupazione è affermare legittima la nomina di un avvocato o praticante quale Ads al posto dei famigliari. Mentre non abbiamo detto che non lo sia, ma che in alcuni casi documentati e già in indagine giudiziaria si presta ad abusi. Non neghiamo poi che l’istituto dell’Ads sia una misura di protezione di soggetti deboli: affermiamo soltanto che si presta appunto ad ovvi abusi. Non è vero che il soggetto assistito non venga privato di diritti, ma solo affiancato e sostenuto: dipende dai casi, ed alcuni sono di abuso. Il fatto che assistiti anche benestanti si possano trovare ridotti a vivere con importi mensili minimi è perfettamente documentato. La difficoltà di alcuni assistiti a reclamare e difendersi è determinata da situazioni in cui non possono ricevere personalmente neanche la posta. Non c’è dubbio che gli abusi siano casi limite, e noi non li abbiamo affatto generalizzati. E non li abbiamo nemmeno documentati direttamente, ma ci siamo riferiti alle documentazioni estremamente precise di procedimenti giudiziari già attivati. Gli Ads che si comportano bene non hanno comunque nulla da temerne, e noi non abbiamo allarmato l’opinione pubblica, ma solo segnalato doverosamente quegli abusi documentati, perché vi sia posta fine. Non abbiamo affatto attaccato, o mediato attacchi, alla magistratura tutoria in quanto tale, ma precisato doverosamente – proprio per tutelarla – che i casi anomali in indagine fanno riferimento ad un unico magistrato, e quale. I firmatari della lettera non possono inoltre non sapere che il controllo del Pubblico Ministero sulle attività tutorie è puramente teorico, e di fatto eccezionale, data la mole abnorme di altri procedimenti di cui i PM sono oberati, mentre la collegialità delle decisioni rimane discrezionale. Ed è vero che i magistrati applicano le norme, ma se fossero tutti e sempre perfetti ed infallibili non occorrerebbero tre gradi di giudizio. Nei nostri articoli non ci sono affatto “indegne accuse sottese” verso la dott. Carlesso, ma affermazioni e riferimenti necessari e doverosi per la chiarezza delle informazioni, che se errate possono essere confutate puntualmente, non con tirate retoriche ed offensive. Il fatto che la gratuità dell’incarico di Ads sia solo “tendenziale” consente l’erogazione dei compensi, ed il professionista esterno (avvocato, praticante) li riceve senza problemi, a differenza dal famigliare. Se qualcuno rinuncia, rimane suo merito. È sorprendente che infine i firmatari affermino di non voler polemizzare in una lettera iraconda che sopra e sotto quest’affermazione ci propina una serie di insulti ingiusti e sempre più pesanti, pretendendo pure di insegnarci la correttezza professionale. Vorremmo dunque capire perché.
(Il Tuono n. 17 del 18.9.10, p. 8) Amministrazioni di sostegno (13.a lettera pubblicata). Seguo con grande attenzione anche professionale la vostra campagna di denuncia su abusi nelle amministrazioni di sostegno, e ho contato i nomi dei giovani avvocati e praticanti che vi hanno scritto giurando che invece tutto va bene: sono 17, tra donne e uomini che dovrebbero rappresentare le speranze future della professione forense nella nostra – come scrive spesso un mio conoscente spiritoso – ridente necropoli sul mare. Visti gli argomenti e la logica sorprendenti di questi esordienti del diritto mi è venuto il dubbio che possano averli applicati, naturalmente in buona fede, anche alle gestioni dei loro amministrati, con risultati altrettanto sorprendenti. Poiché voi affermate di averne abbondanti e precise documentazioni su casi già in indagine, vorrei sapere se forse ho immaginato giusto. E per quali motivi, secondo voi, su quest’argomento il resto della stampa locale tace.
- Possiamo rispondere con qualche particolare, come dice lei, sorprendente di uno di quei casi documentati. La giudice tutelare nomina amministratore di sostegno di due anziani in difficoltà non uno dei due figli, ma un giovane praticante avvocato (categoria che di solito non guadagna ancora un soldo) assegnandogli per l’incarico un compenso annuo, a spese dei beneficiari, di ben 7.000 euro più rimborsi spese, IVA e cpa (mentre i figli lo avrebbero svolto gratis). In forza della nomina, l’amministratore di sostegno svolge un ruolo di tutore giudiziario, e dunque di pubblico ufficiale, con tutti gli obblighi (e se del caso le aggravanti) di legge che ciò comporta. Anche se, come sappiamo, tutti i suoi provvedimenti principali devono essere convalidati o quantomeno controllati dalla giudice stessa. Tra altre cose meritevoli di verifiche, quest’amministratore alle prime armi decide di vendere un appartamentino dei due assistiti, contro la loro espressa volontà, nel centro di una famosa località balneare. A prescindere dall’opportunità della vendita, per valutarne il prezzo dovrebbe, stante il suo ruolo e siccome non è roba sua, far almeno eseguire una perizia di stima garantita dal Tribunale ed adottare una formula di vendita che offra le garanzie minime dell’asta giudiziaria. Invece si rivolge fiduciosamente all’amministratore dello stesso condominio, che è anche agente immobiliare, fa un sopralluogo con lui ed un mediatore di altra agenzia locale, ne accetta la stima ad occhio, benché evidentemente bassa, perché confermata da altro immobiliarista suo conoscente, rilancia un prezzo un po’ più alto, ed incarica gli stessi due – che date le circostanze ricordano il gatto e la volpe classici – di cercare loro degli acquirenti e comunicargli le offerte. Col risultato che dopo un po’ gatto e volpe gli comunicano un’offerta pari alla loro stima, lui alza di un po’ per il costo della mediazione, e vende al prezzo così fiduciosamente stabilito, col consenso, pare, della giudice. Sembra quindi più che legittimo ritenere che almeno i casi così sorprendenti meritino verifiche istituzionali esterne ed accurate. Quanto al silenzio del resto della stampa, possiamo solo immaginare che le testate non indipendenti possano avere degli imbarazzi a metter sotto inchiesta giornalistica elementi dell’ambiente giudiziario e decine di giovani leve di quello forense, figli d’arte inclusi.
(Il Tuono n. 18 del 25.9.10, p. 4) Anche uno sfratto estorsivo (14.a lettera pubblicata) In relazione agli articoli sul giornale riguardanti gli Amministratori di Sostegno, anche io ho avuto modo di imbattermi in una di queste persone. Tra i vari problemi che ho come: poco lavoro, qualche debito che prima o poi dovrò sanare - il denaro è sempre poco soprattutto per un’addetta alle pulizie - un giorno mi viene recapitata una raccomandata dall’AdS della mia locatrice: “Le comunico, preliminariamente, di aver richiesto presso i locali Uffici dell’Agenzia delle Entrate copia del contratto di locazione indicato in oggetto (all.), da Lei sottoscritto nel mese di aprile 2003 ed attualmente rinnovato sino al 31 marzo 2011. A tal proposito, in nome e per conto della locatrice, Le comunico ad ogni effetto di legge la formale disdetta dal suddetto contratto che, alla prossima scadenza sopra specificata, dovrà intendersi non rinnovato automaticamente. A far data dal giorno 1 aprile 2011, pertanto, l’immobile in oggetto dovrà essere lasciato libero da persone e cose. Premesso un tanto, con la presente Le intimo formalmente, altresì, di voler provvedere con decorrenza immediata al pagamento dei canoni di locazione che, dalla data della mia nomina ad oggi, non risultano mai pervenuti a mie mani. Detto pagamento, infatti, come espressamente previsto dall’art. 5 del contratto, deve avvenire presso il domicilio del locatore che attualmente, in virtù del decreto di nomina di AdS, è presso lo scrivente.” In poche parole io dovrei ridare 4.800 euro, già pagati, perché questo signore è stato nominato AdS il 1° luglio 2009, nonché sgombrare da casa. La proprietaria dell’immobile non ha mai espresso un simile desiderio, tanto meno di farsi ripagare i canoni che io ho già versato, puntualmente, fino ad oggi. Detto questo, i figli di questa signora, che sono miei amici ormai da molti anni, hanno ricevuto anch’essi la convocazione da parte dell’AdS perché ne venisse assegnato uno anche a loro. Sia i genitori che i figli vivono in proprietà di famiglia, casualmente. Ora si cerca di capire cosa succederà e mi chiedo come sia possibile che una persona possa esercitare tanto potere sugli altri solo perché ha giurato la sua “formuletta” davanti al giudice tutelare? L’interdizione è una grave offesa alla persona e alla sua capacità di agire, pensare e lavorare, come in questo caso assurdo dove le persone sono completamente autosufficienti. E che dire di tutte le spese legali affrontate e da affrontare per salvare il salvabile? E chi non se lo può permettere, da chi verrà tutelato? (lettera firmata)
- Giuste domande. Conosciamo anche questo caso, che è documentato, e sul quale risultano già in corso indagini giudiziarie. Come su altri.
Altri casi da documentare (15.a lettera pubblicata). Il Tuono continua l’inchiesta sugli abusi dell’amministrazione di sostegno. è legittimo sperare che ne diventi un punto di riferimento nazionale perché a Basaglia City la cancrena ha allungato le radici in tutte le direzioni; e quell’infaticabile ex giudice tutelare di Trieste non teme paragoni nella produzione di amministrati. Possiamo documentare alcuni soprusi gravissimi: gli psichiatri di alcuni Csm hanno fatto imporre l’amministratore di sostegno a persone autosufficienti, sicuri dell’immediato provvedimento giudiziario, che veniva emesso anche senza che in Tribunale si fossero mai visti i “beneficiari” nemmeno in fotografia. Verrà il momento in cui renderò pubblici i casi più gravi. La legge è del 2004 e fino ad adesso il sistema funzionava a pieno ritmo praticamente all’oscuro di tutti. L’inchiesta del Tuono è iniziata il 26 giugno di quest’anno. E improvvisamente spunta un’associazione, AsSostegno. Guarda un po’! Che la coraggiosa campagna del settimanale abbia toccato i sentimenti di valorose persone che insorgono per le prepotenze inflitte a chi non può difendersi? Macché. Qui siamo a Trieste, non scherziamo. È sorta praticamente l’associazione degli amministratori, in sostanza avvocati che difendono o proteggono altri avvocati. La lobby difende se stessa, un po’ come alcuni psichiatri che celebrano se stessi da quarant’anni e ci autoproclamano capitale della psichiatria con l’appoggio incondizionato e acritico dell’establishment. Hanno fatto scuola. Una delle piccole oligarchie arroganti e incapaci che spingono Trieste alla deriva e al degrado, e reclamano senza vergogna diritti parassitari. Mario, papà di Giulio al quale queste cose sono costate la vita.
- Come detto sopra, le indagini istituzionali risultano già avviate.
(Il Tuono n. 19 del 2.10.10, p.5) Abusi drammatici (16.a lettera pubblicata) Egregio Direttore, molte persone sono grate a Il Tuono, per la possibilità di far sentire la propria voce a chi è perseguitato e ignorato da tutti i mezzi di informazione. Vivo per mia disgrazia a Trieste, dove senza aver commesso nessun reato mi vengono imposte condizioni di vita disumane. Le mie disgrazie sono cominciate per aver avuto bisogno del pronto soccorso a causa del fumo prodotto dalla combustione di materiale elettrico dovuto a un cortocircuito. Inspiegabilmente sono stata portata al reparto di diagnosi e cura, cioè psichiatria, con cui non avevo niente a che fare. Di lì a poche ore venne a prelevarmi una vettura del servizio sanitario; pensavo mi accompagnassero a casa, e invece mi portarono in un Centro di salute mentale. Volevo immediatamente andarmene ma venni trattenuta con la forza. Mi dicevano che dovevano trattenermi per alcuni giorni, mi sequestrarono il telefonino e i documenti. Intimai la restituzione del telefonino, intendevo chiamare aiuto, ma loro mi fecero un’iniezione di psicofarmaci attraverso i vestiti. Mi chiedevo terrorizzata in quali mani fossi caduta. Riuscii a scappare con l’aiuto di un conoscente. Lo psichiatra R., responsabile delle violenze, comunicò al tribunale di Trieste una richiesta per assegnarmi un amministratore di sostegno; le motivazioni erano assolutamente false. Una giudice emise il provvedimento senza darmi nessuna possibilità di oppormi. Da quel momento la mia condizione di vita è di riduzione in schiavitù. Non posso disporre dei miei soldi, gestiti da estranei. Una amministratrice di sostegno, (avv. G.), l’anno scorso ha prelevato dal mio conto un importo di 1.400 euro. L’attuale amministratrice di sostegno, (avv. F.) mi “concede” una quota settimanale dei miei soldi, e devo andare ogni settimana a prelevarli in banca malgrado le mie difficili condizioni di salute e di movimento. Adesso mi ha cambiato la banca: ha scelto una che è più comoda per lei. Per piccoli problemi devo andare nel suo studio dove spesso non si fa trovare e mi fa tornare più volte. Sono angherie, perché mi è molto difficile; non ho potuto curarmi per tempo con i miei soldi perché me li tengono bloccati. Con quella cifra non ce la faccio, sono costretta a mendicare qualche pasto alla Caritas e a un’altra fondazione. Il mio medico di base, dr C., è stato convocato in tribunale dallo psichiatra R. e dalla giudice. Gli hanno ordinato cosa può e cosa non deve prescrivere a me, sua assistita. Il dr C. è rimasto sconvolto; stenta a credere che tutto questo realmente avvenga a Trieste nell’anno 2010. Sono stata alla stazione dei Carabinieri per denunciare un episodio di violenza, prima che siano passati i 90 giorni, ma mi hanno detto che essendo “seguita” dal Centro di salute mentale non posso fare denunce. lo non sono una paziente degli psichiatri, non sono seguita da nessuno, questo marchio me l’hanno messo addosso loro e in nessun modo riesco a liberarmene. Perché a Trieste possono compiere impunemente queste prepotenze? Una donna mi telefona e mi dice che verrà da me per farmi compagnia, a pagamento: 15 euro all’ora. Sono saltata su: come si permette? Chi le ha dato il mio numero di telefono? E’ stato lo psichiatra R. So che ha rovinato l’esistenza di altri innocenti. Ho chiesto di parlare con un giudice. Ma pochi giorni fa un altro psichiatra, C., dello stesso Csm, ha voluto venire a trovarmi. Mi ha chiesto: “Quando ha l’appuntamento con il giudice D.?” Sbalordita gli ho chiesto: “Chi glielo ha detto?” E lui: “Non si preoccupi”: Ma io mi preoccupo eccome! Sono come un capo di bestiame marchiato: e alle mie spalle c’è gente che segnala i miei movimenti, le mie telefonate, anche se contatto un giudice? Non voglio descriverle nei dettagli le sofferenze e la disperazione per essere sottoposta a queste prepotenze. Sopravvivo anche grazie all’aiuto di alcuni generosi amici. Il suo giornale ha dato notizia di un signore che è riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell’amministratore di sostegno dopo anni di sopraffazioni. Anch’io sono in possesso delle perizie di integrità mentale; voglio che mi sia tolto il marchio impostomi illegalmente e con la violenza da quegli psichiatri, e rientrare immediatamente in possesso dei miei diritti umani, civili e costituzionali. E dei miei soldi. Egregio Direttore, spero che essendo resi noti tanti abusi venga fatta un’inchiesta. E che qualche avvocato onesto si renda disponibile per avviare richieste di risarcimento. A.G. (lettera firmata)
- Grazie per la fiducia nel giornale e nei suoi lettori, anche istituzionali. Provvediamo subito ad aggiungere il suo caso agli altri documentati che sono già in denuncia ed in indagine da parte delle sedi competenti. Il quadro che ne emerge conferma purtroppo tutto quanto abbiamo scritto sinora e l’estrema gravità di una situazione delle amministrazioni di sostegno che non si comprende come possa essere degenerata sino a questo punto, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno intervenisse.
(Il Tuono n. 20 del 9.10.10, p.5) Altri abusi in segnalazione (17.a lettera pubblicata) Ho avuto l’occasione, purtroppo, di conoscere altri casi che mi sembrano di abusi avvenuti qui a Trieste nelle amministrazioni di sostegno, ma anche in almeno un caso di tutele. Se desiderate posso mandarvi le informazioni che possiedo. Pare anche che alcuni dei giovani avvocati ai quali sono state affidate le amministrazioni di sostegno ne hanno cumulate addirittura decine a testa, in tribunale ho sentito dire addirittura una cinquantina, e se come nel caso che avete citato nell’ultimo o penultimo numero si prendono 7.000 euro annui per ciascuna diventa una rendita considerevole. (lettera firmata)
- Grazie, tutte le informazioni ci saranno senz’altro utili per il seguito nella nostra inchiesta, e potremo inoltrarle come le altre anche agli Organi inquirenti.
(Il Tuono n. 21 del 16.10.10, p. 6) Un anziano ingiustamente limitato e deriso (18.a lettera pubblicata). Si dice che ognuno ha ciò che si merita: a Udine hanno il Messaggero, a Pordenone addirittura il Gazzettino, Trieste non so che colpe abbia, ma si trova un quotidiano come “IL PICCOLO”. Grande spazio è stato dato dal quotidiano giuliano allo “scandalo” della sponsorizzazione della Barcolana tipicamente friulana (vergogna, hanno finanziato un evento triestino ... che i triestini NON finanziano), dimenticandosi di quella sponsorizzazione “giusta” fatta da Gas Natural che distruggerà il golfo con il rigassificatore. Punta di diamante del quotidiano locale è stato l’articolo che è stato pubblicato il 2 ottobre a pagina 16, dal titolo “Sciopero della fame contro la pensione contingentata”. Per come è stato affrontato il caso ho inviato subito una lettera di protesta alle segnalazioni, ovviamente non presa in considerazione. Perciò, visto che il vostro settimanale è più obiettivo e non fa facile clientelismo prendendo per default la posizione di chi può fare la voce più grossa, ho pensato fosse giusto girare anche a voi la mia lettera al Piccolo: «Un giornale che si definisce il giornale di Trieste, non può abbassarsi per comodità a prendere posizione a favore “dei forti” deridendo una delle tante vittime dell’assurda legge sugli A.d.S. solo perché non ha altro mezzo per far sentire il suo dolore che col digiuno. Si parte da considerazioni tipo “... ha perso una decina dei suoi abbondanti chili...”, dove viene deriso per la sua scelta che in base a una logica propria del giornalista è stata alla fin fine utile visto che era sovrappeso; si continua spiegando che l’uomo avrebbe speso quel denaro in donnine, cioccolata e casinò, omettendo volutamente che così, invece, buona parte di tale cifra servirà per pagare il suo aguzzino e sopratutto che il denaro che lui scialacquava (secondo il giornalista) o spendeva per rendere meno triste la sua vita seguendo i suoi desideri, è denaro che gli viene dato con una pensione frutto del suo lavoro; si finisce paragonando il poverino ad un matto di un film di Fellini, dimenticandosi che è una persona in carne ed ossa con i suoi disagi reali nettamente peggiorati dalla sentenza del tribunale di Trieste. Sono figlio di due persone che hanno avuto purtroppo lo stesso trattamento: senza che lo volessero si sono trovate da un giorno all’altro uccise giuridicamente da una giudice che ha imposto loro un padrone che può usarle e disporre dei loro beni come vuole. In poco tempo i loro risparmi messi via in una vita di lavoro sono stati bruciati mentre si è iniziato a svendere a prezzi ridicoli i loro cespiti e sono state fatte spese folli all’infuori di ogni logica di mercato (ad esempio per la pulizia della casa a circa 1000 euro al mese per due ore al giorno, per far fare la dichiarazione dei redditi è stato assunto un commercialista quando bastavano i sindacati, ...). Certo mi si dirà che è stato fatto per il loro bene e per dare loro una vita più dignitosa, ma mi si spieghi dove sta la dignità se dopo anni di lavoro, devono vivere in due con 600 euro chiedendo razioni di cibo alle parrocchie o aiuti a me perché non arrivano a fine mese, mentre il loro aguzzino dopo sei mesi si è già iniziato ad arricchire con i “premi” trattenuti dai loro risparmi con tanto di approvazione della giudice che gli ha dato la procura di amministrarli.» Do la mia massima solidarietà al pensionato vittima dell’articolo e sono pronto ad aiutare chiunque si trovi in quella situazione o rischi di finirci, visto la mia esperienza (imposta) dove io stesso ho dovuto affrontare un udienza per essere interdetto e dove per salvarmi ho dovuto spendere alcune migliaia di euro tra avvocato e perizie mediche. Franz Rizzi
- Condividiamo la solidarietà al pensionato e a tutte le vittime di queste distorsioni del sistema delle amministrazioni di sostegno e delle altre assistenze alle persone in difficoltà. Come vedete, la nostra battaglia in loro aiuto continua.
(Il Tuono, n. 25 del 13.11.2010, p. 3) UNA SENTENZA RECENTISSIMA A TUTELA DEI SOGGETTI PIÙ DEBOLI, SOPRATTUTTO ANZIANI Trattamento sanitario obbligatorio: il sindaco risponde civilmente e penalmente degli abusi Criteri che si estendono agli abusi nell’imposizione di amministratori di sostegno. Come i lettori dei nostri numeri precedenti già sanno, a Trieste si è verificata una serie rilevante di abusi dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Alcuni dei casi meglio documentati sono oggetto da tempo di denunce ed indagini giudiziarie, oltre che delle nostre indagini giornalistiche (mentre il resto della stampa locale li ha sinora coperti: ci asteniamo da commenti). Secondo legge l’amministrazione di sostegno dovrebbe sostituire, in forma blanda, amichevole e collaborativa l’interdizione e la curatela di persone che non siano in grado di provvedere alla cura di se stesse e dei propri beni. A Trieste invece vi risulta esser stato imprudentemente sottoposto un numero abnorme e crescente di persone, in particolare anziane ed anche autosufficienti, o loro parenti che protestavano, sottoponendole a regimi di privazione delle libertà morali e materiali duri quanto quelli dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge. Con affidamento degli incarichi per lo più a giovani avvocati o praticanti, e vendite a conduzioni discutibili o dannose di beni degli amministrati. Creando così una specie di industria anomala delle tutele in una città dove sono particolarmente elevati sia il numero degli anziani che vi sono esposti, sia quello dei giovani avvocati e praticanti senza lavoro. Sul che abbiamo già preannunciato una nostra inchiesta complessiva, dopo avere pubblicato denunce documentate di alcuni casi eclatanti. Considerando inoltre che per parte dei casi già in indagine l’imposizione dell’amministratore di sostegno risulta avvenuta partendo da un T.s.o., il Trattamento sanitario obbligatorio ordinato dal sindaco. Che cos’è il Trattamento sanitario obbligatorio L’ordinamento italiano (leggi 180/1978. 833/78 artt. 33-35) consente infatti che in casi di particolare urgenza e necessità, su ordine del sindaco dietro richiesta motivata di un medico, una persona ritenuta o dichiarata malata di mente possa venire con la forza pubblica prelevata, ricoverata per sette giorni prolungabili e sottoposta a dei trattamenti sanitari che essa rifiuta o sono altrimenti impossibili. Sono norme che hanno sostituito il vecchio ricovero coatto di difesa sociale (legge 36/1904), privilegiando invece formalmente la salute della persona debole. Ma nella pratica è cambiato ben poco, e gli abusi non sono difficili se il sindaco firma l’ordinanza di T.S.O. dando corso automatico alla richiesta medica, senza esercitare doverosamente tutti controlli sulla sussistenza effettiva delle condizioni di legge. Tanto più necessari per un atto che priva, anche temporaneamente, la persona di libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Quest’automaticità, che risulta purtroppo e pericolosamente prassi ordinaria quasi dappertutto, risulta qui documentata anche nei casi sopra detti. Come abbiamo già scritto mettendone in evidenza le responsabilità morali, civili e penali, senza che i sindaci ed il servizio sanitario pubblico della provincia di Trieste mostrassero di prenderne nota. Ma ora dovranno farlo, e subito. Una sentenza chiarificatrice recentissima È intervenuta infatti una sentenza chiarificatrice recentissima del Tribunale di Pordenone (n. 893/10, depositata il 21 ottobre) in una causa civile di risarcimento promossa da una danneggiata, ex infermiera, col patrocinio del capace e tenace avvocato pordenonese Gianni Massanzana. Che ha ottenuto la condanna del sindaco sospeso di Azzano Decimo, Enzo Bortolotto, e del Ministero della Salute a rifondere i danni – impregiudicate le conseguenze penali – per avere nel 2005 il sindaco emesso, e due psichiatri dell’Ospedale di Sacile richiesto, un’ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio senza che ve ne fossero i presupposti di legge. Massanzana aveva già ottenuto nel 2005 dallo stesso Tribunale l’annullamento tempestivo dell’ordinanza per difetto di motivazione, liberando così in soli 17 giorni la persona indebitamente trattenuta in ospedale con la forza. Su richiesta dei due psichiatri ed ordine del sindaco, era stata infatti prelevata da casa coi carabinieri e tradotta – di fatto reclusa – nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Il tutto senza nemmeno visita medica ed in relazione ad una controversia coi vicini di casa (la vicenda è simile ad una triestina di cui abbiamo pubblicato recentemente la denuncia, e che è prossima in questi giorni a decisione liberatoria del Tribunale di Trieste). La sentenza di Pordenone chiarisce in particolare che “il provvedimento disponente il trattamento sanitario obbligatorio costituisce un provvedimento restrittivo della libertà personale e pertanto necessita di una puntuale motivazione”, per la quale non sono sufficienti il richiamo stereotipato alle norme di legge e la dichiarazione dell’esistenza di un disagio psichico senza fornire riferimenti precisi al caso concreto (da parte dei medici richiedenti: anamnesi ed esatta documentazione delle sintomatologìe, degli accertamenti sanitari specifici effettuati e dell’impossibilità di alternative). Il giudice sottolinea infatti che la legge vieta che il Trattamento sanitario obbligatorio venga disposto in presenza di tali carenze di motivazione, senza accertamenti medici nell’immediatezza della proposta, e che esso venga proposto e convalidato senza che la persona sia stata posta nelle condizioni di scegliere terapie alternative. E rileva che pertanto “il Sindaco, nell’emettere il provvedimento, è tenuto a verificare che dalla certificazione medica allegata risultino tutti i requisiti previsti dalla legge, nell’ambito dell’esercizio di un controllo non solo formale che si limita ad un mero richiamo delle attestazioni sanitarie” le quali altrimenti costituiscono mera motivazione apparente (come tale insufficiente, illegittima ed illecita). Quanto alla valutazione dei danni, vengono considerati “l’impatto del trattamento sofferto, come soggettivamente percepito, e il discredito che il T.s.o. socialmente provocò sulla sfera della dignità” della persona ingiustamente colpita, tenendo conto anche “della durata del trattamento sanitario obbligatorio, delle modalità della restrizione e degli altri effetti pregiudizievoli personali e familiari scaturiti dalla misura”. E si precisa che la lesione della sfera soggettiva consiste nella “privazione del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere o meno di sottoporsi ad un trattamento sanitario”. Il valore della sentenza Si tratta dunque di una pronuncia fondamentale per difendere una quantità di persone, soprattutto anziane, esposte in situazioni deboli ad analoghi, frequenti abusi del T.s.o. Ma anche per difenderle da imposizioni di amministratori di sostegno arbitrarie perché fondate su T.s.o immotivati, o su richieste mediche analogamente carenti. Dato che le Autorità giudiziarie competenti, quella tutelare ed il pubblico ministero, hanno anch’esse, per i medesimi motivi ed a maggior ragione, il dovere di verificarne non solo formalmente le motivazioni, sia in atti che con adeguati riscontri peritali ed in contraddittorio. Come invece al Tribunale Trieste risulta purtroppo non sempre accaduto, anche se abbiamo motivo di ritenere che da alcuni mesi si stia operando per ricondurre questa situazione incresciosa sui giusti binari. P.G.P
(Il Tuono n. 28 del 4.12.10, p. 7) L’amministratrice non mi ha ancora dato i soldi per le cure necessarie (19.a lettera pubblicata). In data 21 novembre sono stata presa da un malore e il giorno 23 portata all’ospedale di Cattinara dove mi sono stati diagnosticati: uno scompenso cardiaco, dolori addominali causati da cisti pancreatiche e tra l’altro un’iperglicemia dovuta a diabete. Ho rifiutato il ricovero, anche seguendo i consigli di alcuni medici, poiché desidero farmi curare presso la clinica privata Salus. Mi sono stati prescritti alcuni prelievi del sangue per il controllo frequente della glicemia e altri disturbi, ma la mia amministratrice di sostegno la dottoressa Barbara Fontanot non mi ha ancora dato i MIEI soldi spettanti per le cure prescritte. Chiedo ai lettori di questo giornale sempre pronto a dare voce ai bisognosi se i miei soldi sono stati immobilizzati per pagarmi le esequie quando le mie malattie degenereranno. Alba Giacomelli
L’amministratore scialacqua i nostri soldi e li lesina a noi (20.a lettera pubblicata). Mio marito ha assunto una ragazza universitaria che si era offerta come pulitrice a un prezzo molto minore di quelle della cooperativa scelta dal nostro amministratore di sostegno che, invece, ha deciso di sua volontà di licenziare la ragazza senza pagarle (con i nostri soldi che lui ha bloccato e amministra a suo piacere) il periodo che ha lavorato, costringendo mio marito a pagarla togliendo il dovuto dai 600 euro mensili in due che riceviamo da lui come disponibilità per le nostre spese e per il cibo rimanendo così con più o meno 400 euro per mangiare, pulizia e vestiti. Ora considerando che questo mese ha 30 giorni questo significherebbe che ognuno di noi due si dovrebbe pagare i due pasti giornalieri e le spese ordinarie con 6,60 euro al giorno circa, cosa quasi impossibile. Visto che prima dell’arrivo dell’amministratore di sostegno percepivamo circa 2.450 euro di pensione in due al mese, chiederei che almeno paghi lui con i nostri soldi la pulitrice senza costringerci a pagarla noi con i miseri 600 euro che ci vengono dati per vivere in due al mese. Gradirei che inoltre agisse tenendo conto delle nostre volontà e non di testa sua come se fosse diventato non l’amministratore ma il padrone di tutto. Anche se siamo una coppia di pensionati autosufficienti e abitiamo in un appartamento di circa 100 metri quadrati, ciononostante il nostro amministratore di sostegno ha deciso di aumentare le ore della pulizia giornaliera da due a sei (per sei giorni alla settimana), mettendoci in conto tale costo assurdo. Già dal terzo giorno ci siamo trovati davanti al problema di non aver più niente da far fare alla ragazza costretta a stare a casa nostra a bruciare il suo tempo sicuramente più prezioso altrove. Un altro problema è dato dalla presenza di un’estranea a casa nostra che non ci permette né di uscire né di riposare a nostro piacimento. Alle nostre lamentele l’amministratore è riuscito a risponderci solo dandoci un foglio con gli orari delle pulizie fino a tutto marzo. Il nostro reale fabbisogno è di due ore al giorno di pulizie più un’ora per eventualmente aiutarci a fare la spesa. Vorremmo sapere fino a quando continuerà questo assurdo sistema che porta il nostro amministratore a fare di noi ciò che vuole indipendentemente dalla nostra volontà e a disporre, scialacquando, dei nostri beni. Silvia Marasso Rizzi
- Queste sono soltanto due delle lettere che ci segnalano disfunzioni o abusi gravi e documentati nella gestione delle amministrazioni di sostegno a Trieste. Come già scritto, sono in corso indagini delle sedi giudiziarie competenti. Ed almeno questo dovrebbe consigliare i responsabili a comportamenti più consoni al mandato giudiziale che esercitano.
(Il Tuono n. 31 del 25.12.10, prima pagina e p. 4) TRIESTE: APPELLO-DENUNCIA DOCUMENTATO DELLA RETE PER LA LEGALITÀ Accertamenti sul sequestro istituzionale di una bambina Vicenda a assurda e straziante su cui è intervenuta anche Margherita Hack. Abbiamo ricevuto dalle organizzazioni firmatarie quest’appello-denuncia pubblico, che per i suoi contenuti pubblichiamo doverosamente integrale e con priorità assoluta, associandoci alla loro richiesta di indagini e provvedimenti immediati da parte di tutte le Autorità competenti. La scorsa settimana Il Tuono ha dedicato due pagine centrali ai minori: “L’Unicef a Trieste” e “ANFAA (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) al servizio dei minori”. “In un riquadro compare anche un dato numerico: “Sono 2.000 i minori seguiti dai servizi sociali di Trieste”. Molti penseranno alla meritoria opera dei servizi sociali sul nostro territorio. Altri magari conoscono i dati Istat sull’argomento, e possono trovare poco lusinghiero sapere che a Trieste la percentuale del numero di minori affidati alle istituzioni è quasi pari a quello di tutta l’Italia: (246,5 su 263,6 ogni 100 mila abitanti). Altri ancora, infine, possono trovare preoccupante l’informazione conoscendo aspetti sconvolgenti di alcune sottrazioni di minori, bambini, ai genitori, e della sorte che può essere loro riservata. Riteniamo perciò doveroso denunciarne un caso limite, salvaguardando l’identità dei protagonisti con l’evitare qualsiasi dato che possa farli identificare dal pubblico, anche se sono ovviamente ben noti ai responsabili della vicenda. Dalla serenità all’orrore Una mamma ed un papà in attesa di una bambina decidono di preparare una casa che sia la più adatta per farla crescere sana e serena, vicino al mare, in zona tranquilla. Genitori ideali, ambiente ideale. Tanto affetto e tanta salute, la bambina nasce felicemente e cresce che è un incanto. Ma ad otto mesi, ancora in allattamento al seno, succede un’apocalisse: mamma e bambina con un pretesto vengono praticamente sequestrate. Da chi? Da uno psicologo coadiuvato dai vigili urbani. Il marito ignaro viene informato con una telefonata sul lavoro e si precipita dove trattengono la moglie e la figlia. Un ambiente che ospita madri in condizioni di disagio. A sera rimandano ambedue i genitori a casa, ma trattengono la bambina, chiudono le porte e nessuno risponde alle loro suppliche disperate. Ed inizia una tremenda via crucis. Dopo due giorni richiamano urgentemente la mamma perché la bambina, che si nutriva solo al seno, sta morendo di fame. Internano così la mamma e la bambina, portate via dalla loro bella casa, in uno di quei tuguri di cui le istituzioni dispongono. Il marito e sua madre cercano di alleviare le condizioni della mamma della bambina che deve allattare, ma non è nemmeno permesso consegnarle cibi e bevande. Intanto alla mamma i responsabili vogliono però imporre psicofarmaci, nonostante l’allattamento. Poco dopo viene interdetta e allontanata dalla figlia. Anche il papà perde la patria potestà. Perché? Vogliono obbligarlo a riconoscere che la moglie è gravemente malata, ma lui non vuole e non può farlo perché non è vero. Numerosi soci del nostro Comitato triestino per la legalità ed i diritti fondamentali, ed altre persone amiche, compresa Margherita Hack, sono a conoscenza delle successive vicende che hanno privato la bambina del bene supremo dei genitori, della famiglia e della casa in quest’età tenerissima. Non si sa invece quali e quante persone estranee si sono intanto avvicendate nella cura di questa bambina, in che modo e con quali conseguenze su di lei. È da tre anni che i genitori, costretti dapprima a brevi visite cosiddette protette alla figlia, in presenza di persone per lo più sconosciute in ambienti estranei alla famiglia, non possono vedere la loro piccola, che cresce senza di loro. Anche alla nonna è stato vietato di esercitare il naturale rapporto affettivo con la nipotina. Non risultano motivazioni valide. Ma nel leggere gli atti relativi del Tribunale di Trieste si ha l’impressione che ci sia soltanto un mostruoso equivoco kafkiano, e che non si tratti nemmeno delle persone che conosciamo. Chiunque conosce i genitori della bambina non può infatti riconoscerli nelle descrizioni fornite dai servizi sociali e riportate nei documenti del Tribunale. È insensato trovare in quella mamma e in quel papà carenze affettive, o addirittura difficoltà economiche. E chi li conosce non può credere a una qualsiasi forma di pericolosità conoscendone l’attitudine affettiva ed ai normali rapporti con le persone, l’intelligenza e il buon livello di cultura, la buona educazione, la gentilezza delle maniere. Non c’è inoltre negli atti alcuna documentazione medica tale che possa giustificare questi provvedimenti di natura eccezionale e di estrema gravità, soprattutto per le conseguenze già subite dalla bambina e tuttora in atto, ma anche da tutta la famiglia. Negli atti le descrizioni della supposta malattia della mamma della bambina non risultano supportate da niente, se non da chiacchiere di persone sprovvedute senza alcuna qualifica o da uno psicologo e da una assistente sociale, nessuno dei quali è abilitato a diagnosticare patologie, e nemmeno a svolgere attività mediche. Sembrano piuttosto maldicenze paesane espresse con parole assunte da letture mal digerite di vecchi testi di psicologia. Mentre, all’esatto contrario, la madre della bambina è stata riconosciuta mentalmente integra da un’importante specialista della nostra regione, che ha raccomandato l’immediato ricongiungimento della bambina alla mamma. Perché per quei nostri magistrati, a fronte dei suddetti pareri non specialistici tuttavìa accreditati, perizie specialistiche favorevoli sembrano non avere invece valore, o quantomeno non hanno avuto seguito adeguato e tempestivo? Solo uno psichiatra di un discusso Centro di salute mentale risulta avere avuto un ruolo decisivo nello screditare la mamma della bambina. Ma è entrato in scena solo una settimana dopo il sequestro, cioè a fatto compiuto. Gli è stato poi richiesto più volte di stendere una diagnosi, ma non l’ha mai fatta. Ed ha infine rifiutato ogni responsabilità dicendo alla mamma di rivolgersi ai Servizi sociali. Una spirale d’inferno. Cosa che la signora ha fatto. Ma l’assistente sociale la cui azione ha causato tutto ha risposto che le decisioni le prendono i magistrati. Ed i magistrati? Le hanno detto che loro si basano sulle relazioni dei servizi sociali. In una vera spirale assurda d’inferno, dunque, tanto più inammissibile sulla pelle di una bambina piccolissima e dei suoi genitori, cui viene così impedito di essere una famiglia sana e normale. Ed intanto sono passati quattro anni! Cosa è successo in quattro anni, mentre la bambina cresce privata forzosamente dei suoi genitori? Avvocati, psicologi, i quiz degli psicologi, udienze in tribunale. Finché, nel giugno 2009, la Cassazione annulla e fa rifare tutto: uno schiaffo clamoroso al Tribunale, come ci ha spiegato un insigne giurista. La bambina viene allora restituita subito alla mamma? No, riprende il girone infernale: gli psicologi, i quiz, gli avvocati, le udienze in tribunale. E per quale reato imputabile? Nessuno. Eppure dopo l’intervento della Cassazione i genitori sono stati convocati già quattro volte dal Tribunale, che è anche stracarico di lavoro, sicché ad ogni rimescolamento delle carte può passare un anno, nessuno sa più bene di cosa si tratta e, ancora peggio, nessuno sa più nemmeno dove si trova la bambina. Sembra non interessi davvero a nessuno: discutono sulle loro carte. Quei bravissimi genitori avevano preparato una casa fuori città, sul mare, per quella figlia desiderata ed amatissima. Finiranno col dover vendere la casa per pagare gli avvocati, e con l’ammalarsi e morire di dolore. Cosa hanno dunque che non va? Niente: non c’è nessuna diagnosi se non a loro favore, non c’è niente; ma avevano persino costretto la mamma a psicofarmaci, e volevano farglieli assumere anche in allattamento.
L’indifferenza dei corresponsabili. Un anno fa in un convegno pubblico sui diritti dei minori il presidente del Tribunale dei minori non ha permesso che si toccasse questo caso: “C’è un procedimento in corso”. Che vuol dire? Non si deve intervenire proprio quando un procedimento è in corso? O bisogna attendere inerti che si compiano errori giudiziari così nocivi e mostruosi? Occorrerebbe piuttosto spiegare a noi comuni mortali perché una bambina piccolissima, negli anni formativi più delicati e bisognosi di affetto, cure e sicurezze da parte dei genitori, può essere condannata ingiustamente all’ergastolo dell’esserne privata, sequestrandola e recludendola altrove in mano ad estranei, e perché dei genitori possono essere condannati ingiustamente al supplizio atroce della sottrazione della figlia così piccola, e nessuno dovrebbe dire una parola. Al convegno pubblico c’erano anche due persone “targate” Unicef, contattate sul posto, ma si sono allontanate senza mostrare alcun interesse. C’è un tutore regionale dei minori, che era anche presidente del consiglio regionale. Ma non risponde. Eppure anche lui partecipava agli eventi pubblici sui diritti dei minori. Mentre la sempre coraggiosa Margherita Hack, che conosce bene il papà della bambina ed i fatti, ha lanciato un appello in video che si trova su Youtube ed in Aipsimed. È già passato più di un anno, in cui le televisioni si sono contese la presenza di Margherita, ma non per questo caso. Lo strazio della piccola, le conseguenze psicologiche che ne può derivare nell’età formativa più delicata, e quello dei suoi genitori, pare continuino dunque a non interessare, incredibilmente, a nessuno, nemmeno a chi ha l’autorità ed il dovere di rimediare. Bambina e genitori vengono trattati, di fatto e da anni, come se fossero pratiche cartacee, cose inerti, peggio che animali. Eppure è una vicenda ormai nota, ed alcuni “addetti ai lavori” ne parlavano in giro già negli anni passati. Anche il celebre pediatra Andolina sa tutto da anni, ma sembra avere maggiore interesse, ovviamente lodevole, per i bambini e genitori di altri Paesi che per questi di casa nostra. Sanno tutto anche il Sindaco, massima autorità sanitaria del Comune della provincia di Trieste dove la vicenda si svolge, ed i consiglieri comunali. Ma cosa fanno per aiutare la bambina ed i genitori? E cosa fanno le autorità sanitarie regionali? E quelle di controllo e mediazione dello Stato, rappresentate dal Prefetto? Questa è una denuncia pubblica. Alcuni soci del nostro Comitato per la Legalità ed i Diritti Fondamentali si occupano invece da tempo del caso e ritengono, alla luce obiettiva dei fatti a loro conoscenza e dei documenti esaminati, che si tratti di una situazione scandalosa, delittuosa ed intollerabile dal punto di vista umano, ed inammissibile da quello medico e giudiziario. Chiedono perciò tramite questo giornale, con valore di pubblico esposto, l’intervento immediato di tutte le Autorità competenti ad accertare quanto più rapidamente, attraverso l’esame degli stessi atti giudiziari, la verità dei fatti qui segnalati. E chiedono ad esse di prendere doverosamente di conseguenza i necessari provvedimenti tempestivi, disponendo per prima cosa l’immediata riconsegna della bambina ai genitori. Proprio questi giorni tante famiglie amano allestire il presepe con la figura centrale del Bambino, frequentare le funzioni religiose del Natale, o comunque dedicarsi maggiormente agli affetti familiari ed a buoni pensieri ed azioni, mentre chi non ha la fortuna di poter vivere queste atmosfere e sentimenti ne sente più vivo il bisogno o la nostalgìa. Noi denunciamo quindi pubblicamente anche alla sensibilità di tutti loro questo caso straziante, invitando tutte le persone di cuore alla solidarietà con la bambina così ingiustamente sottratta ancora neonata alla famiglia, che presto farà cinque anni senza che le abbiano mai concesso di trascorrere un Natale con la mamma e il papà. E sta addirittura rischiando di esserne privata definitivamente nonostante tutti i loro sforzi e le loro sofferenze per riaverla con sé secondo amore, natura e giustizia. Rete per la Legalità e per i Diritti fondamentali: Comitato per la Legalità Trieste Extreme Democratic Appeal Greenaction Transnational DI.A.PSI.- Roma Associazione Mondiale Amici, Familiari e Malati Mentali (fondata a Rio de Janeiro) Associazione Nazionale Pensionati - sezione di Trieste
[Nota della Voce di Trieste: il successivo numero 32 del settimanale Il Tuono non potè uscire perché il 7 gennaio 2012 l’editore, Daniele Pertot, ne bloccò d’imperio la stampa e ne cessò le pubblicazioni come giornale d’inchiesta, espellendo direttore e redazione. I quali hanno perciò fondato autonomamente La Voce di Trieste come giornale d’inchiesta indipendente, prima soltanto in rete e poi anche come periodico quindicinale a stampa, dove hanno ripreso questa e le altre campagna d’informazione e denuncia.]
Voce n. 8, 22 giugno 2012, pp 1 e 3. Allarme anziani sulle amministrazioni di sostegno: indagini in corso Denunciati abusi e gravi sofferenze degli assistiti. L’anno scorso ha fatto scandalo anche a livello nazionale ed all’estero il caso dell’abbandono di alcuni cavalli da corsa nelle scuderie dell’ippodromo di Trieste in condizioni di degrado ed inedia tali che uno ne era morto. La proprietaria avrebbe smesso di pagarne il mantenimento all’addetto che avrebbe perciò cessato di prendersene cura, e nessuno di coloro che da mesi vedevano o sapevano è intervenuto tempestivamente. Sulla stampa era poi comparsa la notizia la Procura avrebbe iscritto proprietaria ed addetto nel registro degli indagati. Ed il caso si sarebbe chiuso lì, a livello di cronaca, se non avesse mostrato implicazioni diverse e ben più ampie. Domande senza risposta alla Procura Era pure, infatti, notizia pubblica che i beni della proprietaria, cavalli inclusi, erano affidati ad un amministratore. Che come tale ne disponeva lui, rispondendone civilmente e penalmente. E se non era nominato dalla proprietaria, ma imposto dal Tribunale come amministratore “di sostegno” aveva anche il ruolo e gli obblighi (in caso di reati le aggravanti) del pubblico ufficiale, ed il suo operato era assoggettato ai controlli di legge da parte degli stessi Tribunale e Procura, che vi hanno perciò delle corresponsabilità. Le domande d’interesse pubblico che ponemmo quindi doverosamente come giornalisti non furono sulla sorte ormai definita dei poveri cavalli, ma se l’amministratore in questione fosse ordinario o giudiziario, se la Procura abbia provveduto ad iscrivere tra gli indagati anche lui, ed in caso contrario perché no. Non avendo però accesso diretto agli atti relativi fummo costretti a rivolgerle alla Procura stessa, rimettendoci alle risposte che avrebbe ritenuto o meno di poter dare. Ma non ne arrivò mai nessuna. Chi era l’amministratore La legittimità delle nostre domande venne rafforzata dall’avvenuta pubblicazione del nome dell’amministratore, che risultò essere una commercialista e figura chiave notoria dell’organizzazione degli amministratori di sostegno a Trieste, e cofondatrice, nonché dirigente dell’apposita associazione “AsSostegno” assieme a Paolo Cendon, padre della legge specifica, alla giudice ‘specializzata’ Gloria Carlesso e ad altri dodici operatori del settore. E non si trattava di questione di poco conto, perché l’istituto dell’amministrazione di sostegno è nato proprio a Trieste, dove ne sono stati anche segnalati e denunciati abusi gravi proprio durante l’ora cessata gestione Carlesso. Sui quali sono in corso dal 2010 indagini di sedi giudiziarie esterne, e noi siamo stati sinora i soli ad avviare, col precedente settimanale a stampa, una delle nostre campagne d’inchiesta giornalistiche scomode, poi troncata improvvisamente dall’editore con la sospensione e l’azzeramento del giornale. Gli abusi nelle amministrazioni di sostegno Anche il caso paradossale dei cavalli poteva dunque inserirsi nello schema specifico già individuato su basi documentali attraverso le nostre tranches d’indagine precedenti. In sintesi, l’amministrazione di sostegno è nata per evitare la privazione radicale di diritti civili che si verifica nell’interdizione e nella curatela, assegnando invece alla persona in difficoltà non gravi un ‘consigliere’ che la assista nelle scelte amministrative. Ma per far funzionare correttamente e sotto controllo un istituto di tale delicatezza occorrerebbe dotarlo di una quantità di magistrati, funzionari ed amministratori con attitudini e formazione specialistica adeguate. Invece il tutto è stato scaricato, come al solito utopisticamente, su strutture giudiziarie sotto organico e già sovraccariche di lavoro, riducendo formazione e valutazione attitudinale a corsi palesemente insufficienti. E così, nel concreto, a Trieste oltre ad una proliferazione esorbitante di amministrazioni di sostegno risulta essersene innescata una serie particolare: decise su richiesta di operatori sanitari senza controperizia, sottoponendo gli amministrati a privazioni dei diritti civili simili a quelle dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge, ed affidandoli abitualmente ad un gruppo particolare di giovani praticanti, neoavvocati e commercialisti, pagati con compensi non irrilevanti prelevati dalle risorse economiche dei loro stessi assistiti. Ed appoggiati dal solito quotidiano locale Il Piccolo. Una sorta di piccola industria della tutela, in crescita rapida che secondo dichiarazioni entusiastiche dei promotori (la predetta giudice Carlesso) dovrebbe raggiungere addirittura i 25.000 amministrati solo a Trieste. Il 13% della popolazione dunque, e circa metà degli anziani. Per i quali l’allarme è perciò concreto e sempre più diffuso, portando in luce situazioni veramente abnormi. Nei casi d’abuso documentati e già denunciati che abbiamo esaminato risulta persino che proteste ed opposizioni di parenti siano state neutralizzate imponendo anche a loro un amministratore di sostegno (anche lo stesso), e che i periti indipendenti e persino l’amministratore e la giudice responsabili ne abbiano riconosciuta e dichiarata infine immotivata ab origine l’imposizione. Ne possiamo anche pubblicare i documenti qui a stampa ed in rete. E questo non accade a chi non possiede nulla, ma a persone che hanno qualche immobile o rendita anche modesta, e nel frattempo si sono trovate espropriate d’imperio e per anni del diritto di disporre dei propri denari, beni, e addirittura della corrispondenza, e ridotte a vivere con somme insufficienti anche per mangiare, mentre loro immobili venivano spesso venduti contro la loro volontà, a trattativa privata e prezzi discutibili, senza stima né asta giudiziali. Un incubo, insomma, ed una violenza concreta imposti sistematicamente soprattutto a persone anziane o comunque in difficoltà a difendersi, spesso terrorizzate dal potere dell’amministratore e dal timore del Tribunale. Ed è anche un pericolo che rimane incombente su moltissime altre come loro, se non si chiedono pubblicamente e con energìa agli organi giudiziari revisioni e correzioni di criteri concrete e tempestive. Delle quali non abbiamo purtroppo ancora notizia malgrado le nostre precedenti inchieste e denunce stampa dal giugno scorso. Stiamo perciò preparando la pubblicazione di un’inchiesta più completa e dettagliata. E non rimarremo più in attesa delle risposte istituzionali richieste. Paolo G. Parovel
Voce n. 9 – 14 luglio 2012, pp. 1 e 3. TROPPI TABÙ MEDICO-SOCIALI E GIURIDICI SUGLI ABUSI. Psichiatria giudiziaria, tutele e amministrazioni di sostegno Dove sta il nucleo del problema e come difendersi. Le drammatiche violazioni di diritti umani che, come abbiamo segnalato sullo scorso numero della Voce, vengono segnalate in buona parte d’Italia, ed in particolare a Trieste, nell’applicazione delle norme sull’amministrazione di sostegno non spuntano dal nulla. L’impianto giuridico imperfetto di questo strumento ed i suoi abusi sono infatti la conseguenza più recente di alcune distorsioni della gestione pubblica della sanità mentale vistose ma sottaciute, che stanno vanificando significati ed esiti della vantata riforma della psichiatria pubblica. Quella avviata negli dalla fine degli anni ‘70 a Gorizia e Trieste da Franco Basaglia e dal suo staff proprio in nome dei diritti umani e delle libertà fondamentali, e recepita perciò a modello anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La riforma, concretata con la leggequadro n.180 del 1978, aveva imposto la chiusura dei manicomi, regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio su ordinanza del sindaco con vaglio successivo del giudice tutelare, ed istituito i servizi di igiene mentale territoriali. Doveva garantire, in sostanza: il diritto ad assistenze e cure psichiatriche nel rispetto della personalità e della dignità umane; il diritto alla libertà delle persone prima rinchiuse senza motivi o necessità clinici in strutture psichiatriche di concezione carceraria; l’assistenza medica e sociale esterna del disagio psichico compatibile; l’intervento sulle cause sociali di disagio psichico. Ma non tutto funziona come dovrebbe, anche a fronte di successi indubitabili, e sui problemi più gravi si è instaurata purtroppo una sorta di tabù per cui non si dovrebbe scriverne né parlarne ufficialmente per non danneggiare la riforma stessa. A Trieste è accaduto di recente che ad un incontro pubblico sostanzialmente celebrativo un dissidente intervenuto nel dibattito con ottime ragioni, anche se con toni comprensibilmente accesi, è stato letteralmente e brutalmente zittito ed espulso. Sono dunque questi questi comportamenti censori repressivi a minacciare i significati positivi della riforma, accentuandone quelli negativi a spese delle non poche persone che ne sono vittime. Il tabù va quindi, terapeuticamente per tutti, spezzato. Senza estremismi, ma anche senza compromessi ruffiani. Teoria e pratica Il limite attuativo degli schemi astratti è sempre quello dei mezzi pratici, delle debolezze umane e delle cognizioni scientifiche, e sotto questo aspetto la psichiatria è per sua stessa natura la disciplina medica più empirica, disordinata, incerta e confusa. A fronte dei risultati positivi si producono perciò anche fallimenti e distorsioni. Come quando la denuncia della vecchia psichiatrizzazione ideologica del disagio sociale viene rovesciata ed estremizzata in negazione ideologica altrettanto assurda delle patologie cliniche, e nella loro conseguente non-cura. Sostituendo perciò sistematicamente l’abominevole contenzione fisica con la sedazione farmacologica (‘camicia di forza chimica’) e trascurando la necessaria psicoterapia personalizzata fatta di competenza, attenzione, empatia e parola. E rilasciando in queste condizioni anche di malati psichici gravi e realmente pericolosi a sé ed agli altri, con esiti non meno dolorosi e delittuosi di quelli della reclusione manicomiale. La fabbrica dei pazienti-clienti Le nuove strutture esterne della sanità mentale hanno finito inoltre per manifestare la tendenza ad arrogarsi il diritto di psichiatrizzare la società per intero condizionandovi, giudicando e controllando le scelte individuali e collettive di vita e di pensiero delle persone secondo un nuovo relativismo vincolato alla sperimentazione psichiatrica. E trattando come disagio mentale anche le difficoltà ed oscillazioni normali della vita psichica e spirituale quotidiana con le quali ognuno deve imparare a confrontarsi per trarne forza ed esperienza di vita. Il risultato é quello di deresponsabilizzare la persona agganciandola ad una dipendenza pseudo-psichiatrica istituzionalizzata e consolidata con l’assuefazione a sedativi, in un ciclo perverso dove la struttura si espande e giustifica nella società creandosi gli assistiti, assorbe denaro pubblico in proporzione ed utilizza quest’accumulo di potere economico ed elettorale per ottenere protezioni politiche, mediatiche, giudiziarie. E per costruire attraverso di esse un meccanismo sociale di repressione delle critiche. Autoalimentandosi, in sostanza, come una fabbrica di pazienti-clienti psichiatrici che così tradisce in concreto tutti gli ideali e le aspettative della riforma di cui continua ad ammantarsi. Ideologizzazioni dannose Nel concreto politico italiano è accaduto inoltre che l’ideologizzazione iniziale a sinistra della riforma psichiatrica, nei climi estremizzanti degli anni Sessanta e Settanta, le abbia scatenato contro le ostilità della destra. Generando a tutt’oggi diatribe irresponsabili fra una sinistra che santifica il sistema rifiutando di ammetterne i troppi difetti, ed una destra che lo demonizza rifiutando di ammetterne i molti successi. E praticando così ambedue uno sfruttamento politico rispettivamente dei voti dei beneficati e delle vittime, che al livello reale delle persone in difficoltà danneggia tutti senza risolvere nulla. Occorre quindi ritornare direttamente all’essenza del problema, che rimane quella fondamentale del rispetto dei diritti umani L’essenza del problema è il diritto di difesa Tutti sanno che nel caso di sospetta commissione di reati non è lecito ritenere colpevole la persona e punirla con limitazioni durevoli del diritto a disporre della propria vita e dei propri beni se e finché la colpevolezza non sia definitivamente provata attraverso equo giudizio. E che per essere equo il giudizio deve offrire anzitutto in ogni sua sede e grado piene garanzie di difesa e di terzietà dei giudici. Ad analoga e maggior ragione dunque in uno Stato di diritto non si deve poter decretare la privazione giudiziaria di quei diritti fondamentali per sospetta malattia mentale senza che ne siano accertate con garanzie di pari completezza e rigore la sussistenza effettiva e le necessità obiettive conseguenti. Sia nella prassi psichiatrica italiana pre-riforma che in quella riformata i provvedimenti restrittivi delle libertà personali potevano e possono venire invece assunti, anche all’insaputa dei destinatari, direttamente sulla base di attestazioni dello stato di malattia mentale fornite da operatori sanitari o sociali al giudice o sindaco tecnicamente imperiti. Che come tali si limitano a ratificarli in fiducia, e rimangono anche i destinatari e decisori di eventuali ricorsi o reclami contro i propri stessi provvedimenti. Mancano cioè le garanzie costituzionali primarie dell’equo giudizio: la nomina obbligatoria di un difensore di fiducia o d’ufficio e di consulenti tecnici di parte (ctp), il contraddittorio pubblico ed il ricorso a giudice terzo. Tutte le altre distorsioni possibili nei provvedimenti sono subordinate e conseguenti a questa clamorosa violazione dei diritti umani garantiti univocamente dall’ordinamento italiano, comunitario europeo ed internazionale. E perciò reclamabile a tutti questi livelli, trattandosi di diritti insopprimibili ed irrinunciabili, poiché non vi è altra garanzia concreta possibile della correttezza, competenza ed affidabilità dell’agire degli operatori sanitari, sociali e giudiziari coinvolti nella decisione. Che non possono certo essere presunte in materia di manipolazione della vita e dei beni di soggetti deboli. Tantopiù in presenza notoria di una casistica di abusi specifici e del quadro sopra delineato di devianze dell’assistenza psichiatrica. L’interdizione e l’inabilitazione, istituti classici sperimentati di tutela del soggetto totalmente o parzialmente incapace per infermità mentale di provvedere personalmente alle proprie necessità, offrono almeno migliori garanzie istruttorie e prevedono maggiori controlli anche sull’operato rispettivamente dei tutori e curatori nominati dall’autorità giudiziaria. La privazione o compressione illegittima del diritto di difesa si accentua invece praticamente fuori controllo nei provvedimenti legati alla riforma psichiatrica ed alle sue carenze. A cominciare dal Trattamento sanitario obbligatorio, Tso, previsto dalla legge 180/78, col quale il sindaco dispone su segnalazione il ricovero forzato di un soggetto (che viene così catturato, rinchiuso e sottoposto a sedazione ed altro anche contro la propria volontà). Anche se una provvida sentenza ottenuta nel 2010 dall’avvocato pordenonese Gianni Massanzana ha perciò stabilito che il sindaco non possa firmare l’ordinanza di ricovero sulla sola base della richiesta specialistica senza procedere ad una verifica tecnica autonoma della sua veridicità. Difetti evidenti della legge 6/2004 Non così ancora nell’amministrazione di sostegno, ideata ed introdotta dagli stessi ambienti della riforma psichiatrica nel codice civile con la legge n. 6/2004 presentandola come una forma di tutela giudiziaria più blanda, rispettosa ed elastica dell’interdizione e dell’inabilitazione. Che come tale potrebbe funzionare, ed in molti casi funziona, benissimo se la legge non contenesse delle trappole logico-giuridiche che consentono anche di utilizzarla brutalmente come strumento di interdizione impropria su qualsiasi soggetto debole ed in violazione radicale dei diritti di difesa e dell’equità del giudizio. La norma (art. 404 c.c.) estende infatti smisuratamente ed al di là dell’infermità mentale le categorie di persone sottoponibili al provvedimento, perché stabilisce che il giudice tutelare possa sottoporre ad Amministratore di sostegno, su richiesta o segnalazione, la persona afflitta da una “infermità o menomazione fisica o psichica” che la renda “anche” parzialmente e temporaneamente impossibile provvedere ai suoi interessi. Una formula che può dunque sembrare adeguata ed elegante, ma è invece così incautamente ed antigiurdicamente generica da poter coprire casi che vanno dall’estremo dell’infermità psichica con incapacità permanente totale (propria dell’interdizione) o parziale (propria dell’inabilitazione) sino al semplice stress, alla comune depressione od al banale impedimento fisico temporaneo per una qualsiasi malattia od esito d’incidente che impediscano di far la spesa e pagare le bollette. E non offre infatti la minima certezza giuridica sulla tipologia ed il grado dell’infermità e dell’incapacità necessarie e sufficienti a limitare le libertà della persona (perché di questo si tratta) sottoponendone la vita ed i beni ad un’amministrazione di sostegno. Che può diventare così una forma di limitazione o privazione dei diritti umani attivabile per legge, e su semplice segnalazione ritenuta credibile dal giudice fuori da rituale contraddittorio, a peso di qualsiasi persona che possieda beni mobili od immobili trovandosi in difficoltà reali o presunte, ed anche temporanee, ad amministrarli. La tipologia degli abusi Nel concreto, quello che sta perciò documentatamente accadendo a Trieste ed altrove in Italia in maniera episodica o sistematica è che: vengono sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi; il provvedimento viene assunto contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate di alcuni operatori sociosanitari; il tribunale non affida il ruolo di amministratore di sostegno a parenti o persone amiche adatte e gratuitamente disponibili, ma ad avvocati, commercialisti od ai predetti operatori, ed anche con onorari a spese dell’amministrato; tali amministratori ricevono dal giudice poteri totalitari, analoghi a quelli dell’interdizione, che giungono a privare l’asserito “beneficiario” non solo dell’amministrazione dei suoi beni ma anche della gestione della propria salute e addirittura della corrispondenza.
Voce n. 11 – 8 settembre 2012, pp 1 e 2. Abusi nelle amministrazioni di sostegno: illegittime decine o centinaia di nomine. Per violazione del diritto di difesa ed eccesso di poteri. La Voce di Trieste continua l’inchiesta sugli eccessi ed abusi – coperti sinora da silenzi pubblici abnormi – nell’imposizione e conduzione del recente istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Che è stata introdotta nell’ordinamento italiano con legge n. 6/2004 per tutelare in forma meno rigida dell’interdizione e dell’inabilitazione, cioè «con la minore limitazione possibile della capacità di agire» e «mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente» le persone che si trovino fisicamente o psicologicamente «prive del tutto o parte di autonomia nell’espletamento della vita quotidiana» ed assegnandone l’incarico di preferenza, salvo casi eccezionali, a famigliari, parenti o persone comunque gradite all’interessato. La forma attuale dell’amministrazione di sostegno è stata concepita a Trieste negli ambienti della riforma psichiatrica, ad opera principalmente del docente di diritto privato Paolo Cendon, e qui ha tuttora il suo terreno di collaudo giudiziario nazionale intensivo, con proliferazione straordinaria di casi, ad opera notoria in particolare della dott. Gloria Carlesso anche nella funzione operativa iniziale di giudice tutelare, ora affidata a più magistrati. Ma a Trieste si riscontra anche particolare disattenzione giudiziaria ed ambientale sia alle carenze normative ed alle segnalazioni di abusi su cui sono intervenute invece altre sedi giudiziarie italiane, sia ai principi di diritto garantisti stabiliti dalle conseguenti pronunce dalla Corte Costituzionale e dalla Suprema Corte di Cassazione. Che confermano, dal 2005 ad oggi, la nullità originaria assoluta dei decreti di nomina con cui il giudice tutelare abbia conferito all’amministratore di sostegno poteri che incidono su diritti e libertà inviolabili della persona senza garantirle la difesa ed il contraddittorio nel giudizio, nonché per violazione di legge quando tali poteri risultino eccessivi identificandosi con quelli propri dell’interdizione e dell’inabilitazione. Queste due caratteristiche corrispondono agli abusi primari segnalati, cioè quelli nell’assegnazione e nomina dell’amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare. Dai quali discendono poi gli abusi secondari che possano venire commessi dall’amministratore di sostegno nell’esercizio di poteri eccessivi ed indebitamente conferitigli. Gli abusi primari e secondari dei quali abbiamo avuto ad oggi segnalazione documentata da Trieste ed altre località italiane colpiscono soggetti deboli in prevalenza anziani, ma anche di media età o giovani, uomini e donne, che siano titolari di redditi, risparmi e beni mobili ed immobili da amministrare, ed anche se risultino capaci di provvedervi autonomamente. Gli abusi primari Nelle forme d’abuso primario tipiche sinora riscontrate, l’assegnazione dell’amministrazione di sostegno risulta originata da richieste di operatori psichiatrici o sociali che drammatizzano la situazione del soggetto e ne screditano gli eventuali famigliari o fiduciari. Il giudice tutelare accoglie queste relazioni come veritiere senza controperizia, non riconosce alla persona il diritto alla difesa tecnica in contraddittorio tramite un avvocato e periti di parte, e le impone senza o contro sua espressa volontà, o a sua insaputa, un amministratore di sostegno estraneo. Scegliendolo tra giovani praticanti, avvocati o commercialisti che hanno seguito un breve corso apposito, palesemente inadeguato a formare i requisiti umani, professionali e di esperienza per così delicato incarico, ed a differenza a differenza dai famigliari o fiduciari dell’amministrato avranno diritto a compensi professionali a carico delle sue risorse. Ed il giudice assegna loro poteri che incidono sulle libertà fondamentali della persona (di amministrarsi, ricevere la corrispondenza, decidere sulle cure mediche), sino a coincidere con quelli previsti per l’interdizione o l’inabilitazione. Che invece competono al Tribunale collegiale d’iniziativa del Pubblico Ministero, e con garanzia di difesa in contraddittorio. L’amministrazione di sostegno risulta così trasformata arbitrariamente interdizione od inabilitazione impropria e sottratta alle garanzie difensive. E senza contestazione efficace del Pubblico Ministero, che ha l’obbligo di intervenire anche nella nomina dell’amministratore di sostegno e proporre reclamo quando il decreto del giudice tutelare risulti contrario alla legge. Gli abusi secondari Queste forme di abuso primario della legge e di diritti fondamentali della persona aprono a loro volta la possibilità di abusi secondari, dolosi o colposi, da parte dello sconosciuto amministratore di sostegno che il soggetto debole si vede imposto dal giudice con poteri abnormi, che annullano la sua capacità materiale e morale di disporre dei propri beni e della propria vita. Gli abusi secondari tipici sinora osservati consistono anzitutto in peggioramenti drastici della vita della persona che si trova privata della sua autonomia, sottratta al soccorso di famigliari ed amici e sottoposta ad un estraneo, che spesso accumula amministrati anche a decine e tende ad eludere o forzare le loro necessità morali, sanitarie ed economiche. Mentre le risorse finanziarie della persona amministrata vengono erose dai prelievi di compensi per l’amministratore e soggetti scelti da lui (badanti, medici, periti, artigiani, agenti immobiliari, ecc.) per fornire assistenze, servizi ed interventi anche non necessari. Ne consegue la vendita a trattativa privata della casa d’abitazione e di altri eventuali beni immobili, con ricovero dell’amministrato in ospizi o strutture sanitarie che ne ricavano ingenti contribuzioni assistenziali pubbliche e private. E sono a volte le stesse che hanno promosso l’amministrazione di sostegno. Il giudice tutelare ha il potere e l’obbligo di impedire gli abusi verificando le relazioni periodiche degli amministratori, inclusi rendiconti, stime di beni, modalità di vendita e relazioni di operatori sanitari, psichiatrici o sociali. Ma nel concreto non ne ha il tempo né i mezzi, e finisce per autorizzare o lasciar compiere anche operazioni quantomeno discutibili. Il terzo livello Vi è infine un terzo livello di abusi, che associa operatori sanitari e sociali proponenti, giudice tutelare ed amministratori "professionali". Quando le proteste di famigliari che si oppongono agli abusi su un amministrato vengono paralizzate sottoponendo anche loro ad amministratore di sostegno con la medesima procedura restrittiva. Esattamente come in noti regimi totalitari. Sul numero 10 della Voce abbiamo pubblicato anche i documenti di prova principali di un caso che integra tutti e tre i livelli di abuso ed appartiene alla gestione tutelare Carlesso. Complicità ambientali In sostanza, uno strumento giuridico di assistenza moderata a soggetti deboli viene invece utilizzato coercitivamente in violazione dei loro diritti fondamentali, di libertà, proprietà e difesa. A lucro di terzi e con le necessarie complicità ambientali attive e passive. A Trieste, nonostante proteste e denunce, queste prassi intollerabili appaiono ancora ufficialmente ignorate, e di fatto coperte, a tutti i livelli pubblici tenuti ad intervenire: istituzioni, partiti, sindacati e stampa ‘di sistema’, Presidenza del Tribunale e Procura della Repubblica. Mentre sta indagando in merito la competente Procura esterna e la questione è sottoposta al Ministero della Giustizia. Le difese dirimenti immediate Rimane intanto il problema di difesa sul campo dei soggetti abusati o minacciati, cui può giovare la sintesi di una disamina, che ci è stata cortesemente fornita, della giurisprudenza di Corte Costituzionale e di Cassazione sui casi di nomine viziate di nullità, che è dirimente a prescindere dalla prova di abusi secondari dell’amministratore. Già nel 2004, appena entrate in vigore le norme specifiche, il Giudice Tutelare presso la sezione di Chioggia del Tribunale di Venezia ne aveva sollevate due questioni di illegittimità costituzionale rilevando che esse «non indicano chiari i criteri selettivi per distinguere l’amministrazione di sostegno dai preesistenti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, lasciando di fatto all’arbitrio del giudice la scelta dello strumento di tutela da applicare al caso concreto, così violando gli art. 2, 3 e 4 della Costituzione, che garantiscono la sfera di libertà ed autodeterminazione dei singoli, e gli watt. 41, 1° comma e 42 della Costituzione, che garantiscono il pieno dispiegarsi della personalità del disabile nei rapporti economici e nei traffici giudici». e che inoltre « non prevedono strumenti di composizione delle divergenze eventualmente insorte tra il giudice tutelare (cui sono attribuiti i provvedimenti in tema di amministrazione di sostegno) e il Tribunale collegiale (cui sono attribuiti quelli in tema di interdizione ed inabilitazione), così violando gli art. 41, 1° comma, 42 e 101, 2° comma, della Costituzione». I limiti giuridici La Corte ha rigettato con set. n. 440/2005 i rilievi di anticostituzionalità fornendo però interpretazione della legge su ambedue i punti. Sul problema dei limiti giuridici conferma infatti che «l’ambito di operatività dell’amministrazione di sostegno non può coincidere con quelli dell’interdizione o dell’inabilitazione», mentre il giudice tutelare deve scegliere tra questi differenti istituti a tutela della persona quello che «limiti nella minore misura possibile la sua capacità» e far rientrare l’amministrazione di sostegno in un ambito di poteri che sia «puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto». Rimanendo i poteri tipici delle «misure ben più invasive dell’interdizione e dell’inabilitazione» riservati, con esse, ai casi dove quelli più blandi dell’amministrazione di sostegno non garantiscano tutele sufficienti alla gravità del caso. Il giudice tutelare non può dunque far coincidere integralmente i poteri dell’amministratore di sostegno con quelli del tutore o del curatore, che come tali possono venire assegnati soltanto dal Tribunale con gli istituti e le procedure dell’interdizione e dell’inabilitazione. Quanto alla composizione di divergenze tra giudice tutelare e Tribunale, la Corte Costituzionale ha affermato che i provvedimenti di ambedue gli organi sono impugnabili dinanzi alla Corte d’Appello, rispettivamente con reclamo e avverso il decreto del giudice tutelare e con appello avverso la sentenza del Tribunale. La sentenza sottolinea inoltre i ruoli di vigilanza e coordinamento del Pubblico Ministero. I limiti giuridici dell’amministrazione di sostegno così fissati dalla Corte Costituzionale sono stati ribaditi da numerose ed inequivoche pronunce della Corte Suprema di Cassazione (sentenze nn. 13584/2006, 25366/2006, 9628/2009, 17471/2009, 4866/2010, 22332/2011, ed altre), stabilendo sin dalla prima il principio di diritto che: «l’amministrazione di sostegno […] ha la finalità di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quale la interdizione e la inabilitazione, non soppressi ma solo modificati. [...]». Il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno che gli attribuisce poteri esorbitanti tale funzione giuridica risulta dunque emesso in patente e contraddittoria violazione di legge. E lo stesso Tribunale di Trieste risultava avere recepito quest’orientamento sin dal 2005 (28.10), affermando che la persona soggetta ad amministrazione di sostegno «conserva la pienezza della capacità di agire anche rispetto al pacchetto gestionale attribuito all’amministratore». Il diritto alla difesa violato Sempre nel 2005 il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia è ricorso in Cassazione per violazione dell’obbligo giuridico di assistenza legale, contro un provvedimento del giudice tutelare che aveva nominato un amministratore di sostegno senza garantire all’interessato un difensore ed eventuali periti di parte. Con sentenza n. 25366/2006 la Cassazione, riaffermando i principi delle sentenze qui sopra richiamate, ha precisato che l’amministrazione di sostegno copre un arco di ipotesi di incapacità che va dalle minime alle maggiori, le quali possono perciò anche richiedere “determinati effetti, limitazioni o decadenze, previste da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato [...]”, ma che queste possono coprire soltanto singole attività specifiche, e non una condizione di incapacità generale dell’amministrato, la quale comporta invece l’interdizione o l’inabilitazione. Ed ha contemporaneamente stabilito che quando il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno vada comunque ad incidere su diritti fondamentali dell’uomo, il giudice tutelare non può procedere senza invitare il destinatario a nominarsi un difensore. Il principio di diritto così affermato dalla Corte è nuovamente chiarissimo: «il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l’emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categoria di atti, in relazione ai quali si chiede l’intervento dell’amministratore; necessitando, per contro, difesa tecnica ogni qual volta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o non corrispondente alle richieste dell’interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni e decadenze, analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio.» In pratica: se i poteri dell’amministrazione di sostegno si limitano a quelli di una blanda assistenza ordinaria non occorrerebbe garantire all’assistito la difesa legale, che diventa invece obbligatoria se intaccano la sua capacità giuridica di agire, configurandosi altrimenti violazione di diritti umani fondamentali garantiti dall’ordinamento, e dunque nullità originaria ed assoluta dell’atto. Che come tale può essere fatta valere in ogni momento e sede, incluse quelle comunitarie ed internazionali: si vedano anche i principi corrispondenti introdotti nell’ordinamento dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13.12.2006 e ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009. Conclusioni Questo significa che decine, se non centinaia o più, di decreti di nomina di amministratori di sostegno, a Trieste ed altrove, risultano giuridicamente nulli, e con essi i poteri e gli atti conseguenti degli amministratori. L’interrogativo è a questo punto se l’Autorità giudiziaria, ed a quali livelli, intende provvedere d’ufficio ad interrompere ed annullare le procedure di nomina illegittime liberandone gli amministrati, o se occorreranno valanghe di ricorsi individuali dei danneggiati, o class actions. Attendiamo dunque le risposte, a cominciare da quelle del Tribunale e della Procura di Trieste. E nel frattempo proseguiremo con la pubblicazione delle nostre analisi e prove. [P.G.P.]
Voce n. 15 – 10.11.2012, p. 1. Scandalo Amministrazioni di sostegno a Trieste: siamo alla predazione giudiziaria dei diritti umani. Lo scandalo montante di alcune prassi illegittime nelle amministrazioni di sostegno a Trieste sta raggiungendo, nell’incredibile silenzio generale rotto soltanto dalla Voce, il parossismo: ora risulta che le amministrazioni decretate a Trieste sono tante che il Giudice Tutelare responsabile autorizza persino la custodia dei fascicoli d’ufficio presso lo studio degli stessi legali nominati Amministratori di sostegno (Ads). Simile prassi, pur non configurando probabilmente in sé un reato, oltre ad essere al limite della legalità giustifica sospetti d’incredibile leggerezza sia nelle assegnazioni che nella gestione delle amministrazioni di sostegno. Leggerezza che ha come risultato l’appalto di tutta la gestione della procedura della amministrazione di sostegno a soggetti privati, singoli e come sistema: gli avvocati che fanno gli amministratori di sostegno, i medici e le cooperative di assistenza, nei cui comportamenti le inchieste della Voce hanno evidenziato non pochi abusi gravissimi. Il ruolo del Giudice rimane così solamente quello di firmare i provvedimenti a lui richiesti agli AdS i quali, molto spesso, secondo prassi avvocatile frequente predispongono essi il provvedimento al posto del Giudice, chiedendogli appunto solo di firmarlo. Giudice che secondo prassi invalsa a Trieste ha nominato l’AdS senza riconoscere all’assistito i diritti fondamentali di difesa garantiti dall’ordinamento, ed assegnando al professionista poteri analoghi a quelli dell’interdizione: sui beni, sulla scelta di cure, sulla corrispondenza e su ogni atto giuridico rilevante. Ed allora siamo al cospetto di una procedura che vìola radicalmente il principio del contraddittorio e del diritto alla difesa, risolvendosi in una vera e propria predazione giudiziaria di diritti umani fondamentali. Facciamo un esempio: se la persona amministrata ha il legittimo sospetto che nella gestione del suo patrimonio o della sua persona l’AdS commetta qualche irregolarità, dovrebbe andare presso lo studio dell’AdS, quindi in condizioni di soggezione ambientale, a chiedergli di consultare il fascicolo d’ufficio e la possibilità di estrarne copie; oppure dovrebbe andare alla cancelleria del Tribunale ed attendere l’autorizzazione dell’AdS, per poi tornare presso il suo studio e lì fare le copie, ed attendere che l’AdS vada in cancelleria e se le faccia timbrare con il timbro di conformità... insomma, i tempi sarebbero tali per cui chiunque potrebbe nascondere facilmente le prove di qualche irregolarità, oppure indurre l’amministrato a desistere. Per difendersi dagli abusi sospettati l’amministrato dovrebbe poi formulare un’istanza al Giudice, il quale però non ha il fascicolo custodito nella sua disponibilità e si limiterebbe (nella migliore delle ipotesi) a chiedere conto della denuncia all’amministratore di sostegno sospettato, il quale parlerebbe col giudice in assenza dell’amministrato. Che inoltre sarebbe privo di un proprio avvocato difensore, perché se volesse nominarlo dovrebbe farne prima richiesta all’AdS contro cui lo vuole assumere, e potrebbe pagarlo solamente previo consenso dell’AdS medesimo. Ed è esattamente grazie a questa trappola giudiziaria perfetta che nelle amministrazioni di sostegno a Trieste si è potuta anche consolidare una una consociazione di fatto di operatori sociosanitari, giovani avvocati e praticanti, e qualche commercialista, che chiedono ed ottengono arbitrariamente senza contraddittorio da magistrati assegnati alla funzione di Giudice tutelare decine di amministrazioni di sostegno con poteri equivalenti all’interdizione. Che esercitano senza alcun controllo reale del Giudice o del Tribunale, disponendo in toto della vita e dei beni delle persone, per lo più anziane, così arbitrariamente predate dei diritti civili fondamentali costringendole in condizioni da riduzione in schiavitù inaudite nella civiltà del diritto. E ciononostante con l’omertà di tutti coloro che avrebbero il dovere giuridico e/o etico di impedirlo. La Voce sta perciò valutando con legali di fiducia azioni di denuncia e di difesa delle persone e della legalità ancora più energiche delle precedenti. Ed intende proporre quest’ennesimo ‘caso Trieste’ anche alla Corte di Giustizia Europea per l’apertura di un procedimento specifico d’infrazione contro l’Italia qualora il Ministro della Giustizia non assumesse provvedimenti efficaci e tempestivi per porre fine a questo scandalo di soprusi sotto forma giudiziaria ai danni di soggetti tra i più deboli. Paolo G. Parovel
Voce n. 16 – 7 dicembre 2012. pp. 1 e 2. Scontro con la Presidenza del Tribunale sugli abusi nelle Amministrazioni di sostegno. A seguito delle nostre inchieste e denunce su abusi documentati nelle amministrazioni di sostegno (Ads) il facente funzioni di Presidente del Tribunale di Trieste, dott. Raffaele Morvay, mi ha inviato una lettera di smentita inattesa e pesantemente conflittuale, chiedendomene la pubblicazione. Alla quale come direttore responsabile provvedo volentieri, ma esercitando il diritto di replica per quanto la lettera contiene od implica di offensivo per il giornale e nei miei confronti. Con l’osservazione preliminare che una cosa simile non è mai accaduta nella storia di questa città, e questo vorrà ben dire qualcosa. Rispondo dunque in prima persona alla domanda del Presidente vicario su “di cosa sta parlando il giornalista Paolo G. Parovel? ” quando scrive che le carenze normative e gli abusi, colposi o dolosi, nell’imposizione e gestione delle amministrazioni di sostegno a soggetti deboli stanno determinando a Trieste situazioni di “predazione giudiziaria dei diritti umani ” e “condizioni di riduzione in schiavitù inaudite nella civiltà del diritto”, ed alle altre gravi accuse professionali e personali che egli ha almeno, rispetto ad altri, l’apprezzabile franchezza di muovermi ufficialmente per iscritto. E che possono in effetti apparire credibili persino in Tribunale a chi non abbia approfondito la vicenda. Essendo ovvio che chiunque compia, consapevolmente o meno, abusi non di per sé palesi di un istituto giuridico o di funzioni giudiziarie e forensi in questa od altra materia, non va certo a raccontarlo o renderlo evidente alla Presidenza del Tribunale, né a colleghi estranei ai fatti. Perché è la copertura degli abusi che consente di compierli, perpetuarli ed estenderli coinvolgendo in corresponsabilità attive e passive un numero di persone sempre maggiore, sino a farsi “sistema”. Cioè rete di interessi anomali che crescendo acquista forza, credibilità ed impunità nel tessuto istituzionale, sociale e mediatico rendendo sempre più difficile e rischiosa l’azione di chi osi indagare e denunciare la verità. Il dott. Morvay sa inoltre bene, come altri, che io ho avuto sempre il massimo rispetto della Magistratura italiana e delle straordinarie difficoltà ambientali e materiali in cui essa si trova ad operare. Ma che proprio per questo, oltre a prenderne le difese da accuse infondate, ne ho anche sempre denunciato i casi documentati di effettivo errore e degrado. Esattamente come raccomanda non da oggi la stessa Associazione Nazionale Magistrati, anche con manifesti affissi nei Tribunali. E se egli mi avesse perciò convocato formalmente prima di accusarmi pubblicamente del contrario avrebbe potuto esaminare tutti gli elementi di prova da me anche e sempre offerti. In sostanza la lettera del Presidente vicario, che potete leggere qui di seguito, si limita ad affermare od implicare, in ovvia buona fede anche se con rilevanti incongruenze, che nelle ormai 1500 amministrazioni di sostegno sinora decretate intensivamente dal Tribunale di Trieste non vi sia nessuno degli abusi da me denunciati, che tutti i decisori e conduttori delle procedure siano dunque infallibili ed irreprensibili, e che il Tribunale stesso possa garantirlo con un controllo adeguato di tutte le pratiche. Mentre continua a non esservi nessuna iniziativa pubblicistica o giudiziaria del Tribunale o della Procura di Trieste, né di magistrati o di altri soggetti coinvolti, che affronti l’analisi concreta dei casi e dei fatti giuridici documentati e di rilevante interesse pubblico che come giornalista investigativo continuo a denunciare pur clamorosamente da oltre due anni, su questa ed altra precedente testata, mettendone tutte le prove a disposizione della Magistratura perché intervenga doverosamente. Questa è anche la prima volta che la Presidenza del Tribunale invece mi contesta, e per iscritto anche se in forma apodittica, con accuse che ritengo ingiuste oltre che eccessive, ma per l’autorevolezza istituzionale della fonte potrebbero convincere facilmente gli ignari. Preciso dunque come prima cose che le nostre inchieste e denunce non si riferiscono, come la lettera potrebbe far supporre, alla totalità delle amministrazioni di sostegno in quanto tali, ma ad un numero rilevante, ed in particolare a Trieste, di casi di abuso resi possibili da carenze legislative, applicazioni discutibili delle norme, attività ed interessi di terzi, nonché di assenza od inefficacia di controlli e correzioni da parte di quanti vi sono tenuti. E poiché da essi non ho sinora avuta udienza, ma solo diffamazioni e persino ritorsioni personali, invito gli Organi giudiziari competenti territoriali, quelli esterni ex art. 11 c.p.p., il Ministero della Giustizia ed il Parlamento ad aprire infine un’inchiesta seria sui fatti sinora e qui stesso denunciati. Oppure nei miei confronti, se riterranno davvero di poter sostenere che non si tratti di indagini giornalistiche legittime e doverose, ma addirittura di scritti “scandalistici, calunniosi od errati” e di “un cumulo di menzogne e disinformazioni“ del genere “che solo un giornalismo deteriore può inventare e pubblicare”. Mentre ad una lettura più attenta questa stessa lettera accusatoria mostra di confermarle in misura significativa, attraverso una serie di travisamenti, illogicità e contraddizioni invero sorprendenti. Travisamenti, illogicità e contraddizioni È infatti travisamento significativo ed illogico delle norme l’affermazione si possa ritenere una persona incapace di decidere di sé per difficoltà fisiche, invece che psichiche. Mentre è contraddittorio dichiarare regolari le procedure di Ads ammettendo contemporaneamente che esse in molti casi privano l’amministrato, in tutto o in parte della gestione dei suoi beni, cioè in condizioni proprie non dell’Ads ma dei due diversi istituti giuridici della tutela e della curatela. Come è illogico sostenere che per sottrarre i beni della persona a rapacità di parenti od altri se ne debba affidare l’amministrazione a giovani professionisti estranei, che come tali e quali principianti nelle rispettive professioni non offrono affatto maggiori garanzie di sensibilità, capacità, disinteresse ed esperienza. Illogico e contraddittorio è inoltre sostenere l’evidente improbabilità statistica che su 1500 amministrazioni non si verifichi alcuna irregolarità. E che ciò sia garantito da controlli dei giudici tutelari e degli uffici, ammettendo nella stessa lettera che i primi sono oberati anche da funzioni giudiziarie diverse, e che la Cancelleria è letteralmente sepolta dall’eccesso di fascicoli. Risulta perciò anche complessivamente contraddittorio che la Presidenza del Tribunale possa dichiarare che non sia vero quanto denunciamo noi, se e finché il Tribunale non ha affatto la possibilità concreta di esercitare i controlli necessari per affermarlo. E nemmeno ci chiede di vedere le nostre prove. Travisa inoltre la realtà dei fatti qualificare quei professionisti soltanto come dei "competenti e valorosi volontari dell’Associazione amministratori di sostegno. Perché il volontariato è attività gratuita e del tutto differente, mentre costoro vengono autorizzati dai giudici tutelari ad utilizzare le risorse degli amministrati anche a beneficio proprio, prelevandone indennità considerevoli, nonché di fornitori di beni ed servizi di propria scelta. Dai casi di sospetto o constatato abuso dei quali possediamo le documentazioni queste indennità risultano oscillare a Trieste fra i 5.000 ed i 10.000 euro l’anno. E siccome la gran parte di questi giovani professionisti ha ormai accumulato decine di amministrati, da ogni decina potrebbe ricavare un reddito annuo dai 50.000 ai 100.000 euro. Senza nemmeno più necessità di far carriera nella sovraffollata professione ordinaria d’avvocato o commercialista. Ma questi denari creano pure problemi di possibile, scandalosa ed annosa evasione fiscale sotto copertura giudiziaria. Sono stati infatti ed in parte vengono ancora liquidati dai Giudici Tutelari come compensi non imponibili ed esenti da IVA, e spesso non sono stati nemmeno fatturati. Mentre l’Agenzia delle Entrate li ha ritenuti con pronunciamento di quest’anno 2012 redditi professionali imponibili a tutti gli effetti. Un giro di beni, compensi ed affari milionario Ed è in particolare Trieste - culla vantata di ideazione e sperimentazione nazionale dell’amministrazione di sostegno ad opera principale notoria del docente veneziano di diritto privato Paolo Cendon e della giudice Gloria Carlesso, attorno ai quali si è raccolta tutto un corteggio di giovani professionisti aspiranti e beneficati - che l’amministrazione di sostegno è stata estremizzata e professionalizzata a livelli industriali. Trasformando così questi compensi e disponibilità di beni altrui in un giro di lavoro ed d’affari anomalo da centinaia di milioni di euro, che ingigantisce qui anche il problema di possibile evasione fiscale. Ed è un vero miracolo di ‘trasparenza’ che nessuno nelle istituzioni di competenza operativa od investigativa sembri vedere questo giro di soldi e beni od accorgersene. Perché qui i conti sono presto fatti, a differenza dal resto d’Italia dove non c’è una così straordinaria concentrazione professionistica di pseudo-volontariato. Che secondo dati recenti pubblicati dai suoi stessi apologeti amministrerebbe a Trieste con qualche decina di giovani professionisti ormai Ads-dipendenti, nel bene e nel male, circa il 65% dei casi, cioè attorno alle 800 persone. Per un ammontare quindi, se è così, di compensi valutabile attorno ai 4 milioni di euro, con gestione di un patrimonio ipotizzabile sul migliaio di unità immobiliari (dunque attorno ai 100 milioni di euro di valore complessivo), più beni mobili in proporzione, oltre ad introiti da pensioni od altre rendite degli amministrati stimabile da un minimo 800.000 euro (mille in media a persona) ad un milione di euro o più. Ed oltre ai redditi diretti ed indiretti (da contributi assistenziali pubblici) che ne ricavano badanti, cooperative, medici, artigiani, periti, ed altri fornitori di beni e di servizi che ogni ‘giovane professionista volontario’ sceglie a proprio arbitrio, sempre a spese degli amministrati e per cifre complessive altrettanto ingenti. Ad occhio, il giro complessivo che appare così curiosamente invisibile a tutti fuorché a noi (ricordando la favoletta del re nudo) può dunque valere almeno 200 milioni di euro. In una città di soli 200mila abitanti, ed alla faccia del volontariato vero che altri fanno anche in questo settore. Il cardine giuridico degli abusi La smentita inattesa del Presidente vicario non tocca inoltre cardine giuridico abnorme degli abusi da noi denunciati. E cioè il fatto che il Tribunale di Trieste assegni sistematicamente amministrazioni di sostegno a quei professionisti con poteri abnormi, poiché incidono su diritti umani fondamentali e sono invece propri dell’interdizione (amministrazione dei beni, scelta delle cure, ricevimento della corrispondenza) e senza garantire alla persona la difesa tecnica in contraddittorio benché confermata obbligatoria, in questi casi, da giurisprudenza univoca di Corte Costituzionale e Cassazione. Per essere ancora più chiari: nel caso tipo degli abusi riscontrati una persona, sia anziana o giovane, in modeste difficoltà viene privata per decreto del Tribunale dei suoi beni e dei diritti fondamentali con uno strumento giuridico improprio, su perizia tecnica unilaterale che il giudice avalla senza contraddittorio negando all’interessato la difesa di un avvocato e di periti di parte; la perizia proviene da un numero ristretto di tecnici dell’assistenza psichiatrica e sociale, e punta all’esclusione dei parenti ed alla nomina di uno dei professionisti ‘volontari’ di uno stesso gruppo; la disponibilità dei beni mobili ed immobili dell’amministrato viene così sottratta a lui, alla famiglia ed agli eredi e va ad alimentare il giro di compensi ai predetti ed ai fornitori di beni e servizi che ruota loro attorno, e gli immobili finiscono venduti quanto prima a trattativa privata ed a condizioni e prezzi spesso discutibili. Mentre l’interessato, definito ipocritamente “beneficiario” anche per questo genere abnorme di Ads, finisce ridotto concretamente ad una larva civile senza più dignità e diritti di cittadino, a vegetare tra i centri di assistenza del medesimo ambiente che la controlla, per lo più sedata con psicofarmaci, od a tentare gesti estremi. Ed è anche accaduto che figli o genitori che protestavano troppo siano stati neutralizzati dal “sistema” sottoponendoli al medesimo genere di Ads. Il tutto, come ci conferma la stessa lettera ed opinione del Presidente Vicario, per decreto del Tribunale e fuori da qualsiasi sua possibilità realistica di controllo efficace. Le coperture interne ed esterne Questo “sistema”, che non si identifica con le amministrazioni di sostegno in toto ma vi è incistato come un bubbone con solide metastasi, risulta protetto e prospera sotto tre generi principali di copertura che si intrecciano nel tessuto sociale ed istituzionale triestino. Il primo è il già detto coinvolgimento attivo e passivo del maggior numero di persone possibile nel “sistema”; il secondo è l’offrire e fornire voti a chi lo appoggia, ed il terzo è il mimetizzarsi negli ambienti della psichiatria libertaria d’origine basagliana, della quale è invece una degenerazione concettuale e la negazione ed inversione pratica. È così che questo “sistema” finisce bovinamente ed opportunisticamente protetto anche dalla politica. In particolare, purtroppo, dalla sinistra che da quell’ambiente attinge una quantità di voti e legittimazioni in regime di quasi monopolio. E sembra perciò disposta anche a fingere di non vedere violazioni tanto perfide e gravi dei diritti umani e della legalità, rendendosene quindi complice di fatto. Perché, altrimenti, non accetta nemmeno di discuterne sulla base dei documenti? Lo chiediamo qui ai Cosolini, Dell’Acqua, Rotelli, Dolcher e quant’altri, sia fuori che dentro l’ambiente giudiziario, sanitario e dell’assistenza sociale. E così, se qualcuno pensava che una lettera aggressiva della Presidenza del Tribunale potesse far smettere me e la Voce di scrivere verità scomode, ora è servito. Il direttore responsabile della Voce di Trieste (Paolo G. Parovel)
Il Tuono 13 novembre 2010. Una sentenza recentissima fa chiarezza a tutela dei soggetti più deboli, soprattutto anziani. Trattamento sanitario obbligatorio: il sindaco risponde civilmente e penalmente degli abusi I criteri della decisione si estendono agli abusi nell’imposizione di amministratori di sostegno Come i lettori dei nostri numeri precedenti già sanno, a Trieste si è verificata una serie rilevante di abusi dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Alcuni dei casi meglio documentati sono oggetto da tempo di denunce ed indagini giudiziarie, oltre che delle nostre indagini giornalistiche (mentre il resto della stampa locale li ha sinora coperti: ci asteniamo da commenti). Secondo legge l’amministrazione di sostegno dovrebbe sostituire, in forma blanda, amichevole e collaborativa l’interdizione e la curatela di persone che non siano in grado di provvedere alla cura di sè stesse e dei propri beni. A Trieste invece vi risulta esser stato imprudentemente sottoposto un numero abnorme e crescente di persone, in particolare anziane, anche autosufficienti, o loro parenti che protestavano, sottoponendole a regimi di privazione delle libertà morali e materiali duri quanto quelli dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge, con affidamento degli incarichi per lo più a giovani avvocati o praticanti, e vendite o conduzioni discutibili o dannose di beni degli amministrati. Creando così una specie di industria anomala delle tutele in una città dove sono particolarmente elevati sia il numero degli anziani che vi sono esposti, sia quello dei giovani avvocati e praticanti senza lavoro. Sul che abbiamo già preannunciato una nostra inchiesta complessiva, dopo avere pubblicato denunce documentate di alcuni casi eclatanti. Considerando inoltre che per parte dei casi già in indagine l’imposizione dell’amministratore di sostegno risulta avvenuta partendo da un T.s.o., il Trattamento sanitario obbligatorio ordinato dal sindaco. Che cos’è il trattamento sanitario obbligatorio L’ordinamento italiano (leggi 180/1978. 833/78 artt. 33-35) consente infatti che in casi di particolare urgenza e necessità, su ordine del sindaco dietro richiesta motivata di un medico, una persona ritenuta o dichiarata malata di mente possa venire con la forza pubblica prelevata, ricoverata per sette giorni prolungabili e sottoposta a dei trattamenti sanitari che essa rifiuta o sono altrimenti impossibili. Sono norme che hanno sostituito il vecchio ricovero coatto di difesa sociale (legge 36/1904), privilegiando invece formalmente la salute della persona debole. Ma nella pratica è cambiato ben poco, e gli abusi non sono difficili se il sindaco firma l’ordinanza di T.S.O. dando corso automatico alla richiesta medica, senza esercitare doverosamente tutti controlli sulla sussistenza effettiva delle condizioni di legge. Tanto più necessari per un atto che priva, anche temporaneamente, la persona di libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Quest’automaticità, che risulta purtroppo e pericolosamente prassi ordinaria quasi dappertutto, risulta qui documentata anche nei casi sopra detti. Come abbiamo già scritto mettendone in evidenza le responsabilità morali, civili e penali, senza che i sindaci ed il servizio sanitario pubblico della nostra provincia mostrassero di prenderne nota. Ma ora dovranno farlo, e subito. La sentenza chiarificatrice recentissima È intervenuta infatti una sentenza chiarificatrice recentissima del Tribunale di Pordenone (n. 893/10, depositata il 21 ottobre) in una causa civile di risarcimento promossa da una danneggiata, ex infermiera, col patrocinio del capace e tenace avvocato pordenonese Gianni Massanzana. Che ha ottenuto la condanna del sindaco sospeso di Azzano Decimo, Enzo Bortolotto, e del Ministero della Salute a rifondere i danni – impregiudicate le conseguenze penali – per avere nel 2005 il sindaco emesso, e due psichiatri dell’Ospedale di Sacile richiesto, un’ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio senza che ve ne fossero i presupposti di legge. Massanzana aveva già ottenuto nel 2005 dallo stesso Tribunale l’annullamento tempestivo dell’ordinanza per difetto di motivazione, liberando così in soli 17 giorni la persona indebitamente trattenuta in ospedale con la forza. Su richiesta dei due psichiatri ed ordine del sindaco, era stata infatti prelevata da casa coi carabinieri e tradotta – di fatto reclusa – nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Il tutto senza nemmeno visita medica ed in relazione ad una controversia coi vicini di casa (la vicenda è simile ad una triestina di cui abbiamo pubblicato recentemente la denuncia, e che è prossima in questi giorni a decisione liberatoria del Tribunale di Trieste). La sentenza di Pordenone chiarisce in particolare che “il provvedimento disponente il trattamento sanitario obbligatorio costituisce un provvedimento restrittivo della libertà personale e pertanto necessita di una puntuale motivazione”, per la quale non sono sufficienti il richiamo stereotipato alle norme di legge e la dichiarazione dell’esistenza di un disagio psichico senza fornire riferimenti precisi al caso concreto (da parte dei medici richiedenti: anamnesi, esatta documentazione delle sintomatologìe, degli accertamenti sanitari specifici effettuati e dell’impossibilità di alternative). Il giudice sottolinea infatti che la legge vieta che il Trattamento sanitario obbligatorio venga disposto in presenza di tali carenze di motivazione, senza accertamenti medici nell’immediatezza della proposta, e che esso venga proposto e convalidato senza che la persona sia stata posta nelle condizioni di scegliere terapie alternative. E rileva che pertanto “il Sindaco, nell’emettere il provvedimento, è tenuto a verificare che dalla certificazione medica allegata risultino tutti i requisiti previsti dalla legge, nell’ambito dell’esercizio di un controllo non solo formale che si limita ad un mero richiamo delle attestazioni sanitarie” le quali altrimenti costituiscono mera motivazione apparente (come tale insufficiente, illegittima ed illecita). Quanto alla valutazione dei danni, vengono considerati “l’impatto del trattamento sofferto, come soggettivamente percepito, e il discredito che il T.s.o socialmente provocò sulla sfera della dignità” della persona ingiustamente colpita, tenendo conto anche “della durata del trattamento sanitario obbligatorio, delle modalità della restrizione e degli altri effetti pregiudizievoli personali e familiari scaturiti dalla misura”. E si precisa che la lesione della sfera soggettiva consiste nella “privazione del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere o meno di sottoporsi ad un trattamento sanitario”. Il valore della sentenza Si tratta dunque di una pronuncia fondamentale per difendere una quantità di persone, soprattutto anziane, esposte in situazioni deboli ad analoghi, frequenti abusi del T.s.o. Ma anche per difenderle da imposizioni di amministratori di sostegno arbitrarie perché fondate su T.s.o immotivati o su richieste mediche analogamente carenti. Dato che le Autorità giudiziarie competenti, quella tutelare ed il pubblico ministero, hanno anch’esse, per i medesimi motivi ed a maggior ragione, il dovere di verificarne non solo formalmente le motivazioni, sia in atti che con adeguati riscontri peritali ed in contraddittorio. Come invece al Tribunale Trieste risulta purtroppo non sempre accaduto, anche se abbiamo motivo di ritenere che da alcuni mesi si stia operando per ricondurre questa situazione incresciosa sui giusti binari. P.G.P.
(Un documento che il settimanale non ha fatto in tempo a pubblicare). Stimatissimo direttore, è necessario che il ministro della giustizia e il parlamento siano messi a conoscenza delle prepotenze che causano tante sofferenze a onesti cittadini, che vengono privati dei diritti umani e costituzionali. Ma a Trieste non è possibile rivolgersi a nessuno, vengono protetti i prepotenti, specialmente se occupano posti istituzionali o esercitano professioni importanti; non le persone per bene, specialmente se non sono importanti. Io, mia moglie e mia figlia siamo stati perseguitati per anni dagli psichiatri e operatori del centro di salute mentale di Barcola, dalla giudice tutelare Gloria Carlesso, dalle amministratrici di sostegno. Mia moglie era ammalata, ma non ha avuto l'assistenza sanitaria che ci si aspetta in un paese civile. Lo psichiatra Roberto Mezzina del csm di Barcola doveva fare un certificato per il riconoscimento di invalidità di mia moglie. In quell'occasione mi disse in tono minaccioso che avrebbe messo a posto anche me. Non avrei mai immaginato che avrei realmente subito gravi conseguenze. La giudice Carlesso "visto il ricorso presentato dal dottor Mezzina responsabile del csm Barcola-Aurisina per la nomina di una amministratore di sostegno" nominava l'avvocato Astrid Vida amministratore di sostegno di mia moglie con poteri esclusivi sul patrimonio e sulla cura della persona, escludendo me, mia figlia e tutti i familiari. Per escludermi aveva inventato una conflittualità con mia moglie che non era mai esistita, perchè ho sempre avuto tutte le premure per lei anche organizzando viaggi e vacanze per risollevarla nei periodi di depressione. Il nostro reddito ce lo permetteva. Io ho lavorato tutta la vita, ho fatto l'imprenditore anche all'estero e ho viaggiato in tutto il mondo. Ma quando le condizioni di mia moglie erano diventate più difficili e la giudice Carlesso mi relegava al ruolo di estraneo, io sono quello che si prendeva tutto il carico di accudire a una incontinente totale, a cambiarla e lavarla, a fare cinque o sei lavatrici al giorno, a stendere, asciugare e stirare, a tenere pulita la casa, a fare la spesa, cucinare, servire, sparecchiare e a risolvere tutte le cose necessarie per la gestione della famiglia, della casa, dell'orto, del giardino, degli animali domestici. Operatori del centro di salute mentale? Ho dovuto fare delle denunce per la sparizione di oggetti preziosi. Operatori domiciliari? Non facevano quello che l'amministratrice Astrid Vida affermava, come ho fatto mettere a verbale. Non si facevano vedere per mesi con la scusa che non aprivo: Altro che avrei aperto, se fossero venuti per fare qualcosa di utile. E quando sono venuti cosa hanno fatto? Devo riferire del caso di un'operatrice della cooperativa La Quercia, certa Andreina. Questa signora era così invadente che voleva comandare e criticava tutto quello che faceva mia figlia. Sanno che quando si è sottoposti ad amministratori di sostegno possono maltrattarci come vogliono. Un giorno ha detto a mia figlia: "Vedrai che ti chiamerà la giudice. E così è stato. Mia figlia è stata convocata in tribunale per un vero e proprio processo. C'era la Andreina, il capo della Quercia, la Astrid Vida. Mia figlia era nel terrore, perchè aveva già conosciuto la signora Carlesso. Come l'aveva conosciuta? Era venuta in casa, al pian terreno. Mi chiese l'estratto conto della mia banca e i dati della pensione. Poi uscì dal tinello, c'erano anche l'avv. Astrid Vida, l'avv. Chiara Valle, mia moglie con una sua amica, io, e mia figlia. La giudice, uscita dal tinello, sul corridoio alla sinistra vicino alla porta d'entrata si è messa a strattonare la porta perchè era chiusa. Io le dissi che l'altra porta più avanti era aperta e lei è messa a visitare tutte le stanze in pian terreno, poi è salita su per le scale al primo piano e ha voluto visitare tutte le stanze, gridando con arroganza di levare tutti i tappeti dai pavimenti. Ha voluto vedere la stanza di mia figlia, e ha deciso che era in disordine e si è messa a gridare sia a me che a mia figlia, offendendola. Poi e' andata di nuovo nel tinello lasciando mia figlia traumatizzata, gridando che sente puzza. Ma dove siamo? Come si permette quella signora giudice di invadere con simile prepotenza la nostra casa? E' evidente che è abituata a fare questo. Le persone normali non fanno questo in casa degli altri. Mia figlia ne ha risentito a lungo. Ecco che quando è dovuta andare in tribunale in mezzo a quelle persone ostili, io, suo padre, mi sono sentito in dovere di non lasciarla completamente sola. Ho chiamato al telefono la giudice che, quando mi ha riconosciuto, ha detto: "Ecco che spunta il diavolo con le corna" e ha messo giù il telefono. Ma è normale questo modo di comportarsi di una giudice? Nessun rispetto per le persone. Quando mi aveva convocato in tribunale, stanza 90, mi interrogava come se fossi un detenuto, e parlando con altre persone faceva sentire che diceva di me che vado a prostitute. E poi mi costrinse a firmare un documento che aveva scritto senza permettermi di leggerlo. Non esiste più la democrazia in Italia? Una volta in casa mia, nel giardino, ci imponeva nuove condizioni di vita. Per esempio non dovevo più comprare l'olio d'oliva che aveva visto in casa, ma quello di bassa qualità che aveva deciso lei! A quelle scene era presente il medico di famiglia, quello che abbiamo adesso, che cercò inutilmente di moderare l'atteggiamento intimidatorio della signora Carlesso. Questa invadente signora azzardò perfino a interrogarmi sulle mie abitudini sessuali, e mi chiese cosa facevo quando.... non mi sento di ripetere qui le sue esatte parole. Mia figlia mi confidò che aveva rivolto anche a lei simili domande, mortificandola e offendendola. Un giorno vado alla banca dove mi versavano la pensione per ritirare dei soldi. Ma il cassiere mi dice che non posso ritirare nemmeno un centesimo. Cos'era successo? La giudice Carlesso aveva affibbiato anche a me un amministratore di sostegno. E lo scoprii così, a fatto compiuto. La giudice aveva sequestrato oltre alla pensione anche i miei risparmi di circa 5.000 euro. Le aveva dato supporto lo psichiatra Mezzina, che in quel modo aveva eseguito l'oscura minaccia di tempo prima: "poi sistemerò anche lei". Da allora per avere una parte della mia pensione, meno della metà, devo andare a elemosinare dalla "mia amministratrice" avv. Chiara Valle. A suo tempo la psichiatra Santoro, sempre del csm di Barcola, aveva dato ordine al mio medico di famiglia, dottor Paoletti, di farmi una visita e di prescrivermi psicofarmaci. Quindi una psichiatra ordina al medico cosa deve fare ai suoi assistiti? Quando vidi che si trattava appunto di psicofarmaci li rifiutai. La Carlesso ha subito messo per iscritto che ho rifiutato gli psicofarmaci prescritti dal dottor Paoletti. Mi costrinsero a fare ben quattro visite psichiatriche a pagamento. Ma la Santoro è quella che a mia moglie faceva assumere 300 mg per tre volte al giorno di Seroquel, cioè 900 mg! Ricoverata in ospedale, a Cattinara, le ridussero a 100 mg al giorno, di mattina. E la Santoro non potè che adeguarsi. Cosa volevano fare di mia moglie? Hanno fatto che è deceduta per tutta una serie di sventure dovute a questa spietata persecuzione del sistema delle amministrazioni di sostegno. Mia moglie aveva scritto alla Carlesso una dichiarazione di piena fiducia in me, che avevo sempre gestito con oculatezza i beni di famiglia, e voleva che fosse revocata l'amministrazione di sostegno. Ma invece la imposero anche a me, delegittimandomi totalmente. Così quando aggravandosi mia moglie decideva di recarsi con frequenza alla chiesa, malgrado le sue condizioni di incontinenza e di instabilità, io non potevo oppormi, ridotto com'ero a un estraneo; mi avevano detto che sarebbe stato sequestro di persona. E a questo sono dovute le numerose cadute di mia moglie per la strada, con le varie contusioni alla testa, fra le quali due molto gravi alla nuca, che sono state decisive per il suo tracollo. Mi avevano impedito di agire nell'interesse della vita di mia moglie. Anche questo è un grave elemento di denuncia, condivisa da parte di mia figlia. Finalmente a fronte di una perizia psichiatrica che dimostra la mia integrità mentale, il mio avvocato ha ottenuto la revoca dell'amministratore di sostegno. Il documento di revoca è costituito da una breve dichiarazione della amministratrice, nel quale aderisce alla richiesta di revoca. Anche in queste poche righe non sono mancate le calunnie nei miei riguardi. In meno di due righe l'avvocato Chiara Valle dispone la stessa adesione anche per quanto riguarda e a nome del centro di salute mentale. La giudice tutelare se la sbriga con un timbro e una firma. Ma allora perchè sono stato perseguitato per anni? Dove sono finite le dichiarazioni calunniose della giudice tutelare, che si arrogava anche il ruolo di perito psichiatrico, che mi hanno imposto un regime di schiavitù? Se una persona innocente fa cinque anni di carcere duro per errore ha diritto a essere risarcita? P. G.
Trieste - Il Tuono 11 dicembre 2010. L’udienza di Alba A seguito della pubblicazione sul Tuono del mio esposto (firmato per esteso) sui gravi impedimenti a curarmi la salute che mi derivano dall’imposizione dell’amministrazione di sostegno, le persone che mi conoscono sono sbalordite di scoprire che io sia praticamente interdetta, priva dei fondamentali diritti dei cittadini. I più sorpresi sono i medici che mi conoscono. In realtà non solo mi viene impedito di acquistare, con i miei soldi, i medicinali di cui ho bisogno. Desidero che si sappia l’ultimo episodio, di questi giorni. Ero convocata dalla giudice Fanelli; è lei che ha deciso che io debba dipendere totalmente dalla avvocatessa Barbara Fontanot. Motivo della convocazione? Io voglio essere liberata dalle catene che mi impediscono di vivere una vita normale, e per questo sono ricorsa a dei professionisti per ottenere dei certificati legali che dichiarino la mia integrità mentale. Dispongo da molti mesi di perizie psicologiche e psichiatriche che testimoniano esattamente questo. I cittadini che non sono ancora incatenati (ma fino a quando? la giudice tutelare Carlesso annunciava 25.000 “beneficiari” a Trieste) non sanno quanto sia difficile ottenere queste perizie. Perchè, sono tutti matti? No, perchè dal momento in cui si viene messi al guinzaglio di un amministratore di sostegno viene vietato l’uso dei propri soldi. Questi amministratori nominati da un giudice, quasi tutti giovani avvocati o praticanti, non permettono che il “beneficiario” disponga dei soldi per visite mediche, medicinali (come ho esposto), figuriamoci per perizie psichiatriche e psicologiche, che ovviamente hanno lo scopo di revocarli. Ho consegnato le perizie al mio avvocato di fiducia, il quale le ha allegate alla richiesta di revoca dell’amministrazione di sostegno. Ebbene, con quale esito? Ho ottenuto la revoca? No, la mia amministratrice ha chiesto alla giudice di nominare un perito giudiziale, nel cosiddetto ruolo di CTU. Non gradisce le perizie che mi valutano assolutamente normale; ci tiene a continuare a farmi da angelo custode. La giudice l’accontenta. Mi fissano un’altra udienza, alla quale mi dicono che non occorre che io sia presente, e assegnano questo compito, cioè di decidere della mia vita, al dr. Capodieci del Centro di salute mentale della Maddalena. Arriviamo all’udienza, fissata alle ore 9. Ovviamente mi presento, perchè mai dovrebbero decidere della mia vita in mia assenza? All’ora stabilita la porta della giudice Fanelli è chiusa. La segretaria del mio avvocato mi dice che probabilmente dentro c’è il dr. Capodieci per il giuramento. Dopo lunga attesa suono; dentro non c’è nessuno. Verso le 9.30 fuori della porta si crea un piccolo affollamento. Alle 9.45 arriva la giudice, apre l’ufficio e si crea un andirivieni delle persone che erano in attesa. Lentamente, a spizzico, l’avvocatessa Fontanot, arrivata dopo la giudice (lei era informata?), mi spiega. Visto che ci sono anch’io! Ecco cosa decidono per me. Il dr Capodieci ha rifiutato l’incarico; mi dicono perchè già mi conosce. Cosa significa? Se già mi conosce, che è vero, perchè non testimonia che sono “normale”? Lui lo sa benissimo, mi aveva addirittura suggerito anche lui di chiedere la revoca. Forse veniva ingaggiato solo se dichiarava che sono matta? Hanno proposto l’incarico a un altro psichiatra, il dr Ottolenghi; il quale mi risulta aver lavorato per decenni alla clinica psichiatrica. Il dr Ottolenghi ha rifiutato. Allora l’avvocatessa Fontanot ha detto che ne dovranno trovare un altro. Sembra proprio che non voglia perdere la sua beneficiaria, che sono io. Troppo buona. Custodisce accuratamente i miei soldi in modo che io non possa scialacquarli in medicinali e beni di prima necessità. Pongo ora pubblicamente alcuni interrogativi ai quali persone più qualificate di me forse troveranno risposta. Perché la mia amministratrice deve impegnarsi a “trattenermi” in tutti i modi? Perché per la giudice Fanelli non hanno valore le perizie di due professionisti? Quando l’avvocatessa Fontanot troverà un perito che mi dichiarerà matta, avrà maggior valore delle perizie che ho consegnato alla giudice Fanelli? Perché il signor P. che ha ucciso il fratello a coltellate nel 2009 può andare libero e non sarà mai chiamato in tribunale, grazie alle perizie degli psichiatri Ottolenghi e Marsili, e io continuo a essere condannata senza aver mai compiuto alcun reato? Se anche fossi matta, ma so gestire le mie cose meglio di molti avvocati che fanno gli amministratori di sostegno, perché la giudice vuole farmi amministrare da un’estranea? Dal momento che a Trieste questi celebri psichiatri sono paladini della riforma Basaglia, perché lo psichiatra Riolo del csm della Maddalena ha fatto una segnalazione anni fa al tribunale per farmi togliere i diritti che Basaglia ha fatto restituire ai matti? E perché il suo collega Capodieci non ha voluto o potuto testimoniare quello che già sa, da anni? Perché si vuole impedire con ogni mezzo che una persona riacquisti i suoi diritti, e si rende così l’amministrazione di sostegno una condanna a vita? Perché infine non si sottopongono l’avvocatessa Fontanot e la giudice Fanelli ad accertamenti per l’ingiustificato accanimento che stanno dimostrando in questo modo nei miei riguardi? Alba Giacomelli * * * I meccanismi giudiziari possono essere macchinosi e complessi, ma la disattenzione alle necessità immediate di persone in difficoltà non è mai giustificabile, ed ancor meno quando le difficoltà sono imputabili anche a decisioni dell’autorità giudiziaria (pur di diverso giudice) che si sono dimostrate quantomeno discutibili e certamente non sufficientemente o male verificate nei presupposti. La riparazione degli errori è notoriamente efficace quanto più è rapida in proporzione allo stato di bisogno: bis dat qui cito dat.
Il Tuono 9 ottobre 2010. Amministratori di sostegno Trieste, 2 ottobre – Un pensionato fa lo sciopero della fame perché gli è stato assegnato un amministratore di sostegno che gestendogli i soldi gli impedisce di prendersi le poche soddisfazioni che possono ancora dargli quel po’ di felicità che è diritto di ognuno. Altra stampa ci ironizza sopra. Ma in realtà si tratta di un problema d’esercizio o violazione di diritti fondamentali, che riguarda un numero crescente di persone anziane. E la pretesa di metterle senza necessità assoluta sotto il controllo di terzi è un progetto sostanzialmente ideologico, sul quale stiamo acquisendo documenti chiarificatori indubitabili, che pubblicheremo quanto prima. Ho avuto l’occasione, purtroppo, di conoscere altri casi che mi sembrano di abusi avvenuti qui a Trieste nelle amministrazioni di sostegno, ma anche in almeno un caso di tutele. Se desiderate posso mandarvi le informazioni che possiedo. Pare anche che alcuni dei giovani avvocati ai quali sono state affidate le amministrazioni di sostegno ne ano cumulate addirittura decine a testa, in tribunale ho sentito dire addirittura una cinquantina, e se come nel caso che avete citato nell’ultimo o penultimo numero si prendono 7.000 euro annui per ciascuna diventa una rendita considerevole. (lettera firmata)
- Grazie, tutte le informazioni ci saranno senz’altro utili per il seguito nella nostra inchiesta, e potremmo inoltrarle come le altre anche agli Organi inquirenti.
Il Tuono - 11 settembre 2010 Amministratori di sostegno. Il sottoscritto A.d.S. Marco Marcon chiede scusa nel voler rubare nuovamente spazio prezioso a questa rubrica, ma vi si trova costretto a causa dell’ironia fuoriluogo degli avvocati autori della missiva pubblicata sul n. 5. Il sottoscritto si definisce “indipendente, in quanto non iscritto o collaborante con organizzazioni o enti sociali quali i patronati, sindacati, associazioni di consumatori; né tantomeno facente parte di studi legali. Invece di sbeffeggiare il sottoscritto, farebbero meglio a preoccuparsi, del crescente degrado della professione forense a Trieste. Nella quale non di rado la deontologia professionale lascia il posto ad una squallida ricerca di vantaggi personali anche ai danni dei propri clienti. È doveroso informare l’opinione pubblica (cosa che questa testata libera fa correttamente) che il giudice tutelare nomina guarda caso un avvocato o praticante tale in caso di conflitti tra parenti. Ma sulla nomina dell’avvocato e di un eventuale protutore ci sono in alcuni casi, parecchie anomalie. La nomina di un legale poi, porta alle volte ad una secretazione pressoché totale nei confronti dei parenti esclusi. Sul fatto che questo sia uno stato di diritto, forse è meglio sorvolare (vedi leggi ad personam). È ovvio che le leggi vengono fatte rispettare dalla magistratura e dalle forze dell’ordine e da altri pubblici ufficiali, ma non certo dagli avvocati, che rimangono soggetti privati. E se questo fosse uno stato di diritto, molti di più sarebbero già stati radiati dall’albo. Tengo inoltre a precisare che al sottoscritto, non interessa farsi leggere, ma segnalare un certo malcostume in questo settore, spiacente per voi ma regolarmente documentato. In merito poi all’affermazione che tutti i magistrati locali sono sempre stati pronti a sventare gli abusi, scusate ma per esperienza diretta sarebbe stato più opportuno a mio avviso usare il tlermine alcuni. Inoltre dallo scritto si evince che in sostanza secondo quegli avvocati, tutti gli A.d.S. non-avvocati sarebbero degli incapaci se non peggio, mentre loro sono tutti bravi e onesti. Un’immagine alquanto semplicistica che non fotografa di certo la realtà, fatta si di avvocati onesti, ma anche di avvocati disonesti, così come ci sono A.d.S. e tutori non avvocati onesti e altri che si approfittano della situazione e della mole di lavoro alla quale il tribunale è sottoposto con la mancanza di mezzi e personale. In merito agli indennizzi a favore di chi svolge questo compito la differenza sta nel fatto che se non sei avvocato forse otterrai il rimborso del trasporto pubblico perché lo fai per un parente o amico perché sei un pensionato, quindi hai tempo da perdere: vuoi mettere un avvocato, che “deve” sottrarre tempo alla sua attività. Infine sull’affermazione c che gli avvocati non si sottraggono agli uffici ai quali sono chiamati: forse perché sono praticanti, quindi non possono rifiutarsi, oppure scaricano il peso dell’amministrazione e/o tutela sui famigliari (ladri e incapaci),inviando la propria segretaria al disbrigo di questa o quella pratica burocratica per il beneficiario. E a questo punto mi chiedo chi è realmente tale, l’avvocato o il beneficiario stesso. Ovviamente il sottoscritto è sempre disponibile ad un libero scambio di opinioni sull’amministrazione di sostegno e tutela a Trieste anche in un’altra sede, ma dubito fortemente che lorsignori avranno il coraggio di accettare. Marco Marcon - Amministratore di Sostegno
- Ne dubitiamo anche noi.
Testo interrogazione a risposta scritta. Atto a cui si riferisce: C.4/08693 [Relazione fiduciaria tra beneficiario e amministratore di sostegno]. Atto Camera seduta mercoledì 22 settembre 2010. Seduta n. 372. Delia Murer. - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. - Per sapere - premesso che:
la legge n. 6 del 2004 norma la figura dell'amministratore di sostegno, fissando il diritto per una «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi», di essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio;
la norma prevede che il beneficiario conservi la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministratore di sostegno e che questi nello svolgimento dei suoi compiti deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario;
la norma tutela il beneficiario prevedendo che gli atti compiuti dall'amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso rispetto all'oggetto dell'incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, possono essere annullati;
risulta che molti Amministratori di sostegno lamentino enormi difficoltà burocratiche in ordine allo svolgimento del loro mandato, soprattutto nel rapporto con gli istituti di credito;
nello specifico molte banche, nell'aprire un conto corrente specifico per l'amministratore di sostegno di un soggetto beneficiario, rifiutano la concessione della carta bancomat, negano l'accesso al banking on line, e consentono prelievi solo direttamente allo sportello e previo sblocco del conto con una nota giustificativa scritta sull'uso del denaro;
tali procedure vengono giustificate con la necessità di una gestione rigorosa dei beni del beneficiario, onde evitare contestazioni dello stesso o dei suoi eredi, al fine, al tempo stesso, di proteggere il patrimonio da eventuali azioni di annullamento degli atti;
questa rigidità, di cui peraltro non si trova ragione nel dettato normativo che crea tutti i presupposti nella relazione di fiducia tra beneficiario e amministratore di sostegno, crea non pochi problema nella gestione quotidiana di una relazione che già presenta le sue ovvie criticità;
nello specifico, tali vincoli sembrano davvero eccessivi rispetto a relazioni beneficiario-amministratore di sostegno basate spesso su vincoli parentali e talvolta su assenza totale di patrimoni, laddove i movimenti economici sono relativi alla
sola fruizione di sussidi e indennità utilizzate esclusivamente per il benessere e il sostentamento del beneficiario -:
dal Ministro se sia a conoscenza dei casi di critica gestione delle procedure burocratiche tra gli amministratori di sostegno e gli istituti bancari e se non ritenga necessaria un'iniziativa normativa o esplicativa della corretta applicazione del dettato normativo della legge n. 6 del 2004, aprendo, almeno per le situazioni di grosso disagio economico e di assenza di grandi patrimoni, la possibilità di una gestione meno burocratica e più fluida della relazione fiduciaria tra beneficiario e amministratore di sostegno. (4-08693)
Quando il femminicidio inventa mostri....Di Riccardo Ghezzi, il 8 maggio 2014 su qelsi.it. Pubblicato da Giulio Celso a il il 8 maggio 2014 comeulisse.blogspot.com. In tempi di “femminicidio” è facile sbattere il mostro in prima pagina. Ancora prima di essere giudicato da un tribunale, Luigi Corrias fu definito dalla stampa come un ingegnere che “per anni ha fatto subire alla madre ogni tipo di angherie”. Un mostro che “le ha impedito pure di mangiare”, l’ha “schiavizzata” e addirittura le ha “fratturato una mandibola” durante una lite. Ma non era vero. In realtà avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio come non ci fossero prove delle accuse a carico dell’uomo, la cui vita e reputazione è stata rovinata. Luigi Corrias, difeso dall’avvocato Giuseppe Caccamo del Foro di Genova, ha patito un lungo periodo di detenzione nell’inferno del Carcere di Marassi finché il 20 gennaio 2014 il Tribunale di Genova, presieduto dal Dott. Marco Panicucci, ha assolto l’imputato perché “I fatti non sussistono”. In sintesi questi i fatti emersi dal processo. Luigi Corrias vive da sempre ed assiste la madre, malata di tumore, che rifiutava le terapie tra infinite difficoltà. La madre è una donna anziana che ha sempre trascurato gravemente la propria salute. Il male le fu scoperto dopo un drammatico ricovero per una pancreatite che rifiutava di curare e che la stava uccidendo. All’inizio l’unica cura prescrittale fu il biglietto da visita dell’associazione per le Cure Palliative Gigi Ghirotti, escludendo qualsiasi terapia pure prevista dai protocolli terapeutici. Luigi Corrias ha lottato per la salute di sua madre mettendo a punto, con il consulto di oncologi qualificatissimi, uno schema terapeutico efficace. Non solo, questa tragedia avveniva in quella che gli inquirenti hanno definito una famiglia “conflittuale”: congiunti che lo avevano ammonito, sostenendo che fosse il figlio responsabile e che non dovesse fare richiesta di cure strampalate. Consapevole di trattare una situazione esplosiva, Luigi Corrias ha intrapreso la sua lotta su due fronti: mettere a punto le cure più efficaci ed approdare ad un Giudice Tutelare che avrebbe dovuto affidare la madre ad una figura di tutore, in maniera tale che fosse garantita da buone leggi, protetta da se stessa e dai conflitti famigliari. L’udienza si concluse disastrosamente. Senza la tutela di un buon avvocato famigliarista, male assistiti dai servizi sociali, sono stati “lavati i panni sporchi in piazza”. Il Giudice Tutelare non ha saputo interpretare la situazione ed ha respinto l’istanza lasciando scoperta una situazione esplosiva. Pochi giorni dopo l’udienza, la mamma rifiutava la visita oncologica di controllo e per convincerla a farsi visitare è stato necessario chiedere l’intervento di sacerdoti, amici di famiglia, il medico. I congiunti hanno poi praticamente sequestrato la madre, impedendo ogni contatto e portandola per ritorsione a denunciare Corrias. La denuncia è andata avanti ed il PM Walter Cotugno ha chiesto l’arresto circa un anno dopo. La madre era rimasta senza cure durante la permanenza dei parenti, il male era riesploso ed il Corrias si è dovuto raccomandare ai Carabinieri che lo arrestavano, affinché qualcuno la seguisse per la chemioterapia che doveva effettuare nei giorni successivi. Luigi Corrias è stato indagato, mentre si trovava nel Carcere di Marassi, dalla Dott.ssa Adriana Petri, il gip, la prima persona che cercando le ragioni della colpevolezza ha trovato le prove della sua innocenza. Gli indizi gravi che hanno giustificato l’arresto erano privi di qualsiasi fondamento: “Gli inquirenti non hanno letto le carte e hanno confuso il mio nome con quello di un parente, paziente psichiatrico pluripregiudicato, oltre ad aver dato retta alle calunniose dichiarazioni dei congiunti ed alle dichiarazioni incoerenti della mamma” sostiene Corrias. Nessuno durante le indagini si è mai neppure reso conto che è impossibile procurare lesioni ad una malata di cancro che viene sottoposta a continui esami medici senza lasciare tracce. Durante il processo l’anziana madre ha rilasciato numerose dichiarazioni contraddette dai fatti ed ha addirittura lamentato lesioni che la certificazioni mediche hanno dimostrato inesistenti. Una perizia ha certificato che Luigi Corrias è sano di mente, privo di significativi disturbi della personalità, capace di intendere e volere e quindi imputabile. Lo psichiatra che lo ha visitato, il dott. Gian Luigi Rocco, è il medesimo specialista che ha visitato Donato Bilancia, Stefano Diamante, Katerina Mathas. Dopo la scarcerazione, una istanza restrittiva impediva al Corrias di riavvicinarsi a casa e contattare la mamma. Una volta assolto, Luigi Corrias avrebbe finalmente potuto tornare a casa, riprendersi professionalmente e rivedere la madre. Ha trovato però la proverbiale porta di legno: da gennaio la madre è praticamente scomparsa e sono stati disdettati in pochissimi giorni affitto, utenze gas, luce ecc. Luigi Corrias vive dei risparmi di una vita fatti di lavori a tempo determinato. Non vi è lavoro a Genova ed addirittura i suoi computer, strumenti del suo lavoro con inestimabili ricordi che erano stati sequestrati, gli sono stati restituiti sfasciati. “Sto cercando disperatamente mia madre che è sempre più confusa e malata. Temo sempre possa succedere qualcosa a causa della malattia. L’angoscia che nel carcere diventa residenza, luogo che ti circonda e ti costringe sempre, adesso da libero ed assolto me la porto dentro continuamente. Passo dei momenti terribili. Vorrei che la gente sapesse cosa succede nell’Inferno di Marassi. Vorrei che i miei parenti lo ripetessero ora che sono il figlio responsabile” commenta oggi Corrias.
Facebook Luigi Corrias a Trio Medusa il 10 dicembre 2014. Mi chiamo Luigi Corrias e sono stato arrestato due anni fa per violenza domestica ho patito un lungo periodo di detenzione nell’inferno del carcere di Marassi e lo scorso gennaio sono stato assolto, in primo grado, perché i fatti non sussistono. Tutto quello che racconto può essere assolutamente provato da fatti emersi durante un processo. Vivo da sempre con mia madre, oggi una anziana difficilissima malata di tumore che ha sempre trascurato gravemente la propria salute. Il male le fu scoperto dopo un drammatico ricovero per una pancreatite che rifiutava di curare e che la stava uccidendo. Ero, non fraintendetemi, quasi contento che si ricoverasse perché un medico mi aveva spiegato che viveva di rendita dopo questi ricoveri. Per spiegare quanto fosse difficile da trattare la mamma racconto un breve episodio: durante l’attesa degli esami per confermare l’esito del tumore la mamma, allo scopo di non farmi preoccupare, aveva firmato una nota che io non fossi informato delle sue condizioni di salute. La mamma diceva che venivo a trovarla e mezzogiorno e faceva caldo e se non venivo non sudavo e non mi sarei raffreddato…Nessuno, nonostante l’obbligo di informare il paziente delle sue reali condizioni di salute in maniera comprensibile, aveva spiegato alla mamma che cosa le stesse succedendo. La notizia della malattia le fu data dopo il rifiuto di sottoporsi alla prima flebo di chemioterapia. I medici esasperati l’aggredirono verbalmente e le dissero che se non si curava aveva sei mesi di vita. La mamma compresa alla fine la situazione e pianse per tutta la notte...All’inizio l’unica cura prescritta per il cancro fu il biglietto da visita dell’Associazione Gigi Ghirotti, escludendo qualsiasi cura pure prevista dai protocolli terapeutici. Alla richiesta di una visita con il primario mi fu risposto con cattiveria: “Che cosa vuoi che ti faccia il primario?” Per il tumori non esiste ancora una soluzione definitiva: il farmaco da banco...Esistono diverse terapie che possono diventare più o meno efficaci a seconda dell’intelligenza del medico che le applica. Considerata la complessità della situazione ho fatto visitare la mamma da diversi oncologi qualificatissimi che hanno messo a punto uno schema terapeutico efficace. Una via crucis che è ben nota a molte persone che vengono colpite da questa tragedia. La mamma rispose meravigliosamente alle cure. Auguro a tutti i malati ed ai loro parenti di avere una gioia del genere. La mamma come ho accennato è una anziana difficilissima rifiuta le terapie e sarebbe diventato una vera impresa solo sottoporla alle visite periodiche di controllo. Esami medici terribili, a volte falsi allarmi o false speranze, che alla fine diventano una sentenza di morte. Questa tragedia avveniva in quella che gli inquirenti hanno definito una famiglia “conflittuale”: contatto i miei parenti, alcuni veri pazzi criminali, per informarli della situazione e cercare un aiuto ed una pacificazione. Mi ammoniscono sostenendo che sono il figlio responsabile e che non dovevo andare a rompere le palle con le mie richieste di cure strampalate. Queste scenate venivano fatte anche in corsie d’ospedale dove la gente moriva o soffriva tremendamente. Per sfottermi mi viene ripetuto: “Che cosa vuoi che ti faccia il primario” e tante altre cattiverie o idiozie. Mi trovo incastrato tra mia madre, il cancro, l’infinita sofferenza per la malattia di mia madre e la sua possibile morte, i miei parenti e cerco una via d’uscita, un punto di equilibrio. La soluzione che trovo è mettere a punto le cure più efficaci ed approdare ad un Giudice Tutelare che avrebbe dovuto affidare mia madre ad una figura di tutore, in modo da renderla gestibile, garantita da buone leggi, protetta da sé stessa e dai conflitti famigliari. Ritengo che questa mia iniziativa sia la via da seguire, la soluzione, per tutte le persone coinvolte in queste tragedie. L’udienza con il Giudice si concluse disastrosamente. Senza la tutela di un buon avvocato, male assistito dai servizi sociali, commetto una serie di gravi errori e “lavo i panni sporchi in piazza”. Il Giudice Tutelare non ha saputo interpretare la situazione ed ha respinto l’istanza lasciando scoperta una situazione esplosiva. Ritengo che la principale responsabile della tragedia che sto vivendo sia appunto quel Giudice tutelare che non mi ha consentito di parlare, non ha letto le carte che presentavo e le ha addirittura inviate ad un Pubblico Ministero...Ritengo che il carattere di elevata pericolosità sociale che mi fu attribuito nel primo mandato di cattura sia senza dubbio da riferire a quel Giudice. Per questa vicenda sono stato sottoposto a diversi interrogatori, anche durissimi, in carcere e fuori, ho subito arresti ma nessuno mi ha trattato con la negligenza di quel Giudice tutelare! Ho paura ogni volta che penso che questa persona quotidianamente da udienza e tenta di risolvere tragedie analoghe alla mia. Tutti i problemi che denunciavo sono diventati capi di imputazione contro di me! Avevo presentato diversi fascicoli: in uno parlavo di un mio parente, un pazzo criminale. Gli inquirenti non hanno letto le carte e mi hanno confuso con lui affibbiandomi i suoi precedenti. Addirittura durante il processo un Pubblico Ministero continuava ad accusarmi agitando quelle carte con un nome diverso dal mio e chiedendo al Giudice di farmi tacere mentre io, costretto al banco degli imputati neppure fiatavo. Il Pubblico Ministero ha richiesto che questo parente, pazzo criminale, venisse a testimoniarmi contro mentre era detenuto per estorsione! Ancora un episodio: Dietro mio interessamento assisteva la mamma un tale che millantava di essere Assistente domiciliare del Comune di Genova. Questo tale faceva promesse a vanvera e creava scenate estremamente penose.
Ricordo ad esempio che mi urlava contro che era inutile che mi dessi tanto da fare tanto la mamma sapeva che doveva morire. Ho portato dal giudice il numero di cellulare dello psicologo che seguiva questo tale, lettere di personalità del sociale che mi dicevano che facevo bene a tutelare mia madre da quello che poteva essere un millantatore malato, lettere del Comune di Genova che confermavano che questo tale era uno sconosciuto. In carcere mi venne notificato che, tra i numerosi capi di imputazione, avevo anche allontanato questo sedicente “Assistente domiciliare” del Comune di Genova. Il Giudice Tutelare riuscì anche a scrivere: “In vista di eventuali peggioramenti della mamma..” come se il cancro fosse una malattia dell’infanzia e non dovesse mai più ripresentarsi…Riuscì a Dimenticare una neoplasia. Pochi giorni dopo l’udienza, la mamma fatalmente rifiutava la visita di controllo e per convincerla a farsi visitare è stato necessario chiedere l’intervento del sacerdote, amici di famiglia, ed il medico curante che, alla fine, ha risolto la situazione. È facile immaginare la mia esasperazione. C’è stata poi una lite ed i miei congiunti hanno praticamente sequestrato mia madre, impedendo ogni contatto e portandola per una pazzesca ritorsione a denunciarmi. Hanno portato una vecchia di 80 anni che rifiuta di curarsi il cancro in una caserma dei Carabinieri, a denunciarmi che lo sto rovinando la vita con le medicine! La denuncia è andata avanti ed un PM ha chiesto il mio arresto circa un anno dopo. hanno dato retta alle calunniose dichiarazioni dei congiunti che temevano eventuali azioni del Giudice Tutelare ed hanno dato retta alle dichiarazioni incoerenti della mamma anziana difficilissima che malediceva me ed i medici che l’hanno in cura. Per avere notizie della mamma in quell’occasione dovetti denunciare la scomparsa di persona. Mia madre rimase senza cure adeguate durante la permanenza dai parenti e, con buona pace del Giudice Tutelare, il male riesplose ed io mi sono dovuto raccomandare ai Carabinieri che mi arrestavano, affinché qualcuno la seguisse per la chemioterapia che doveva effettuare nei giorni successivi. Elenco brevemente molte prove della mia innocenza immediatamente a disposizione degli inquirenti che avrebbero potuto risparmiarmi l’arresto. Avevo inviato al Giudice tutelare un certificato medico che diceva che la mamma rifiutava le terapie ed aveva bisogno di sostegno psicologico per i conflitti tra i famigliari. Questo documento rimase ignorato. Durante le prime indagini nessuno tra le Forze dell’ordine si è mai neppure reso conto che è impossibile procurare lesioni ad una malata di cancro che viene sottoposta a continui esami medici senza lasciare tracce. Noto che il capitano della Stazione dei Carabinieri che ha proceduto al mio arresto mi confidò che suo padre era mancato di leucemia a 59 anni ma, procedendo con le indagini su indicazioni del PM, non gli è venuto in mente di richiedere la documentazione medica. Sarebbe stato sufficiente vedere i certificati medici ai medici per provare ancora una volta la mia innocenza. Mi hanno anche accusato di essere stato paziente per anni in un Centro di Salute Mentale. Ho dovuto provare che durante quel periodo ero un brillante studente universitario quindi non potevo essere in preda ad un grave esaurimento nervoso ed io ho poi scoperto in carcere che il Centro di Salute mentale indicato nel Mandato di cattura nemmeno esiste! Mi fu spiegato da una psicologa molto gentile invitandomi a considerare che la verità sarebbe emersa. Hanno interrogato una vicina di casa che io invitavo per tenere compagnia alla mamma ed a me e che veniva a fare le iniezioni. Ha detto che ero una persona molto gentile e premurosa e che sul corpo della mamma non vi erano tracce di alcuna lesione. Potrei continuare a lungo. Per queste ragioni ero un soggetto di elevata pericolosità sociale, un pericolo pubblico che meritava l’arresto! Mentre mi trovavo nel Carcere di Marassi il Giudice Istruttore, un inquisitore terribile è stata la prima persona che cercando fanaticamente le ragioni della colpevolezza ha trovato le prove della mia innocenza. Alla fine quando non sapeva nemmeno più di cosa accusarmi mi ha contestato che scaricavo film da internet! Per potere essere ascoltato, per ripetere ancora come stavano davvero le cose le cose ho dovuto essere indagato in carcere! I giornali cittadini mi danno spazio e scrivono cose assurde esaltando il mandato di cattura: “Ingegnere schiavizza la madre, gli rompe la mandibola” è così via. Per quanto mi riguarda ho assistito a come si svolgono i fatti, a come i fatti possono essere stravolti in tribunale ed ancora sui giornali. Il risultato di questo processo è l’inferno del carcere italiano. Vorrei potere raccontare che cosa succede nell’inferno di Marassi e che cosa soffrono i detenuti che spesso poi sono solo dei disgraziati o addirittura persone innocenti come il Dott. Antonio Vozza il mio compagno di cella. Accenno solo ad alcune cose che ho visto di persona: Lo Stato Italiano viola l’articolo 27 della sua Costituzione e quello che nel nostro tempo sono definiti “Diritti Umani”, il trattamento riservato alla popolazione detenuta spesso non ha nulla da invidiare a quello veniva riservato nei Lager nazisti, nei Gulag o nelle moderne carceri americane di alta sicurezza Abu Grahib e Guantanamo. Vittime non sono solo i detenuti, dei quali non importa a nessuno, ma anche gli agenti di Polizia Penitenziaria: Vi sono tra queste persone figure eccezionali, come l’ispettore del Sesto braccio del carcere di Marassi, criminali aguzzini che non hanno nulla da invidiare ai delinquenti che custodiscono e moltissime persone per bene che, costrette in quell’inferno, si suicidano. I caduti della Polizia Penitenziaria non sono gli agenti vittime dei detenuti ma gli agenti medesimi vittime del Sistema Penitenziario. Le cure mediche in carcere sono impartite in maniera assolutamente approssimativa, ritengo anzi che spaventare i detenuti con diagnosi approssimative faccia parte della pena. Personalmente mi fu riscontrato un difetto cardiaco congenito che una volta libero risulta inesistente. Un detenuto in preda ad ischemia non venne soccorso perché il medico immagina che fingesse per essere scarcerato. Vengono somministrati psicofarmaci per reggere l’incubo della prigionia senza alcun vero criterio medico. Il risultato è che i detenuti, solo per questo motivo, sono ridotti in condizioni disumane. Ho riflettuto che sarebbe sufficiente costringere i delinquenti ai moderni psicofarmaci piuttosto che alla detenzione per distruggerli e punirli a sufficienza. La medesima psicologa che con me era molto gentile, per verificare il ravvedimento del mio compagno di cella, il Dott. Antonio Vozza e concedergli il permesso di vedere la moglie lo prendeva a schiaffi spingendolo a confessare finalmente delitti che non aveva commesso. Lui la invitava a non bestemmiare e subiva l’aggressione con una dignità che probabilmente io non sarei stato capace di mantenere. Dopo un mese di detenzione sono passato ai domiciliari proprio nell’abitazione del parente pazzo criminale che mi ha ridotto alla fame e torturato. Ho perso un controllo dei Carabinieri e sono stato processato per direttissima venendo assolto perché i fatti non sussistono. Sono stato rinchiuso in una camera di sicurezza per circa una giornata. La camera di sicurezza è una delle numerose torture offerte nelle prigioni italiane: un luogo blindato, assolutamente spoglio e sempre illuminato reso ancora più alienante dal continuo e monotono ronzio dell’aria condizionata. Ho compreso perché la gente in un luogo di quel genere, spinta dalla solitudine inizia a parlare da sola o con gli insetti che immagina di trovare. I carabinieri che procedevano al mio fermo sono stati gentilissimi ed estremamente corretti ma uno di questi mentre mi veniva offerto l’unico pasto decente della mia detenzione mi diceva che dovevo mangiare tutto entro cinque secondi contandoli. Mancavano solo quattro giorni alla scadenza della mia carcerazione preventiva ma sono stato arrestato nuovamente! Un altro giudice per le indagini preliminari, mentre il titolare della mia inchiesta era in ferie, aveva preso in mano il mio fascicolo privo dell’assoluzione per l’evasione. Anche in questa occasione un giudice per le indagini preliminari non ha letto le carte. Il risultato di questa criminale negligenza sono gli arresti privi di ragione. I carabinieri che procedevano al mio arresto non hanno contattato il mio avvocato che era andato in ferie. Ho protestato la mia innocenza in macchina e sono stato minacciato che mi sarebbero state messe le manette anche ai piedi e questa volta le mani mi sarebbero state bloccate dietro. Ho preferito tacere. Giunti a Marassi i Carabinieri dando l’ennesima prova di correttezza si sono raccomandati agli agenti di polizia penitenziaria affinché io avessi il trattamento più umano possibile. La cella migliore di Marassi pare essere quella recentemente riservata agli omosessuali affinché non fossero violentati dai compagni di cella. Io non sono omosessuale. Alla fine mi hanno rigettato ancora nel braccio dei mostri e degli infami, nella medesima cella in cui ero stato imprigionato la prima volta molto vicina a quella dove era stato Don Seppia, il sacerdote che violentava i bambini in difficoltà. Vedere i detenuti che mi salutavano con affetto e si ricordavano di me è stato agghiacciante. Ero di nuovo nell’incubo di Marassi e non capivo perché e cosa stava succedendo. Alcuni agenti di polizia penitenziaria hanno tentato di aiutarmi ma sono stato dimenticato in quell’inferno per circa un mese. La mia ragione ha vacillato... Ricordavo di essere stato assolto per il reato di evasione ma la realtà assolutamente mi confermava che ero di nuovo in carcere. Ho preso degli psicofarmaci ed anche io ne sono stato distrutto... Solo adesso a distanza di tempo riesco ad avere una idea del danno nervoso che mi hanno prodotto... Per gran parte di quel tempo infinito l’unico spazio che ho avuto a disposizione era quello occupato dal mio corpo. Chiesi ad un agente di Polizia penitenziaria se mi apriva lo spiraglio di una finestra ma mi disse: "No, fai la galera". Un altra frase che mi rivolta durante la mia detenzione: "Tu non puoi nulla, tu devi tutto!" Un altro giudice per le indagini preliminari ha riletto le mie carte ed ha ordinato la mia liberazione ma “Ora che sapevo in che cosa consisteva la massima sanzione” non mi dovevo avvicinare alla mia casa né a mia madre malata riducendomi così all’uscita del carcere come un barbone. Mi ero ridotto e sono ancora oggi un preoccupatissimo barbone. Nessun amico mi ha dato una mano in quel momento. Ritengo che l’atto giudiziario scritto da quel magistrato avesse poco a che fare con il Diritto ma fosse, più semplicemente, una minaccia che un giudice rivolge ad una persona detenuta. Per rivedere mia madre il Giudice titolare dell’inchiesta ha preteso che fossi visitato da uno psichiatra affinché io capissi quale fosse il mio ruolo famigliare! Cosciente di come ero stato distrutto dalla detenzione, dagli psicofarmaci e dalla tragedia che stavo vivendo ho naturalmente accettato. Ho subito in carcere e fuori circa una decina di visite psichiatriche. Una perizia alla fine ha certificato che ero sano di mente, privo di significativi disturbi della personalità, capace di intendere e volere e quindi imputabile. Lo psichiatra che mi ha visitato è il medesimo specialista che ha visitato Donato Bilancia, Stefano Diamante, Katerina Mathas e tanti altri. Per Natale il Giudice mi concesse finalmente il permesso di vedere mia madre ma non lo firmò e se ne andò in ferie. Intervenne ancora un altro Magistrato che prima firmò il permesso e successivamente andò a leggere gli atti, cambio idea, e nel giro di un ora lo ritirò. Mi sentì male e protestai con i carabinieri che fecero un drammatico rapporto al Tribunale contro di me. Per quanto mi riguarda, quattro dei Giudici per le Indagini Preliminari del Tribunale di Genova sistematicamente non leggono le carte e spesso quando alla fine prendono atto non hanno idea su che cosa devono decidere. Spinto dalla disperazione, poiché pareva che non potessi vedere più mia madre, ho dovuto violare l’istanza restrittiva ed incontrarla. Un gesto che per me significava ritornare ancora in carcere. Un gesto che ha rivelato un coraggio che nei fatti non ero certo di avere. Il Giudice scoprendo alla fine una clemenza ed una umanità eccezionale non mi ha risbattuto in galera ma mi ha rinviato a giudizio. Durante il processo gli indizi gravi che dovevano giustificare il mio arresto si sono finalmente dimostrati privi di qualsiasi fondamento: la mamma, che è venuta a testimoniarmi contro mentre era in chemioterapia, ha rilasciato numerose dichiarazioni confuse, contradditorie, prive di riscontri obiettivi ed addirittura contraddette dai fatti. ha addirittura lamentato lesioni prodotte da percosse che la certificazioni mediche hanno dimostrato prodotte da malattia cioè inesistenti. Tutti quanti si sono rimangiati le accuse agghiaccianti che hanno causato la mia detenzione ed il Giudice ha fatto finta di accorgersene. Sono stato assolto perché i fatti non sussistono. Avrei finalmente potuto tornare a casa, riprendermi professionalmente e rivedere mia madre in questo drammatico momento. Ha trovato però la proverbiale porta di legno: da gennaio mia madre è praticamente scomparsa e sono stati disdettati in pochissimi giorni affitto, utenze gas, luce ecc.. Sto cercando disperatamente mia madre che è sempre più confusa e malata. Passo dei momenti terribili. Temo sempre possa succedere qualcosa a causa della malattia. Vivo con enormi difficoltà dei risparmi di una vita fatti con lavori a tempo determinato. Non vi è lavoro a Genova ed addirittura i miei computer che erano stati sequestrati, strumenti del mio lavoro con inestimabili ricordi, mi sono stati restituiti sfasciati. Ho denunciato diverse volte i miei parenti per il loro comportamento odioso e criminale, per le loro dichiarazioni false calunniose e diffamatorie che hanno distrutto la mia vita ma il Tribunale di Genova in questo caso pare non accorgersi di nulla e rimane immobile. Il processo non è ancora finito e spero che in appello sia fatta Giustizia confermando la mia innocenza e incriminando i miei parenti.
Facebook Luigi Corrias 6 giugno 2018. Oggi sono stato ancora assolto in Appello per il reato di violenza domestica contro la mia povera madre. I miei parenti sono stati condannati a pagare le spese processuali. Dopo oltre sei anni vedo la fine di questa tragedia che ha distrutto la mia vita.
PARLIAMO DI PEDOFILIA.
La pedofilia, breve accenno storico.
La mitologia sia orientale che occidentale, descrive sacrifici e uccisioni di bambini destinati a placare e a soddisfare la sete di vendetta di divinità femminili. Lo studio del mito fa emergere come anche presso civiltà e culture remote, neonaticidio, infanticidio e figlicidio fossero conosciuti e praticati proprio dalle custodi e protettrici dell’infanzia: le donne.
Nel Satirycon di Petronio troviamo il racconto di uno stupro di una bimba di sette anni al quale assisteva compiaciuto un gruppo di donne. (L. Petrone, M. Troiano, 2005, “E se l’orco fosse lei?”, Franco Angeli, Milano). Ancora più celebre è la tragedia greca di Sofocle che narra del rapporto incestuoso tra madre e figlio. La tragedia finisce con il suicidio di Giocasta e con Edipo che si acceca e fugge via errando solo per il mondo.
Certo la mitologia non è la realtà, i racconti che le appartengono non sono la realtà ma c’è chi li immagina e questo basta a creare un punto di contatto tra mito e mondo reale. Grazie a Freud poi mitologia e realtà si intersecano ed Edipo esce dalla sua tragedia greca per entrare a far parte della realtà psichica. Il "complesso di Edipo" presente nelle vicissitudini evolutive della libido di ogni individuo tende ad allontanarsi nel tempo, per richiesta interiore e sociale, anche se è facile osservare come ognuno ne conservi memoria: ogni bambino che sopravvive nell'adulto, porta con sé i desideri di un vissuto lontano caduti nella sfera dell'inconscio (A. Berti, S. Martello, 1995).
Incesto: Aspetti antropologici, psicologici e legislativi.
Nella psicologia analitica, di cui Freud è stato precursore, la sessualità è un argomento estremamente complesso perché riguarda un istinto profondamente influenzato dai modelli culturali, radicato nella coscienza collettiva ma anche nell’inconscio collettivo, oltre che naturalmente nell’esperienza personale. (M. Valcarenghi, 2007, ”Ho paura di me”, Mondatori, Milano). Potremmo sostenere quindi, che la sessualità è un po’ natura e un po’ cultura in interazione tra loro. Se andiamo a vedere come la pedofilia si inserisce nel contesto storico, appare evidente il realismo di quanto sostenuto dalla Valcarenghi nel suo interessante libro. Nel corso della storia, il bambino non è sempre stato considerato un essere umano bisognoso della guida e del sostegno della famiglia, ma una “cosa” di proprietà dei genitori in generale e della madre in particolare. Bisogna arrivare al XVIII secolo in Francia, dove, in seguito alla rivoluzione francese, la costituzione del 1793 proclamò i diritti dei Bambini. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Il bambino non è più considerato un “micro adulto” ma un soggetto provvisto di una sensibilità e di una coscienza sue proprie. Si incomincia così ad indagare lo sviluppo psicofisico dell’infanzia e le conseguenze di trattamenti, che si pensa il bambino non possa ancora capire e vivere nella sua complessità. ( M. Valcarenghi, 2007).
Per millenni, fino al XX secolo, la pedofilia è stata di volta in volta consentita, vietata, ritualizzata, tollerata: dimostrazione inoppugnabile che si è sempre trattato di un comportamento socialmente rilevabile, con cui fare i conti, dall'omosessualità pedofila maschile e femminile dell'antica Grecia al divieto ecclesiastico, stabilito nel Medioevo, di contrarre matrimoni sotto i sette anni di età. (Licia Granello, dweb.repubblica.it). L’ abuso sessuale su minori è sempre esistito in ogni gruppo umano, non possiamo limitarci a considerarlo un incidente storico di questa o quella civiltà, va contestualizzato all'interno di relazioni sociali e culturali, assumendo un significato differente a seconda del periodo storico considerato e della cultura dominante. In Iran e in Afghanistan, per esempio, l’omosessualità è contro natura, certo non è più così in Europa. Ma in Iran e in Afghanistan, le bambine che a nove anni vengono vendute dal padre a uomini di quaranta o cinquant’anni non sono considerate vittime pedofile come in Europa, né i suoi genitori subiscono processi o condanne sociali. (M. Valcarenghi, 2007).
Schinaia, dà una lettura esplicita di questo, quando sostiene che: “Il diverso significato che viene ad assumere la relazione pedofila, la sua relatività storica, prescinde dalla constatazione che c'è la costante presenza di un minimo comune denominatore, che consiste nella dissimmetria esistente nel rapporto tra l'adulto e il bambino o l'adolescente. Tale asimmetria si costituisce in ogni caso come il cardine di una relazione di abuso, al cui interno si determina un divario di potere che nessuna passiva acquiescenza, scambiata o contrabbandata per consenso, potrà annullare o ridurre”. (C. Schinaia, 2001, Pedofilia, Pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Bollati Boringhieri, Torino).
Nell’antica Grecia, l’omosessualità pedofila femminile era ritualizzata nelle tiasi, comunità educative nelle quali le bambine libere e di famiglie ricche, venivano addestrate a diventare donne, da maestre che insegnavano loro le arti e le scienze, la cura della persona e della casa, la danza, il canto e anche il piacere sessuale. Saffo, come è noto, dirigeva una tiasi nell’isola di lesbo, ma numerose altre comunità analoghe erano sparse per la Grecia dell’epoca classica. (M. Valcarenghi, 2007). A Sparta, Lesbo e Militane, donne adulte usavano avere delle amanti tra le adolescenti, ed era costume unirsi alle ragazze prima del matrimonio, così come avveniva per i fanciulli da parte di adulti maschi. (V. Picariello, 2008, www.tesionline.it).
Le cronache odierne non sono testimoni di una civiltà degna del nome che porta. Un recente dossier sul turismo sessuale, ci racconta storie di bambini il cui corpo è usato e abusato dal “gentil sesso”. Racconta Claudia Marsico, avvocato civilista, che “Cresce il numero dei minorenni che giungono nei Pronto soccorso per bruciature, ferite superficiali. A provocarle non sono più solo gli uomini ma anche donne, della famiglia o vicine alla famiglia. L'età delle vittime, si aggira sempre sui quattro, cinque anni ma ci sono anche casi, racconta Claudia Marsico, di bambine e bambini di pochi mesi”.
(Inchiesta del settimanale Anna sulla pedofilia femminile - N. 15 del 13 aprile 2004 di Silvia Ferrarsi). Violentare e uccidere un bambino è stato consentito in tutte le culture schiaviste, anche in quelle del XIX e XX secolo negli Stati Uniti, in Germania, in America Latina, in Africa. Di fronte ad un comportamento sessuale deviante sembra quindi opportuno evitare sbrigative etichette, quali “patologia dell’istinto” e “perversione” da applicare alla personalità del colpevole, per cominciare invece a chiederci: perché questa persona ha deragliato dalle regole sociali? Naturale o innaturale che sia la sua sessualità, che cosa l’ha spinta a trasgredire, qual è il suo rapporto con il mondo in cui vive, quale la sua consapevolezza morale e quali motivazioni inconsce? (M. Valcarenghi, 2007).
La parola pedofilia deriva dal tema greco παῖς, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto). In ambito psichiatrico la pedofilia è catalogata nel gruppo delle parafilie, ovvero tra i disturbi del desiderio sessuale, e consiste nella preferenza erotica da parte di un soggetto giunto alla maturità genitale per soggetti che invece non lo sono ancora, cioè in età pre-puberale. Il limite di riferimento di età varia da persona a persona (poiché ogni individuo raggiunge la maturità sessuale in tempi diversi), ma oscilla generalmente tra gli 11 e 13 anni. Nell'accezione comune, al di fuori dall’ambito psichiatrico, talvolta il termine pedofilia si discosta dal significato letterale e viene utilizzato per indicare quegli individui che commettono violenza attraverso la sessualità su di un/a bambino/a, o che commettono reati legati alla pedopornografia. Questo uso del termine è inesatto e può generare confusione. La psichiatria e la criminologia distinguono i pedofili dai child molester (molestatori o persone che abusano di bambini); le due categorie non sono sempre coincidenti. La pedofilia è una preferenza sessuale dell’individuo o un disturbo psichico, non un reato. La pedofilia definisce l’orientamento della libido del soggetto, non un comportamento oggettivo. Vi sono soggetti pedofili che non attuano condotte illecite, come si hanno casi di abusi su bambini compiuti da individui non affetti da pedofilia.
La diagnosi in psichiatria. L'attrazione sessuale - in qualche misura - verso i bambini non è sufficiente per la diagnosi di pedofilia. La psichiatria (secondo il criterio DSM IV-TR) definisce pedofili solo quelle persone, aventi più di 16 anni, per le quali i bambini o le bambine costituiscono l’oggetto sessuale preferenziale, o unico. Occorre inoltre che il sintomo persista in modo continuativo per almeno 6 mesi. Non si considera pedofilia il caso in cui la differenza di età tra gli individui sia minore di circa 7 anni. Non sono da considerare pedofili i soggetti attratti principalmente da persone in fasce di età pari o superiori ai 12 anni circa, purché abbiano già raggiunto lo sviluppo puberale: l’attrazione per gli adolescenti è definita con i termini poco usati efebofilia e ninfofilia o «sindrome di Lolita».
Il criterio psichiatrico DSM prevede diverse specificazioni, la pedofilia può essere:
· di Tipo Esclusivo (attratto solo da bambini/e);
· di Tipo Non Esclusivo (persona attratta anche da persone adulte);
· di Tipo Differenziato (attrazione solo per uno dei due sessi);
· di Tipo Indifferenziato.
L’attrazione per bambini maschi risulta mediamente più resistente fra i child molester: il tasso di recidiva dei soggetti attratti da bambini è circa doppio di quelli attratti da bambine. Tali aspetti sono anche meglio dettagliati nell'ambito della psicopatologia sessuale dei Sexual Offender, vale a dire di quella categoria di persone che a motivo della loro compulsività sessuale rientrano nelle casistiche giudiziarie e attuano comportamenti che vengono riconosciuti come penalmente rilevanti. Il Tipo Indifferenziato inoltre sembra essere mediamente più grave del Tipo Differenziato. Vi è inoltre una forma di pedofilia limitata all'incesto (interesse rivolto solo a figli/e o a fratelli/sorelle). D'altra parte, il criterio categoriale del DSM non considera l'aspetto dimensionale del disturbo: vale a dire che nell'ambito della stessa diagnosi esistono svariate manifestazioni di gravità della stessa che solamente un accurato esame della psicopatologia sessuale è in grado di definire con precisione.
Analisi del fenomeno. Reati di pedofilia si sono verificati in tutti i luoghi dove sono presenti bambini: famiglie (nel qual caso potrebbe trattarsi di incesto), centri religiosi (seminari, oratori), scuole d'infanzia, associazioni giovanili (negli Stati Uniti d'America i boy-scout). Data l'estrema ampiezza di tipologie di reati, che talvolta non richiedono nemmeno il contatto fisico col bambino (es. esibizionismo, riproduzione di materiale pedopornografico, ecc.), la diffusione dei reati di pedofilia è considerata elevatissima. «Il 10-30% circa dei bambini subisce molestie sessuali entro i 18 anni. L'attrazione del pedofilo può essere rivolta sia verso i bambini sia verso le bambine, ma sembra che queste ultime siano le vittime più frequenti (88%).» Nel maggio 2007 tutti i media hanno parlato ripetutamente di notizie su reati svolti da membri del clero, sulla base del fatto che oltre 4000 sacerdoti sono stati accusati di abuso di minori negli USA e in Canada. Si tratta però del numero totale delle accuse raccolte in un arco di 50 anni e comprende non solo i casi di pedofilia in senso stretto, ma anche i rapporti con adolescenti minori di anni 18. Sino ad oggi le condanne per pedofilia hanno riguardato solo 40 casi su 4000. Nel giugno 2009 il cardinale Claudio Hummes, Prefetto della Congregazione per il Clero ha dichiarato al settimanale cattolico spagnolo Vida Nueva che i casi di pedofilia a volte non arrivano nemmeno al 4% dei sacerdoti. Questa dichiarazione rettifica una precedente intervista dello stesso cardinale Hummes del 5 gennaio 2008 all'Osservatore Romano, in cui dichiarava che tra i sacerdoti neppure l'1% ha a che fare con problemi di condotta morale e sessuale. Nel settembre del 2009 l'arcivescovo Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’ONU di Ginevra, in una dichiarazione emessa in una riunione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, in relazione ai crimini sessuali sui minori, ha dichiarato che nel clero cattolico solo tra l’1,5% e il 5% dei religiosi ha commesso atti di questo tipo. La cifra del 4% è stata contestata anche dallo studioso Massimo Introvigne, sulla base di uno studio indipendente condotto dal John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che non è un’università cattolica ed è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione accademica degli Stati Uniti in materia di criminologia. È uscito un libro dal titolo Atti impuri nell'anno 2009 che riporta cifre aggiornate sulla pedofilia nella Chiesa americana. Tra il 1950 e il 2004 si sono registrati undicimila casi documentati di abusi sessuali su minori i cui autori sono preti. Mediamente i preti diocesani implicati negli abusi sono il 4,3 per cento. Alcun anni hanno prodotto percentuali molto alte di preti pedofili. Nel 1963, 1966, 1970, 1970 e nel 1974 si è arrivati all'otto per cento di predatori diocesani, fino al nove per cento del 1975. Nel libro si fanno anche delle estrapolazioni su quelli che possono essere i limiti del fenomeno pedofilia (abusi su minori) nella Chiesa e si stima che i casi sono stimabili in quaranta-sessantamila che farebbero salire il tasso dei preti abusanti a percentuali altissime.
Per quanto riguarda i crimini più efferati, uno studio del Centro Aurora di Bologna (Centro Nazionale per i bambini scomparsi e sessualmente abusati) ha evidenziato che in Italia dal 2004 al 2007 sono scomparsi 3.399 minori, non ritrovati nel periodo considerato. Lo stesso studio, coadiuvato dalle denunce del Procuratore Nazionale Antimafia, Pier Luigi Vigna, suggerisce che i mercati illeciti principali per questi bambini e ragazzi sono essenzialmente tre:
· Pedofilia
· Traffico di organi
· Satanismo
È indispensabile però mettere in conto il fatto che molto spesso è estremamente difficile sia verificare sia smentire le accuse di pedofilia. Altri autori, quindi, giungono a conclusioni diametralmente opposte. Secondo Fabrizio Tonello: "meno di cento bambini viene rapito ogni anno e quasi nessuno di questi rapimenti ha a che fare con crimini a sfondo sessuale". Anche il grande numero di accuse di pedofilia sarebbe spesso dovuto a isteria collettiva. Sono documentati numerosi casi di falsi abusi su minore che hanno portato a condanne di innocenti o ad assoluzioni solo dopo anni di indagini e processi.
La pedofilia in Italia. Secondo i dati raccolti da Telefono Azzurro e pubblicati nel rapporto nazionale sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza, quasi il 60% degli abusi su minori avviene in famiglia. Nel panorama internazionale emerge che in Francia e in Inghilterra i minorenni vittime di abuso sessuale sono molto più numerosi, ma ciò che preoccupa in Italia è il "sommerso": è probabile, infatti, che alcune situazioni di abuso non arrivino alla denuncia.
L'attendibilità delle testimonianze infantili. In Italia è stato messo a punto un protocollo realizzato dalla collaborazione interdisciplinare tra avvocati, magistrati, psicologi, psichiatri, criminologi e medici legali dopo il convegno "Abuso sessuale sui minori e processo penale", tenutosi a Noto il 9 giugno 1996. Questo documento chiamato appunto Carta di Noto, aggiornato il 7 luglio 2002, prescrive la prassi da seguire nel ricevere la testimonianza del bambino o della bambina. La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che le direttive contenute nella "Carta di Noto" rappresentano delle mere indicazioni metodologiche non tassative, con la conseguenza che l'eventuale inosservanza di dette prescrizioni non comporta la nullità dell'esame.
Le fantasie infantili secondo Freud. Molti accusati di pedofilia sono stati assolti nonostante testimonianze oculari (il ricordo vivo e particolareggiato dei minorenni coinvolti), rivelatesi poi non attendibili e in contrasto con i riscontri probatori. In psicologia, è noto che una persona può avere un ricordo molto vivo e dettagliato di eventi, che sinceramente crede che siano accaduti, ma che non si sono mai verificati in realtà. Perciò, anche se la testimonianza proviene da un bambino, che non può avere interesse a testimoniare il falso, le indagini devono trovare riscontri probatori oggettivi, per non fondare la pubblica accusa solo sulla base di testimonianze oculari. Le accuse di pedofilia talora rivolte da bambini minorenni nei confronti dei genitori potrebbero rientrare in «sogni ad occhi aperti», che sono un appagamento compensativo nell'immaginazione di desideri che il bambino avverte come pericolosi, reprime e tende a dimenticare. La soddisfazione avviene in un modo semplice, producendo un ricordo che è identico a quello che si sarebbe voluto che accadesse nella realtà. Quando la personalità diviene più forte, nell'adulto, la compensazione e rimozione divengono più capaci di soddisfare un desiderio in modo diverso dalla volontà iniziale, ma con azioni nella vita reale, senza forzare la memoria e i ricordi. La tesi di Sigmund Freud e della figlia Anna (che parlò più esplicitamente di queste fantasie infantili) è stata a volte portata come prova nei tribunali per smentire accuse di pedofilia. Tuttavia la loro tesi è stata oggetto della più feroce critica da parte di Jeffrey Moussaieff Masson, che durante i primi anni ottanta era direttore dei Freud Archives: «Consideriamo per quanto tempo gli psicoanalisti hanno negato la realtà degli abusi sessuali sui bambini. Questi abusi esistevano già molto tempo prima che se ne occupasse Freud, ma le sue conclusioni, non provate, che il fenomeno fosse in gran parte immaginario, lo tenne occulto fino a quando il movimento femminista non ne rivelò la vera diffusione.» Presunti abusi infantili sono anche riemersi nella memoria di migliaia di pazienti adulti sottoposti a psicoterapia o altre cure analoghe, determinando un vivace dibattito scientifico sulla loro attendibilità e un seguito di contenziosi legali.
Da vittime a carnefici. Secondo alcuni studi, una rilevante percentuale dei condannati per pedofilia ha a sua volta subito abusi durante l'infanzia. «È stato osservato che i bambini che erano stati oggetto di attenzioni pedofiliche mostrano da adulti un comportamento analogo con maggior frequenza rispetto alla popolazione generale.» Freud affermò che i traumi infantili in generale sono inguaribili e lasciano ferite che non rimarginano più e che provocano, negli adulti con una storia di abusi nella loro infanzia, una molteplicità di fenomeni a carico della sfera emotiva, relazionale, sociale, comportamentale di varia profondità. Tale fatto determina due elementi di rilievo per la legislazione in materia: da un lato evidenzia la gravità del danno subito dal bambino (e quindi della colpa del reo), dall'altro lascia intuire la difficoltà di stabilire capacità di intendere e di volere del reo, in quanto è possibile che sia affetto da turbe psichiche (o raptus improvvisi) a causa di violenze pregresse subite nell'infanzia. D'altra parte la complessità del problema emerge chiaramente in ambito clinico a fronte delle difficoltà nelle quali si vengono a trovare i professionisti (psichiatri e psicologi) che trattano le persone affette da pedofilia.
Terapia. Il programma terapico si pone queste mete:
· il decremento dell'impulso sessuale rivolto al bambino mediante l'eliminazione di rinforzi positivi (la "cessazione di stimoli rinforzanti" del condizionamento operante) e tramite il controllo del turgore del pene;
· il decremento del coinvolgimento emozionale nei confronti del bambino;
· il miglioramento dei rapporti interpersonali con altri adulti;
· il decremento dell'ipersessualità.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è utile per interrompere i comportamenti parafilici appresi. Validi risultati si ottengono anche con la terapia di gruppo. Qualora il disturbo sia contraddistinto da un'ipersessualità, si ricorre a un trattamento psicofarmacologico usando il ciproterone acetato (CPA) e il medrossiprogesterone acetato (MPA), con durata superiore anche ai quattro anni. Se la pedofilia è associata ad altri disturbi psichiatrici, si può intervenire con antidepressivi e antipsicotici.
La pedofilia femminile. Sebbene gran parte dei pedofili sia di sesso maschile, una percentuale minore è rappresentata da adulti di sesso femminile. Gli abusi su minori commessi da donne tendono ad essere sottostimati rispetto a quelli commessi da uomini: uno dei possibili motivi è il fatto che questi avvengono spesso in circostanze in cui la donna è la persona che si prende cura del bambino, per esempio durante il bagno o mentre il bambino viene vestito o svestito. Le donne pedofile non hanno una età ben precisa, nella maggior parte dei casi l'età oscilla tra i 25 e i 55 anni, possibilmente con disturbi psichiatrici, in particolare depressione e abuso di stupefacenti; frequentemente hanno disordini della personalità (antisociale, borderline, narcisistico, dipendente). Quando una donna è coinvolta in atti sessualmente impropri verso minori si verifica un aumento del rischio che sia implicato anche un pedofilo uomo.
Alcune questioni aperte. La castrazione chimica.
La castrazione chimica è un trattamento farmacologico, che dovrebbe dissuadere il pedofilo da recidive eliminando la libido connessa all'atto violento ed è utilizzato in diversi paesi, spesso in combinazione con misure di sospensione condizionale della pena. Nel corso del 2005, l'allora ministro delle riforme Roberto Calderoli ne ripropose l'utilizzo in Italia. La castrazione chimica elimina la libido connessa con gli atti sessuali, solamente in via temporanea. L'accettazione di questa pratica è spesso la premessa di una libertà condizionale, anche se il trattamento farmacologico potrebbe non essere ripetuto, con il rischio di reiterazione del reato. In altre parole, è necessaria un'assunzione puntuale e prolungata nel tempo dei farmaci inibitori degli ormoni sessuali, non priva di conseguenze fisiologiche, maggiori di una castrazione chirurgica. Il trattamento tuttavia potrebbe risultare inefficace portando il paziente ad altre manifestazioni psicopatologiche. Nella memoria dell'opinione pubblica tedesca, per esempio, ricorre il caso della metà degli anni 'Ottanta su un maniaco più volte imputato di violenze nei confronti di minori e che richiese espressamente il trattamento farmacologico. Secondo taluni la terapia avrebbe portato l'uomo ad una forma di "impotenza" piuttosto che ad un'attenuazione della libido, un forte senso di frustrazione cui avrebbe fatto fronte con un comportamento ancor più violento. All'atto pratico l'uomo si macchiò di omicidio di una bambina, ma la giustizia tedesca riconobbe in lui uno stato di infermità emettendo una lieve condanna. La sentenza destò l'ira e la disperazione della madre della piccola vittima spingendola ad uccidere l'uomo. Costituitasi la donna ebbe l'unanime solidarietà dell'opinione pubblica internazionale e fu assolta. Questo episodio emblematico avrebbe portato dello scetticismo nei confronti del trattamento farmacologico.
La perdita del diritto alla privacy del pedofilo. Negli USA è in vigore la cosiddetta "Legge Megan", che prende il nome da Megan Kanka, bimba di sette anni rapita, violentata e uccisa nel 1994 da un vicino di casa pluripregiudicato per reati sessuali su minori. La legge prevede che chiunque venga condannato per qualsiasi genere di reato a sfondo sessuale perda essenzialmente ogni diritto alla Privacy per un periodo variabile, da un minimo di 10 anni dalla data del rilascio fino a tutta la vita, con l'obbligo di registrare presso le Forze dell'ordine il proprio domicilio e i propri spostamenti, il divieto assoluto di frequentare, o risiedere nelle vicinanze di, luoghi abitualmente frequentati da minori o dal genere di persona normalmente bersaglio dei propri crimini, e in taluni casi l'affissione di tali dati in un registro pubblicamente consultabile; alcune municipalità statunitensi offrono la possibilità a chiunque di accedere a tali dati tramite appositi siti Internet. L'applicazione di questa legge è ancora fonte di un aspro dibattito negli USA. Un'ampia parte dell'opinione pubblica la sostiene basandosi sul fatto che i predatori sessuali tendono ad un alto grado di recidiva; tuttavia alcuni Stati e comunità ancora rifiutano di applicarla, sulla base del fatto che interessa persone che hanno pagato il loro debito con la società scontando una pena detentiva, e che la violazione della loro privacy può mettere essi e le loro famiglie in pericolo di ritorsioni.
Collaborazione e conflitti fra diversi ordinamenti giuridici. Rapporti fra uno Stato e una Chiesa o un'associazione.
Il rapporto fra l'ordinamento giuridico della Chiesa Cattolica, il diritto canonico, e il diritto penale degli stati laici è cosa molto differente dal rapporto fra le legislazioni di stati diversi, sopra descritto. Il diritto canonico si interessa dei peccati, mentre il codice penale ha a che vedere solo con i reati. Per lo più i reati sono anche peccati, e nel caso della pedofilia peccati gravissimi, ma si tratta di cose concettualmente diverse. È indispensabile non confondere sul piano giuridico la Chiesa Cattolica con il Vaticano. La Chiesa è una comunità internazionale (articolata in chiese nazionali) retta da una "costituzione" (il diritto canonico, appunto), che gioca un ruolo identico a quello svolto dallo statuto di qualunque associazione. La Città del Vaticano, invece, è uno Stato, una monarchia assoluta, dotata di un territorio e di un proprio sistema legislativo e in quanto tale ha in comune con la Chiesa Cattolica solo il fatto di essere guidato dal Papa e nulla più. Come tutte le comunità, la Chiesa ha stabilito anche delle regole per sospendere o escludere i membri indegni e dei tribunali per applicare queste regole (in una associazione è il collegio dei probiviri). Chi abbia commesso un grave crimine, come ad esempio di pedofilia, sarà sottoposto dallo stato (o dagli stati) competenti a processo penale e simultaneamente sarà sottoposto a un giudizio da parte delle comunità a cui appartiene. Si tratta di giudizi autonomi sia nei tempi di svolgimento del processo sia nel verdetto. Nella chiesa cattolica la repressione dei crimini più infamanti contro i sacramenti e contro la morale, fra cui la pedofilia, è regolata dalla De Delictis Gravioribus, che ha sostituito nel 2001 la Crimen sollicitationis a seguito della riforma del codice di Diritto Canonico. Già la Crimen sollicitationis equiparava la pedofilia, dal punto di vista penale, ai casi più gravi di molestie sessuali durante il Sacramento della Penitenza (§73); per questi reati è prevista la pena massima possibile, cioè la riduzione allo stato laicale (§61). È previsto l'insediamento nella diocesi interessata di un tribunale ad hoc presieduto dal vescovo e composto di soli sacerdoti esperti di diritto canonico (non di avvocati rotali laici). Le sedute sono a porte chiuse e gli atti del processo secretati, data la natura infamante delle accuse. L'eventuale verdetto di condanna, però, è ampiamente diffuso per consentire l'implementazione delle pene (sospensione a divinis, scomunica, ecc.). Il secondo grado di appello è presso la Congregazione per la Dottrina della Fede a Roma. Il tribunale ecclesiastico, data la sua natura e finalità, non ha autorità per chiedere al colpevole di costituirsi presso le autorità civili e subire anche un processo da parte dello Stato, né a membri del tribunale o a testimoni oculari di denunciare il fatto. Resta naturalmente per tutti l'obbligo morale grave di fare tutto quanto è possibile per impedire che eventuali atti di pedofilia vengano ripetuti. Perciò i dettami del "diritto divino naturale" (uno dei fondamenti del diritto canonico) comportano l'obbligo perentorio di denunciare il presunto reo alle istituzioni ecclesiali. Lo stesso obbligo morale sussiste implicitamente verso i tribunali civili, fatte salve le notizie coperte da segreto pontificio (cioè quelle acquisite dalle udienze del processo: ad esempio una eventuale confessione del reo), che sono coperte dal segreto del confessionale, e fatto salvo il diritto di autotutela di vittime e testimoni, spesso riluttanti a procedere a denunce penali. Gli Stati laici riconoscono sia l'autonomia del diritto canonico sia la legittimità del segreto del confessionale. Ovviamente gli stessi sacerdoti o vescovi, se esecutori di atti penalmente rilevanti, sono assoggettati come chiunque al giudizio delle corti statali, secondo quanto è previsto dall'ordinamento giuridico di ogni nazione.
Le dichiarazioni della Chiesa cattolica. Per quanto riguarda le denunce di pedofilia nei confronti di sacerdoti cattolici, le dichiarazioni e i gesti di Benedetto XVI hanno assunto nel tempo i toni di una crescente condanna:
· Ottobre 2006, Irlanda, uno dei Paesi più colpiti: il Pontefice parla di «enormi crimini» di fronte ai quali «è urgente adottare misure perché non si ripetano» e tra questa misure indica la necessità di «garantire che i principi di giustizia siano pienamente rispettati».
· Aprile 2008, Usa: esprime «profonda vergogna» e, su iniziativa del cardinale di Boston, riceve cinque «vittime».
· 19 luglio 2008, Giornata Mondiale della Gioventù, Sydney: «Le vittime devono ricevere compassione e cura e i responsabili di questi mali devono essere portati davanti alla giustizia.» Oltre a questa nuova dichiarazione, ribadisce l'invito a: «riconoscere la vergogna che tutti abbiamo sentito a seguito degli abusi sessuali sui minori da parte di alcuni sacerdoti o religiosi di questa nazione. Sono profondamente dispiaciuto per il dolore e la sofferenza che le vittime hanno sopportato e assicuro che, come i loro pastori, anche io condivido la loro sofferenza». Come ultimo gesto prima di lasciare l’Australia a conclusione della 23ª Giornata mondiale della Gioventù, Benedetto XVI ha incontrato un gruppo rappresentativo (due uomini e due donne) di coloro che hanno subito abusi sessuali da parte del clero.
· 14 marzo 2010: Mons. Giuseppe Versaldi commenta lo scandalo degli abusi sui minori.
Nell'ottica ecclesiastica, quando il diritto canonico confligge col diritto civile, prevale il diritto canonico. Che, per i delicta graviora, come la pedofilia, prevede l'ammonizione, il trasferimento, l'isolamento, la penitenza e la preghiera, la sospensione a divinis, fino alla riduzione allo stato laicale. Non esiste un obbligo formale di denuncia da parte dell’autorità ecclesiastica, perché un vescovo non è un pubblico ufficiale. Il vescovo che tace non commette reato, a differenza ad esempio di un preside che tacesse.
Il 12 aprile 2010, il Vaticano pubblica una nota esplicativa della De delictis gravioribus del 2001, nella quale si chiarisce il rapporto con le leggi civili in materia di pedofilia. Dove le leggi lo prevedano, i vescovi sono obbligati a denunciare i fatti di pedofilia alle autorità preposte; se un ecclesiastico è stato riconosciuto colpevole da un tribunale civile, vi sono gli estremi per un decreto papale di riduzione allo stato laicale, senza processo canonico e senza possibilità di revoca. In questo modo, si realizza un primo riconoscimento in materia delle leggi e dei tribunali non ecclesiastici. È il primo documento che afferma il principio della collaborazione con le autorità giudiziarie. Viene poi superato l segreto pontificio, almeno in parte quando le leggi obbligano gli ecclesiastici, in qualità di cittadini, alla denuncia dei casi di pedofilia. Nulla è indicato in merito agli ecclesiastici, che di propria iniziativa, esercitando la libertà di coscienza, anche negli Stati in cui non sia obbligatorio denunciare fatti di pedofilia, denuncino altri ecclesiastici, o presenzino contro di loro come testimoni nei tribunali civili. Non vi sono accenni alla questione del trasferimento di diocesi o parrocchia per i pedofili: nessuna sanzione è prevista per i vescovi che si limitino a trasferire in altra diocesi i sospetti pedofili, né vige un obbligo di comunicazione "orizzontale" fra la diocesi di origine e quella di destinazione. Il vescovo può limitare preventivamente la libertà di azione dei prelati sospettati di pedofilia, in particolare le loro attività con i bambini. L'enciclica De delictis gravioribus, datata 18 maggio 2001 e rivolta a tutti i vescovi del pianeta, vieta gli ecclesiastici di testimoniare in tribunali civili, pena la loro scomunica. Il documento afferma che «nei Tribunali costituiti presso gli ordinari o i membri delle gerarchie cattoliche solamente i sacerdoti possono validamente svolgere le funzioni di giudice, promotore di giustizia, notaio e difensore» ribadendo che «le cause di questo tipo sono soggette al segreto pontificio» e che si sarebbero dovuti attendere 10 anni, da quando le vittime avessero compiuto la maggiore età, per rivelare le accuse (ottenendo in questo modo la prescrizione dei reati, a quel punto non più perseguibili). Secondo il testo della Crimen sollicitationis, il segreto è perpetuo e si estende anche dopo il termine del processo e la sentenza definitiva del tribunale canonico, e dunque non è un mero segreto processuale. La Crimen sollicitationis obbliga, a pena di scomunica, il colpevole, chi ha subito le molestie, o chiunque abbia notizie certi su episodi di abuso sessuale a denunciarli al Tribunale Canonico o al sacerdote, comunque ad autorità ecclesiastiche, non civili. La Crimen sollicitationis del 1962 è stata superata dalla riforma del Codice di Diritto Canonico del 1983.
Pedofilia ed internet.
Per entrare nella stanza dell'orco non bisogna nemmeno bussare. Si saltano le presentazioni. Nessuna maschera o identità posticcia. Al massimo: un nickname a scadenza. In molti casi neanche quello. Entri e fai i tuoi porci comodi, e anche ottimi affari. Indisturbato. Impunito. Senza pagare un centesimo. Anche se con Internet non sei un drago. Bastano un minimo di dimestichezza telematica e un paio di dritte giuste per accedere gratuitamente alla galleria degli orrori della pedofilia on line. Lì si può mettere in piedi, in quattro e quattr'otto, un mercato nostrano, redditizio. Scarichi, gratis, foto vietatissime, e le rivendi.
Spiega un italiano che si firma Eric e che conosco su un forum cileno: "Crei un free book a costo zero, lo immetti sul web, attivi le modalità di pagamento attraverso il solito sistema di carte di credito, e il gioco è fatto". In un giorno puoi mettere in cascina anche 10 mila contatti. Che sono un bel po' di soldi. Su 10 mila visitatori il 10 per cento (1000 utenti) acquista; un book di 10 foto viene sugli 80 euro (70 $); in ventiquattro ore i più furbi riescono a tirare su anche 80mila euro. Si chiamano pedosciacalli. Sono i nuovi raider della pedofilia telematica. Scaricano gratis e rivendono. Una figura di pedofilo autarchico, furbetto. Il business prima del piacere sessuale. O assieme. Sono loro, oggi, il vero incubo delle polizie postali di tutto il mondo.
Per un po' di giorni abbiamo navigato nel mare grande della pedopornografia: per capire quanto fosse diffuso, e quanto fosse facile entrarci. Troppo, in entrambi i casi. Abbiamo conosciuto i pedosciacalli e i pedofili delle chat, quelli che si scambiano materiale non a fini di lucro ma solo per piacere. E i pedofili culturali, certo, la versione sofisticata, solo apparentemente platonica, dell'orco. E poi i pedofili sfacciati, quelli che si mostrano in viso e ti invitano a entrare nella loro "grande famiglia". Quella dove l'amore "non ha barriere", e "i nostri angeli e le nostre ninfe meritano solo dolci carezze". Entrando in queste "grandi famiglie" - sono 256.302 i siti web monitorati dal 2001 a oggi dalla polizia postale, 155 quelli chiusi in Italia, 10.376 quelli segnalati all'estero - abbiamo visto foto e video di bambini e bambine di ogni età. Nudi, seminudi, qualcuno cosciente, la maggior parte no, tutti abusati, ridotti a pupazzi con lo sguardo vitreo dai loro aguzzini. È stato un viaggio nell'orrore, in un nero mercato che prevede anche la morte. I pedofili immettono nel circuito telematico immagini delle loro prede da morte dandole in pasto - a pagamento, fino a 20 mila euro in Europa, molto meno se riesci a scovarle sugli ormai diffusissimi e più economici portali mediorientali, soprattutto iraniani e iracheni o africani - ai maniaci del pedosnuff (snuff, morire). Oppure le fissano sul digitale quando devono ancora nascere.
Quando sono feti di sette-otto mesi. «La merce più rara e più ambita della pedofilia estrema, assieme ai bambini sfigurati vittime di incidenti stradali, oggi sono le ecografie neonatali - spiega don Fortunato Di Noto, dell'associazione Meter impegnata da anni nella lotta alla pedofilia - . Gli "infantofili", e cioè gli amanti del genere da 0 a 4 anni, una tipologia in continua crescita, se le contendono a caro prezzo: anche 10 mila euro se l'immagine è nitida. E il commercio sul web è sempre più fiorente». Alcune ecografie provengono dagli ospedali e dagli studi medici del Sud Italia, da Napoli, da Palermo, o dai paesini sonnacchiosi dell'entroterra dove tutto accade e nessuno sa. Non sanno i medici, non sanno le ostetriche, non sanno i genitori. Chi sa benissimo ciò che sta facendo sono i cyber utenti. Una tribù che ogni giorno a tutte le ore si scambia materiale, esperienze, curiosità, indirizzi web, consigli, sulla loro ossessione.
Sono un esercito gigantesco i pedofili virtuali. Alex, americano del New Jersey, barba e capelli stile Bee Gees, non si fa problemi a mostrarsi in viso, sbracato in poltrona, o nel letto, in compagnia delle sue lolite. Nel suo portale - del quale omettiamo volutamente l'indirizzo ma che è in assoluto uno dei più frequentati e forniti - Alex espone i prodotti della ditta. Si va dai neonati alle bambine di sette-otto anni. Ci sono foto da voltastomaco. Decine di porn lover page e in mezzo lui, in canottiera, orgoglioso, che tiene in braccio una bambina con addosso solo il pannolino. Mi informa che questo mese c'è un'offerta speciale: "79 $ per tutta la settimana". In pratica: paghi e per sette giorni hai accesso alle immagini. Ma decine di foto sono scaricabili senza pagare. Crearsi un quaderno personale è un attimo. Rivenderlo, pure. Una delle cose più impressionanti di questo mercato è la facilità con cui da consumatore puoi diventare produttore. Per dire: ci sono navigatori italiani che hanno spremuto il sito di Alex e ne hanno fatto un pozzo di approvvigionamento per i loro business. Non daremo il nome di questi e altri siti e chat e forum - l'iniziale e basta - per evidenti ragioni. Se ne occuperà la polizia postale. Gli adolescenti sono già bombardati dai pedofili via telefonino: una pioggia di messaggi per invogliarli a spogliarsi, a inviare foto in cambio di ricariche telefoniche e piccole regalie. Un adescamento sempre più diffuso, che ha per obiettivo finale l'incontro.
I primi connazionali con cui entriamo in contatto li incrociamo sul forum "K...". Una chat di boylover e girlover dove si danno appuntamento pedofili di tutto il mondo. Non ci sono foto, su "K"; solo messaggi. Dopo essere stati esaminati e accettati accediamo alla room chiamata the lounge. Michele-Ita e Salvatore-Ita: ci si firma così, con nome - vero o falso che sia - e sigla della nazione di provenienza. Michele mi dà il benvenuto in inglese: "Ciao, sono felice di conoscere una persona come me libera da pregiudizi. Questo - aggiunge con soddisfazione - è l'unico forum dove si può conversare liberamente e condividere in allegria la passione per i bambini e le bambine". Provo a rivolgere a Michele qualche domanda vagamente personale. E' evasivo. Mi dice solo: "Ho 48 anni e adoro i bambini tra i 10 e i 14 anni". I pedofili (a eccezione dei "culturali") non amano parlare troppo di sé. Di solito vanno subito al sodo. Si concentrano sulla preda. Sulle fotografie, sui video. Scambiano dritte sui siti dove poter reperire materiale. Salvatore-Ita snocciola un indirizzo buono fatto di molti numeri: "Vai su "2..." e troverai roba interessante". Clicco. Si schiude l'home page di uno dei portali più grossi e hard nel panorama della pedofilia virtuale. Sequenze interminabili di neonati e bambini ritratti in pose oscene. Mi accolgono in modo ospitale: "Benvenuto nella "sick...", il paradiso della depravazione infantile". Scene di sesso tra adulti e bambini, o solo tra bambini. Sono minori di varie nazionalità. A occhio, soprattutto Europa dell'Est, Asia, Africa. Secondo i dati raccolti dall'associazione Meter e incrociati coi colleghi di altre nazioni, i bambini coinvolti nel mercato pedopornografico sono oltre 2 milioni: il 78% femmine, il 22% maschi. Per il 70% sono di razza bianca, per il 20 di provenienza asiatica e africana, e per il 10 di origine araba e mediorientale.
L'archivio di free photo su "2...." è corposo. Basta cliccarci sopra e le puoi scaricare. La prima e anche l'ultima cosa che pensi è: possibile che nessuno riesca a bloccare quella sequenza di immagini? Domenico Vulpiani è il direttore capo della polizia postale: "I siti a pagamento, che in effetti contengono anche delle foto e dei video scaricabili gratuitamente, in realtà offrono sempre lo stesso materiale: sono come un film porno, le immagini sono sempre quelle. Ai veri pedofili oggi interessa roba nuova, produzione domestica, casalinga, non i posati, pure hard e molto spinti, dei pay site. Il materiale se lo scambiano nelle chat. Tra una discussione e l'altra. Anche se apparentemente innocuo, il terreno più infetto e pericoloso oggi sono proprio le chat". Lolita, Fiordaliso, Ninfe. Nomi da retorica pedopornografica. Parole chiave con cui accedere alle decine di forum dell'orgoglio pedofilo. E alle loro bacheche. Sempre su "2...": "Mi intriga molto la sezione dei ragazzini", scrive un tedesco che si firma Hans B. Eric, dalla Francia, ringrazia: "Complimenti per l'ottimo lavoro. Questo è in assoluto il sito che preferisco". Hans B lo ritrovo un paio di giorni dopo chattando su "C...", una chat creata dal cileno Alain (vive a Santiago, fa l'insegnante, film preferiti Fucking Amal e Lolita). "Vieni a trovarmi su "f..." e su "l...". Poi mi dici cosa ne pensi, a proposito di amore libero e senza più barriere. Ok?". Aggiunge: "Ho molto materiale da offrirti, tu ne hai? Potremmo scambiare qualche video, cose con piccoli angeli di due o tre anni... ".
«La centrale mondiale della pedopornografia oggi è San Pietroburgo - continua don Di Noto - La maggior parte dei bambini e anche la produzione di video e fotografie provengono da là. Gli italiani quei siti li divorano, ne creano di loro ma su server stranieri. Perché sui server italiani c'è un controllo capillare e ormai serratissimo, divulgare materiale è rischioso». Usa, Russia, Iran, Iraq, Israele, Sudafrica, Nigeria: la mappa dell'"olocausto bianco", come lo chiamano le decine di organizzazioni che combattono la pedofilia in tutto il mondo, è in continuo e sfuggente movimento. Su 158 milioni di minori sfruttati ogni anno in tutto il pianeta, si calcola siano almeno 2 milioni quelli coinvolti nel mercato pedopornografico. Una tratta da 1 milione e 200 mila piccoli schiavi ogni anno. I loro corpi ingrassano gli affari dei pedosciacalli. Le persone arrestate per pedofilia on line dalla polizia postale, dal 2001 a oggi, sono state 187; 3.346 le perquisizioni, 3.655 i soggetti denunciati in stato di libertà. "Stiamo mettendo a punto una black list. In pratica vieteremo l'accesso a tutti i siti pedopornografici con i provider italiani - spiega Marcello La Bella, direttore della polizia postale di Catania - Almeno con quelli... Perché con i provider stranieri uno può accedervi comunque". Per questo la maggior parte dei nostri pedofili on line si sposta, almeno virtualmente, in Olanda e in Belgio e nel Lichtenstein (patria dei pedofili culturali). Per la serie: fatta la legge, trovato l'inganno.
L'americano Alex è un pedofilo sfacciato. Sa di rischiare la galera, anzi, come informa nel suo sito, al fresco ci è già stato. Ma tant'è, "amo i bambini e amo passare il tempo in loro compagnia. Questo sito è una grande famiglia dove chiunque può accedere". Altri, più subdoli di Alex, autosdoganandosi e rivendicando il loro diritto ad "amare i minori", si nascondono dietro il fragile paravento della pedofilia culturale. Teorizzano. Filosofeggiano sui portali dove è tutto un inno all'orgoglio pedofilo. Si ammantano di una patina culturale, tirano in ballo il Simposio di Platone. Poi abbandonano i sofismi e si fiondano nella vetrina-labirinto dove sono esposte le loro vittime: e lì comprano "piccole creature" con cui divertirsi. Una delle principali porte di accesso italiane alla pedofilia culturale è il sito "J...". Sull'home page campeggia il ritratto di un adolescente con la folta chioma pettinata a caschetto. Sopra c'è scritto: ""J" è stato creato apposta per quanti scoprono di potersi innamorare di bambini o giovani. Di questi tempi - si legge - non è cosa facile scoprire questa parte di sé. Qui si può parlare di questi sentimenti in un'atmosfera confidenziale. Potrai ascoltare come altre persone vivono questa condizione e ti sarà possibile fare la tua scelta. Ricordati che non sei solo!". E poi: "Ti aiuteremo a vivere questo amore in un modo responsabile e rispettoso delle leggi".
Sono discussioni che vorrebbero apparire igieniche, quelle dei pedofili culturali. Chattando nei loro forum si possono tracciare dei profili umani. Uomini dai 30 ai 60 anni, cultura medio-alta, affetti da un apparente sdoppiamento della personalità. Pedofili sì, ma in senso buono, è la loro tesi. Che poi non si capisce come sia possibile. Il confine è molto, troppo labile. Scrive Carlo M, 46 anni, divorziato: "L'unica forma di amore puro e innocente puoi provarla per un bambino. Non credo più alle storie con gente adulta, uomo o donna che sia. Tradiscono, mentono. Non hanno la purezza e la sincerità dei nostri splendidi angeli". Gli diamo corda, e così anche a Eugenio che si fa chiamare Gene. Scrive: "Lo studio come lo sport sono ambiti dove il bambino o l'adolescente può e deve trovare libero sfogo. A noi tocca il compito di incanalare quello sfogo in una crescita formativa". Può sembrare una frase innocente, ma a leggere tra le righe mette i brividi. Né conforta la tesi di Domenico Vulpiani: "In realtà al vero pedofilo della pedofilia culturale non importa nulla. Non gli servono le parole ma le immagini". Vado per l'ultima volta nella child room di "2...", e subito in quella, violentissima, di "P...". Un link mi trascina nell'archivio "Lolita...". E' un pugno al ventre. Mi inviano una cartolina dal Canada. Non avrei mai voluto riceverla. Mi assale un conato di vomito. Esco dalla stanza dell'orco con il desiderio di non entrarci più.
La quasi totalità degli abusi su bambini e adolescenti avviene tra le mura domestiche. Perché succede questo in un ambiente che dovrebbe essere protetto, e come prevenirlo?
Secondo quello che emerge dalle statistiche sul fenomeno della pedofilia, che sembra essere in progressivo aumento, il 90 per cento circa degli abusi sessuali, riguardanti bambini o adolescenti, avviene nell’ambito dell’ambiente familiare da parte degli stessi genitori o di parenti o amici di famiglia. Perché succede questo in un ambiente che dovrebbe essere invece naturalmente protetto da questi abusi? Le famiglie in cui si verificano rapporti incestuosi sono spesso disfunzionali per qualche aspetto, tendono ad essere ripiegate su sé stesse, in un certo senso isolate dalla società. Ci troviamo di fronte a dei matrimoni infelici con una vita sessuale spesso insoddisfacente.
Quando è il padre ad abusare di una/o figlia/o (come accade nella maggior parte dei casi), spesso ad un padre-padrone corrisponde una madre assente; l’organizzazione familiare è di tipo patriarcale e la madre, a volte lei stessa vittima del marito, è incapace di proteggere i propri figli, diventando così indirettamente complice della violenza sessuale. Spesso, per proteggersi da un’emozione troppo forte e dolorosa, essa nega l’evidenza. A volte è invece la paura a impedire che questa realtà venga allo scoperto (paura della violenza del marito o del padre, paura del giudizio dell’ambiente in cui si vive, ecc.); complici, in questo caso, possono essere non solo la madre, ma anche gli altri membri della famiglia. In alcuni casi l’abuso sessuale del padre sui figli è visto come un tentativo di riaffermare la propria supremazia nell’ambito della famiglia, una specie di rivendicazione del proprio potere. A volte anche le madri abusano dei loro figli. Si tratta di madri anaffettive, spesso coinvolte in una relazione con un marito che le domina e che le obbliga ad unirsi a lui nell’abuso. In alcuni casi, come abbiamo già visto, sono altri parenti o persone molto vicine alla famiglia ad abusare dei bambini, sfruttando il rapporto di familiarità e la fiducia che essi nutrono nei loro riguardi. Difficilmente l’abuso si esaurisce in un singolo episodio e talvolta riesce ad andare avanti per più anni, attraverso ricatti affettivi, senza apparente violenza o sotto la spinta del terrore: «Mi raccomando, non dire nulla a nessuno, altrimenti…». Le conseguenze sul bambino variano a seconda delle situazioni, ma sono sempre molto gravi. Ciò che egli ha subìto è un vero e proprio tradimento da parte di una persona a cui ha concesso piena fiducia, e questo può sconvolgerlo psichicamente. A ciò bisogna aggiungere che, quando l’abuso viene scoperto, il bambino soffre anche per la vergogna e per gli effetti della disgregazione familiare.
Come prevenire la pedofilia, in particolare quella che avviene nell’ambito della famiglia? Si tratta di una prevenzione che abbraccia tanti aspetti della vita. Prima di tutto è necessario favorire l’armonia della coppia e sviluppare un rispetto profondo verso ogni persona. Poi è importante avere un concetto sano della sessualità, che non è un bene di consumo, ma un linguaggio con cui esprimere l’amore per l’altro; non stimolare aspettative esagerate nei riguardi della vita sessuale, come invece fanno spesso i mass media; imparare a gestire ed orientare i propri impulsi (e non solo quelli sessuali). Nei riguardi dei figli, è necessario stabilire con loro un dialogo fin dai primi anni di vita ed iniziare un’educazione sessuale abbastanza presto, ovviamente adeguata all’età e alle diverse caratteristiche individuali, perché siano capaci di discernere l’ambiguità di certi comportamenti da parte di parenti o amici e di parlarne con serenità con qualcuno dei genitori. Di fronte a certe famiglie disfunzionali, potenzialmente a rischio, è molto importante che esse non vengano emarginate dalla società, ma che siano invece accolte e sostenute soprattutto da altre famiglie.
Uno dei fattori che concorrono a determinare l’incesto è la situazione di incomprensione e di ostilità tra i coniugi e la conseguente incapacità ad avere rapporti sessuali normali e regolari. Anche la presenza della figlia come figura femminile centrale è fondamentale ed il padre, molto spesso, opera l’incesto per contrastare il degradarsi della famiglia, per evitare la ricerca di un partner esterno. Difficile da concepire come concetto, ma l’atto sessuale del padre con la propria figlia viene vissuto proprio come tentativo di ristabilire l’equilibrio familiare. In tale ottica si inserisce il tacito consenso materno il cui fine è l’assunzione da parte della figlia di un ruolo dominante come figura femminile, in relazione alla crisi coniugale in atto.
La complicità della madre può essere:
· PASSIVA: inesistenza di relazione materna nei confronti della figlia ed affettiva nei confronti del marito; proprio questo atteggiamento può indurre talvolta il marito a dedicare morbosa attenzione alla figlia.
· ATTIVA: può variare da atteggiamenti ambigui fino al vero e proprio aiuto fisico al coniuge che usa violenza alla figlia. In tal caso, oltre al distacco emotivo, sono presenti disturbi della personalità. Tale comportamento si spiega nel fatto che la madre sente il suo ruolo centrale usurpato dalla figlia e, consapevole che le attenzioni del coniuge sono concentrate altrove, desidera a tutti i costi vedere punita ed umiliata la figlia.
L’omertà rende le madri nemiche dei propri figli. Le rende complici dell’aggressività e della violenza di uomini che stuprano il cuore dei bambini, i sogni, la purezza dei loro pensieri e del loro essere. I bambini che subiscono abusi sviluppano un senso di vergogna cronico che può rallentare o impedire l’elaborazione del trauma e accentuare, invece, i sintomi del disturbo post-traumatico da stress. La vergogna comporta un ritrarsi, un sentirsi piccolo, senza valore, impotente e provoca un desiderio di nascondersi e di scappare. Provoca anche reazioni e difese di esitamento che non si riferiscono solo agli aspetti dell’esperienza vissuta, da rimuovere e dimenticare, ma toccano direttamente alcuni aspetti del sé percepito come sgradevole, ripugnante e addirittura mostruoso. Implicano, inoltre, una scissione tra osservante e osservato che disgrega l’unità del Sé e della coscienza.
Questi massicci meccanismi agiscono quindi sulla consapevolezza e sulla capacità di mantenere il ricordo. Desiderare di eliminare alcuni aspetti del Sé e non ritenerli accettabili induce la tendenza a non voler o poter rievocare e raccontare, ma implica anche quella modalità, descritta da coloro che si occupano di disturbi post-traumatici, caratterizzata dall’alternarsi di sensazioni di rivivere l’esperienza traumatica e di sintomi di esitamento.
Aspetti eziologici della pedofilia: una raccolta essenziale di contributi teorici di M. Strano, G. Errico, P. Germani, R. Buzzi, V. Gotti su Psychomedia.
Premessa. La difficoltà, da parte della comunità scientifica, nel definire all'unanimità la Pedofilia, influenza probabilmente anche la determinazione delle cause di tale fenomeno. La pedofilia rientra infatti nella grande classificazione delle parafilie e l'eziologia delle parafilie rimane in gran parte intrisa di mistero. Nel corso degli anni sono state elaborate diverse ipotesi interpretative riguardo all'origine del comportamento pedofilo. Le teorie sessuologiche di vecchio stampo, che hanno dominato la psicologia e la psichiatria fino ai primi del novecento, consideravano le perversioni sessuali semplicemente come delle sindromi psicopatologiche caratterizzate da alterazioni qualitative dell'istinto sessuale. Con lo sviluppo della scienza psicologica e psichiatrica sono state prodotte varie teorie sull'origine della pedofilia, alcune in evidente contrapposizione con altre. Proponiamo sinteticamente alcuni dei contributi teorici attualmente utilizzati in ambito clinico.
La psicoanalisi. La concezione psicoanalitica classica sostiene che l'atto pedofilo è legato a fissazioni e regressioni verso forme di sessualità infantile. Si sottolinea l'importanza della teoria pulsionale ma anche gli aspetti relazionali nella genesi del comportamento pedofilo. Il fattore esplicativo ipotizzato consiste nell'arresto dello sviluppo psicosessuale dovuto ad un trauma precoce o all'aver vissuto la propria sessualità in ambiente restrittivo. Oppure la pedofilia sarebbe il risultato di conflitti sessuali raggiunti senza il contributo della fantasia, probabilmente per un insuccesso o per una formazione distorta della coscienza causata da una patologia. Secondo Dettore e Fulgini "in ogni caso, l'approccio di Freud che considera la pedofilia come una perversione (1927, 1938), ripreso più recentemente da Kernberg (1992), si fonda sull'angoscia di castrazione, che ostacola il perverso nel raggiungimento di una sessualità adulta e lo fa regredire ad una pulsione parziale (anale, orale,...). La paura di affrontare una donna adulta lo fa ripiegare verso un soggetto meno potente e quindi, meno ansiogeno, con il quale può evitare la penetrazione o, se l'affronta ciò avviene da una posizione di "forza". In opere più recenti di impostazione psicoanalitica sulla pedofilia si distingue tra quello che definisce comportamento o fantasia pedofiliaca di natura occasionale ed il vero pervertito pedofilo ossessivo, che deve avere un'attività sessuale con un bambino per non soffrire di una "intollerabile ed angosciosa ansia". Il pedofilo occasionale, secondo alcuni studiosi è certamente la tipologia più diffusa, mentre è relativamente più raro il pervertito ossessivo. In tale ottica si possono quindi distinguere due tipi di pedofili, secondo lo stadio di sviluppo cui si sono fissati i conflitti psicologici profondi. Le basi su cui fonda questa teoria, sono comunque esclusivamente derivate da osservazioni cliniche e in ogni caso spiegano molto poco del perché viene scelta da alcuni individui la pedofilia come meccanismo di difesa piuttosto che qualsiasi altro possibile meccanismo difensivo. Socarides afferma in tal senso che "il meccanismo più importante nella pedofilia omosessuale è l'incorporazione del bambino maschio al fine di rinforzare il senso di mascolinità, sconfiggere l'ansia della morte, rimanere giovani per sempre e poter ritornare al seno materno." Secondo il modello psicoanalitico il parafilico è quindi una persona che non è riuscita a completare il normale processo di sviluppo verso l'adattamento eterosessuale, "fissazione o regressione a forme di sessualità infantile che persistono nella vita adulta" (Fenichel, 1945; Sachs, 1986). In quest'ottica ciò che distingue una parafilia dall'altra è il metodo scelto dalla persona per far fronte all'ansia causata dalla minaccia di castrazione da parte del padre e di separazione dalla madre (Kaplan,1993). La mancata risoluzione della crisi edipica tramite l'identificazione con il padre-aggressore (per i ragazzi) o la madre-aggressore (per le ragazze), provoca un'impropria identificazione con il genitore del sesso opposto o una scelta impropria dell'oggetto per le catarsi libidica (Gabbard,1995). I parafilici per placare le loro angosce di castrazione sono costretti ad esaminare costantemente i propri o altrui genitali; in più il fattore decisivo che impedisce il raggiungimento dell'orgasmo attraverso il rapporto genitale convenzionale è l'angoscia di castrazione. Le perversioni assolvono pertanto la funzione di negare la castrazione (Fenichel, 1945). Ricercatori psicoanalisti più recenti hanno però concluso che la sola teoria pulsionale è insufficiente a spiegare molte delle fantasie e dei comportamenti perversi che vengono visti clinicamente, e che ad una lettura comprensiva gli aspetti relazionali delle perversioni sono cruciali. Secondo Stoller (1975, 1985), l'essenza della perversione è la conversione "di un trauma infantile in un trionfo adulto"(1975, p.4). I pazienti sono spinti dalle loro fantasie a vendicare umilianti traumi infantili loro inflitti dai genitori. Il metodo di vendetta è quello di disumanizzare e umiliare il loro partner durante la fantasia o l'atto perverso. L'attività perversa può anche essere una fuga dalla relazionalità oggettuale (Mitchell, 1988). Molte persone che soffrono di parafilie si sono separate e individuate in maniera incompleta dalle loro rappresentazioni intrapsichiche della madre. Il risultato è che sentono che la loro identità come persone separate viene costantemente minacciata da una fusione o da un inglobamento da parte di oggetti interni o esterni. L'espressione sessuale può essere l'unica area nella quale riescono ad affermare la loro indipendenza. Un altro aspetto del sollievo esperito dai pazienti parafilici dopo che hanno messo in atto i loro desideri sessuali è il loro sentimento di trionfo sulla madre che controlla dall'interno (Gabbard, 1995). In particolar modo i pedofili, hanno bisogno di dominare e controllare le loro vittime, come se supplissero ai loro sentimenti di impotenza durante la crisi edipica. Alcuni teorici credono che la scelta di un bambino come oggetto d'amore da parte dei pedofili sia una scelta narcisistica. Secondo la visione classica (Fenichel, 1945; Freud, 1905), la pedofilia rappresenta una scelta oggettuale narcisistica; in quanto il pedofilo vede il bambino come un'immagine a specchio di se stesso bambino. Il narcisismo risulta dalla fissazione edipica, dove il pedofili si identifica con sua madre e vede se stesso nel bambino. I pedofili vengono inoltre considerati degli individui deboli e impotenti; scegliendo così dei bambini come oggetto sessuale in quanto questi pongono meno resistenza o creano minore ansia dei partner adulti, permettendo così ai pedofili di evitare l'angoscia di castrazione (Kaplan, 1993). Nella pratica clinica, si scopre che molti pedofili soffrono di una patologia narcisistica dei carattere, ivi comprese delle varianti psicopatiche del disturbo narcisistico di personalità; l'attività sessuale con bambini prepuberi può puntellare la fragile stima di sé del pedofilo. In maniera simile, molti individui con questa perversione scelgono delle professioni nelle quali possono interagire con bambini perché le risposte idealizzanti dei bambini li aiutano a mantenere la loro immagine positiva di se stessi. D'altra parte, il pedofilo spesso idealizza questi bambini; l'attività sessuale con loro comporta pertanto la fantasia inconscia di fusione con un oggetto ideale o di ristrutturazione di un Sé giovane, idealizzato. L'ansia riguardo all'invecchiamento e alla morte può essere tenuta a distanza attraverso l'attività sessuale con bambini. Quando l'attività è associata a un disturbo narcisistico di personalità con gravi tratti antisociali, come parte di un evidente struttura caratteriale psicopatica, le determinanti inconsce dei comportamento possono essere strettamente collegate alle dinamiche del sadismo. I pedofili sono frequentemente essi stessi delle vittime di abusi sessuali infantili e la conquista sessuale del bambino è lo strumento di vendetta, un senso di trionfo e di potere può accompagnare la loro trasformazione di un trauma passivo in una vittimizzazione perpetrata attivamente. (Gabbard, 1995). Kraemer, (1976) ritiene che le origini delle tendenze pedofile vadano ricercate nelle primissime interazioni madre-bambino, in quanto i bisogni narcisistici di auto-amore della madre potrebbero essere trasmessi al figlio in maniera eccessiva a causa del bisogno della madre di essere idealizzata dal figlio; ciò avrebbe come effetto la sostanziale dilazione del processo di separazione-individuazione del bambino.
L'interpretazione di Jung. La psicologia junghiana non ha dato grandi contributi allo studio della pedofilia, ad eccezione di un gruppo di analisti tra cui Gordon (1976) che sostiene che per comprendere la pedofilia è essenziale considerare la sua versione non patologica, in pratica la pedofilia cosiddetta "normale". Essa è costituita dall'interazione adulto-bambino ma al contempo è mediata ed alterata dalle caratteristiche dell'infanzia. Nella pedofilia ci potrebbe essere una tendenza a conservare un desiderio idealizzato per la purezza e l'innocenza dell'infanzia. Una caratteristica che Gordon ha rilevato, attraverso il trattamento psicoanalitico di alcuni individui pedofili, è il gran senso di vulnerabilità che deriverebbe loro dall'essere stati oggetto di una seduzione sessuale inconscia da parte di uno o di entrambi i genitori. Per difendersi, il bambino si sarebbe costruito una facciata esteriore, una maschera di riflessività e maturità. Nelle situazioni però che disturbano quest'apparente maturità, il bambino sperimenterebbe un gran senso di panico. Nel rivivere quest'esperienza in seguito, il pedofilo arriverebbe a scambiare i ruoli, in modo sadomasochistico, ripetendo così le paurose sensazioni dell'esperienza infantile. Una delle difficoltà che s'incontrano nel considerare queste spiegazioni, consiste nel fatto che esse non spiegano il comportamento sessuale manifesto che costituisce l'aspetto più drammatico della pedofilia. Possiamo affermare che la teoria junghiana contrasta decisamente con quasi tutte le altre teorie, dal momento che la pedofilia viene vista anche come una dimensione virtualmente positiva, che diventa patologica solo quando la sua dinamica fuoriesce da quello che è considerato il suo corso normale.
Teoria dell'abusato abusatore. Alcuni psicoterapisti che trattano i colpevoli di abusi sessuali contro i bambini sembrano aderire alla teoria che la pedofilia è causata dal fatto che i colpevoli sessuali siano stati loro stessi abusati durante l'infanzia (Groth, 1979). Garland e Dougher (1990) coniano per questa nozione il termine "teoria dell'abusato abusatore". I reati dell'aggressore adulto possono essere in parte una ripetizione ed un riflesso di una aggressione sessuale che egli ha subito da bambino, un tentativo distorto di dare uno sbocco a traumi sessuali precoci irrisolti. Possiamo osservare infatti come alcune aggressioni sembrano talvolta ripetere gli aspetti della vittimizzazione da loro subita; e cioè l'età della vittima, i tipi di atti compiuti e così via. La teoria dell'abusato abusatore pone anche in risalto come statisticamente tra i pedofili vi sia un elevato numero di vittime di abuso sessuale infantile. Questa teoria si fondava originariamente su una doppia spiegazione teorica di impronta psicodinamica: il soggetto adulto replica la vittimizzazione subita da bambino, secondo le medesime modalità patite allora; una volta adulto ottiene il trionfo proprio in ciò in cui da bambino era stato vittima: l'atto perverso è "odio erotizzato", un atto di vendetta mediante cui il passato è cancellato e trasformato in piacere e vittoria. Le vittime di abuso sessuale infantile, dunque agirebbero sessualmente ed aggressivamente per ridurre gli affetti dolorosi e le sensazioni, provati più volte in occasione del trauma precedente, oltre che per superare il senso di impotenza, l'immagine di sé negativa, la perdita di fiducia negli altri ed il timore di pericolo incombente, che costituiscono gli altri aspetti post-traumatici legati all'abuso sessuale. Groth afferma che la motivazione di base, che spinge l'abusatore ad agire, non è di natura sessuale, ma comporta l'espressione di bisogni non sessuali e di aspetti esistenziali non risolti; l'abuso è quindi un "atto pseudosessuale", al servizio di bisogni non sessuali. Questo autore ha anche diviso i molestatori di minori in due categorie:
- "regrediti", coloro che hanno sviluppato un orientamento sessuale ed interpersonale adeguato alla loro età, ma che, in talune circostanze, possono regredire ad un orientamento sessuale rivolto ai bambini.
- "fissati", in cui l'interesse sessuale primario non si è mai sviluppato oltre il livello di interesse verso i minori.
Numerose sono i dubbi nelle ricerche a proposito di quest'argomento:
- mancanza di campioni rappresentativi a causa dell'eterogeneità degli abusatori sessuali nei vari ambienti,
- assenza di adeguati gruppi di controllo,
- insufficienti valutazioni statistiche dei dati
- carenza di una definizione formale di "storia di abuso", in quanto se ad un abusatore si chiede se non è mai stato abusato sessualmente, la risposta dipenderà dalla sua definizione di ciò che costituisce un "abuso sessuale".
Teorie dell'identificazione parentale. Un'altra branca di ricerche sulle origini della pedofilia sostiene che gli aggressori sessuali sono con molta probabilità cresciuti in famiglie devianti. Tali studi affermano che statisticamente i criminali sessuali appartengono con molta probabilità a famiglie disfunzionali. In uno studio volto a ricercare il grado di identificazione genitoriale risultò ad esempio che soggetti definiti pedofili avevano un grado di identificazione bassa verso i loro genitori rispetto a un gruppo di controllo rappresentato da studenti di un college o rispetto a un gruppo di soggetti definiti criminali in genere. Queste scoperte supportano la nozione che i criminali sessuali sono differenti da altri criminali nella loro percezione di identificazione genitoriale. La mancata identificazione può evidentemente giocare un ruolo importante nello sviluppo di un disordine psicosessuale.
La pedofilia femminile. Il giudizio clinico tradizionale ha sostenuto che le perversioni sono rare nelle donne. Questo punto di vista è cambiato negli ultimi anni, come risultato della ricerca empirica e dell'osservazione clinica che hanno dimostrato come le fantasie perverse siano di fatto comuni nelle donne. In uno studio esauriente sulle perversioni nelle donne, Kaplan, (1991) sottolinea che i clinici non sono stati in grado di identificare le perversioni nelle donne, poiché implicano delle dinamiche più sottili rispetto alla sessualità più prevedibili delle perversioni maschili. Delle attività sessuali che derivano dalle parafilie femminili fanno parte le tematiche della separazione, dell'abbandono e della perdita. Ad esempio, alcune donne che hanno subito da bambine delle violenze sessuali adottano un modello di sessualità femminile esasperato nel tentativo di vendicarsi sugli uomini e di rassicurarsi sulla propria femminilità (Gabbard 1995).
Modello delle precondizioni. Questo modello prende in considerazione i fattori che caratterizzano il pedofilo e le circostanze che lo portano a commettere l'abuso. Il modello si basa sull'assunto che i pedofili non abbiano sviluppato la capacità di relazioni adulte e mature, ma deviate. Nonostante l'apparente fondamento sperimentale della teoria, molti dei dati presentati sono tecnicamente deboli od incompleti, ma la forza del modello nasce proprio da questa debolezza in quanto essa mette in luce la molteplicità delle cause che sono alla base della pedofilia. Secondo tale modello il comportamento abusante si può spiegare in base alla compresenza di quattro fattori:
Fattori per cui l'abusatore ritiene i bambini sessualmente attraenti: l'abuso sessuale soddisfa alcune rilevanti esigenze emozionali dell'abusatore:
- Ricerca di una sensazione di dominio dopo essere stato vittimizzato, oppure il fatto che lui stesso è infantile. Il bambino è una fonte di attivazione sessuale e di gratificazione e, dunque, è presente una preferenza sessuale per partner sessuali di età infantile;
- Risultato di un condizionamento o di essere stato a propria volta vittima di abuso sessuale infantile. Fonti alternative di gratificazione sessuale sono bloccate o inibite per varie ragioni e quindi si tratta di fattori che impediscono all'abusatore di soddisfare le sue esigenze con soggetti adulti;
- Fobie, scarse abilità sociali, mancanza di autostima.
Fattori in grado di superare le inibizioni interne contro l'abuso sessuale su minori. Possono essere disibinitori interni al soggetto (ad es. abuso di sostanze, percezioni distorte dei desideri del minore, senilità, psicosi), oppure relativi all'ambiente socioculturale (tolleranza sociale per interessi sessuali verso i bambini o deboli sanzioni contro chi commette abusi su minori).
Fattori capaci di abbattere le inibizioni esterne contro l'abuso sessuale su minori, come nel caso di una madre assente o malata o vittima lei stessa di abuso e/o dominata da parte del partner, oppure anomale condizioni di condivisione del luogo ove dormire.
Fattori che permettono all'abusatore di superare le resistenze e la riluttanza della vittima, come la coercizione, il fare regali, oppure un bambino emotivamente insicuro o depresso o un rapporto insolitamente forte di fiducia tra vittima ed abusatore.
Finkelhor (1986) ha proposto una nuova teoria secondo cui l'abusato può provare l'esigenza di agire nuovamente su altri la vittimizzazione subita, solo quando questa è stata accompagnata da intensa umiliazione. Inoltre, lo stesso autore sottolinea come l'inibizione all'abuso sessuale altrui dovrebbe essere associata allo sviluppo di un'adeguata coscienza sociale e della capacità di identificarsi con gli altri. L'iterazione di un abuso sessuale precoce con un mancato sviluppo degli aspetti sopra citati (in seguito a deprivazione emotiva o ad altri traumi di sviluppo), potrebbe aumentare la probabilità di commettere abuso sessuale in futuro.
L'approccio psichiatrico. La psicodiagnostica psichiatrica ipotizza l'esistenza di:
- Una pedofilia primaria che comporta, in una certa misura, un'integrazione dell'Io pedofilo ed una conseguente stabilità della sua personalità;
- Una pedofilia secondaria, conseguente ad altre gravi psicopatologie come la schizofrenia, alcune psicosi organiche ed altre condizioni in cui la personalità si disintegra, provocando una serie di comportamenti perversi.
Secondo Glasser (1989) la pedofilia è un comportamento che fa parte di un gruppo di perversioni che condividono un nucleo composto da due aspetti:
Aggressività, che ha come scopo l'imposizione della sofferenza ed è finalizzata a neutralizzare le minacce alla sopravvivenza mentale e fisica dell'individuo pervertito;
Annientamento; le relazioni intime con gli altri, viste generalmente come normali, vengono viste come pericolose o distruttive dai pervertiti, poiché in tali situazioni si sentono completamente sotto il controllo dell'altro. Il focus emotivo della relazione del pedofilo con gli altri è su se stesso. C'è un'importante questione che rimane aperta: come un pedofilo possa commettere atti che l'intera società, compresi i criminali, condanna in modo forte ed inequivocabile. La spiegazione che Glasser offre sottolinea il fatto che gli standard normativi della società non diventano parte integrante della personalità del pedofilo a causa della forte repulsione che egli prova per i genitori e le altre figure autoritarie che lo hanno maltrattato durante l'infanzia. Nelle attività pedofile, ciò che viene perseguito è proprio la protesta contro costoro. Nondimeno è presente una lotta tra i bisogni psicologici interiori dell'individuo e le pressioni della società che ha come risultato il caratteristico auto-inganno del pedofilo.
Il modello neuropsicologico e biologico. Scott et al. (1984) nel corso di una ricerca in cui hanno confrontato le valutazioni neurologiche di un gruppo di pedofili con quelle di un gruppo di violentatori, tutti detenuti in un manicomio giudiziario del Nebraska, hanno ottenuto i seguenti risultati: nel gruppo dei pedofili il 36% dei soggetti rivelava caratteristiche corrispondenti ad una diagnosi di disfunzione cerebrale, il 29% caratteristiche di tipo borderline ed il 35% caratteristiche neuropsicologiche nella norma. Gli autori hanno concluso che per una parte consistente di pedofili una disfunzione cerebrale potrebbe essere il fattore scatenante. Bisogna però ricordare che i soggetti del campione erano stati inviati al manicomio giudiziario per una valutazione psichiatrica, cosicché essi possono essere stati in qualche modo preselezionati, e quindi contenere una percentuale di soggetti disturbati più alta che quella generale. Un approccio simile ha cercato di misurare l'attività cerebrale utilizzando l'elettroencefalogramma (EEG). Flor-Henry et al. (1991) hanno confrontato un gruppo di pedofili con un gruppo di individui normali ed hanno rilevato una differenza nei pedofili per quanto riguarda la potenza e la coerenza del tracciato. I ricercatori affermano che la perversione sessuale risulterebbe da idee devianti, che sono conseguenza dei cambiamenti nelle funzioni dell'emisfero cerebrale dominante. Una patologia dell'emisfero dominante favorirebbe cioè idee sessuali perverse e sarebbe coinvolta nelle difficoltà di comunicazione tra le due metà dell'encefalo. Ovviamente ci sono alcune difficoltà nel sostenere tale teoria, per prima cosa questa teoria non ha conferme dirette; inoltre non spiega come mai solo i pensieri riferiti al sesso diventano devianti nei pedofili, mentre gli altri processi di pensiero restano più o meno normali. Wright et al. (1990) hanno esaminato forma e peso del cervello di una serie di criminali sessuali. Hanno in questo modo rilevato che l'emisfero sinistro dei criminali tende ad essere più piccolo di quello dei soggetti normali. I pedofili, in modo particolare, differiscono dai soggetti normali e dai violentatori per la particolarità di avere l'emisfero sinistro più piccolo rispetto a quello destro. I ricercatori concludono che, molto probabilmente, anomalie cerebrali strutturali sono più comuni e diffuse tra i criminali sessuali. Non ci sono ricerche che colleghino la pedofilia a disfunzioni ormonali, una delle spiegazioni che gli studiosi hanno dato di quest'affermazione è che gli ormoni sessuali dei pedofili sono in qualche maniera peculiari: troppo numerosi o troppo scarsi, troppi o troppo pochi in alcuni momenti particolari del giorno. Lang, Flor-Henry e Frenzel (1990), hanno condotto una revisione delle ricerche sui profili ormonali di soggetti pedofili ed incestuosi, sono giunti alla conclusione che una porzione (tra il 5 ed il 15%) di uomini con comportamenti sessuali anomali sembra avere un certo tipo di anomalia ormonale. Per approfondire la questione i ricercatori hanno esaminato un gruppo di soggetti pedofili, testando la concentrazione ormonale nel sangue. I risultati indicano che una percentuale tra il 9 ed il 20% dei soggetti presenta un livello clinicamente anormale di prolattina, cortisolo ed androsterone. C'è in ogni caso molta cautela nel presentare questi risultati dal momento che i livelli ormonali alterati potrebbero essere dovuti anche agli eventi stressanti subiti dai soggetti (arresto, reclusione, riprovazione morale, etc.).
L'approccio cognitivista. Il modello cognitivo sostiene che i pedofili cerchino qualsiasi mezzo per giustificare le loro azioni ed utilizzino per esempio la pornografia come fonte di rassicurazione. In essa i pedofili vedono altri adulti che fanno le cose che loro stessi fanno o vorrebbero fare e ciò crea un'aurea di normalità intorno all'abuso che può allentare le loro inibizioni, e costituire il primo passo di un'escalation che può arrivare fino agli atti più turpi. In tale ottica viene rifiutata decisamente l'idea che la pornografia serva come "valvola di sfogo", utile a dirottare l'energia sessuale lontano dal compimento materiale dell'abuso. La pedofilia viene considerata dai cognitivisti alla stregua di un comportamento additivo, come avviene per l'assunzione di alcool e di droga, ed essa perciò non può essere contenuta e combattuta offrendogli materiale che invece la alimenta. Tra le caratteristiche dello stile cognitivo dei pedofili vi è la minimizzazione dell'abuso; infatti, nei loro racconti l'abuso viene definito come qualcosa di consensuale ed in un certo senso desiderato dal bambino stesso. I pedofili spesso si difendono, adducendo come scusa per il loro comportamento, la disoccupazione o un fallimento familiare. Queste non sono altro che razionalizzazioni difensive, che fungono da fragili giustificazioni. "Quando i pedofili sono sinceri - se mai lo sono - essi ammettono che sono sessualmente attratti dai bambini e che le loro fantasie masturbatorie sono quelle tipicamente ossessive, di pedofili che hanno avuto e che continuano ad avere rapporti sessuali con bambini " (Wyre in Tate, 1990). Le giustificazioni fornite da questi soggetti arrivano talvolta ad accusare il bambino, descrivendo l'accaduto come un incidente di cui il bambino o la bambina sono stati la causa. In questo senso, i pedofili, ritenuti da Wyre "uomini di intelligenza superiore alla norma", sono molto abili nel manipolare chi sta loro intorno e coinvolgere così anche gli eventuali psicologi ed assistenti sociali in questo pericoloso circolo di eteroattribuzione della causa dell'abuso. La tendenza, ad esempio, di molti operatori a considerare il pedofilo primariamente ed essenzialmente come parte di un sistema relazionale rinforza involontariamente questo circolo e permette al pedofilo stesso di avere buon gioco nel gettare su un sistema familiare o sociale disfunzionale la colpa del suo comportamento perverso. Alcuni autori hanno ipotizzato la presenza di distorsioni cognitive (Pithers, 1989; Marshall, 1997) Si tratta di un'ipotesi abbastanza controversa, dal momento che non tutti gli autori definiscono tali distorsioni allo stesso modo. Alcuni, infatti, includono nel concetto la negazione e la minimizzazione degli effetti dell'abuso, altri si limitano alla percezione distorta degli atti del bambino e altri ancora vi inseriscono atteggiamenti più generali verso la sessualità. Anche in questo caso, però, la presenza di distorsioni cognitive non può essere considerata fattore eziologico specifico, in quanto gli abusatori distorcono le percezioni in termini vantaggiosi per loro e solo secondariamente riferiscono il loro desiderio deviante di fare sesso con il minore: è questo il precursore indicativo, non la percezione distorta. Di conseguenza, le interpretazioni distorte del comportamento dei bambini possono portare a convinzioni non appropriate, mentre è più difficile che siano le convinzioni a produrre le percezioni stesse.
Il modello del "sexual learnig". Secondo Howells, (1981), dal momento in cui i bambini sono coinvolti abbastanza frequentemente in varie forme di attività sessuale con i loro coetanei, l'associazione tra eccitamento sessuale e caratteristiche corporee ancora immature degli altri bambini potrebbe condizionare una risposta sessuale a lungo termine (quando diventano adulti) nei confronti dei corpi immaturi. Decisivo in questo processo sarebbe la potenza dell'impulso sessuale adolescenziale che potrebbe facilitare tale distorto processo d'apprendimento. Se questa teoria spiega facilmente come cominci l'attrazione sessuale per i bambini, non spiega però perché la maggior parte degli individui passi attraverso l'adolescenza avendo avuto esperienze sessuali, senza però diventare un adulto pedofilo. L'autore suggerisce che la repulsione da parte dei coetanei e l'ostilità genitoriale potrebbero agire come rinforzi negativi e produrre così un'avversione per il rapporto sessuale adulto-bambino, favorendo così lo sviluppo di una sessualità adulta. Viceversa se l'adolescente si sentirà ansioso circa la possibilità di avere contatti con un individuo sessualmente maturo, ancor più cercherà il contatto con i bambini. Problematiche di relazione con gli adulti in generale potrebbero anche svilupparsi proprio per la difficoltà di crescere uscendo dalla pedofilia. Come la maggior parte delle teorie fin qui considerate, anche questa lascia irrisolte alcune importanti questioni, quali, ad esempio, come il pedofilo giunga a compiere il suo primo abuso.
Verso un modello misto. Le considerazioni proposte sottolineano come spesso le teorie si soffermano su singoli fattori eziologici senza adottare una visione globale che li possa comprendere tutti. La maggior parte delle teorie sulla pedofilia tentano infatti di proporsi come teorie dei singoli fattori e risultano per tal motivo spesso inadeguate in un modo o nell'altro a spiegare la diversità del comportamento pedofilo e la piena portata di esso. Quello che sembra necessario è un modello più complicato che integri una varietà di spiegazioni su singoli fattori in modo che siano collegati i diversi tipi di comportamenti pedofili. Un possibile approccio multifattoriale dovrebbe essere in grado di spiegare questi quattro fattori:
- Congruenza emozionale, dove ci si chiede il perché una persona dovrebbe sentirsi attratta sessualmente da un bambino per essere gratificato e soddisfatto emotivamente. Alcune delle più diffuse teorie sulla pedofilia rappresentano essenzialmente dei tentavi di spiegare perché un adulto dovrebbe trovare soddisfacente dal punto di vista emotivo avere relazioni sessuali con usi bambino. Si definisce questo fenomeno "congruenza emotiva" perché esso trasmette l'idea di adattamento tra il bisogno emotivo dell'adulto e le caratteristiche dei bambino. Altre versioni di questo tipo di teoria cercano di mettere in luce non solo l'immaturità ma un senso generale di poca stima di se stessi e un senso di inferiorità che i pedofili sentono nei loro rapporti sociali.
- Stimolazione sessuale, ovvero il perché l'adulto è sessualmente stimolato da un bambino. La maggior parte delle teorie che si riferiscono a questo fattore hanno impiegato a sostegno delle loro teorie la fallometria. Alcuni studi hanno cercato di comprendere perché alcune persone sono eccitate o vengono maggiormente eccitate dai bambini. Una teoria generale è quella per cui essi hanno avuto presto le loro esperienze sessuali, magari costretti e segnati da queste esperienze, per cui più tardi, quando diventano adulti cercano i bambini per eccitarsi. Ad ogni modo oltre la metà dei bambini ha nella fanciullezza esperienze sessuali con altri bambini (Finkelhor, 1974), però non tutti diventano pedofili e ci sono probabilmente speciali circostanze che fanno sorgere un interesse pedofilo come ad esempio delle esperienze critiche associate a vittimizzazioni traumatiche. Molti ricercatori hanno infatti trovato alte percentuali di vittimizzazioni sessuali nella fanciullezza dei pedofili.
- Blocco, ovvero perché una persona dovrebbe sentirsi frustrata o bloccata da fonti che rientrano nella normalità. Alcune teorie sulla pedofilia cercano di spiegare perché alcuni individui si sentono frustrati o bloccati negli sforzi tesi ad ottenere gratificazione sessuale ed emotiva da fonti che rientrano nella normalità. In queste teorie si suppone che uno sviluppo normale o delle normali preferenze potrebbero condurre a esaudire i loro bisogni con individui della stessa età. Secondo tale approccio, per varie ragioni, nella pedofilia, queste normali tendenze sono inibite, così l'interesse sessuale si sviluppa verso i bambini. Teorie di psicologia individuale che si affidano alle dinamiche edipiche, rientrano in questa categoria. I pedofili sono descritti come aventi un intenso conflitto con le loro madri o l'ansia di castrazione" che li rende impossibilitati ad avere una relazione con donne adulte. Alcune volte le ricerche sull'inibizione non evidenziano dinamiche edipiche e associano il blocco ad un trauma dovuto ad un primo comportamento sessuale vissuto negativamente dal pedofilo. Gli uomini che scoprono di essere impotenti in una prima attività sessuale o si sentono abbandonati dal loro primo amore potrebbero associare la sessualità adulta al dolore e alla frustrazione.
- Disinibizione, ovvero perché l'adulto non è dissuaso da un interesse così "proibito" rispetto ai canoni della normalità. Alcune teorie sulla pedofilia essenzialmente si interrogano sul perché l'inibizione convenzionale contro il sesso con i bambini viene sopraffatta o non è presente in alcun adulti. In alcuni pedofili sembra infatti configurarsi un più alto livello di accettabilità per alcuni comportamenti. Tali teorie caratterizzano i pedofili come persone che hanno generalmente poco controllo dell'impulso.
Conclusioni. Nei modelli multifattoriali si suggerisce quindi che una completa teoria sulla pedofilia ha bisogno di essere articolata su un numero di differenti livelli in quanto il comportamento pedofilo sembra essere difficilmente spiegabile dal semplice fatto che un adulto è sessualmente stimolato da un bambino. Ci sono infatti adulti che sono stimolati sessualmente dai bambini ma che hanno fonti alternative di gratificazione sessuale, o sono inibiti da un ordinario controllo sociale. Ancora oggi non sembra possibile attribuire l'eziopatogenesi della pedofilia ad un'unica classe di eventi, sia intrapsichici sia esterni, ma occorre prendere in considerazione una molteplicità di fattori, anche in funzione del fatto che non sembra esistere un'unica tipologia di pedofili.
PEDOFILIA FEMMINILE.
La pedofilia è, anche, donna.
Pedofilia al femminile: analisi del fenomeno.
Cade il dogma della maternità buona ad ogni costo, il principio per cui in ogni femmina c’è l’istinto a proteggere, o almeno a non colpire, un cucciolo della sua specie. Secondo le stime, in cinque casi su cento, ad abusare sono madri incestuose, ambigue zie, maestre e babysitter, fino alle “regine per una notte” che, sulle spiagge del Terzo mondo, vanno a caccia di beach boys giovanissimi e indifesi. Non se ne parla ma esiste. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice in quanto, nell’immaginario collettivo, il termine “pedofilia” viene associato al sesso maschile, al quale è stato sempre affidato un ruolo “attivo”: la pedofilia è infatti “azione”. E’ considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne.
Da esaurienti studi clinici è emerso che le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Cause scatenanti la pedofilia femminile possono essere la separazione, l’abbandono, la perdita. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l’esasperazione nell’attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. Dal ruolo “passivo” che l’ha vista vittima e sottomessa la donna tenta in tal modo il riscatto e la propria affermazione in un ruolo “attivo”.
La più alta percentuale delle violenze sessuali sui bambini avviene tra le mura domestiche proprio ad opera di quelle persone nelle quali i piccoli ripongono la propria fiducia. Incredibile, impensabile, ma vero. Come vero è che, all’interno di una famiglia, ci sono madri che vedono, percepiscono e sentono l’odore dell’abuso ma tacciono, e silenziosamente acconsentono con orribile ed assolutamente ingiustificata complicità. Scacciano dalla memoria gesti, parole e sensazioni come per restarne fuori, pulite, estranee ai fatti, per non ammettere neppure a se stesse la verità, quella tremenda e terribile verità che diviene così, gradualmente, un segreto non condivisibile, respinto ogni qualvolta torna a galla. Occhi chiusi, bocca chiusa. Sono madri colpevoli dell’opera distruttiva che si sta operando attorno a loro ma reputano necessario comprare la solidità familiare, la posizione sociale ed il rispetto con l’omertà. Il prezzo da pagare, però, è troppo alto, anzi non vi è prezzo perché i figli non si vendono, non sono oggetto di scambio. Si interpreta tale comportamento adducendo ad una sorta di paura di vendetta da parte del marito, ad una ipotetica violenza cui sono state vittime da bambine che rivivono nelle vesti di madri, al timore di aver immaginato male o di sbagliare. Il loro “fare finta di non vedere” è un’ulteriore violenza ai danni dei figli i quali, abusati e non protetti da coloro che invece dovrebbero amarli ed educarli, vengono lasciati soli a se stessi, piccoli corpi martoriati, piccole coscienze distrutte. Il tradimento avviene su tutti i fronti, e non vi è danno peggiore.
Il fattore “cultura” o “ceto sociale”, qui, non entra in gioco come attenuante del caso: le madri “lavano in casa i panni sporchi” sia nelle culture più arretrate come negli agiati ceti sociali dove, si pensa, la buona educazione ed il benessere sono alla base dell’esistenza. Solo un terzo dei casi di abuso sono denunciati dalle madri: il restante è complice del marito, viscido seduttore, un nemico difficile da annientare.
Istintivamente associamo la donna all’idea di madre e la maternità a qualcosa di dolce, protettivo e rassicurante ma non è sempre così. Le notizie che leggiamo sui giornali, le cronache nazionali e internazionali ci ricordano ogni giorno che non è affatto così. Eppure quando leggiamo di un crimine commesso da una donna, ci sforziamo di trovarne una giustificazione, è difficile concepire la crudeltà femminile e ancora più difficile è comprendere quando questa crudeltà si abbatte su un bambino. Questa difficoltà non è limitata alla gente comune, la troviamo anche negli uomini di legge, nei giudici che si trovano a dover emettere una sentenza, in un processo che vede imputata una donna. Le statistiche parlano chiaro e i processi in cui è la donna a sedersi sul banco degli imputati si chiudono con condanne molto più lievi rispetto ai “colleghi maschi”. Non si riconosce alla donna il libero arbitrio nel commettere crimini, la tendenza è quella di vedere comunque la donna “criminale” come vittima, prima che come carnefice. Giustifichiamo la violenza che mette in atto nel suo presente, come una risposta direttamente proporzionale ad un passato “traumatico”, per dirla alla Freud. Devianza, crudeltà, abusi e violenze non hanno sesso, non sono tipicamente maschili o femminili, per comprenderli, dobbiamo imparare a concepire ogni singolo atto e comportamento “criminale”, come espressione di una personalità che si è formata in un contesto fatto di relazioni, interazioni ed esperienze e il fatto che sia donna o uomo non conta, conta solo l’essere umano in tutta la sua complessità.
La pedofilia femminile, approccio teorico.
L’infanzia è stata oggetto negli ultimi anni di particolare tutela ed interesse: diverse infatti sono state le Carte Internazionali dei diritti del fanciullo, che hanno posto come fondamentali il diritto alla vita, all’uguaglianza, all’identità, all’amore e alla libertà, a essere protetto da qualsiasi influenza e abuso, al gioco, all’educazione e all’istruzione. Tra queste, fondamentale è la “Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia” (1989), redatta e sottoscritta da molti paesi al fine di rendere effettivamente realizzati diritti e libertà proclamati. Ma l’infanzia è anche oggetto di “abuso” e sicuramente, in ordine di gravità, l’abuso sessuale rappresenta l’apice di una piramide fatta di violenza: esso riguarda, infatti, il coinvolgimento del minore in attività sessuali di cui non è consapevole. Catalogata tra gli abusi sessuali, la “pedofilia” attualmente, secondo quanto riportato all’interno del DSM – IV è inserita tra le “parafilie”, ovvero comportamenti caratterizzati da ricorrenti e intensi impulsi, fantasie o comportamenti sessuali, che implicano oggetti, attività o situazioni inusuali e causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
Se prendiamo in considerazione la pedofilia al femminile, vediamo come la separazione, l’abbandono, la perdita, possono esserne cause scatenanti. Alcune donne hanno subìto abusi da bambine e l’esasperazione nell’attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. (www.aquiloneblu.org). Possiamo comunque asserire che la pedofilia femminile nella sua dinamica formativa non si discosta da quella maschile in quanto sia che si tratti di un uomo, sia che si tratti di una donna, non ci possiamo limitare ad identificare la persona con il suo comportamento, perché in questo modo si elimina la complessità di una vicenda umana e si attenuano lucidità e comprensione. (Valcarenghi, 2007).
Da un Paese all'altro, da uno studio all'altro, la tendenza alla "catalogazione" è sempre più diffusa e praticata. Nessun neonato viene al mondo con il gene della pedofilia. Nessun uomo è solo il reato che ha commesso, ognuno di loro è anche altro: un bravo artigiano, un appassionato di musica, una grande lavoratrice. L'identificazione della persona con il reato che ha commesso è uno degli errori in cui incappiamo più spesso ed è l’ostacolo più grande che può incontrare un qualsiasi approccio terapeutico. Una delle cause della pedofilia, secondo la psicoanalista Marina Valcarenghi (Valcarenghi, 2007) è rintracciabile in un trauma subito ma non riconosciuto e sofferto. Un trauma può bloccare in tutto o in parte lo sviluppo di una personalità, costringendo il comportamento sessuale fin dall’inizio all’interno di schemi infantili e attivando quindi una fissazione regressiva, o può fare incursione nella vita adulta, all’improvviso deragliandone il corso. La pulsione emerge dall’inconscio come compensazione e i freni inibitori non funzionano perché da quello stesso trauma sono stati disattivati. Il comportamento pedofilo, a partire dal momento in cui diventa azione, descriverebbe quindi una devianza psicosociale e non una patologia dell’istinto, si tratta cioè di un’interazione tra un’esperienza, la nostra personalità e la nostra storia che si combinano nel nostro inconscio, facendo poi scaturire il comportamento patologico. Dobbiamo comunque abbandonare l’dea che alla base della pedofilia esista un comune denominatore, l’organismo psichico di ognuno di noi reagisce ad un disagio esprimendo un sintomo e i sintomi possibili per uno stesso disagio sono innumerevoli. Così simmetricamente, lo stesso sintomo può riferirsi a disagi diversi. Lo stesso trauma, può indurre pedofilia, alcolismo, suicidio o altro ancora e simmetricamente cause diverse possono convogliarsi su un’identica azione.
“La scelta” dei sintomi, dipende dalla costituzione psichica di ognuno di noi. La personalità pedofila, mostra meccanismi difensivi come, negazione, scissione, proiezione e razionalizzazione. Tali meccanismi di difesa, hanno origini molto remote e molto frequentemente sono legate a traumi subiti nell’infanzia. Il bisogno di mantenere intatta la figura dell’adulto abusante, che di solito è una figura vicina al bambino, dalla quale lui dipende, lo spinge a giustificare i comportamenti e a mantenere l’idealizzazione dell’adulto, grazie a potenti meccanismi di scissione che permettono di considerare l’adulto come buono e di introiettare la parte negativa su sé stessi. Si realizza così un inversione di ruoli, in cui la vittima diventerà carnefice per sentirsi meno impotente nei confronti del dolore e della passività vissuti durante l’abuso e per tollerare meglio, la dissonanza cognitiva conseguente all’incapacità di trovare delle risposte alle attribuzioni causali adeguate, (L. Petrone, M. Troiano, 2005).
Nell’immaginario collettivo, il termine “pedofilia” viene associato al sesso maschile. E’ considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni femminili. Nel 1991, Kaplan (Kaplan H. I., Sadock B. J. 1993, Manuale di psichiatria, Edises. Napoli) ha effettuato uno studio sulle perversioni nelle donne e si è reso conto, che i precedenti clinici non erano riusciti ad identificarle, in quanto le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Le pedofile, statisticamente sono più rare degli uomini: secondo stime approssimative, che si rifanno ai soli dati ufficialmente pervenuti alla magistratura o ai servizi sociali, solo il 5-7% degli abusi é stato perpetrato da una donna. Se però andiamo a vedere le storie personali dei pedofili, scopriamo che il 78% dei maschi pedofili riferisce di avere alle spalle storie di abuso agite da figure femminili e in particolare da madri. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Questo dato, ci fa intuire che dietro le statistiche si cela una realtà ben diversa da quella ufficiale. Probabilmente questo sommerso è dovuto alla maggiore familiarità con l’accudimento fisico dei bambini in cui si confonde più facilmente il significato dei gesti, nascondendo così il fenomeno. Tracciare un quadro esaustivo della pedofilia al femminile è notevolmente difficile, ma si potrebbe iniziare, cercando di fare una prima distinzione tra pedofilia femminile intra-familiare e pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche.
Pedofilia femminile intrafamiliare.
Secondo Estela Welldon, la perversione femminile più che attraverso la sessualità, passa attraverso la maternità e attraverso le pervasive strategie di manipolazione del figlio. (E. Welldon, 1995, Madre, madonna, prostituta, Centro Scientifico Torinese, Torino). La pedofilia femminile intra-familiare ossia quella incestuosa è molto difficile da identificare e scoprire proprio perché celata, spesso, dietro gesti di cura abituali, sublimata in innamoramento o in pratiche di accudimento. Non si caratterizza come “comportamento violento” come accade invece di frequente nella pedofilia extrafamiliare. Dato che alla madre viene riconosciuta una sorta di autorizzazione ad avere un contatto con il corpo del figlio, l’abuso che la madre agisce sul corpo del bambino, sarà riconoscibile solo in adolescenza. Nell'anamnesi di pazienti maschi, frequentemente emergono madri che continuano a fare il bagno a figli adolescenti o che spingono, in assenza del padre, il figlio ormai adulto, a dormire nel letto matrimoniale. L’abuso può manifestarsi attraverso manipolazioni di tipo masturbatorio e può arrivare ad un rapporto sessuale completo tra madre e figlio. Tutte le forme di abuso intrafamiliare, hanno ripercussioni fortemente negative sulla psiche del bambino ma gli abusi sessuali materni sono particolarmente devastanti per il suo sviluppo emotivo, in quanto la violenza della madre incestuosa è connotata da “confidence power” ossia da una strategia deduttiva che imbriglia la propria vittima (figlio/a ), sfruttando i suoi sentimenti naturali di confusione, obbedienza, devozione e fiducia. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Lo stesso Freud, riteneva che le modalità di cura e di pulizia che le madri pongono in essere nei confronti dei loro bambini, fossero spesso involontariamente causa di eccessiva erotizzazione e quindi suscettibili di influire negativamente sullo sviluppo della sessualità infantile. Anche se Freud ne faceva più una questione di investimento libidico che di investimento narcisistico, egli aveva comunque ben intuito l’esistenza del problema (www.psicologiaforense.it).
La pre-pedofilia.
La dinamica dell’atto pedofilo nelle donne ha a volte anche un’altra particolare connotazione definita Pre-pedofilia, che si caratterizza in una posizione marginale e passiva nell'atto pedofilo da parte della donna, che lascia all'uomo la parte attiva. E' pre-pedofilia quando, in atti delittuosi extra-familiari, quasi sempre maschili, è presente una donna; oppure quando, all'interno delle mura domestiche, il padre abusa dei figli minori e lei (moglie, madre, convivente) vedendo, percependo e intuendo l'abuso, decide di tacere. Il suo silenzio-assenso è una ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarli ed educarli. E' pre-pedofilia, ancora, quando il desiderio pedofilo viene realizzato per vie traverse, mediante l'organizzazione di incontri tra i propri figli con persone adulte. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Il fenomeno della pre-pedofilia da parte della figura materna, si può verificare perché il compagno è un pedofilo e l’amore e la dipendenza patologica nei confronti del partner, la porta a seguire le inclinazioni di quest’ultimo. Pensiamo alla compagna del “mostro di Marcinelle”, che lo seguiva assecondando i suoi agiti o al caso più recente di questi giorni in Austria, dove un padre ha relegato la figlia per anni nello scantinato di casa, ha avuto da lei sette figli che ha poi cresciuto con la moglie ossia la madre della ragazza. In moltissimi casi di incesto infatti, oggi come ieri, vi è una madre a dir poco assente, non attenta alla sua realtà familiare, non in grado né di essere moglie né di essere mamma (M. Malacrea, A. Vassalli, 1990, Segreti di famiglia, Cortina, Milano). È proprio il fallimento come donna e come madre, la paura di perdere il partner, a essere alla base del comportamento complice. Avviene infatti che la madre sappia dell'abuso, ma non faccia niente per impedirlo; anzi, se la figlia le rivela l'accaduto, l'accusa di mentire, di essersi inventata tutto, facendo sì che il marito continui a perpetrare l'incesto. A volte passiva e sottomessa, lei stessa ha subito spesso violenze sessuali nell'infanzia, e il ripetersi degli eventi le appare quasi naturale, quasi un diritto da parte del maschio di appropriarsi del corpo d'una bambina; L'abuso subito, ha strutturato in lei una personalità fragile, tale da ricercare un partner dominante e prepotente. Il suo vissuto non elaborato, la porta a reiterare, in maniera più o meno inconscia, il proprio trauma: come se nella famiglia che si è formata sia necessario ricostruire il proprio dramma, ri-mettere in atto, come regista, il proprio abuso per poterlo esorcizzare. Non in grado di crearsi l'indipendenza psicologica dal maschio dominante, questa madre, collude con il suo compagno e cercando di mantenere uno pseudo-equilibrio famigliare, talvolta spinge, in maniera più o meno cosciente, la figlia nelle braccia del marito.
Paradossalmente, spesso è il bambino abusato a proteggere la madre debole; mantiene il segreto perchè sa che la mamma non può sopportare tale dolore, la difende dalla realtà assumendosene ogni responsabilità. Il bambino paga a caro prezzo questo suo slancio di generosità, perché con il suo silenzio permette il perpetrarsi dell'abuso, sostiene un equilibrio familiare che lo priva del suo ruolo infantile, consente il comportamento del padre che in tal modo non si crea nemmeno il dubbio su ciò che sta facendo. Se non interviene nessun fattore esterno, l'incesto può continuare per anni e rimanere segreto fino all'età adulta. Quando l'incesto diventa evidente, per una denuncia o per la ribellione della figlia, anche per la madre, arriva il momento di prendere posizione rispetto all'evento. Anche in questo caso, se vuole continuare il rapporto con il marito, la madre tende a proteggere il partner, cercando di far ritrattare la figlia o (specie se la figlia è adolescente) mettendosi contro di lei, rendendola responsabile di ciò che è accaduto. Perdere il marito la porterebbe sul baratro della propria incapacità di essere indipendente, di assumersi responsabilità che non è in grado di reggere, di trovarsi a dover dirigere autonomamente la propria esistenza. Solo se la madre riesce a distaccarsi dal marito, allora diventa alleata della figlia e con lei combatte la battaglia morale e giuridica contro l'abusante. (www.altrodiritto.unifi.it).
Pedofilia femminile extrafamiliare.
La pedofilia extrafamiliare ha caratteristiche diverse da quella intrafamiliare, connotata da un marcato desiderio egoista di potere, di dominio e di piacere, spesso si dirige verso bambini e adolescenti assumendo forme di pedofilia mercenaria e violenta. Generalmente è legata al turismo sessuale ma altre volte sono luoghi familiari per la piccola vittima, come la scuola, i luoghi ricreativi, le case di qualche amichetto, ad essere prescelti. Rientrano nella casistica, casi di maestre che fanno spogliare i loro allievi, per spiegare come sia avvenuta la creazione, maestre che insegnano giochi che prevedono la penetrazione dei genitali con i pennarelli e così via. Questi abusi vengono filmati e poi immessi sul “mercato” tramite internet. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Nel caso specifico del turismo sessuale, la pedofilia femminile che preferisce mete lontane come luoghi di abbordaggio, è balzata agli “onori della cronaca”, intorno agli anni ’70. In quel periodo donne americane e canadesi, favorite dall’emancipazione economica, hanno iniziato a recarsi verso spiagge lontane alla conquista dei “beach boys” e “beach girls”, pagando 100 dollari, per ottenere le loro prestazioni sessuali. Alcune indagini giornalistiche come quella del settimanale Panorama, hanno evidenziato che esattamente come succede per i pedofili maschi, le donne pedofile evadono dalla comune realtà ricercando altrove gli oggetti dei loro “desideri”. Potendo difficilmente usufruire di infrastrutture organizzate al loro servizio, come i pedofili maschi, sono però “costrette” ad abbordare i “meninos de rua” i bambini di strada e a viaggiare senza la protezione di un’articolata rete di agganci. Non hanno infatti alle spalle, la tutela di organizzazioni che garantiscono loro la certezza di raggiungere il luogo di destinazione, avendo già tutto stabilito, come accade per la maggior parte dei pedofili maschi (www.aquiloneblu.org).
Oggi, l’età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e l’appagamento materno (www.psicoterapie.org).
Differenti sono le mete e rispetto a quanto riportato dall’indagine di alcuni anni fa di Panorama, si evidenzia come il mercato si sia adeguato anche alle richieste delle donne pedofile. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali, preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e per le destinazioni più lontane la Giamaica e il Brasile. La Thailandia, invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. A Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d’amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata. ( N. Bressan, 2001, Quando un bambino piange al buio, relazione presentata al Convegno di Novara “Perchè i bambini non piangano al buio. Riflessioni sulla pedofilia”).
Più recentemente, arriviamo al turismo sessuale femminile in Sri Lanka. Dalla testimonianza di volontari del posto, si apprende che le “turiste”, arrivano portandosi da casa ormoni e droghe da somministrare a bambini dai 6 agli 11anni per consentire fisicamente l'atto sessuale (S. Zanda www.psicoterapie.org). Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale per ottenere l'erezione, avviene tramite l’iniezione degli ormoni nei testicoli, questo causa l’abnorme ingrossamento dell’organo sessuale del bambino che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni e i danni spesso sono letali (L. Granello, 2007, dweb.repubblica.it).
Non ci possiamo poi dimenticare della pedofilia praticata nelle sette sataniche che vede la costante presenza di figure femminili, una forma di pedofilia estremamente violenta che utilizza rituali a sfondo sessuale per avvicinarsi secondo una loro “interpretazione”, all’entità malefica. In questo caso, sono coinvolti bambini della scuola dell’infanzia cioè tra i 2 e 6 anni che possono essere molestati se non addirittura rapiti da satanisti che si aggregano al personale delle scuole dell’infanzia (L. Petrone, M. Troiano, 2005).
Pedofilia femminile e atteggiamento sociale.
Prof. avv. Guglielmo Gulotta, avvocato, psicologo, psicoterapeuta, professore ordinario di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi di Torino "In relazione ai molteplici dibattiti e discussioni radiotelevisivi suscitati dall'interesse esploso intorno alla vicenda di Rignano Flaminio, con la quasi totale assenza di accademici esperti della materia nonché dei firmatari della Carta di Noto - riconosciuta come il documento guida nei casi di sospetto abuso sessuale - esprimo alcune considerazioni, innanzitutto nella mia veste di psicologo, psicoterapeuta e Professore ordinario di Psicologia Giuridica - unica cattedra del Paese - e di avvocato che si è occupato, in qualità di difensore, di ben quattro casi di pretesi asili a luci rosse; due di questi si sono conclusi con l'assoluzione di tutti gli imputati, uno è ancora in fase di indagine e il quarto, per cui siamo in attesa della Cassazione, con l'assoluzione di 4 imputati e la condanna di un bidello. Oggi apprendiamo che a Rignano Flaminio il Tribunale del Riesame ha annullato le ordinanze di custodia cautelare in carcere di 5 indagati rimettendoli in libertà. Ritengo doveroso mettere al corrente il pubblico del come e del perché, nonostante i media diano ampio rilievo a dichiarazioni dei bambini e delle madri che di per sé sono inconciliabili con l'assoluzione degli imputati e con la loro scarcerazione, praticamente la totalità di questi processi si concludano con l'accertamento da parte della magistratura dell'innocenza degli stessi e con una conseguente sentenza assolutoria. Bisogna innanzitutto sgomberare il campo dagli equivoci: non si tratta di menzogne raccontate dai minori, né tantomeno di malafede da parte dei genitori che, in tutti i casi da me trattati professionalmente, non avevano alcun interesse e alcuna ragione di voler calunniare gli insegnanti. L’allarme diffuso intorno al fenomeno pedofilia può fare sì che un genitore, preoccupato ad esempio da manifestazioni di disagio del proprio figlio (si tratta molto spesso di sintomi assai comuni e frequenti tra i bambini, quali l'enuresi notturna, la comparsa di incubi, oppositività al momento di andare a scuola, ecc…) o da segni e sintomi fisici fino ad allora mai manifestati (ma anche questi altrettanto frequenti, quali emorroidi, arrossamenti in zona genitale, lividi su cosce e natiche, ecc…) si faccia l'idea che ciò possa essere riconducibile ad un'azione esterna. Nella maggior parte dei casi, invece, l'indagine psicologica, se ben condotta, rivela che il disagio psicologico del minore ha a che vedere con un perturbamento dell'equilibrio familiare, quale un conflitto tra i suoi membri, una separazione tra i genitori o anche semplicemente la nascita di un fratellino. Allo stesso modo, i segni e i sintomi fisici possono trovare la loro spiegazione nella stipsi, nella scarsa igiene, nell'essersi toccati le parti intime con le mani sporche o nell'aver fatto dei giochi sulla sabbia. I lividi, come è intuitivo, possono essere provocati da cadute e ruzzoloni nei normali giochi dei bambini. Il genitore spaventato dall'idea della pedofilia può a questo punto chiedere al figlio: "chi è stato a farti questo?", dando quindi implicitamente per scontato, almeno nella formulazione della domanda, che qualcuno deve avere provocato ciò di cui egli chiede conto al bambino. In questo modo egli induce nel figlio una risposta che non è solo una spiegazione, ma è anche una giustificazione. Costretto a indicare un colpevole, il minore - il cui bacino "sociale" è necessariamente molto limitato - potrà dire:
· mio fratello/sorella oppure il mio amichetto: in questo caso il genitore può accontentarsi della risposta;
· mio papà: e questo è assai rischioso - lo dico per ampia esperienza in casi di questo tipo- quando i due genitori siano in una condizione di separazione conflittuale;
· la maestra: e arriviamo a noi;
· nessuno: e arriviamo a noi.
Quando la madre non riceva la risposta paventata può convincersi che il piccolo sia reticente e così insiste finché il bambino ingenuamente la segue assecondandola nella sua ipotesi temuta. A questo punto la madre, ottenuta quella che lei reputa una rivelazione (si tratta in realtà di una ammissione pilotata!) innescherà il contagio tra gli altri genitori attraverso un'azione incontrollabile. Nel caso di Verona - uno di quelli conclusi con l'assoluzione di tutti gli imputati- la madre responsabile per così dire dell'innesco dell'intera vicenda giudiziaria, d'accordo con il proprio marito iniziò ad avvisare, nel cuore della notte, tutti i genitori degli altri bambini scatenando in loro, come è facile immaginare, quel terrore e quell'angoscia che a loro volta diedero vita agli interrogatori degli altri bambini (alcuni svegliati in piena notte perché raccontassero!). Nel caso di Bergamo (anche questo concluso con l’assoluzione delle imputate) l’innesco è provocato da una madre che trae la convinzione che il proprio bambino sia stato abusato all’interno della scuola materna dopo averlo esplicitamente interrogato con il ciuccio in bocca: interpretava i gesti e i cenni del bambino come affermazioni o disconferme alle sue domande. Ciò che più di ogni altra cosa la convinse del patito abuso era la mancanza di “indignazione” sul volto del figlio (un piccolo di appena 4 anni) rispetto alle domande oscene che lei gli faceva! In altro caso, abbiamo avuto la prova di come si reifichi il tema del cosiddetto segreto, fil rouge di tutti questi processi. I genitori non possono darsi pace del fatto di non essersi accorti di quanto accadeva al proprio bambino e soprattutto del fatto che il figlioletto, sempre così aperto con loro, non abbia fino ad allora riferito nulla su una cosa tanto importante. Scatta quindi immediatamente la convinzione che il piccolo sia stato indotto, anche attraverso minacce e punizioni, al mantenimento del segreto. L'interazione tipica è la seguente: Mamma: “non me lo hai detto perché avevi paura, vero? Non temere, piccino, ti difende la mamma, e nessuno può fare male alla mamma. Avevi paura perché ti hanno detto di non dirlo, altrimenti…? Il bambino si adegua.
PS: queste domande sono vietate nel processo ai propri testimoni (in ipotesi anche al capo di una famiglia mafiosa) perché troppo suggestive e quindi in grado di condizionare il testimone alterandone la risposta. E si convincono quindi che il figlio - un bambino di tre anni - possa aver stoicamente dissimulato dolori e sofferenze inenarrabili (tra cui l'essere incatenato, legato, violentato, drogato, ecc.). Ecco la trappola cognitiva: se io non ho capito finora e il bambino ha finora taciuto non è perché non è successo, ma perché qualcuno gli ha detto di non dirlo. E questa richiesta deve necessariamente essere stata accompagnata da minacce. Nel caso di Verona abbiamo la prova registrata che è andata proprio così. Dopo un po' di tempo il bambino conferma la bontà dell'intuizione materna. A questo punto intervengono gli psicologi incaricati di valutare i racconti dei minori e la loro attendibilità, ma anziché procedere secondo le indicazioni provenienti dalla più accreditata letteratura scientifica internazionale in materia, molti professionisti omettono di impiegare protocolli e metodologie corrette, necessarie quando si debbano raccogliere testimonianze così fragili come quelle dei minori, procedendo invece in maniera arbitraria e improvvisata. Molti sono addirittura ignari dei rischi di instillare nel minore, attraverso domande suggestive e interviste ripetute, le cosiddette false memorie, nonostante la copiosa letteratura in materia (sul punto vedi Gulotta, Cutica: Guida alla perizia psicologica, edito da Giuffrè). E' sperimentalmente dimostrato, anche attraverso una ricerca condotta da me, che è possibile indurre nel bambino - tanto più da parte del genitore, falsi ricordi relativi ai più disparati avvenimenti, in realtà mai esperiti. Tra gli altri: l'aver subito un attacco fisico da parte di un animale feroce o l'essere stati rapiti dagli alieni. Così mentre le madri ottengono ciò che temono, gli psicologi ottengono ciò che si aspettano. Poi i bambini ci mettono del loro: squali a Brescia, clown, pagliacci, pellerossa, ecc... Cosi, senza che in molti se ne rendano conto, ci si ritrova, anziché in un processo, in un cartone animato. Torniamo ai sintomi di cui parlano i genitori e che vengono poi propagandati dai media come prova del patito abuso. I bambini hanno sì dei sintomi, ma fateci caso: i sintomi nascono dopo che è scoppiato lo scandalo. Non è che i genitori fino ad allora non li avessero visti; è che non c'erano o erano irrilevanti. I sintomi compaiono a seguito dello stress provocato nel minore dalla stessa investigazione: questi bambini vengono "sentiti" (traduzione corretta: interrogati) ripetutamente dalle madri, dalla polizia, dagli psicologi, dai magistrati. E' la profezia che si autodetermina, la costruzione del fattoide: la macchina della giustizia finisce col creare il mostro che crede di combattere. La prova: i sintomi dei bambini, anziché diminuire con l'allontanarsi dal momento del presunto abuso, aumentano parallelamente al procedere delle investigazioni.
Memento la storia degli untori, delle streghe e ancora di più dello iettatore, un mostro costruito dalle parole dove però in molti sono pronti a giurare di avere le prove che egli porti davvero sfortuna. Oggi la tesi espressa da alcuni media, che evidentemente ignorano tutti gli studi di psicologia sociale e sociologici sulle dicerie e sulle leggende metropolitane, è che esista una banda organizzata di pedofili che si insidia nelle diverse scuole. Stranamente però, nonostante le accurate indagini di polizia, non vengono mai rinvenute né tracce dei contatti tra i vari membri della banda (eppure deve essere necessario accordarsi per portar fuori i bambini), né materiale video o fotografico (eppure si parla di riprese pedo-pornografiche, set cinematografici, ecc.), né anomalie sui conti bancari. E quello economico sarebbe l'unico movente sensato per spiegare la condotta di donne che per 30 anni hanno tenuto una condotta esemplare, e improvvisamente diventano complici di simili porcate.
Già perché la pedofilia femminile, come tutte le altre parafilie (salvo il sadomasochismo) sono una prerogativa maschile. Così ragionando, migliaia di famiglie italiane che hanno i bambini all’asilo sono spaventate. A Vallo della Lucania si suppone che una novizia straniera riesca a convincere, non si sa come, delle suore che da molti anni gestiscono un asilo da cui è passata mezza città, a commettere abusi sui piccoli alunni dandoli addirittura in pasto a una banda di pedofili che sarebbe composta, nel caso di specie, da un fotografo e da un capomastro. Il sequestro dell’intero patrimonio fotografico del primo, così come l’esame dei reperti organici nell’abitazione del secondo (teatro, secondo l’accusa, del set cinematografico) hanno dato esito negativo. Desterebbe, poi, una certa inquietudine il fatto che nello stesso periodo racconti con contenuto analogo provengano da minori che abitano in luoghi diversi e lontani tra loro. La spiegazione è molto semplice: le mamme hanno le stesse paure e gli psicologi le stesse aspettative. Anche nei processi alle streghe e agli untori c’erano dei focolai apparentemente senza connessione. Sartre diceva che "le parole sono pistole cariche" e hanno la terribile forza di costruire la realtà. Già Bacone aveva identificato i limiti della mente umana (e Kahneman, psicologo premio Nobel, lo ha confermato sperimentalmente): quando abbracciamo un'ipotesi siamo portati a scartare e a sottovalutare tutti quegli elementi che la disconfermerebbero. La tendenza della mente è verificazionista. E pensate che né gli avvocati né i magistrati che tutti i giorni sono chiamati ad occuparsi di casi come questi, almeno stando al loro curriculum, non debbono aver studiato un rigo - dico un rigo - di psicologia. (www.bambinicoraggiosi.com)".
Ho scelto di far parlare il professor Gullotta perché mi ha colpito il tono perentorio con cui descrive genitori che, (cito testualmente) “visto il diffuso allarme intorno al fenomeno pedofilia”, estendono la loro preoccupazione ad ogni segnale fisico che potrebbe essere ricondotto ad un presunto abuso. Il bambino dal canto suo, non fa altro che accontentare le richieste dei genitori, confermando le paure degli stessi, colorando di fantasie infantili l’intera ipotetica vicenda e, dice ancora Gullotta. “Cosi, senza che in molti se ne rendano conto, ci si ritrova, anziché in un processo, in un cartone animato”. Non parliamo poi di tutti quegli psicologi incompetenti che fregandosene di tutti i protocolli e Carte di Noto, “procedono invece in maniera arbitraria e improvvisata” . Sempre Gullotta, sostiene poi che “la pedofilia femminile, come tutte le altre parafilie, (salvo il sado-masochismo), sono una prerogativa maschile”, quindi tutti i vari “Rignano Flaminio” non possono che essere una bufala colossale.
Francesco Bruno celebre, rinomato criminologo e collega di Gullotta, nello scrivere la prefazione al libro di Petrone e troiano “Se l’orco fosse lei”, definisce la pedofilia femminile un fenomeno “nuovo”, un fenomeno, sempre a suo dire, che sta “incominciando a fare la sua comparsa anche nel nostro Paese”. Quello che io ho letto, facendo una semplice ricerca nelle varie rassegne stampa nazionali e internazionali, mi racconta però una realtà diversa, in cui non trova conferma la definizione di “fenomeno nuovo” data dal Prof. Bruno e tanto meno quella di cartoni animati descritta dal professor Gullotta. Riporto qui di seguito gli articoli che sono riuscita a trovare cercando negli archivi disponibili di quotidiani online: Repubblica 12 settembre 1997. Arrestata, adescava bambine. Teramo. Piccole somme di denaro e gioielli. Così Marta Maria Battista avrebbe attirato tre minorenni in un giro di pedofilia femminile. Lei, 21 anni, originaria di Molfetta e residente a Nereto, vicino a Teramo, casalinga, è stata arrestata mercoledì notte dal reparto operativo dei carabinieri di Teramo nell’ambito di un’indagine sulla pedofilia. Quando gli agenti hanno suonato alla sua porta, l’ignaro marito non poteva credere a quelle accuse. Durante la perquisizione dell’appartamento i carabinieri hanno trovato anche diversi oggetti per pratiche sessuali e alcune cassette porno in cui però non compaiono minorenni come protagonisti. Secondo l’accusa, da tempo la donna rivolgeva pressanti attenzioni sessuali nei confronti di una ragazza di 14 anni. All'insaputa del marito, non solo aveva rivolto le sue attenzioni sessuali sulla minore, ma aveva anche cercato di indurre un’amica maggiorenne a prostituirsi con uomini di sua conoscenza.
www.Repubblica.it 24 agosto 2000. Caso di pedofilia al 'femminile'. E' accaduto a Termini Imerese, un centro a 35 chilometri da Palermo, dove una donna di 30 anni è stata arrestata con l'accusa di aver compiuto abusi sessuali su una ragazzina di 14 anni. La donna, casalinga, è stata rinchiusa nel carcere dei Cavallacci su ordine di custodia del gip, Francesco Paolo Pitarresi, che ha accolto le richieste del sostituto procuratore della Repubblica, Francesca Pandolfi. Il provvedimento restrittivo è stato eseguito dalla polizia, che ha svolto le indagini, avviate su denuncia della madre della vittima. L'identità della pedofila lesbica non è stata resa nota.
Repubblica 19 settembre 200. Pedofilia al femminile Due baby sitter molestano bambino FORLI - Un caso di pedofilia al femminile a Forlì: due baby sitter - sorelle di 36 e 38 anni - sono state denunciate dai genitori di un bambino di 8 anni con l'accusa di aver abusato del piccolo che avevano in custodia a giorni alterni. I genitori avrebbero scoperto cosa succedeva in loro assenza perchè il bambino diventava sempre più strano e faceva domande "innaturali" per la sua età. Con pazienza i genitori sono riusciti a farsi raccontare delle strane attenzioni cui era diventato oggetto. Appena intuito di che cosa si trattava, hanno presentato denuncia all' ufficio minori della Questura. Ora l'autorità giudiziaria dovrà sbrogliare uno dei pochi casi noti di pedofilia al femminile.
Repubblica 18 agosto 2001. Le nuove turiste sessuali a caccia di bambini vengono dall' Europa occidentale e dagli Stati Uniti. Sono ricche, di mezza età. Di solito viaggiano in coppia e portano con sé una macabra attrezzatura composta di ormoni e droghe. Avere un rapporto sessuale con un ragazzino preadolescente è tecnicamente più difficile che con una bambina tanto che le pedofile più esperte arrivano ad iniettare ormoni o droghe nei bambini più piccoli per provocarne l'erezione. Lo sfruttamento sessuale ai danni di bambini rischia di avere conseguenze ancora più a lungo termine di quello inflitto alle bambine. L' uso di droghe e sostanze chimiche può avere effetti fisici ancora sconosciuti. Oltre ai danni psicologici e fisici provocati dalla violenza sessuale, spesso irrecuperabili, il trattamento ormonale in età preadolescente causa una modificazione dello sviluppo che può arrivare a minacciare anche la vita del bambino.
www.sun-sentinel.com 11 Gennaio 2004. Le Accuse contro una professoressa di Boynton Beach fanno luce sul ruolo della Donna come molestatrice sessuale. Articolo di Scott Travis. L'abuso sessuale contro i bambini è da sempre stato considerato come un crimine degli uomini. Nonostante il fatto che la maggioranza dei casi continuano a coinvolgere uomini, le donne stanno in questi tempi occupando le prime pagine dei giornali accusate di avere relazioni sessuali con adolescenti. Nei recenti mesi ci son stati ben tre casi, nella sola Florida, più una serie di altri nell'intero contesto nazionale. L'ultima donna accusata di abuso sessuale è Carol Flannigan, un'insegnante di musica di 49 anni alla Rolling Green Elementary a Boynton Beach. La Flannigan è stata arrestata con l'accusa di aver intrattenuto una relazione sessuale di ben 19 mesi con un ex-studente di 11 anni. La Flannigan fa seguito a numerose altre donne che sono state arrestate negli ultimi anni per accuse simili, tra queste: Amy Duane, un'insegnante di scuola elementare che si è dichiarata colpevole a Novembre. La Duane ha intrattenuto una relazione sessuale con un bambino di 13 anni che viveva nel suo vicinato, ad ovest di Lake Worth. La pena è stata di 4 anni in prigione. Debra Favre, che ha ammesso di aver avuto una relazione sessuale con un ragazzo di sedici anni nella stanza da letto della signora Duane. La Favre si è dichiarata colpevole. Denise McBryde, un'ex-insegnante di una scuola privata che è stata condannata a tre anni di carcere per aver avuto una relazione sessuale con un suo studente di 15 anni, a Tampa. Comunque, probabilmente la più famosa è Mary Kay Letorneau, un'insegnante di Kent (Washington). La storia della Letorneau è balzata nelle prime pagine di tutta la nazione quando la sua relazione con uno studente di 13 anni ha prodotto 2 bambini. "La gente comune pensa che sia raro, ma non lo è per niente", dice Deborah Hermon, una psicologa che lavora a Boca Raton. "L'idea per cui una donna o una madre - qualcuna che si suppone debba rappresentare il meglio per quanto riguarda la 'protezione'- possa abusare di un bambino, è talmente angosciosa e penosa che le persone non vogliono nemmeno prendere in considerazione la questione. Ma il problema è molto più diffuso di quanto la gente creda." In base alle cifre del Dipartimento di Giustizia le donne accusate di crimini a sfondo sessuale contro bambini sono appena il 3%. Ma la Hermon dice che la maggior parte dei casi che coinvolgono donne o non vengono segnalati oppure le donne non vengono condannate. La Hermon dice che è difficile ottenere il DNA e altre evidenze fisiche quando ad essere abusato è il maschio. "E spesso i bambini avvertono che ci sia in loro una sorta di "marchio di colpevolezza" per essere stati vittimizzati da una donna", dice la Hermon.. La madre della vittima di Amy Duane dice che lei non ha mai pensato nemmeno una volta che una donna potesse essere una "pedofila", finchè non ha dovuto constatare la dura realtà nella sua famiglia.
Settimanale Anna aprile 2004. Maria, quattro anni, entra con la mamma nello studio di una pediatra. Il medico conferma i sospetti dei genitori: la bambina ha un'infezione vaginale. La pediatra prescrive la cura, consiglia di far indossare alla bambina slip più aderenti, e di vietarle di sedersi a terra. Un giorno, la madre vede Maria armeggiare con un pennarello fra le gambe. La sgrida, le spiega che fa male a fare quel gioco, perché certamente è stato causa della sua malattia. Maria ribatte che quel gioco "glielo ha insegnato la maestra". Quindi, si può fare. La mamma ammutolisce e corre al telefono. La classe della scuola materna che Maria frequenta ha 12 alunni. La madre di Maria rintraccia, una per una, le altre madri. Si consultano, si riuniscono, si accordano sul modo migliore per interrogare i propri figli. Dai racconti dei bambini emerge un quadro dettagliato: la maestra avrebbe accompagnato i piccoli in bagno per "giocare" con loro, con pennarelli e altri oggetti. Giovanni, cinque anni, si comporta in modo strano. La madre, che per lavoro trascorre molte ore fuori casa, decide di tenerlo d'occhio per un po'. Un pomeriggio rientra prima del previsto e trova questa scena: il bambino piange, disperato. La babysitter è nuda dalla vita in giù. L'accusa, per la ragazza (italiana, incensurata), sarà "violenza sessuale". La babysitter avrebbe costretto il piccolo a fare sesso orale con lei, dietro minacce e ricatti. I genitori, che non sospettavano nulla, sono sconvolti. Ora il bambino è in cura da una psicologa.
Il caso più recente riguarda ancora una volta una babysitter, a Milano. Trent'anni, straniera, è stata arrestata con l'accusa di maltrattamenti, violenze e molestie sessuali su due bambini di otto e cinque anni che le erano stati affidati dai genitori. Secondo il racconto dei piccoli, lei li avrebbe seviziati con arnesi da cucina. Rinchiusi per ore, nudi, nel box doccia. Terrorizzati e ricattati con minacce continue, tipo: "Se lo racconti a tua madre, ti ammazzo il cane".
massimilianofrassi.splinder.com 25 gennaio 2005
Pedofilia: retata in Francia, 68 fermi di polizia. PARIGI - Sessantotto persone - uomini e donne, di tutti gli ambienti sociali e di età compresa fra i 16 e i 60 anni - sono stati sottoposti a fermo di polizia in seguito ad una retata antipedofilia che ha interessato tutto il territorio francese. I sospetti sono stati fermati nell'ambito di un'inchiesta aperta dalla magistratura di Colmar, nel nordest della Francia, per "detenzione e diffusione di immagini pedofile". Sono state compiute numerose perquisizioni domiciliari, definitive positive da fonti di polizia, che hanno portato alla scoperta e al sequestro di migliaia di foto, film e dvd a carattere pedofilo, che venivano scambiati via internet.
La Repubblica 15 agosto 2005
Faceva sesso con uno studente. Arrestata insegnante inglese. La donna aveva fino a 4 incontri a settimana con un tredicenne Molti i precedenti negli Stati Uniti, finiti anche con il matrimonio. Gb, in carcere una insegnante per aver fatto sesso con un allievo. LONDRA. Quindici mesi di prigione per aver fatto sesso con un ragazzino. E' la condanna inflitta ad una insegnante britannica di 32 anni, denunciata per aver avuto rapporti con uno dei suoi allievi. La donna è stata condannata oggi a 15 mesi di prigione senza i benefici. Hannah Grice, sposata e madre di due bambine, è stata anche condannata a essere iscritta per 10 anni nella speciale lista dei delinquenti sessuali. Secondo l'allievo adolescente, che all'epoca dei fatti avvenuti tra il 2003 e il 2004 aveva tra i quattordici e i quindici anni, gli incontri con l'insegnante avevano luogo fino a quattro volte alla settimana, nell'abitazione della professoressa.
Non è la prima volta che le cronache si occupano di episodi simili. In particolare negli Usa, molte insegnanti sono finite nei guai per essere andate a letto con allievi minorenni. A marzo, una insegnante di 30 anni delle scuole superiori è stata arrestata e incriminata a Sacramento, in California, dopo essere stata sorpresa a far sesso con un alunno di 16 anni mentre il figlio della donna, un bambino di due anni, assisteva alla scena dal sedile posteriore. Pochi giorni dopo un'insegnante delle medie di 37 anni della West Virginia, Toni Lynn Woods, è stata arrestata per abuso su minori e ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali completi con tre studenti e di aver fatto sesso orale con altri due. Debra Lafave, un'altra maestra accusata di avere sedotto un alunno di 14 anni in Florida, durante il processo ha giocato il tutto per tutto affermando di essere pazza. La donna ha affermato di avere avuto rapporti sessuali con l'alunno mentre era sotto il trauma di un matrimonio fallito e di un lavoro, in una piccola scuola media di Tampa, che non le dava alcuna soddisfazione. E Pamela Turner, 27 anni, bella, bionda, appariscente insegnante di educazione fisica e allenatrice di basket se l'è cavata con nove mesi di carcere, rischiava una condanna fino a cento anni. La maestra elementare di McMinnville, nel Tennessee, ha avuto a più riprese rapporti sessuali con uno studente di 13 anni, allievo dello stesso istituto scolastico dove lei insegnava. C'è stata qualche polemica per la pena mite: c'è chi sostiene che l'avvocato difensore ha giocato la carta della sensualità della cliente. Ma sicuramente il caso più celebre è quello di Mary Kay Letourneau, uscita dal carcere dopo aver scontato sette anni e mezzo per aver fatto sesso con un suo alunno della prima media, Vili Fualaau. La coppia (43 anni lei, 22 lui) ha avuto due figli e ha celebrato il matrimonio il 21 maggio scorso.
Antifeminist.altervista.org 2 marzo 2006. Pedofila stupra bambino di 4 anni. Una donna di 37 anni, impiegata in un day-care center di New York, ha ammesso di aver ripetutamente stuprato un bambino di 4 anni. Khemwhatie Bedessie, questo il 14 nome della donna, ha intrattenuto rapporti sessuali con il bambino di 4 anni almeno 3 volte in un arco di tempo tra Gennaio e la prima settimana di Febbraio. Il 20 Febbraio il bambino ha raccontato alla madre di esser stato costretto da Khemwhatie Bedessie a seguirla in bagno, dove poi sarebbe stato stuprato dalla donna. La madre del bambino ha quindi allertato le autorità e poco più tardi ottenuto una confessione di colpevolezza da parte della Bedessie. Da quanto è emerso dalle indagini investigative, pare che la Bedessie era solita abusare del bambino tra le 7 e le 9 del mattino, ovvero prima che arrivassero gli altri insegnanti del day-care center.
www.corriere.it 10 ottobre 2006. Racconto choc di Bevilacqua. “Così fui violentato”. MILANO: Un bambino di sei anni e mezzo sta disteso sulla riva del grande fiume, nudo, sotto il sole. È giugno, fa caldo, c’è intorno il silenzio meridiano di Pan. Appare dal nulla una donna, una folle vagabonda accompagnata da due cani: «E io la ricordo ora come se l’avessi qui davanti, in questa stanza: non l’avevo mai vista prima, ai miei occhi infantili sembrò gigantesca, quasi oscurava il sole». La donna afferra il bambino e lo sevizia: «Ero uno straccio di carne». Lei è come un’orchessa sfuggita alla boscaglia arcana del Po; o una «vaghezia», in dialetto parmigiano, cioè un miraggio che fluttua tra le sabbie e le acque tremolanti, nella canicola. Ma una «vaghezia» che segna la fine dell’infanzia, dell’innocenza, «anzi, la fine di tutti i sogni sull’universo femminile»; il passaggio dal paradiso terrestre a un mondo di caos.
www.ecpat.it 02 marzo 2007. La zia si infilava nel letto del nipotino e lo stuprava, chiesto il rinvio a giudizio. Zia di un bimbo di 10 anni, è accusata di averlo stuprato, inducendolo ad avere rapporti sessuali con lei. A denunciare la donna e' stata la sorella, quando un parente si è reso conto di quanto avveniva nella camera da letto. I reati contestati a alla donna, 29enne, originaria del Salvador, come la vittima, sono avvenuti due anni fa. La donna ha raggiunto in Italia la famiglia della sorella e ha abitato con lei e i suoi due figli piccoli. Dato lo scarso numero di stanze, zia Gloria dormiva in camera con i bambini e il cugino del padre. E' stato quest'ultimo a rendersi conto di quanto accadeva di notte. La zia entrava nel letto del bambino e lo induceva ad avere rapporti sessuali, malgrado lui tentasse di respingerla. La madre dei bambini ha deciso di sporgere querela e la sorella è scappata, rendendosi oggi irreperibile. Per la donna ora è stato chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di atti sessuali con minorenne e violenza sessuale. Il pubblico ministero Laura Amato contesta all'imputata una particolare condotta insidiosa nei confronti della vittima, lo sfruttamento del legame affettivo e delle condizioni di superiorità psicologica rispetto al bambino. Sentito durante un incidente probatorio, il bimbo ha confermato tutte le accuse.
www.ecpat.it 18 marzo 2007. La denuncia di don Di Noto: aumentano le pedofile E' allarme per la pedofilia femminile. Lo segnala don Fortunato Di Noto, fondatore dell'associazione Meter per la tutela dei bambini. "Non dimentichiamo, anche se in percentuale minima, ma crescente, il 4-7% delle violenze o della detenzione di materiale pedopornografico è compiuto da donne", dice il sacerdote e ricorda come "a livello internazionale le pedofile hanno una rivista cartacea e una radio online e sono numerosi i Blog di donne pedofile (n. 36 denunciati alla Interpol e alla Polizia Postale da Meter)". Hanno anche un simbolo, un cuore (una grande che contiene uno piccolo). ''Non di rado, dice don Fortunato Di Noto, ci siamo imbattuti in foto (2% circa) raffiguranti espliciti atteggiamenti sessuali tra minori e una donna adulta''. Nell'immaginario collettivo il termine 'pedofilia' viene associato al sesso maschile, sottolinea la sociologa e criminologa, Nicoletta Bressan, socia e consulente dell'associazione Meter, secondo la quale, la pedofilia ''e’ considerata come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile'', ma, ''contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne''.
www.ecpat.it 18 marzo 2007. Pedofilia. Faceva asilo nido in casa: trovato intero archivio di materiale pedopornografico. C'è anche un vasto archivio pedopornografico nella vicenda di pedofilia scoperta dai Carabinieri e nella quale sarebbe coinvolto anche un uomo, che risulta convivente di Monica Chirollo, ma in realtà non avrebbe mai risieduto ad Arzachena, l'uomo abita a Como e su di lui starebbero indagando i militari del locale Comando; su questa parte dell'inchiesta e sull'archivio dell'arrestata, gli investigatori mantengono un assoluto riserbo. ''Sulla vicenda, hanno spiegato i Carabinieri del Comando provinciale di Cagliari, per motivi di riserbo istruttorio possiamo dire pochissimo, forse il 5% di quello che abbiamo accertato. La necessità di rendere nota la vicenda e il volto della donna accusata di abusi sessuali sui bimbi affidati alle sue cure, nasce dalla certezza che Chirollo, negli ultimi tre anni, ha reiterato il suo comportamento oltre che nella sua casa di Arzachena, dove aveva realizzato una sorta di asilo nido, anche nel cagliaritano, dove è partita l'inchiesta, e in altre località''. L'appello degli investigatori punta anche a mettere in guardia i genitori: ''attenti a chi affidate i vostri figli''. I Carabinieri hanno raccontato che alla scoperta della vicenda si è arrivati grazie alla sensibilità di una volontaria dell'assistenza ospedaliera e alle capacità professionali di due sottufficiali della Compagnia di Iglesias che hanno cominciato gli accertamenti, coinvolgendo successivamente i colleghi del Reparto operativo provinciale. Monica Chirollo sarebbe entrata in contatto con la bimba straniera, che oggi ha 9 anni, dopo che la madre aveva fatto un appello su una televisione locale: ''aiutatemi, devo essere ricoverata in ospedale e non ho nessuno che si possa occupare di mia figlia''. Poche ore dopo Chirollo si era messa in contatto con la famiglia straniera e, sostenendo di essere spinta da spirito filantropico, si era trasferita nel cagliaritano portando cibarie e giocattoli. Tranquillizzata dalle manifestazioni di affetto e dall'apparente filantropia della donna, la madre le aveva affidato la custodia della bimba. I primi sospetti sarebbero nati quando la bambina avrebbe cominciato a manifestare comportamenti inconsueti, rifiutando di farsi aiutare dagli adulti nelle pulizie personali. I Carabinieri avrebbero trovato le prove degli abusi sessuali compiuti da Chirollo, grazie a riscontri oggettivi che avrebbero confermato i racconti fatti dalla piccola vittima agli psicologi. Particolarmente importante, ai fini degli sviluppi dell'inchiesta, l'archivio pedopornografico (definito sconvolgente anche da Carabinieri che hanno partecipato alle riesumazioni nelle fosse comuni in Kossovo) nel quale sarebbero ritratte le piccole vittime della donna, tutte di eta' inferiore ai 10 anni. Chirollo, secondo le risultanze investigative, avrebbe appuntato le sue attenzioni prevalentemente sulle femminucce. La donna è stata arrestata nella sua casa di Arzachena, in esecuzione di un ordine di custodia cautelare emesso dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Cagliari, e rinchiusa nel carcere ''San Sebastiano'' di Sassari.
www.ecpat.it 26 aprile 2007. Turismo sessuale femminile: donne in cerca di sesso. Crisi di coppia, del maschio italiano, dei valori... Quale che sia la ragione, anche le donne del Belpaese sono state contagiate dal malcostume del sesso a pagamento lontano dai confini nazionali. Perché quel che accade all'estero, resta all'estero. Soltanto negli ultimi anni le italiane rappresentano dal 3 al 5% dei turisti in cerca di sesso. Lo denuncia il Rapporto 2006 Eurispes-Telefono Azzurro su Infanzia e Adolescenza. L'identikit della donna a caccia di giovani amanti a pagamento è presto tracciato: sono per lo più single e neodivorziate, scelgono mete come Gambia, Senegal, Marocco, Kenya, oltre a Cuba e Giamaica. Vanno, insomma, in cerca di quello che volgarmente si chiama il "big bamboo"... Anche l'età media, che fino a qualche anno fa si aggirava attorno ai 40 anni, oggi si sta abbassando molto grazie soprattutto ai voli low cost che consentono alle più giovani di raggiungere facilmente mete esotiche dove l'offerta è altissima. Il turismo sessuale è un fenomeno che sta assumendo caratteristiche e proporzioni che vanno ben oltre le relazioni, seppur a pagamento, tra gli avventurieri occidentali e le bellezze del posto. E sebbene la donna che va all'estero a caccia di gigolò faccia ancora notizia e rappresenti più che altro un fenomeno di costume che ancora incuriosisce molto, quello con cui ci si deve confrontare è un vero e proprio sistema di sfruttamento della prostituzione. Il fenomeno che assume connotati ancora più gravi quando le vittime di questa nuova schiavitù sono minori, che spesso sono venduti dalle famiglie più indigenti, con il beneplacito delle autorità che chiudono un occhio pur di veder triplicare il numero di turisti. In Gambia, per esempio, il 70% della popolazione ritiene che il sesso sia la principale ragione del turismo europeo nel proprio Paese. Davvero le donne vogliono rendersi complici di tutto questo? L'emancipazione a volte prende vie misteriose.
www.ecpat.it 12 aprile 2007. Pedofilia: Filmavano abusi, arrestata coppia a Cagliari. Adescavano bambini anche con deficit mentali e poi ne abusavano. Spesso filmavano con una piccola telecamera gli atti sessuali. In manette per pedofilia sono finiti Sara De Vecchi, 23enne di Novara e Roberto Muscas, 40enne di Santadi, entrambi residenti a Borgomanero (Novara). I dettagli dell'operazione dei carabinieri sono stati resi noti dal maggiore Daniel Melis nel corso della conferenza stampa che si è svolta questo pomeriggio a Cagliari.
www.mobilitazionesociale.it 18 giugno 2007. Se è vero che le statistiche mostrano che la maggior parte degli abusi sessuali su bambini sono compiuti da uomini, non bisogna però dimenticare che tra i molestatori figurano anche delle donne. Nel 1994, il National Opinion Research Center mostrò che la seconda forma più comune di abuso sessuale su minori riguardava donne che avevano molestato ragazzi. Per ogni tre molestatori maschi ce n'è uno di sesso femminile. Le statistiche sugli abusi compiuti da donne sono più difficili da ottenere perché il reato è più nascosto. (Intervista con il Dr. Richard Cross, "A Question of Character,", National Opinion Research Center; cf. Carnes). Inoltre le loro vittime più frequenti, i ragazzi, hanno una minore tendenza a denunciare gli abusi sessuali specialmente quando il colpevole è una donna (O'Leary, "Child Sexual Abuse").
Oreius.altervista.org 22 settembre 2007. La canadese Linda Halliday-Sumner, consulente nei casi di abusi sessuali su minori, segnala che negli ultimi dieci anni si è verificato un enorme incremento dei casi di pedofilia femminile: nei 325 casi da lei seguiti, più di un centinaio erano dovuti ad abusi sessuali su minori da parte di una donna. Studies in the 1980s by researchers David Finkelhor and Diana Russell estimated that in the United States about 14 percent of abuse cases involving boys were perpetrated by females. Studi nel 1980 da ricercatori David Finkelhor e Diana Russell stima che negli Stati Uniti circa il 14 per cento dei casi di abusi perpetrati dai ragazzi erano femmine. About 6 percent of the cases were of women who abuse girls. Circa il 6 per cento dei casi sono le donne che abusano di bambine.
(ANSA) domenica 27 gennaio 2008. Pedofilia: Asilo Vallo della Lucania, chiesto rinvio a giudizio per suor Soledad. Vallo Della Lucania (Salerno), 25 Gennaio.Rinvio a giudizio per Suor Soledad, archiviazione per gli altri indagati. Queste le richieste avanzate dalla Procura della Repubblica di Vallo della Lucania al Gip del Tribunale vallese a proposito dell'inchiesta su un presunto giro di pedofilia nel piccolo centro cilentano. Al centro delle indagini, avviate due anni fa, la suora peruviana Carmen Verde Bazan, di 25 anni, nota come suor Soledad, finita in carcere con l'accusa di violenza sessuale nei confronti di 27 bambini tra i 3 e i 5 anni che frequentavano un asilo di Vallo della Lucania gestito da religiose. Richiesta di archiviazione, al contrario, per gli altri indagati, almeno dieci, tra i quali un muratore e un fotografo del posto; tra le ipotesi d'accusa, la prostituzione minorile, la pornografia minorile e la detenzione di materiale pornografico.
www.corriere.it 25 marzo 2008. Gli italiani in testa alle classifiche. Ottantamila l’anno in cerca di minorenni. Sono oltre 80.000 i viaggiatori che ogni anno lasciano la Penisola per andare a caccia di sesso proibito, con bambini e adolescenti; non solo pedofili (il 3% del totale), ma soprattutto uomini e donne normali. Ma nella primavera 2008, per Ecpat Italia è di nuovo allarme rosso. “Negli ultimi anni, spiega il presidente, l’avvocato Marco Scarpati, l’italiano ha scalato pesantemente i primi posti di questa terribile "classifica": se prima in alcuni Paesi eravamo fra le prime 4-5 nazionalità, oggi siamo i più presenti in Kenya (il 24% dei clienti di prostituti/e minorenni è italiano, contro il 38% di "locali"), Repubblica Dominicana, Colombia...”. Si abbassa l’età del turista sessuale, “che non corrisponde più al cliché del vecchio ricco e bavoso”. La media è intorno ai 27 anni e c’è poi il mondo inesplorato del turismo sessuale femminile, “fatto di donne dal reddito e livello culturale alti”.
www.corriere.it 1 febbraio 2008. Norma Giannini, che ora ha 79 anni, ritenuta colpevole di molestie negli anni ‘60 aidanni di due alunni Milwaukee (Wisconsin). Un nuovo scandalo sessuale si abbatte sulla chiesa cattolica statunitense. Norma Giannini, una suora italo americana di 79 anni è stata condannata a un anno di reclusione e a dieci con la condizionale per aver abusato ripetutamente di due suoi alunni di 12 e 13 anni negli anni ‘60. Teatro delle molestie sessuali, descritte come “baci e palpeggiamenti”, fu la scuola media cattolica St. Patrick di Milwaukee di cui era suor Norma era la direttrice. Secondo quanto riferisce il “Chicago Tribune” la Giannini ha anche ammesso in un’inchiesta interna dell’arcidiocesi di Milwaukee di aver abusato di almeno altri quattro minori. Nel 1992 è stata rimossa dall’incarico. I responsabili della prelatura vennero a conoscenza del caso la prima volta nel 1992 ma, come scrive il giornale, non informarono le autorità limitandosi a rimuoverla da ogni incarico. La procura riuscì a istruire il caso solo nel 2005 solo dopo che le vittime, James St.Patrick e Gerald Kobs, denunciarono i fatti. I due, ormai quarantenni, erano presenti in aula al momento della sentenza. Hanno raccontato di come i traumi subiti abbiano condizionato la loro vita e si sono detti delusi dall’entità della pena. Condanna che sarà scontata non in una prigione normale ma in una Casa di Correzione, come ha stabilito il giudice viste le cattive condizioni di salute della suora. Kobs ha spiegato di aver pensato più volte al suicidio mentre St.Patrick ha confessato di aver cercato consolazione dopo la scuola negli stupefacenti e nell’alcol e di aver perso la fede. Suor Norma, che in aula ha chiesto scusa per gli abusi commessi, originaria di Chicagoentrò in convento a 18 anni. Iniziò a insegnare nel 1949 alla St.Paul of the Cross di Park Ridge, e in seguito in altre scuole cattoliche a Chicago e infine nel 1964 arrivò a Milwaukee. Dopo cinque anni tornò in Illinois. Alla psicologa dell’arcidiocesi che gli chiese cosa, secondo lei, i ragazzi pensavano di quello che gli faceva, suor Norma rispose: “Si stavano divertendo…Quanti adolescenti potevano resistere a questa opportunità”.
Il mattino di Padova 19 Aprile 2008. Insegnante accusata di atti di libidine. Palermo. La vicenda risale a quasi 10 anni fa: la professoressa avrebbe avuto rapporti con tre dodicenni. La docente è ora sotto processo per aver fatto sesso con minori. Di giorno faceva l’insegnante, il pomeriggio dava ripetizioni e iniziava al sesso i suoi stessi giovanissimi alunni. Succede a Palermo, dove una trentenne è adesso sotto processo per “atti sessuali con minori”. La realtà che traspare da questi articoli, ci fa capire che il fenomeno della pedofilia nella sua variante al femminile esiste ed è presente anche sul nostro territorio. Quando parliamo di pedofilia, subito la identifichiamo con il genere maschile. Chi fa del male a un bambino non può essere donna perché la donna possiede l’istinto materno che non le permetterebbe di scendere a tali mostruosità. Un articolo apparso sul DailyMail il 4 Novembre del 2006 è un esempio dell’accostamento pedofilia genere maschile. L’articolo, racconta che a bordo di un aereo della British Airways, è stato chiesto ad un uomo di spostarsi di sedile perchè il regolamento della compagnia, vieta ai bambini non accompagnati di sedersi di fianco ad ogni adulto di sesso maschile. "Come compagnia aerea con un obbligo di attenzione verso i nostri clienti, è nel nostro regolamento assicurarci che, ove possibile, nessun minore non accompagnato sieda di fianco a maschi adulti. Ci scusiamo se il Sig. Kemp si è sentito offeso dalla nostra richiesta, ma dobbiamo bilanciare i bisogni del bambino con quelli dell'adulto. Il regolamento è in atto come precauzione e nel migliore interesse e benessere dei bambini che viaggiano da soli." La British Airways, però, non è l'unica compagnia aerea al mondo che adotta questo regolamento. La Qantas e la Air New Zeland, (due compagnie aeree australiane), balzarono agli onori della cronaca per un caso simile a quello capitato pochi giorni fa al Sig. Kemp. Nel 2005 infatti un altro "incidente" avvenne durante un volo della Qantas con rotta da Christchurch ad Auckland. In questo caso la vittima di discriminazione fu Mark Mosley, a cui una hostess ordinò di cambiare posto perchè "la policy della compagnia prevede che solo alle donne viene consentito di sedersi accanto a bambini non accompagnati". La pedofilia è un fenomeno largamente sommerso riferito per lo più alla cerchia familiare, che secondo il Censis rappresenta almeno 85% dei casi. Secondo i dati forniti a febbraio 2008 dal ministero di grazia e giustizia, sono più di mille i detenuti nelle carceri italiane accusati di reati di pedofilia, abusi e violenza sessuale su minori. Nello specifico, sono soprattutto uomini italiani la maggioranza dei reclusi (824), seguono i pedofili stranieri (400) e 98 donne di cui 45 di nazionalità italiana e 53 straniera. In qualunque ricerca, le madri risultano sempre all'ultimo posto tra gli autori di reati sessuali su minori e in percentuali insignificanti. La bassa percentuale delle donne denunciate non rispecchia però la realtà, si pensa ci sia un sommerso molto più consistente. I dati registrati in questi ultimi anni, dall'esperienza dell'equipe di neuropsichiatria infantile dell'ospedale Bambin Gesù di Roma, evidenziano, per esempio, una certa rilevanza del fenomeno. Secondo una ricerca effettuata nel 1995 su 250 casi trattati, le madri sarebbero nell'11% dei casi le autrici degli abusi sessuali intrafamiliari su figli minori, al terzo posto dopo i padri e i conviventi. Gli abusi delle madri sui figli sono molto difficili da scoprire soprattutto perché sono mascherati dalla pratica di accudimento e dall'affettività materna. Molti atti di libidine, si nascondono infatti nei bagni e nei lavaggi intimi, nelle applicazioni superflue di creme sui genitali dei figli di entrambi i sessi, nel condividere con questi ultimi fino all'età adolescenziale il letto o le carezze erotiche, arrivando anche al rapporto completo. Tutti questi comportamenti sono naturalmente perversioni materne, spesso anche molto sottili, difficilmente riconoscibili e che non riescono ad emergere se non in terapia. Il senso comune censura immediatamente il pensiero che una donna potrebbe avere desideri incestuosi verso i suoi figli e se emerge che esagera nel fare il "bagnetto" al figlio o ad utilizzare le creme, si preferisce credere che abbia la fobia dell'igiene se non addirittura scusarla, perché inconsapevole dei suoi gesti e delle conseguenze che questi possono avere sullo sviluppo psico emotivo del figlio. Fino a non molti anni fa, quasi si pensava fosse "naturale", o comunque era un "eccesso" che veniva tollerato dal sentire comune, in nome dell’esclusività del rapporto tra madre e figlio. (www.psychomedia.it).
Quando ci troviamo di fronte ad un comportamento criminale al femminile, assistiamo ad una disparità di trattamento perpetrata non solo dalla gente comune ma anche dal sistema giudiziario. Uno studio del governo degli Stati Uniti, (United States Sentencing Commission - November 2004), risalente a due anni fa, ha portato alla luce una realtà allarmante su come le donne vengano "discriminate positivamente" nelle aule dei tribunali, vedendosi comminare pene più leggere degli uomini per lo stesso reato. Secondo il “Journal of criminal justice”, (Nagel & Johnson, 1994; Segal, 2000; Schazenbach, 2004) l'analisi dei dati e dei casi giudiziari, suggerisce che le attitudini paternalistiche dei giudici verso le donne, tendano a ritenere le donne più vulnerabili, degne di comprensione, e in definitiva meno responsabili degli uomini. Un esempio recente è quello dell’insegnante Sarah Bench-Salorio, condannata nel 2005 per aver sessualmente molestato ragazzini di 11, 12 e 13 anni. L'imputata era di fronte ad una possibile condanna di oltre 60 anni. Il giudice però l'ha condannata ad appena 6 anni. Nell’ agosto del 2006, un Giudice americano ha causato forti proteste per la sua decisione di mettere in libertà una donna, trovata in possesso di rivoltante materiale pedopornografico di bambini fino ai 5 anni di età. Julie Lowe, un'operaia ferroviaria, scaricò da internet immagini e video di carattere pedopornografico, alcuni mostravano bambini in scene di sesso "bondage" e sadomaso. Due dei filmati scaricati erano della "Categoria 5" ovvero il livello più grave di materiale pedopornografico. La Lowe, ha affermato alla Corte di Leicester Crown di aver visionato i video solamente per curiosità. Ma le 43 disgustose immagini di pedopornografia sono state scaricate lungo un periodo di ben 2 anni. La polizia ha fatto irruzione nella casa della Lowe, grazie alle segnalazioni di agenti di polizia in Norvegia e Danimarca. La Lowe, una single di 45 anni, ha riconosciuto i 9 capi di accusa riguardo al materiale pedopornografico da lei posseduto. Il giudice pur avendo descritto il materiale sequestrato come "spregevole, e profondamente ripugnante", ha ritenuto di limitare la pena ad un ordine di riabilitazione comunale della durata di 3 anni, con l'obbligo di partecipare ad un programma di trattamento per i molestatori sessuali e 100 ore di servizio per la comunità. (antifeminist.altervista.org).
Negli ultimi anni sembra esserci stato un incremento esponenziale dei casi di pedofilia al femminile e tale fenomeno è particolarmente accentuato e ben visibile negli Stati Uniti. L'aumento della casistica di questo tipo di crimine confermato dalla cronaca nazionale e internazionale, non è dovuto ad un effettivo incremento del fenomeno, quanto piuttosto ad un'accresciuta sensibilità verso di esso, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della società. Quello che differenzia la pedofilia femminile odierna da quella del passato è la sua espressione manifesta, la sua patologica volontà di uscire allo scoperto, quasi per voler rivendicare un posto accanto a quella maschile. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Ecco allora che debuttano, le prime donne indagate per pedofilia, i primi arresti, le turiste sessuali, la scoperta dei primi siti internet per donne pedofile. Pensiamo per esempio, che se all’inizio del 2004 le associazioni femminili pedofile che agivano su internet erano 5 (M. Valcarenghi, 2007), solo nel 2007 siamo arrivati a 36, come riportato dall’associazione meter, che da anni si occupa del fenomeno pedofilia. A questo proposito voglio citare la lettera di ordinazione (riportata dall’E.C.P.A.T.) che una pedofila svedese ha scritto al fornitore di fiducia, dopo aver visto insieme alla sua compagna un film su una bambina, i cui genitali presi a frustate e riempiti di parafina bollente, vengono poi ricuciti con degli aghi: “Vorrei un altro video, scrive una signora svedese, ma questa volta voglio roba più forte. Ho voglia di guardare qualcosa di completo, sa cosa intendo dire; se avete il seguito di quelle scene con gli aghi, per favore mandatemele”.
Ammettere l’esistenza della pedofilia femminile crea inquietudine e angoscia in ognuno di noi, non vogliamo accettare l’idea che la donna possa essere una potenziale abusatrice di bambini. Impregnati dallo stereotipo rassicurante che attribuisce alla donna un ruolo passivo e il ruolo del più “debole”, attribuiamo alla figura femminile maggiore sensibilità, un orientamento specifico verso le funzioni di cura e accudimento, intensa affettività e tenerezza. L'abuso femminile che esce allo scoperto, gode di un diverso metro di valutazione, basato sulla credenza che la madre, che ha il compito di proteggere, stia semplicemente prolungando, forse in maniera insolita, ma non colpevole, il suo precedente ruolo protettivo oppure si considera la donna abusante, affetta da severe alterazioni psichiche molto più gravi dell'uomo che compie lo stesso atto. La realtà dei fatti, ci porta però a dover ammettere la possibilità che proprio coloro che dovrebbero essere portatrici del rassicurante istinto materno, (e quindi difendere, curare e amare la propria prole), si rendano autrici di abuso su minori.
Comunque esiste ed è sottovalutato l’allarme pedofilia. L’allarme, tuttavia, era stato lanciato da tempo. Un numero incredibile di persone sparisce ogni giorno nel nulla, soprattutto giovanissimi. Molti di loro si trovano, di altri non se ne sa più niente. E’ come se si fossero volatilizzati, spariti. Nel mondo spariscono ogni anno molte migliaia di persone. Ogni anno in Italia sono dichiarati scomparsi oltre 2000 minori. Alcuni di loro tornano a casa da soli, altri vengono ritrovati dalle forze dell'ordine, altri ancora non hanno mai fatto ritorno. Secondo le cifre del Ministero dell'Interno, solo nel 1996, sono stati dichiarati scomparsi 2391 minori. Di questi, 1912 hanno riabbracciato le loro famiglie. Al marzo '98 i minori dichiarati scomparsi erano 1419, di cui 796 sono stati rintracciati dalle forze dell'ordine. Che fine fanno i tanti di cui si perderà ogni traccia?
Per farsi una pallida idea di quanto è grave il fenomeno basti sapere che, nel 1997, “Il Giornale” (15 Marzo 1997) titolava un lungo pezzo: “Dal ’90 quadruplicati i ragazzi spariti”. Oggi sono molti di più. Un calcolo, anche approssimativo, è impossibile. Il quotidiano, tra l’altro, denunciava: “Cresce il numero dei giovani, soprattutto tra i 15 e i 18 anni, che svaniscono nel nulla. Le piste: droga, sette religiose, voglia d’avventura e mercato degli schiavi”.
Se molti di questi giovani vengono ritrovati, di altri non se ne saprà più nulla. Alcuni di loro finiscono nella rete della prostituzione, della pornografia, della pedofilia, altri nel sottobosco criminale dei devoti di Satana. Il giornale “La Stampa” (8/2/87) riporta la notizia di una sètta satanica che reclutava bambini.
Nella nostra società il satanismo è un pericolo dilagante di cui, spesso, non se ne parla abbastanza, oppure lo si fa nel modo sbagliato. Gli adoratori del diavolo sono in aumento anche a Roma. Il quotidiano “Avvenire” del 5 settembre 1996 scrive: “un’altra sètta satanica è stata scoperta a Roma.
Tremila adepti, 5 milioni per iscriversi...”. Il fatto che più “lascia stupiti - dissero gli inquirenti - è l’apparente insospettabilità di molte delle persone indagate...”. Si è anche appreso che: “sembra, che la congregazione contasse anche l’affiliazione di noti nomi del mondo dello spettacolo...”.
Vi è, addirittura, anche un mercato di “pezzi di ricambio” umani. Vengono inviati ai possibili clienti veri e propri cataloghi di organi, che dovrebbero servire o come feticci umani per riti satanici o, in altri casi, per corroborare il traffico internazionale clandestino dei trapianti. “Centinaia di minorenni, maschi e femmine, spariscono ogni anno. Molti finiscono all’estero, nel mercato delle adozioni clandestine. Molti finiscono nel circuito della pedofilia e della pornografia” (“Visto”, 8/11/1996). Così ha denunciato la parlamentare Rosario Godoy de Osejo, fondatrice di un “Comitato per i bambini scomparsi” e prosegue: “Ho il sospetto che la ragione della scomparsa possa essere il prelievo di giovani e sani organi da vendere nei paesi ricchi. Se le cose stanno così, è facile capire che fine fanno questi bambini una volta ‘esportati’ “. Fatti allucinanti.
Non è, infatti, neppure una “leggenda urbana” quella del supermarket degli organi di giovani cadaveri, ma una realtà agghiacciante. La “Gazzetta del Sud” di Venerdì 25 Agosto 1995, al proposito, scriveva: “L’Onu ha denunciato, in forma ufficiale, il traffico di bambini che si svolge, con queste finalità, in alcuni paesi.
Chi indaga sui traffici di organi muore.
Nel maggio 1996 il giornalista francese Xavier Gautier de “Le Figaro” viene trovato impiccato alle Baleari, nella sua residenza estiva. Una morte avvolta nel più fitto mistero. Gli investigatori spagnoli, poi, parleranno di suicidio. Gautier, prima di partire per le vacanze, aveva lavorato ad una lunga inchiesta su un presunto traffico di organi dalla Bosnia ad una nota clinica dell’Italia del nord.
L’ex ministro per la Famiglia Antonio Guidi aveva avvisato: “Il fenomeno è mondiale. Ma l’Italia, così com’è stata ed è un luogo di passaggio delle droghe, adesso è un punto di transito di bambini a rischio... Arrivano dai Paesi in guerra dell’Est, da quelli poveri dell’Africa. Parecchi di loro - chi può individuarne il numero? - sono destinati ad essere carne di riserva per i ricchi. Piccoli depositi di organi per i figli di chi ha denaro”. Guidi alla domanda se alcuni di questi bambini venivano mutilati, per conseguenti trapianti in Italia, aveva risposto: “In Italia, no. E’ impossibile. Ma attraversano le nostre terre come uccelli migratori, il cui destino è di essere abbattuti” .
Eppure l’Italia, scrive Giangiacomo Foà, è stata denunciata “dall’autorevole quotidiano La Nacion di Buenos Aires che in un articolo di fondo si fa eco delle accuse di don Paul Baurell, professore di Teologia dell’Università di San Paolo, e delle denunce fatte il primo agosto 1991 a Ginevra da René Bridel, rappresentante nelle Nazioni Unite dell’Associazione internazionale giuristi per la difesa della democrazia. (…). All’articolo di fondo de La Nation ha fatto eco O Globo di Rio che ci definisce ‘i maggiori importatori di bimbi brasiliani’. Il corrispondente di O Globo a Roma afferma: ‘L’Italia è il più importante compratore di bambini…’. (...). Anche in Perù la stampa ci accusa. Da mesi il quotidiano La Repubblica di Lima denuncia, con nome e cognome, coniugi italiani che sono arrivati in Perù per comprare bambini di pochi mesi o di pochi anni. Negli ultimi tempi avremmo ‘importato’ 1.500 piccoli peruviani, molti dei quali - secondo la stampa di Lima - sarebbero stati poi assassinati per asportare i loro organi per trapianti”.
Quello dei bambini rapiti, schiavizzati, violentati, costretti a prostituirsi, immolati a Satana o uccisi per espiantare i loro organi è un orrore su scala planetaria. Eppure si continua a fare poco o nulla. Giornali e televisione non denunciano il problema in tutta la sua reale gravità. Ne parlano poco e male, di tanto in tanto. I pericoli per i giovanissimi, come si è visto, vengono da più fronti, non ultima è la constatazione che, sul nostro pianeta, aumentano sempre di più le sètte dedite al culto del diavolo. Lo stesso Guidi aveva avvertito: “Alle soglie del 2000 si sta addirittura registrando un aumento di riti ‘religiosi’, mi raccomando le virgolette, che prevedono anche il sacrificio umano di bambini”.
Secondo le stime ufficiali ogni anno scompaiono in Italia 1000 bambini. 100.000 nel mondo. Circolano enormi quantitativi di agghiaccianti video, in cui i bambini vengono stuprati, per poi essere uccisi.
Come è possibile tutto questo? Chi copre questi traffici perversi e infernali?
È un business imponente, senza confini geografici, che vede l'Italia al primo posto nel mondo come Paese nel mercimonio dei bambini.
Pedofilo letteralmente significa "innamorato dei fanciulli", seppure il termine denoti in realtà solo depravazione sessuale, violenza, desiderio di dominio e viltà.
I piccoli seviziati, stuprati, uccisi e filmati nei video messi in commercio dalla potente multinazionale dei pedofili, ben protetta dai governi di tutto il mondo, sono lo specchio di una società altamente disinformata e ormai assuefatta ad ogni forma di brutalità.
Il turpe traffico con diramazioni internazionali e basi in tutta Italia è il volto mostruoso di un mondo che abusa dei bambini in ogni modo possibile.
L'agonia e la morte di bambini per soddisfare il piacere perverso di tanti altri mostri pronti a pagare per i materiali pornopedofili.
Una tragedia immane, che dilaga sempre di più ovunque.
Le stime esatte delle giovanissime vittime sono impossibili, tuttavia le videocassette del commercio più turpe di tutti i tempi, che va dalla prostituzione forzata minorile al turismo sessuale, al sadismo, fino all'infanticidio a scopo di piacere, sono commercializzate in tutti i Paesi del mondo.
Traffici, dietro ai quali opera la multinazionale dei pedofili, che interagisce con le varie mafie internazionali ed organizzazioni criminali, che controllano i mercati del traffico d'armi, stupefacenti, materiali nucleari, rifiuti tossici, organi umani e sfruttamento di giovani donne e bambini, ridotti in stato di schiavitù.
Tutto ciò con il compiacente avvallo dei governi e della magistratura, troppo spesso inerti e indulgenti con i pedofili, come ad esempio dimostrato dall'eclatante caso di Re Baldovino del Belgio, il quale concesse la grazia a Marc Dutroux, al secolo "il mostro di Marcinelle", rimuovendo il coraggioso magistrato che spezzando l'omertoso clima di connivenze aveva liberato le due sorelline dalla prigione in cui erano state segregate. Prigione in cui i bambini rapiti subivano turpi riti e sevizie prima di venire uccisi, da parte di influenti uomini d'affari e politici vicini all'establishment.
Pratica, purtroppo, molto più diffusa di quello che possiamo immaginare, in molti Paesi occidentali, dall'Italia agli Stati Uniti d'America e alla civile Inghilterra.
Don Fortunato, il coraggioso sacerdote antipedofili del telefono Arcobaleno, alcuni anni fa già ebbe a denunciare le connivenze e il clima di forti resistenze del Parlamento italiano a contrastare il turpe fenomeno della pedofilia. Lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia minorile negli ultimi cinque anni sono più che raddoppiati: il 2007 si attesta come anno record della pedofilia on line, con un incremento del 131% rispetto al quinquennio precedente. L'Europa è ormai l'epicentro assoluto di questo crimine e lo scenario dove si consumano in maniera prevalente tutti i passaggi dell'industria pedofila (Report sulla pedofilia on line 2007 di Telefono Arcobaleno). Rapporto dell’Osservatorio Internazionale di Telefono Arcobaleno sulla pedofilia e la pedopornografia online.
I dati fotografano una realtà in crescita (nell’ultimo quinquennio, si è registrato un incremento del 131%), oltre che un’Europa “in prima linea”. Nel senso negativo, però, visto che tra le tabelle del Report Monitoraggio risultano tristi primati.
È di razza europea, infatti, il 92% dei bambini sfruttati, così come il 61% dei fruitori della pedofilia in internet e l’86% dei materiali pedofili allocati in rete.
Riguardo alla domanda, l’uso e l’acquisto di questi ultimi, in Italia, per esempio si è registrato un alto coinvolgimento.
Cifre da capogiro quelle che ruotano attorno allo sfruttamento sessuale dei bambini su Internet. Si stima un valore di 4 miliardi di dollari l’anno - e che devono far riflettere, oltre che richiedere (soprattutto ai genitori) seri accorgimenti.
Già solo il fatto che l’età media dei bambini sfruttati, stimata da Telefono Arcobaleno, sia passata dai 10 anni ai 7 anni è allarmante, e altrettanto lo sono i 400 clienti giornalieri di un sito pedopornografico, il cui accesso costa mediamente 80 dollari, fruttando 34mila dollari al giorno.
La pedofilia punta verso il coinvolgimento di una rete organizzata di criminali che controllano e condizionano ad alti livelli i sistemi legali delle nazioni del mondo.
Le indagini vengono, quasi sempre, insabbiate, vi è come una congiura del silenzio, coperture misteriose, su cui nessuno vuole indagare, preferendo far passare le piccole vittime e i genitori che denunciano le violenze come visionari.
Ogni più clamorosa inchiesta condotta con la massima diligenza dalle forze dell'Ordine e dai P.M. viene demolita e/o vanificata, facendo spesso svanire nel nulla anni di lavoro investigativo e incontrovertibili perizie medico-legali e prove che in molti casi coinvolgono personaggi insospettabili: ecclesiastici, parlamentari, diplomatici, professori universitari, medici, alti magistrati, gente dello spettacolo, etc. Insomma, spazzatura umana che continua a fare scempio della purezza dei bambini, rimanendo per lo più impunita.
La storia dell'impunità dei crimini contro i bambini è storia di tutti i giorni.
Nel 2001, l'allora Cardinale Ratzinger impose che nei casi di abusi sessuali su minori cadesse il segreto pontificio, avocando alla propria congregazione per la fede il diritto esclusivo sulle indagini.
Pedofilia rosa. Il crollo dell'ultimo tabù di Loredana B. Petrone, Eliana Lamberti. Pensare che una donna possa mettere in atto atteggiamenti erotici di fronte a un bambino è impensabile, inaccettabile, inammissibile. Ma l’abuso di questo genere è una cruda realtà. E la pedofilia rosa non è un male moderno, basti ricordare Fedra… Le autrici tracciano la storia dell’abuso sessuale femminile, i vari identikit delle donne abusanti ed enucleano le caratteristiche dell’abuso sessuale femminile, soffermandosi in particolar modo sulle motivazioni profonde che sono alla base di questa devianza. Chi è la vittima della donna abusante? Quali sono gli effetti degli abusi sulle vittime? Cosa comporta l’essere abusati dalla propria madre? Quali strategie difensive utilizza il bambino abusato per «sopravvivere»? Di particolare rilevanza il capitolo dedito al trattamento psicoterapeutico della donna abusante. Quali sono i primi passi da compiere? Da abusata ad abusante, come esplorare il trauma? Quali caratteristiche deve avere il terapeuta che si occupa di donne abusanti? Infine i risvolti sociali della pedofilia rosa, ossia il turismo sessuale e la pedofilia femminile online.
E se l'orco fosse lei? Strumenti per l'analisi, la valutazione e la prevenzione dell'abuso al femminile. Con un nuovo Test per la diagnosi di Loredana B. Petrone, Mario Troiano. Questo libro mette in luce un nuovo fenomeno di pedofilia: la pedofilia femminile. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice, anche perché da sempre alla donna viene associato l'istinto di maternità che esclude, a priori, l'idea dell'abuso sui bambini. Pertanto, quando si parla di pedofilia, nell'immaginario collettivo scatta automaticamente la figura dell'uomo: giovane, di mezza età o anziano, ma pur sempre di sesso maschile. In realtà, la pedofilia colpisce sia uomini che donne. Vi sono diverse tipologie di donne pedofile: la pedofila latente, occasionale, dalla personalità immatura, regressiva, la pedofila aggressiva, la pedofila omosex, ecc. È tuttavia, difficile tracciare un quadro completo e ben delineato di questo fenomeno. La pedofilia femminile, come quella maschile, si cela all'interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Questo libro vuole essere un valido strumento per la conoscenza del fenomeno in ogni suo aspetto approfondendo il tema dell'abuso al femminile ed essere così un punto di riferimento sia nel campo dell'informazione che della prevenzione, sia per il contesto familiare che scolastico.
Loredana Petrone, psicoterapeuta e sessuologa, esperta in prevenzione delle moderne forme di violenza, lavora presso la Cattedra di Medicina Sociale dell'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma. È autrice di numerosi articoli sul tema e libri, tra cui Chi ha paura del lupo cattivo? (Franco Angeli, 2000)
Mario Troiano, psicologo-psicoterapeuta, esperto in psicologia delle emergenze, direttore dell'Istituto Internazionale Europeo Psicologia delle Emergenze. È autore di numerosi articoli e libri, tra cui Guarire dagli attacchi di panico (Editori Riuniti, 2001), e con Loredana Petrone Adolescenza e disagio. Come superare il problema (Editori Riuniti, 2001).
Cattive madri: la pedofilia femminile, scrive Piera Denaro il 16/01/2015 su "Palermomania.it". Se ne parla e se ne scrive poco, ma non significa che la pedofilia femminile non esista. Già, circa 2000 anni fa, Petronio nel suo Satyricon narrava di un gruppo di donne compiaciute ed eccitate davanti allo stupro di una bambina di sette anni. Nel pensiero comune, il pedofilo è maschio, ma anche le donne sono capaci di abusare di bambini e adolescenti. “Pensare che una donna possa essere un’abusante sessuale è raccapricciante, è sconvolgente perché la donna è associata all’idea di mamma. Teoricamente una madre non potrebbe mai danneggiare un bambino” dice Loredana Petrone, psicoterapeuta e sessuologa, esperta in prevenzione delle moderne forme di violenza, autrice con Mario Troiano del libro “E se l’orco fosse lei? Strumenti per l’analisi, la valutazione e la prevenzione dell’abuso al femminile”. Negli ultimi anni, il Web ha contribuito a portare in evidenza la diffusione di tale fenomeno. In rete, infatti, sono sempre più numerosi le immagini e i filmati pedopornografici che coinvolgono donne e madri. Proliferano anche comunità virtuali che offrono consigli per ottenere materiale e raggiungere minori. La pedofilia femminile, come quella maschile, può annidarsi all’interno delle mura domestiche o rivolgersi all’esterno, scegliendo mete lontane, come luoghi ideali per l’adescamento. Quella intrafamiliare, la più difficile da identificare, si cela dietro espressioni alimentate da ambigui rapporti di amore e di ostilità. In numerosi casi l’abusante è la madre e le statistiche di Telefono Azzurro ce lo confermano, anzi negli ultimi anni, in Italia, è salita la percentuale di abusi sessuali commessi in famiglia da parte di donne. La pedofilia femminile, in forma di turismo sessuale, compare intorno agli anni ’70, quando donne americane e canadesi, favorite dall’emancipazione economica e motivate dalla ricerca di soddisfazione sessuale e appagamento materno, iniziano a raggiungere spiagge lontane alla conquista di beach boys e beach girls. Oggi, mete delle nordamericane e delle europee sono Caraibi, Tunisia, Marocco, Kenya, Giamaica e Brasile. La Thailandia è preferita dalle giapponesi, Marrakesh dalle scandinave e dalle olandesi. Dalla testimonianza di medici, che hanno curato piccoli abusati, sappiamo che ai bambini maschi, per rendere possibile l’atto sessuale, vengono iniettati ormoni e droghe nei testicoli. Diverse le cause scatenanti di un comportamento pedofilo da parte di una donna: separazione, abbandono, eventi traumatici non elaborati e, quindi, irrisolti. Tra le conseguenze più importanti di un trauma non risolto, è l’impulso e l’ossessione a reiterare l’evento.
Loredana Petrone e Mario Troiano individuano sei tipologie di pedofilia femminile:
• Pedofilia latente - La donna nutre morbosa attrazione per i bambini; ha fantasie erotiche che non si concretizzano, grazie all’ostacolo morale di cui è in possesso.
• Pedofilia occasionale - La donna, pur non avendo gravi distorsioni psicologiche, in situazioni particolari, come viaggi in Paesi con un forte tasso di turismo sessuale, si lascia andare ad esperienze sessuali trasgressive. Si tratta, in genere, di donne di età compresa tra i 40 e 50 anni, con un livello socio-culturale medio-alto, single o divorziate.
• Pedofilia immatura - La donna non è riuscita a sviluppare normali rapporti con i coetanei, mancando di una sufficiente maturità emotiva ed affettiva. Rivolge, pertanto, le sue attenzioni verso il bambino, dal quale non si sente minacciata.
• Pedofilia regressiva - La donna, avvertendo un senso di inadeguatezza a vivere il quotidiano, regredisce ad una fase infantile. Sentendosi bambina, rivolge interesse sessuale verso i bambini.
• Pedofilia sadico-aggressiva - La donna trae piacere nel provocare dolore o morte. Alla base di questo comportamento c’è un bagaglio di aggressività, frustrazione ed un senso di svalutazione di se stessa e degli altri.
• Pedofilia omosex -La donna rivolge alla bambina l’amore non ricevuto dalla madre. Identificandosi con la piccola vittima, colma, con l’abuso, il vuoto affettivo.
Bisogna puntare l’attenzione e far luce su un fenomeno così grave e complesso, al fine di predisporre strumenti di prevenzione e tutela dell’integrità psico-fisica dei minori.
Pedofilia e l'incesto nelle donne, tratto da "I labirinti della pedofilia", di Gloria Persico. Le donne pedofile sono più rare degli uomini, spesso isolate o affette da qualche forma di squilibrio psichico. Come gli uomini, anche le donne possono creare notevoli disagi psicologici alle loro vittime. Quando una donna obbliga un bambino (o una bambina) a pratiche erotiche o sessuali, gli effetti possono essere devastanti, soprattutto se si tratta della madre. Per un figlio, infatti, la madre è la figura principale di attaccamento. Da lei si attende protezione e rispetto più che da qualsiasi altro adulto. La dinamica dell'atto pedofilo nelle donne ha una particolare connotazione. Il più delle volte questo si verifica perché il loro compagno è un pedofilo e da lui vengono coinvolte; in verità il loro ruolo è quasi sempre marginale. Non è possibile dimenticare quanto avvenne in Belgio alcuni anni fa a Marcinelle. Il serial mostro che sequestrava, seviziava, violentava e uccideva ragazzine aveva una compagna che lo seguiva, l'aiutava, condividendo le sue imprese. Quando in atti delittuosi, quasi sempre di appartenenza maschile, è presente una donna, si può ipotizzare che è stato il legame col suo uomo ad attivare quella che è stata già individuata come prepedofilia. Come già detto, mentre i pedofili spesso sono uomini che non mostrano segni psicopatologici, le donne pedofile, invece, mostrano spesso alti livelli di disturbo mentale. E ipotizzabile che solo un disturbo grave possa bypassare quell'istinto materno, in verità oggi un po' discusso, presente nella maggior parte delle donne. La testimonianza che segue è un rarissimo esempio di pedofilia femminile. Il fatto è realmente accaduto nel 1996. Questa maestra cattiva è forse unica a fronte di tante insegnanti attente e amorose che hanno salvato tanti bambini comprendendo e facendo propria la loro infelicità. Attente, amorose e anche coraggiose perché prendere l'iniziativa di comunicare ai genitori, al preside ed ai servizi sociali quello che hanno scoperto richiede un grande coraggio.
La maestra cattiva. La mamma di Maria (4 anni), aveva notato che le mutandine di sua figlia spesso erano gialle, e non era pipì. La pediatra aveva affermato che si trattava dì una infezìone vaginale: aveva prescritto dei bagnoli e aveva consigliato di comprare alla bambina delle mutandine più chiuse e di impedirle di sedersi a terra.
Un giorno la mamma vede Maria armeggiare con un pennarello fra le gambe, dopo essersi abbassata le mutandine. La sgrida dicendole che fa male a fare quel gioco, perché certamente è stato causa delle sue mutandine sporche. Maria ribatte che quel gioco glielo ha insegnato la maestra e che quindi si può fare. La mamma impietrita non dice più una parola, ma si mette in contatto con le altre mamme, poiché i bambini in quella classe della materna sono soltanto dodici. Le mamme si riuniscono e si accordano sul modo migliore per interrogare i propri figli. La situazione viene ricostruita: la maestra accompagnava i bambini in bagno e "giocava " su di loro con pennarelli ed altri oggetti. La denuncia fu fatta alle forze dell'ordine dai genitori dei bambini che si costituirono, in un'unica istanza, parte civile. Il caso della baby sìtter che abbiamo già presentato (a proposito del problema della differenza di età fra due minorenni), può essere considerato un caso di pedofilia femminile, poiché non è tanto l'età che definisce l'atto pedofilo, quanto il potere che il ruolo conferisce all'abusatore. Si può rilevare, ancora una volta, anche se spiace riconoscerlo, che i molestatori dei bambini si ritrovano il più delle volte nella rosa delle persone che li accudiscono. Quando le madri, qualche volta le nonne e le zie, vendono come merce sessuale le loro figlie e nipoti, il movente principale sembra essere l'avidità di denaro (non mai il bisogno) ed un loro passato di prostituzione. A mio avviso per un delitto così atroce, non può essere sufficiente la voglia di guadagno facile; forse c'è qualche altra motivazione, magari inconsapevole. Si potrebbe ipotizzare che si tratti di una proiezione sulla piccola, a risarcimento della perduta capacità di suscitare il desiderio degli uomini. Oppure, ipotesi ancora più audace, quella di un desiderio pedofilo o incestuoso che viene realizzato per vie traverse.
Le foto di famiglia. Il vecchio pensionato abitava al piano di sopra; era solo ed era considerato ricco dagli abitanti di quel quartiere degradato. Qualche volta scendeva a chiedere un limone o un uovo in prestito e si fermava a fare due chiacchiere principalmente con la nonna, ma non dimenticava mai un complimento alla madre ed una carezza a Maruzza, una ricciolina di nove anni. Un giorno propose un compenso per delle foto "artistiche " alla bambina. Poi propose delle foto che ritraessero 'Ve tre generazioni". Naturalmente nude, perché potessero risaltare i cambiamenti che la donna attraversa negli anni. Poi la bambina cominciò a salire sola ed i compensi cominciarono a crescere. La strategia era stata condotta assai bene. Dopo una denuncia anonima, una mattina i carabinieri bussarono alla porta del pensionato e trovarono le foto. Foto pornografiche della bambina. Chissà se l'aveva anche carezzata; la mamma e la nonna non lo denunciarono e furono loro ad essere condannate per sfruttamento della prostituzione minorile. Il pensionato ebbe gli arresti domiciliari. Questo caso non è dei più gravi, trattandosi di un solo "uomo nero" e anche familiare perché abitava nello stesso palazzo. Purtroppo si sono verificati molti tremendi casi '1otocopia" nei quali le bambine, spesso sorelline, accompagnate dalla madre, dalla quale, ripetiamo, ci si aspetta protezione e aiuto, venivano fatte incontrare con più uomini nella stessa giornata, o con più uomini contemporaneamente. Inoltre, quando una madre oltre che vendere le proprie figlie, partecipa con loro ai festini, a tale presenza voyeristica si può dare una valenza incestuosa. Per quel che riguarda l'incesto, la madre incestuosa esiste anche se è difficile scoprirla: spesso usa forme che vengono camuffate dagli abituali gesti di accudimento. Nell'anamnesi di pazienti maschi, molto spesso emergono madri che continuano a fare il bagno a figli adolescenti; madri che accettano o inducono, quando non c'è il padre, il figlio ormai adulto a dormire nel letto matrimoniale. Come esiste l'abuso del padre sul figlio maschio, anche se meno frequente che sulla figlia femmina, esiste anche rarissimo quello della madre sulla figlia femmina. Le madri tuttavia diventano incestuose quando partecipano all'iniziativa di altri familiari, come si può leggere nelle due testimonianze che seguono. Nel 1995 accadde un caso terrificante che fa dolore ricordare. Una intera famiglia si accadi sull'unico bambino rimasto di tre generazioni. Il caso sollevò l'opinione pubblica: sconcerto, scandalo, morbosità. Sia chiaro che la divulgazione di queste notizie può essere utile solo se serve ad acquisire la consapevolezza che esistono tali orrori altrimenti impensabili. Solo in forza di questa consapevolezza, è possibile accorgersi che in una famiglia o in un bambino c'è qualcosa di strano. Se si ha timore a rivolgersi alla polizia, rimanendo nell'anonimato, ci si può rivolgere ai servizi sociali che si incaricheranno di verificare se il fatto è reale o se i sospetti sono infondati.
Il capro espiatorio. Avevano abusato di quel bambino miracolosamente salvato (quanto e quando potrà essere recuperato?) i nonni, la madre e il suo convivente e altri parenti meno stretti. La tragedia di Michelino ha le radici nei bisnonni che avevano abusato dei suoi nonni, che di certo avevano abusato dei loro figli. Basta, fa più orrore delle gesta dei pedofili serial killer e seviziatori! Va solo ricordato che era una famiglia di professionisti, gente per bene, solo molto isolata e senza frequentazione di amici.
Il racconto di una maestra. La quinta elementare nella quale insegnavo dalla terza classe, era formata da scolari simpatici, intelligenti che amavo molto, anche se facevo fatica a contenere la loro vivacità. All'inizio dell'anno arrivò una bambina ripetente di dodici anni compiuti. Pensai che fosse malata o per qualche ragione sofferente: era magra, la pelle del viso trasparente, le occhiaie scure, i capelli smorti, le spalle piegate. In classe non parlava con nessuno, sembrava attenta, ma presto mi accorsi che spesso guardava nel vuoto. Negli scritti andava molto bene, ma quando era interrogata le parole le uscivano a stento e un improvviso tic le faceva sbattere l'occhio destro. Comunque arrivava ad una stentata sufficienza. Per cercare di capire cosa avesse, le feci qualche domanda sulla famiglia, ma quando pronunziai la parola "fratelli ", si presentò il tic che aumentò ancora di più alla parola "genitori ". Attraverso la segreteria chiesi un colloquio con i genitori che non si presentarono mai. L'ultimo giorno di scuola prima di Carnevale, ci fu una piccola festa in classe: Serena non solo non partecipava, ma non voleva né mangiare né bere. I ragazzi, scherzando oltre misura, si sporcavano l'un l'altro la faccia con la panna e, forse per coinvolgerla, sporcarono anche lei. A quel punto la ragazzina iniziò a vomitare. Chiamata la bidella, l'accompagnai nei bagni per aiutarla a lavarsi, ma anche perché speravo che mi confidasse qualcosa. Infatti mi buttò le braccia al collo, singhiozzando. Da quando aveva sei anni, padre, fratelli e cugini abusavano di lei, e, orrore, a volte partecipava anche la mamma invece di difenderla! Perciò i suoi grandi occhi scuri, offuscati da sei anni di patimenti inauditi, avevano perduto ogni espressività. Nemmeno il dolore riuscivano ad esprimere, quegli occhi, dove si era spenta ogni speranza. Ma finalmente aveva parlato, rendendosi conto che una piccola luce si era accesa, ed io ero certa che l'avrei accompagnata nel faticoso cammino. Fonte Aquilone blu onlus
Pedofilia Femminile: quando l'orrore si tinge di rosa, scrive Alessandro Costantini il 27 dicembre 2011 sul sito dell'Associazione per lo studio e la diffusione della psicologia del deficit parentale. Ai bambini del mondo. Al bambino che è ancora dentro di noi. Introduzione Sempre più spesso negli ultimi tempi si sente parlare dell’ormai noto fenomeno della pedofilia. Un fenomeno, è vero, che ormai dovremmo conoscere tutti, ma che di fatto è ancora avvolto in un alone di mistero, di confusione, di falsi miti, di ipocrisia, di ambiguità e di ambivalenza. E’ inevitabilmente un tema “scottante”, che colpisce ognuno di noi dritto al cuore, spaventandoci, facendoci vacillare, facendoci mettere in discussione i nostri valori, le nostre certezze, il significato stesso della nostra esistenza. Le persone si chiedono come sia possibile che un adulto abusi sessualmente di un bambino. Si chiedono come sia possibile che un genitore abusi del proprio figlio, di quella piccola creatura che egli stesso ha messo al mondo e che proprio nel suo viso vede la luce della propria vita. Tutto questo è talmente scioccante, talmente potente, talmente “contro natura”, che le persone, per difendersi, spesso tendono a non considerare reali i fatti riguardanti abusi sessuali sui bambini. Ci si domanda “ma sarò vero?”. Oppure si sente minimizzare “ma sai, i bambini spesso inventano o ricordano male” o ancora, riferito al presunto carnefice, “ma come, sembra tanto una brava persona, non è possibile che abbia fatto una cosa del genere…”. E così tutta una sfilza di meccanismi di difesa come negazione, repressione, rimozione, formazione reattiva, spostamento, tutti messi in atto dall’individuo per proteggersi dagli spiacevoli vissuti emotivi che l’atto pedofilo suscita in noi, quali paura, rabbia, impotenza. Non sono altro che gli stessi sentimenti e le stesse difese emotive che il bambino abusato vive dentro di sé. E’ per questo che si sente molto spesso parlare solo di “presunti abusi”, che il più delle volte rimangono tali, senza mai passare alla dimostrazione certa di “abusi reali subiti dal bambino”. Troppo spesso infatti ci si scontra con i limiti della giustizia che altro non sono che le conseguenze dei limiti e delle paure personali che automaticamente vengono rispecchiati nella società: “il bambino non è attendibile”, “il bambino è facilmente suggestionabile”, “non ci sono prove certe”, “non possiamo rovinare la vita ad una persona sospettata di pedofilia se non c’è la massima certezza”…Molti autori (per es. Dettore, D., Fuligni, C. 1999) invece sottolineano proprio l’importanza, una volta che si sospetti di un abuso sessuale, di “proteggere” subito la vittima allontanandola comunque dall’aggressore. E così la pedofilia va avanti, il pedofilo continua inesorabilmente a mettere in atto i suoi comportamenti pedofili e il bambino, unica vera vittima di tutto l’orrore che riguarda la pedofilia, rimane da solo, da solo con il suo dolore, con la spiacevole sensazione di aver esagerato, se non addirittura inventato, tutto il danno che gli è stato inferto. Il bambino perderà la fiducia in se stesso e negli altri, quegli altri “adulti significativi” che avrebbero dovuto proteggerlo e che invece nulla hanno fatto in questo senso, schierandosi addirittura dalla parte dei carnefici stessi. Questo bambino poi un giorno crescerà, con la ferita ancora aperta e vivrà inevitabilmente una vita dura, incentrata su vissuti di paura, depressione, distruttività verso di sé e verso gli altri. Molti studi infatti confermano il cosiddetto “circolo vizioso della pedofilia” (per es. Stoller, 1975; De Leo, Petruccelli, 1999; Montecchi, 2005; Seto, 2008): la vittima di pedofilia oggi altro non è che il pedofilo di domani. Questo non significa tout court che andrà per forza così, ma in moltissimi casi questo sarà il naturale corso degli eventi. Se si ripercorre la storia di vita di un pedofilo, si troverà nella stragrande maggioranza dei casi una storia di abuso sessuale subito in tenera età. Questa “linearità causa-effetto” potrà sembrare eccessivamente semplicistica, ma di fatto questo è ciò che accade. Ciò però non toglie al fenomeno pedofilia una estrema “complessità” che appunto la caratterizza. E’ infatti un fenomeno altamente “sovradeterminato”, nel senso che nasce per soddisfare in qualche modo più spinte (per lo più) inconsce dell’individuo, anche apparentemente in contrasto tra loro. Molteplici sono le sue espressioni, da quelle più “blande” (che, mi preme sottolineare, davvero “blande” per il bambino non sono mai) a quelle più cruenti. Gli abusi possono inoltre avvenire all’interno della propria famiglia o al di fuori di questa, essere legati a legami affettivi specifici o al racket della prostituzione minorile o addirittura legati a culti satanici. Possono avere connotazioni omosessuali e non. Il pedofilo può essere attratto esclusivamente dai bambini, oppure anche da adulti. Diverso inoltre è stato il modo di intendere la pedofilia a seconda dei vari momenti storico-culturali all’interno dei quali essa si è andata via via definendosi. Molto c’è da dire, infine, sulla “legislazione” che tratta il tema pedofilia, diversa da paese a paese e sempre ricca di contraddizioni e di “passaggi” quantomeno equivocabili. Il tema della pedofilia è dunque vastissimo. In questa sede ho pertanto deciso di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti specifici del fenomeno. Una prima parte sarà dedicata a cosa si intende esattamente per pedofilia e quali ne sono le caratteristiche salienti. Questo definendo la pedofilia da un punto di vista clinico-diagnostico e da un punto di vista giuridico. Dedicherò una parte anche ad un excursus storico e sociale di questo fenomeno. Centrale sarà poi la parte dedicata al fenomeno della “pedofilia femminile”: argomento poco conosciuto, poco trattato, sicuramente anche meno frequente. Argomento che soprattutto ci colpisce ancor più della pedofilia maschile perché ci “spiazza”, ci mette duramente alla prova, sbattendoci in faccia una realtà di cui faremmo volentieri a meno: anche una “mamma” (oltre che più in generale una “donna”) può maltrattare un bambino finanche a farne l’oggetto dei propri sfoghi sessuale. Che cos’è la pedofilia: luoghi comuni, ottiche diverse, nuove conoscenze. Sembrerebbe apparentemente inutile dare una definizione precisa di pedofilia, tanto il termine è entrato a far parte del linguaggio comune. In realtà, le definizioni di questo fenomeno sono spesso confuse, incomplete, nella peggiore delle ipotesi anche non propriamente corrette. Pedofilia è diventato di fatto sempre più un termine usato e spesso “abusato”. Come sostengono Coluccia e Calvanese (2007) “non è neppure il caso di rimarcare come una maggiore confusione interpretativa sia stata ingenerata, negli ultimi anni, dal fatto che i media di massa si siano senza limiti e del tutto acriticamente impossessati di tale termine […]” (pag. 35). Prima di addentrarci nel mondo della pedofilia femminile credo sia opportuno tracciare quelli che sono gli aspetti specifici e caratteristici della pedofilia in generale, escludendo anche così tutti quegli altri aspetti che potrebbero far pensare a questo fenomeno, ma che in realtà se ne discostano. Pedofilia, infatti, è un termine “scomodo”, di “non facile collocazione” perché, a differenza di altri fenomeni, ha forti implicazioni praticamente su tutti i versanti che riguardano il comportamento umano: psicologico, sociale, culturale, giuridico, morale, religioso ed anche economico. Cominciamo dall’etimologia della parola pedofilia. Essa deriva dal greco paìs, paidòs che significa bambino e da filìa che significa amore. “amore per i bambini” dunque. Chiaramente il termine è ambiguo e contraddittorio: non intendiamo un amore “vero”, nel senso di “bene verso” i bambini, ma un amore inteso come “attrazione erotica”, con o senza pratiche sessuali, di un adulto verso un bambino, cioè verso un soggetto in età “pre-pubere”: un bambino che non abbia ancora iniziato il normale processo di sviluppo psicosessuale, cioè che non abbia ancora sviluppato quei caratteri sessuali primari e secondari tipici del proprio sesso di appartenenza (crescita dei peli, aumento delle dimensioni dei genitali, ingrossamento della voce, ciclo mestruale, crescita della muscolatura, etc.) e che non abbia ancora sviluppato quindi una consapevolezza di sé e del proprio corpo. “Il termine di per sé presenta un’ambiguità di fondo già nella sua etimologia. Infatti “l’amico dei bambini” – che in realtà amico non è – è colui che non riesce ad avere rapporti sessuali soddisfacenti se non con bambini” (F. Villa, 2005, p. 26). Il termine pedofilia è entrato ufficialmente in ambito psichiatrico con il significato di “passione sessuale” nel 1905 su proposta dello psichiatra svizzero Auguste Forel ed è entrato nel vocabolario della lingua italiana solo nel 1935 (A. Oliverio Ferraris, 2001). Strettamente connesso, ma concettualmente differente è il concetto di “abuso sessuale su minore”, un concetto più specifico che è incluso anche nel più ampio concetto di pedofilia: l’abuso sessuale su minore può rappresentare la messa in atto di un comportamento pedofilo, mentre la pedofilia concettualmente rappresenta l’attrazione sessuale per il minore anche in assenza del relativo abuso fisico (Gulotta, 1999). “Per abuso sessuale sui minori si intende il coinvolgimento di bambini in pratiche sessuali che essi non possono interamente comprendere e verso le quali sono incapaci di dare un informato e cosciente consenso o che violano tabù sociali circa i ruoli familiari” (C. Serra, 2000, p. 311). Quindi il minore si ritrova in attività sessuali che per il suo basso livello di sviluppo psicofisico non riesce a comprendere e alle quali non può acconsentire con reale consapevolezza, a causa della enorme differenza di età e di ruoli rispetto gli adulti. In definitiva, il corpo del minore è sfruttato dall’adulto come mero oggetto di sfogo sessuale. In realtà, ormai molti autori (per esempio I. Petruccelli, 2002) concordano sul fatto che l’abuso sessuale si esprima anche quando il corpo del minore non viene direttamente violato, ma violata è comunque la sua “innocenza”. Parliamo quindi di tutte quelle situazioni in cui il bambino è comunque esposto in modo prematuro e brutale al “sesso”: vedere rapporti sessuali tra genitori, visionare materiale pornografico, ricevere commenti e insulti a carattere sessuale, etc. L’età del consenso al di sotto della quale la legge ritiene che il soggetto non sia in grado di decidere liberamente rispetto alla propria sessualità, proprio in virtù della tenera età, varia a seconda dei diversi paesi. In Italia questo limite è fissato a 14 anni. Questo significa che, per esempio, benché una tredicenne possa essere sviluppata da un punto di vista psicosessuale (magari già da qualche anno) e benché si ritenga “consenziente”, di fatto però per legge un maggiorenne non può con questa avere alcun tipo di rapporto sessuale. Il tema pedofilia diventa dunque di difficile definizione. Nel caso sopra citato, per esempio, c’è chi parlerebbe di pedofilia, chi invece di “pederastia”, chi invece non lo riterrebbe così patologico, giustificando questo tipo di relazione come una normale attrazione “biologica” di un “maschio” adulto nei confronti di una “femmina” all’apice della giovinezza. Ho citato la “pederastia”, altro termine con cui spesso si identificano erroneamente pedofili e omosessuali: il pederasta è tendenzialmente colui che instaura relazioni omosessuali con giovinetti all’inizio dell’adolescenza e dunque non più bambini. Ne parlerò comunque dettagliatamente in seguito. Inoltre, ancora oggi spesso viene assimilato il termine pedofilia a quello di “omosessualità”, quando sappiamo ormai con chiarezza che rappresentano due ambiti totalmente diversi: l’omosessuale non è un parafilico e non è pedofilo, così come il pedofilo, che invece è un parafilico, non necessariamente deve essere omosessuale. Purtroppo, anche all’interno della stessa comunità degli “addetti ai lavori” (medici, psicologi, educatori, legali, insegnanti, assistenti sociali) non mancano approcci teorici e tecnici diversi per inquadrare e affrontare questo tema. Secondo alcuni autori, infatti, si può parlare di pedofilia solo se la vittima è “prepubere”, perché è ben diverso se la vittima è adolescente e quindi in qualche modo ha raggiunto una maturità fisico-sessuale (per es. DSM IV TR). Per altri, invece, essa riguarda anche il rapporto con minori adolescenti, per cui il termine “abuso sessuale su minori” diventerebbe implicitamente sinonimo di “atto pedofilo” (per es. Roccia e Foti, 1994). Oggi si utilizza molto spesso anche il termine “child molester”, letteralmente “molestatore di bambini”: un individuo adulto che “si intrattiene in attività sessuali illecite con minori, indipendentemente dal sesso, dall’unicità o ripetitività degli atti, dalla presenza o assenza di condotte violente; se la vittima sia pubere o prepubere, conosciuta o meno, legata o meno da vincoli di parentela con l’aggressore” (Picozzi, Maggi, 2003, pag. 23). Anche qui, come ci suggeriscono Picozzi e Maggi (2003), si deve evitare di sovrapporre tale termine a quello di pedofilo: il pedofilo, infatti, può non essere un child molester e, viceversa, un child molester, benché invischiato in rapporti sessuali con minori, non necessariamente è un pedofilo. Il child molester, infatti, potrebbe avere rapporti sessuali con dei minori solo per “curiosità”, o per “necessità” (come per la “pseudo-omosessualità” tra carcerati o, esempio meno garbato, la “zoofilia” dei pastori che vivono isolati dal mondo). E’chiaro, comunque, che moltissimi pedofili agiscono i loro impulsi, divenendo child molester, così come moltissimi child molester di fatto sono pedofili. Per finire, mi preme sottolineare come addirittura tra gli stessi pedofili ci siano almeno due grandi correnti di pensiero rispetto al proprio “amore per i bambini”. Una categoria di pedofili si ritiene “malata”, “colpevole” a tal punto, in alcuni casi, da relegare i propri impulsi alla fantasia, ai sogni, alla masturbazione solitaria. Sono quei pedofili che potremmo definire “egodistonici”: vivono costantemente un eterno conflitto con se stessi, come è ben rappresentato per esempio in un recente film intitolato “The Woodsman”, o nel più vecchio capolavoro di Fritz Lang “Il mostro di Dusseldorf”, dove i due protagonisti sono consapevoli della “malignità” delle proprie pulsioni e con estrema difficoltà riescono a lottare per non agirle. Sul versante opposto troviamo invece quei pedofili che potremmo definire “egosintonici”: non solo non si ritengono malati, ma anzi ritengono il loro comportamento come una forma di amore, accudimento e rispetto verso i bambini e per questo istituiscono anche della associazioni “pro-pedofilia” con tanto di movimenti politici e siti internet. Excursus storico-culturale. La pedofilia e l’abuso sessuale sui minori rappresentano un fenomeno che esiste praticamente da quando esiste l’Uomo. A seconda del particolare periodo storico la pedofilia è stata vista “culturalmente” in modi diversi. L’abuso sessuale su minori è sempre esistito in ogni gruppo umano, non possiamo limitarci a considerarlo un incidente storico di questa o quella civiltà, va contestualizzato all’interno di relazioni sociali e culturali, assumendo un significato differente a seconda del periodo storico considerato e della cultura dominante. In Iran e in Afghanistan, per esempio, l’omosessualità è contro natura, certo non è più così in Europa. Ma in Iran e in Afghanistan, le bambine che a nove anni vengono vendute dal padre a uomini di quaranta o cinquanta anni non sono considerate vittime pedofile come in Europa, né i suoi genitori subiscono processi o condanne sociali. (M. Valcarenghi, 2007). Schinaia (2001) dà una lettura esplicita di questo, quando sostiene che: “Il diverso significato che viene ad assumere la relazione pedofila, la sua relatività storica, prescinde dalla constatazione che c’è la costante presenza di un minimo comune denominatore, che consiste nella dissimmetria esistente nel rapporto tra l’adulto e il bambino o l’adolescente. Tale asimmetria si costituisce in ogni caso come il cardine di una relazione di abuso, al cui interno si determina un divario di potere che nessuna passiva acquiescenza, scambiata o contrabbandata per consenso, potrà annullare o ridurre”. Come sottolineato da moltissimi autori (per es. Petruccelli, I., 2002) nell’antica Grecia, così come era molto diffusa la pratica dell’infanticidio come strategia di controllo delle nascite, così allo stesso modo era praticata la pederastia, intesa come l’amore di un uomo adulto per un giovinetto pubere, ma non ancora maturo. Come già accennato nelle pagine precedenti, questa pratica non era considerata come una “variante” della sessualità e né tanto meno come una perversione, ma come una strategia educativa per lo sviluppo individuale e sociale del giovinetto. Peggiore sorte spettava alle bambine “non volute”, in quanto considerate “bocche in più da sfamare” che per legge potevano essere “esposte”, cioè abbandonate tra i rifiuti appena nate. Da questo momento in poi sarebbero diventate “proprietà” in senso assoluto (come gli schiavi) di chi le avesse raccolte e portate in casa propria. Addirittura la legge permetteva ai “padroni” di avviare queste bambine a qualsiasi tipo di lavoro servile, compresa la prostituzione minorile, in virtù del fatto che le bambine fossero figlie di genitori ignoti. Ciò era sufficiente per considerarle tout court oggetti di scambio e fonte di guadagno. Nell’antica Grecia già si praticava l’omosessualità, anche quella femminile. Quest’ultima era ritualizzata nelle “tiasi”, comunità educative nelle quali le bambine libere e di famiglie ricche venivano addestrate a diventare donne, da maestre che insegnavano loro le arti e le scienze, la cura della persona e della casa, la danza, il canto e anche il piacere sessuale. Anche la famosa poetessa Saffo dirigeva una tiasi nell’isola di Lesbo, e numerose altre erano le comunità simili sparse per la Grecia. (M. Valcarenghi, 2007). Già in passato, dunque, esisteva una forma di pedofilia e pederastia tutta “al femminile”. Nell’antica Roma la “cultura” (sarebbe più opportuno parlare di “non-cultura”) del bambino non si discostava molto da quella greca. Schiavi, figli e mogli erano considerati a tutti gli effetti proprietà del pater familias che in virtù del suo jus vitae ac necis poteva liberamente decidere del loro diritto di vita o di morte. A Roma i bambini potevano essere addirittura “castrati” nell’infanzia per poterli rendere più appetibili come prostituti. Molto spesso inoltre i bambini venivano sacrificati in riti propiziatori per assicurarsi la protezione delle varie divinità. A differenza del mondo ellenico però, come sottolineano Coluccia e Calvanese (2007), a Roma non era inizialmente praticata una vera e propria pederastia: si avevano rapporti con giovani schiavi e prostituti, ma non in un’ottica pedagogica, ma anzi proprio come espressione di superiorità e sopraffazione dell’altro ritenuto più debole. Per i Romani il rapporto sessuale con i giovanissimi concittadini non aveva niente di educativo, anzi poteva essere “traumatico” per un “futuro vero Romano”, educato sin dalla nascita non certo alla passività, ma ad un ruolo attivo e assertivo nella società. Questo benché anche i bambini e gli adolescenti venissero considerati al pari alle donne, cioè privi di capacità di intendere e di volere e quindi di agire giuridicamente. Discorso totalmente inverso era fatto per gli schiavi: “La passività sessuale per un uomo libero è un crimine, per lo schiavo una necessità, per un liberto (schiavo liberato) un dovere” (Seneca, Controversie, 4 praef. 10). In quest’ottica, infatti, la legge puniva chi praticasse la pederastia (comunque sempre con una pena pecuniaria e non detentiva…), mentre non considerava reato i rapporti sessuali con giovanissimi schiavi o prostituti. Questo per quanto concerne i giovani maschi. Per le femmine, come nella cultura ellenica, non c’era davvero alcun rispetto e qualunque cosa venisse fatta contro di loro non aveva la benché minima rilevanza sociale o giuridica. Detto ciò, mi sembra evidente come nella cultura romana l’aspetto del “maltrattamento” fine a se stesso legato all’abuso sessuale sui minori sia molto esplicito, a differenza della cultura ellenica dove tale maltrattamento veniva spiegato e giustificato in base ad una potente “razionalizzazione di massa”, per cui lo si metteva in atto “per educare il giovinetto”. I Romani erano dunque più “sinceri” rispetto alle proprie profonde motivazioni che li spingevano ad abusare di minori, i greci no. Tra l’altro, nell’antica Grecia si riteneva praticamente sempre “consenziente” il minore e, anzi, il consenso del minore era un requisito fondamentale per la relazione pederasta, pena la perseguibilità penale dell’adulto. Ma come può un bambino essere davvero consenziente a subire una violenza simile? E, quando anche riuscisse realmente a protestare, chi si sentirebbe di punire, in una cultura così libertina, l’adulto che abusasse del minore senza il consenso di questo? In realtà, continuano gli autori, anche Roma, con l’avvento di un processo di “ellenizzazione”, fece sua la pederastia come comportamento approvato culturalmente e giuridicamente. Ufficialmente dunque anche i Romani si comportavano come i Greci, ma di fatto con il declino dell’Impero Romano e dei suoi valori, anche la “neo-pederastia” perse la sua valenza pedagogica a vantaggio di quella della sopraffazione, ora rivolta anche ai propri consanguinei. Solo con l’avvento del Cristianesimo si iniziò gradualmente a condannare sia la pederastia, sia l’omosessualità, additate come gravi peccati contro Dio e quindi punibili anche con la morte. E’ proprio in questo periodo che i due termini pederastia ed omosessualità iniziano erroneamente ad essere utilizzati come sinonimo. Errore questo che, come visto in precedenza, si riscontra ancora oggi nonostante molti secoli ci separino da questa epoca. Nel Medioevo i bambini continuarono a non essere riconosciuti nella loro infanzia, nella loro fragilità, nei loro bisogni. Era molto diffusa una certa promiscuità tra adulto e bambino: si era vicini negli stessi spazi anche per giornate intere e di notte i bambini dormivano con i genitori anche quando erano ormai adolescenti. Questo rappresenta già di per sè un “abuso all’infanzia”, perché i bambini non sono tenuti a vedere, a sentire, a “respirare” il sesso, non avendo questi ancora gli strumenti emotivi e psicologici per conoscerlo, riconoscerlo e gestirlo attivamente. A sette anni l’infanzia si considerava già terminata, perchè il bambino iniziava ad avere un totale controllo del linguaggio e per questo veniva trattato alla pari di un adulto ( il cosiddetto “bambino adultomorfo”). Ancora nel 1500 e nel 1600 in Europa il bambino non solo non era tenuto in grande considerazione ma, anzi, veniva spesso perseguitato e ucciso insieme alle presunte “streghe”, perchè era luogo comune ritenere che il bambino molto piccolo potesse diventare “indemoniato” in seguito a rapporti sessuali con il diavolo. Con il Rinascimento italiano tornò in auge la pratica pederastica e riprese vita dunque la visione del bambino/giovinetto come oggetto sessuale, come si può ben osservare nei nudi del Verrocchio, di Leonardo e del Botticelli. Il noto storico P. Ariès (1994) descrive come in Francia nel 1600 fosse normale e ampiamente diffuso il “gioco fisico” tra adulti e bambini e come questo non destasse minimamente scandalo. L’autore nello specifico, basandosi su un diario della vita di Luigi XIII scritto dal suo medico personale Heroard, descrive come al piccolissimo re da bambino la bambinaia ed altri membri della servitù si dilettassero a titillare e a baciare il piccolo pene del bambino: “Luigi XIII non ha ancora un anno – annota Heroard – ride a gola spiegata quando la sua bambinaia fa dondolare il suo pene con la punta delle dita [...] è molto vispo e fa baciare a tutti il suo pene” (Ariès, 1994, p. 113). Questi giochi erano intesi non solo come innocenti, ma nei primi tre anni rappresentavano una sorta di iniziazione alla vita sessuale. Intorno ai sette anni, invece, iniziava l’educazione vera e propria che veniva impartita in modo assai rapido: il matrimonio di adolescenti era quasi la norma. Solo più tardi, nel 1700 prima e in particolare nel 1800 poi, questo atteggiamento “libertino” nei confronti dell’infanzia iniziò ad affievolirsi e gradualmente andò a svilupparsi un atteggiamento culturale diametralmente opposto al precedente. Nell’Inghilterra vittoriana, per esempio, si adottarono misure molto restrittive rispetto alla sessualità dei giovanissimi: gabbie applicate di notte sui genitali per evitare la masturbazione, campanellini appositamente studiati per suonare e avvisare i genitori qualora il giovanissimo avesse un’erezione…Più in generale, comunque, in questo periodo molti bambini e adolescenti ancora venivano sfruttati sia a livello lavorativo che sessuale. Ciò che più colpisce a mio avviso è come in fin dei conti, a ben analizzare i vari periodi storici, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, di fatto a rimetterci è sempre stato il bambino: nell’antichità visto come mero oggetto sessuale su cui scaricare la propria rabbia o come vittima di quella che la psicoanalista Alice Miller definisce “pedagogia nera” (per es. 1980) che punisce inconsciamente il bambino con la motivazione conscia di farlo per il suo bene. Successivamente, a distanza di secoli, il bambino viene (forse) abusato meno, ma comunque colpevolizzato e condannato per i suoi “istinti animali” che devono essere tenuti sotto stretto controllo per il bene della comunità…E arriviamo ai tempi più recenti quando S. Freud (1905) per primo parlò in modo più scientifico della sessualità infantile. A lui si deve la concezione dello sviluppo psicosessuale del bambino attraverso le ormai note cinque fasi (orale 0-18 mesi, anale 18 mesi-3 anni, fallica 4-6 anni, latenza 6-12 anni, genitale/adolescenza). Concezione questa ormai (fortunatamente) ben lontana dagli attuali modelli clinici di riferimento. Sempre Freud fu a definire (in modo a mio avviso errato e deleterio) il bambino come un “perverso polimorfo”, cioè come un soggetto che, benché la bassissima età e la benché totale ignoranza in tema di sessualità, oltre che il mancato sviluppo psico-fisico legato alla sessualità, ha come obiettivo primario la scarica delle proprie pulsioni sessuali su di sé e su chi si prende cura di lui. Addirittura già intorno ai tre anni il bambino sviluppa quello che l’autore ha definito “Complesso di Edipo”, per cui la sua motivazione più grande è quella di uccidere il padre per potersi portare a letto la madre…Sempre Freud dedicò spazio al tema della pedofilia nei suoi “Tre saggi sulla sessualità” (1905) dove la definisce come una tra le aberrazioni sessuali. Nello specifico una tra le deviazioni che si riferiscono all’oggetto sessuale, cioè comportamenti sessuali rivolti ad oggetti diversi da quelli considerati normali (partner adulto del sesso opposto). Tra queste Freud inserisce anche la zoofilia (avere rapporti sessuali con animali) e l’omosessualità che però definiva inversione. Certo, oggi a distanza di un secolo sappiamo che rispetto al discorso omosessualità il buon vecchio Freud sbagliò di grosso nel catalogarla come “aberrazione sessuale”, essendo ormai da tempo considerata come uno dei normali possibili sviluppi dell’orientamento sessuale. Oggi, per fortuna, in parte questa concezione del (o forse sarebbe meglio dire “contro” il) bambino non è più presa così tanto in considerazione, ma ci sono ancora psicologi, educatori, medici, insegnanti e genitori che vivono con questi presupposti il loro rapporto con i bambini. Oggi infatti sempre più piede hanno preso gli approcci educativi e clinici basati sugli studi dell’ “Infant Research” (per es. D. Stern, 1985 ) che spostano l’ottica da un bambino visto come “seduttivo” e “distruttivo”, e quindi con l’ adulto conseguentemente visto come vittima, ad un bambino visto come innocente, estremamente fragile, alla sola ricerca di attaccamento, di amore, di protezione da parte del genitore, che diviene così protagonista attivo e responsabile del benessere del bambino. Concludo purtroppo con l’evidenziare come, nonostante la storia ci debba aver insegnato come vanno trattati i bambini e nonostante la ricerca nel campo dell’infanzia oggi sottolinei l’importanza dell’amore incondizionato del genitore per il proprio bambino, assistiamo a fenomeni sociali e culturali a dir poco raccapriccianti come le associazioni di pedofili (tra le più note menzioniamo la Danish Pedophil Association e The Slurp) che combattono quotidianamente per rivendicare il proprio diritto di amare e possedere fisicamente i bambini. Questo, a detta loro, rappresenterebbe solo una forma di amore vero che non solo non danneggia il bambino, ma che addirittura è desiderato fortemente dal bambino stesso. Nel 2006 è addirittura sorto il primo partito pedofilo, il NVD (Partito dell’Amore per il Prossimo, la Libertà e la Diversità), che promuove il sesso con i minori, l’abbassamento della maggiore età sessuale a 12 anni, il sesso con gli animali, la possibilità di girare nudi sempre e ovunque e la possibilità per un minore, raggiunta la soglia dei 16 anni, di girare film pornografici (che tra l’altro, secondo loro dovrebbero essere proiettati in TV anche di giorno) e finanche di prostituirsi (da un articolo su repubblica.it). Fino a pochissimi anni fa circa 500 gruppi di pedofili festeggiavano il “loveboyday”, cioè la “giornata dell’orgoglio pedofilo”: un incontro sul web dove tutti i pedofili della Terra “accenderanno una candela azzurra per ricordare i pedofili incarcerati, vittime delle discriminazioni, delle leggi ingiuste e restrittive”. Grazie, però, ad una petizione contro questo macabro evento promossa dalla redazione di Epolis, “gli orchi sono stati fermati” (dal sito noloveboyday.blogspot.com). Continuano, inoltre, ad esistere comunque nel mondo alcune popolazioni che culturalmente accettano comportamenti pedofili, come le tribù Hopi dell’Arizona che toccano i loro bambini per permettere loro di esplorare e conoscere il proprio corpo, o come gli Indiani Lepcha che copulano con le bambine della tribù per far loro raggiungere la maturazione sessuale (Cifaldi G., Bosco D., 1999). Inquadramento diagnostico clinico. Importante credo sia anche sottolineare i diversi inquadramenti della pedofilia all’interno di quello che da sempre (a torto o a ragione) viene considerato il punto di riferimento principale della nosografia psichiatrica e cioè il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). Nella sua prima edizione (1952) la pedofilia era inquadrata come una grave deviazione sessuale. Nella sua seconda edizione (DSM-II, 1968) viene descritta ancora come una deviazione sessuale, benché vada a perdere la connotazione di disturbo sociopatico, sostituita da quella di disturbo mentale non psicotico. Nella terza edizione (DSM-III, 1980) la pedofilia viene collocata all’interno delle cosiddette “parafilie”, cioè quei disturbi legati alla sfera della sessualità in cui l’individuo esperisce una spinta emotiva fortissima rispetto al mettere in atto dei comportamenti sessuali ritenuti anomali dal resto della società, e senza i quali non è possibile per lui una vera eccitazione sessuale. Rientrano in questa categoria oltre alla pedofilia, anche voyeurismo, sadismo, masochismo, esibizionismo e altri. Nei più recenti DSM-IV (1994) e DSM-IV TR (2000) la pedofilia viene categorizzata tra i Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere. La sua diagnosi deve soddisfare i seguenti criteri:
A) durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti, e intensamente eccitanti sessualmente, che comportano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di tredici anni o più piccoli).
B) le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre importanti aree del funzionamento.
C) il soggetto ha almeno sedici anni ed è di almeno cinque anni maggiore del bambino o dei bambini da cui è attratto sessualmente.
Il DSM IV parla di un’età della vittima di pedofilia che solitamente si aggira intorno ai 13 anni, specificando che questa sia in età “prepubere”. Oggi, però, più che mai vediamo soggetti giovanissimi, di tredici anni e anche meno che non sono affatto prepuberi, ma “puberi”, proprio in virtù di uno sviluppo fisico/sessuale sempre più precoce. Anche individuare un pedofilo in una età di almeno sedici anni diventa a mio avviso un discorso molto relativo: infatti già a quattordici o quindici anni ci sono individui maturi, che magari hanno sviluppato già da alcuni anni. Secondo i criteri di questo manuale se un soggetto di quindici anni dovesse abusare sessualmente di un bambino di dieci anni (quindi con almeno i cinque anni in più richiesti dal manuale) non dovrebbe essere considerato pedofilo. Ugualmente non potrebbe essere considerato pedofilo un sedicenne che abusa sessualmente di un ragazzino di dodici anni, benché il ragazzino in questione sia prepubere, perché gli anni di differenza sono solamente quattro e non i cinque richiesti. Questo significa che i criteri del DSM IV, come troppo spesso accade anche per altre psicopatologie, rimangono troppo vaghi e ambigui da una parte e al contrario troppo rigidi e restrittivi dall’altra. In definitiva portano ad una diagnosi che lascia il tempo che trova, perché non riesce a cogliere fino in fondo gli aspetti specifici della pedofilia. Ora questa diatriba risulterà un po’ eccessiva e forse fuori luogo. Il mio intento è solamente sottolineare come complesso e sfaccettato sia il “mondo pedofilo”. Un mondo segreto e perverso che coinvolge tutti, dal bambino vittima all’adulto carnefice, fino alla legislazione, alla cultura, alla società tutta. L’ICD-10 (1996), l’altro accreditato riferimento per la nosografia psichiatrica (e non solo), include (nel Capitolo V, quello dedicato nello specifico alla psichiatria) la pedofilia tra i “disturbi della preferenza sessuale” e la definisce come “una preferenza sessuale per i ragazzi, maschi e femmine o entrambi, di solito in età prepuberale o puberale iniziale. Anche l’ICD 10 stabilisce a sedici anni il tetto minimo del pedofilo, sotto al quale non si dovrebbe più parlare di pedofilia. Anche in questo caso c’è a mio avviso un aspetto quantomeno confusivo, e cioè il fatto di parlare di età puberale iniziale. Un bambino che sia pubere, anche se in fase iniziale, non è appunto più un bambino in senso stretto, ma sta già iniziando a svilupparsi in senso adulto. Ciò chiaramente non toglie il fatto che il soggetto sia ancora estremamente fragile e vulnerabile. In questo caso, però, ritengo si debba parlare più correttamente di “pederastia”, cioè “una forma di omosessualità basata sull’attrazione per gli adolescenti e i giovanetti” (Oliverio Ferraris, 2001). Come abbiamo visto, storicamente la pederastia implica una espressione omosessuale adulto maschio-giovinetto maschio. Questa pratica era ampiamente diffusa ai tempi dell’antica Grecia e dell’antica Roma, dove non solo era considerata legale, ma anzi veniva incoraggiata, perché era praticata “ufficialmente” per il bene del giovinetto: un rapporto erotico fisico tra il “maestro” e l’ “allievo” era considerato una tappa fondamentale per la crescita personale, sociale e culturale del giovane. Così l’adulto “saggio” trasmetterebbe la sua saggezza al giovanetto tramite il rapporto sessuale. La sfera sessuale dunque era parte integrante del percorso pedagogico del ragazzo che all’età di dodici anni veniva affidato ad un educatore (A. Coluccia, E. Calvanese, 2007). Oggi credo sia facile considerare queste motivazioni come semplici meccanismi di difesa, nello specifico “razionalizzazioni”, per giustificare atti che in realtà erano dettati da un semplice desiderio di sopraffare un soggetto più debole, per indebolirlo ulteriormente e rafforzarne la dipendenza emotiva dal diretto superiore. Non era il “bene” del giovinetto ad essere ricercato, ma l’esatto contrario. Sono le stesse argomentazioni che i pedofili oggi portano avanti e cioè che la loro perversione è un atto d’amore verso il bambino e che è il bambino stesso a desiderare e a gioire delle loro particolari attenzioni. Comunque, oggi come oggi la pederastia vera e propria intesa come nel passato è scomparsa. Credo però che in una forma non ufficiale esista ancora: un adulto maschio, ma anche femmina, attratto sessualmente da un giovanissimo adolescente, anche del sesso opposto. Anche qui, credo che la pederastia si possa collocare a cavallo tra pedofilia e sessualità adulta: il minore “neo-pubere” di certo non è più un bambino, ma certamente non è neanche ancora un adulto: il pederasta diverrebbe così una sorta di “pedofilo maturo”, quindi un po’ meno patologico del pedofilo puro, ma sicuramente non rientrante in una piena psicosessualità adulta. Proprio recentemente i mass media hanno divulgato la notizia di un presunto abuso del noto regista Roman Polanski ai danni di una minorenne, molti anni fa. La ragazza in questione pare avesse all’epoca circa tredici anni e il regista chiaramente molti di più. Ecco, questo potrebbe forse essere un esempio di “amore per i primi adolescenti”, diverso da un amore maturo per un soggetto maturo, ma diverso anche da un comportamento pedofilo vero e proprio o da una pederastia in senso “ortodosso”. Credo che in questo caso si possa per esempio parlare di pederastia, ma senza alcuna certezza matematica. Infatti, se la tredicenne in questione fosse stata particolarmente precoce nello sviluppo e avesse di conseguenza alla sua età dimostrato alcuni anni in più, il quadro “clinico” sarebbe ben diverso, il famoso registra sarebbe stato semplicemente attratto da un corpo femminile particolarmente giovane, ma comunque in qualche modo “adulto”. Altra situazione ancora è infatti rappresentata da quello che possiamo definire un “richiamo biologico” di un individuo verso un partner estremamente giovane, ma né bambino, né primo adolescente. Ritengo che un uomo per esempio di cinquanta anni possa normalmente essere attratto da una ragazza di diciotto anni, ma anche meno, senza per questo essere etichettato come pedofilo, né come pederasta o comunque come un parafilico. Implicazioni giuridiche. Per comprendere fino in fondo cosa rappresenti la pedofilia, credo sia importante analizzare brevemente anche quelli che sono gli aspetti giuridici di tale fenomeno. Ritengo infatti che la legislazione di un paese determini in sostanza cosa è giusto e quindi “normale” distinguendolo da cosa non è giusto e quindi “anormale”. E’ vero cioè che dalla conoscenza di un fenomeno ne deriva poi la legge che sancirà o meno come “reato” tale fenomeno e, viceversa, è poi proprio in base a ciò che è sancito dalla legge che si darà maggiore o minore rilievo ad un evento criminale come per esempio il comportamento pedofilo. Il rischio della regolamentazione giuridica è che troppo spesso parte “dall’alto”, cioè vengono prese decisioni da chi non conosce realmente “dal basso” la natura e l’entità del problema. Il rischio, evidentemente, è che una legge inadeguata possa far passare come normali comportamenti che invece normali non sono e dai quali scaturiscono poi tutta una serie di conseguenze estremamente gravi per l’individuo e per la società. L’attuale legge che regolamenta la “violenza sessuale” (in generale, anche su adulti) è la Legge n. 66/96, che all’art. 609-bis (violenza sessuale) cita: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Tale legge è andata a sostituire quella precedente, inserendo alcune importanti novità:
1) per “violenza sessuale” si intende anche il rapporto non competo che la persona subisce contro la sua volontà, sotto violenza o minaccia. La precedente legge, invece, distingueva la violenza sessuale vera e propria (rapporto completo) dai cosiddetti “atti di libidine” che rappresentavano tutti quegli atti sessuali al di fuori del rapporto sessuale completo e che, di conseguenza, erano ritenuti in qualche modo meno gravi della violenza sessuale “completa”. La nuova legge, dunque, demanda “al giudice il compito di graduare la pena in relazione alla maggiore o minore gravità della condotta; in sostanza ciò dovrebbe consentire di colpire in modo proporzionato al danno arrecato fatti che, pur non comportando una congiunzione carnale, non per questo debbono considerarsi meno gravi” (D. M. Fergusson, P. E. Mullen, 2004, p. 15).
2) rispetto nello specifico ai minori, tale legge prevede una serie di “circostanze aggravanti” (art. 609-ter) quando l’abuso sessuale sia perpetrato, anche senza violenza e minaccia, con persone che al momento del fatto non avevano ancora compiuto i 14 anni. Inoltre, se la vittima ha un’età inferiore ai 10 anni la pena è maggiorata.
Stessa pena prevista dall’art. 609-bis è stabilita per chi violenta un minore che non ha ancora compiuto gli anni 16, se il colpevole è l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, o qualora ricopra comunque un ruolo di cura, educazione, istruzione, vigilanza, custodia o convivenza (art. 609-quater).
3) Interessante è poi l’art. 609-quinques (corruzione di minorenne) che stabilisce che “chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Estremamente importante è poi la Legge 269/98, che regolamenta lo squallido fenomeno della “prostituzione”, della “pornografia” e del “turismo sessuale” in danno di minori. Non la cito letteralmente in questa sede, ma la segnalo per un discorso di completezza, volendo sottolineare come la Giustizia Italiana sembri aver dato sempre più risonanza ai fenomeni criminosi che coinvolgono i minori. Un passo in avanti in questo senso credo sia stato fatto con la Legge 41/2009 che ha stabilito il 5 Maggio come la “Giornata Nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia”. Inoltre, nel Giugno del 2008 è stato proposto in Parlamento un disegno di legge specifico contro la pedofilia, che prevede sanzioni anche contro il cosiddetto “grooming” (adescamento di minori in rete) e contro la “la pedofilia culturale”, cioè tutti quegli atteggiamenti, dichiarazioni, iniziative che rientrano in una vera e propria “apologia della pedofilia”. Rispetto a quest’ultimo punto, quindi, dovremmo finalmente non sentir più parlare di Partiti e Associazioni “pro-pedofilia” e far sì che personaggi pubblici non manifestino più così apertamente le proprie inclinazioni pedofile.
Pedofilia femminile. Se il tema della pedofilia è un tema molto scottante. Il tema della pedofilia femminile lo è ancora di più. Infatti se ne parla poco, lo si conosce poco. Credo però che, soprattutto, rappresenti un tasto dolente, un fenomeno scomodo che va a sconvolgere quelle certezze razionali, sociali, culturali e soprattutto emotive che fanno da pilastri all’esistenza di ciascuno di noi. Che la pedofilia non fosse solo di tipo maschile non è certo una novità dei nostri tempi moderni. Già 2000 anni fa, infatti, Petronio descriveva nel Satyricon un gruppo di donne che applaudiva di fronte allo stupro di una bambina di sette anni. Lo stesso Sofocle ci ha donato una storia nota a tutti, che vede come protagonista Edipo diventare amante di sua madre (non propriamente pedofilia, ma comunque incesto madre/figlio). Già nel 1994 il National Opinion Research Center dimostrò come la seconda forma più diffusa di abuso sessuale su minori fosse rappresentata proprio da donne che molestano ragazzi. Nello specifico per ogni tre abusi maschili, ce ne sarebbe uno di tipo femminile (FRUET, 2008). Anche oggi i dati purtroppo parlano chiaro: l’associazione di sostegno all’infanzia Childline, che gestisce anche una linea amica per i bambini in difficoltà sottolinea come per esempio in Gran Bretagna il numero di bambini che denunciano abusi nei loro confronti compiuti da donne è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni. Secondo Childline, in questo arco di tempo il numero di denunce contro le donne è cresciuto del 132%, contro il 27% degli uomini. Solo nel 2008, 2.142 bambini hanno chiamato l’associazione per parlare di abusi pedofili agiti da donne, mentre 6.000 sono quelli che hanno accusato un uomo. Per Childline, gli abusi sessuali contro i bambini compiuti dalle donne sono ora il 25% del totale (dal sito bambinicoraggiosi.com). Di rilievo è la maxi-operazione “Smasher”, che con le sue 300 perquisizioni e gli oltre 16.ooo mila file sequestrati pedo-pornografici, ci ha dato la riprova che esiste una rete criminale che opera sul settore del sesso con i bambini, una rete criminale potente perché fonte di stratosferici guadagni. In questa operazione è emerso come nei filmati ritrovati le violenze erano efferate, ed erano commesse da uomini e anche da donne (dal sito dalpaesedeibalocchi.com). Uno studio condotto negli anni ’80 negli USA, afferma che il 20% degli abusi commessi su minori di sesso maschile e il 5% di sesso femminile, erano stati commessi da donne (dal sito tifeoweb.it). Recentemente ha sconvolto la notizia di una donna statunitense, madre di quattro figli, che ha abusato del figlio esibendosi di fronte ad una webcam e inviando poi i file a un diciottenne inglese arrestato per possesso di materiale pedopornografico. A lei la polizia è arrivata dopo che le autorità del West Midlands, in Gran Bretagna, hanno arrestato il diciottenne per possesso di materiale pedopornografico: hanno rintracciato il video e, grazie alla collaborazione con la polizia statunitense, sono risaliti all’identità della donna. Nel video la donna avrebbe abusato di uno dei suoi figli, ed è stata perciò incarcerata ed incriminata per violenza sessuale ai danni di minore: rischia almeno 20 anni di carcere (dal sito dalpaesedeibalocchi.com). Autorevoli ricerche rilevano che “ufficialmente” solo il 7% degli abusi è perpetrato da una donna, anche se poi ben il 78% dei pedofili riferisce di aver subito nell’infanzia abusi sessuali da donne, in particolare dalle madri (L. Petrone, 2005). Kaplan, (1991) sottolinea che i clinici non sono stati in grado di identificare le perversioni nelle donne, poiché implicano delle dinamiche più sottili rispetto alla sessualità più prevedibile delle perversioni maschili. Infatti, gli esperti hanno riscontrato che le parafilie maggiori più note, come il vouyerismo, il frotteurismo, il feticismo, sono riscontrabili quasi esclusivamente nei maschi; cosi come il sadismo sessuale è raramente presente nei soggetti femminili, mentre il numero dei masochisti di sesso maschile è di gran lunga più alto di quello relativo al sesso femminile. Lo stesso si può dire della pedofilia. Invece, l’unica parafilia dove i soggetti di sesso femminile sono in numero paragonabile a quelli di sesso maschile è la zoofilia. (Dal sito aquiloneblu.it). Un articolo sul sito sorelleditalia.it rileva che il 2% dei siti pedopornografici in rete, contengono fotografie e immagini dedicate a donne e un aumento vertiginoso del turismo sessuale femminile, che conferma che la sessualità delle donne è diventata più maschile. La donna che lo pratica è sui 45 anni e forse nel suo pagare un ragazzino cerca delle conferme, o qualcuno da dominare totalmente. Negli ultimi mesi sono venute alla ribalta storie di maestre di asilo pedofile. Un esempio per tutti è rappresentato dal caso Rignano Flaminio: dalle indagini sembrerebbe che fossero messi in atto abusi da parte di maestre su bambine molto piccole. Nello specifico, in questo caso le presunte donne pedofile pare facessero anche parte di una setta satanica all’interno della quale i bambini venivano abusati e torturati durante rituali in onore di Satana (C. Cerasa, 2007). Uno dei maggiori autori che si è occupato di pedofilia femminile è senza dubbio Loredana Petrone. L’autrice (2005) ritiene che <<La donna abusante è una donna che non ha ricevuto le adeguate protezioni durante la sua infanzia, e attraverso un meccanismo di coazione a ripetere, infligge ad altri le stesse ferite a cui è stata sottoposta. Dal groviglio emozionale confusionale in cui versa, riuscirà a trarne sollievo solo attraverso la reiterazione dell’atto violento>> (p. 45). Da questo punto di vista, credo che l’origine della pedofilia nella donna non si discosti molto da quella dell’uomo: nell’infanzia, invece di ricevere amore, si è stati maltrattati e questo maltrattamento verrà rimesso in atto poi da adulti su soggetti più deboli come i bambini. E’ il ben noto meccanismo del “circolo vizioso della violenza e dell’abuso”, e cioè semplicemente scaricare a valle da adulto tutto quanto subito a monte nell’infanzia. All’epoca si era totalmente impotenti di fronte allo smisurato potere dei genitori, oggi ci si vendica su chi oggi è fragile come lo si è stato in passato. E’ sostanzialmente quello che già Freud denominò il meccanismo inconscio della “coazione a ripetere”. La personalità della pedofila. Petrone (2005) individua almeno tre differenti tipologie di donne abusanti, all’interno delle quali può inserirsi o meno il comportamento pedofilo:
1) le donne violente: maltrattano pesantemente e ripetutamente il bambino, finanche a giungere ad atti di sadismo vero e proprio. Queste donne hanno alle loro spalle a loro volta una storia estremamente violenta, fatta di abusi subiti in tenera età e di un contesto familiare, sociale e culturale molto precario e deficitario.
Ciò porta queste donne a sviluppare poi da adulte dei seri disturbi psicopatologici, di solito collegati ad ansia, depressione, uso di sostanze, scarso controllo degli impulsi.
2) le donne omissive: mettono in atto delle cure parentali inadeguate nei confronti del bambino, come per esempio non nutrirlo come dovrebbero in base all’età, non curarlo o non curarlo efficacemente quando è malato. E’ in sostanza quello che viene definito “discuria”, cioè “mi prendo cura di te, ma male o solo parzialmente” ed è diverso dal concetto di “incuria”, dove il bambino davvero non è considerato minimamente nei suoi bisogni affettivi e fisiologici, “non ti considero proprio/non mi interesso a te”. Come vedremo, esiste anche l’ “ipercuria”, fenomeno per cui ci si prende eccessivamente cura del bambino, creandogli così comunque dei danni.
3) le donne vendicative: si vendicano sui propri figli del male subito nella loro infanzia. Questo meccanismo in realtà avviene anche nelle precedenti tipologie di donne, ma per lo più è un processo di tipo inconscio. Nelle donne vendicative invece, oltre sicuramente ad una quota inconscia, c’è anche una forte componente conscia, consapevole: “Ti faccio questo così come lo hanno fatto a me”. “Non ti do quest’altro perché a me non è stato dato”. E’ come se la madre, benché adulta, si mettesse alla pari con il proprio bambino, non considerandolo nella sua fragilità, sentendosi lei stessa in qualche modo ancora una bambina a cui è stato negato l’amore di cui ogni bambino ha bisogno. La donna così non riesce a percepire fino in fondo il disagio del bambino, perché è bambina anche lei, perché c’è lei stessa in primo piano, perché è impossibilitata emotivamente a dare al piccolo ciò che non è in grado di dare, non avendolo ricevuto lei per prima. Anzi, inconsciamente la donna vede nel bambino anche i genitori che l’hanno maltrattata e contro i quali ieri non poteva reagire, ma sui quali oggi invece può rifarsi. Sempre Petrone (2005) individua specificatamente una serie di “tipologie di pedofila”:
4) pedofila latente: è la donna che, pur avendo fantasie e pulsioni orientate al sesso con i bambini, da sempre le “reprime”, avendo introiettato norme e valori morali e sociali che evidentemente non prevedono queste sue inclinazioni.
5) pedofila occasionale: è una donna che tendenzialmente svolge una vita “normale” nel paese dove vive, ma che di tanto in tanto si concede un’esperienze sessuale trasgressiva in paesi con forte tasso di turismo sessuale (Cuba, Carabi, Thailandia). In questi paesi la donna pedofila può dare libero sfogo a quegli istinti che nel proprio paese di appartenenza non potrebbero in alcun modo essere soddisfatti, se non rischiando la galera. Nello specifico queste donne tendenzialmente hanno tra i 40 e i 50 anni, sono single o divorziate e il loro livello socio-culturale è medio-alto.
6) pedofila dalla personalità immatura: è una donna che non ha raggiunto un normale sviluppo affettivo adulto e riesce a relazionarsi solo con persone molto più piccole di lei, molto fragili, visto che i coetanei adulti la spaventano molto. Di solito è una pedofila “dolce”, non aggressiva, che utilizza atteggiamenti di tipo seduttivo e passivo: sfrutta la naturale curiosità del bambino per il sesso, iniziandolo al sesso prima mediante fiabe, poi con foto e video pornografici. Il suo amore per il bambino viene molto “idealizzato”, come fosse una sorta di “amore romantico perfetto”.
7) pedofila regressiva: è una donna che tendenzialmente ha raggiunto una maturità relazionale adulta, ma non ancora in modo completo. Nelle situazioni di forte stress psicologico, la donna può sentire di “non farcela” e “regredire” dunque in un comportamento “infantile” che vede se stessa, in primis, come “bambina” e rivolgendo il proprio interesse sessuale verso i bambini reali.
8) pedofila sadico-aggressiva: c’è una trasformazione dal ruolo di vittima a quello di carnefice. La donna che ha subito gravi abusi nell’infanzia, può ora “vendicarsi” sui più deboli così come in passato quelli più forti hanno fatto con lei. E’ sempre evidente una fortissima componente “antisociale”, per cui il bambino non è minimamente visto nella sua persona, ma semplicemente come oggetto su cui scaricare rabbia e angoscia rimosse nel passato.
9) pedofila omosex: vede nella bambina la bambina che è stata lei, non amata dalla propria madre. Il sesso diventerebbe così un modo per entrare in contatto profondo con il proprio Sé-bambino, per amarlo e proteggerlo come avrebbe voluto fosse stato fatto in passato dalle sue figure di accudimento. Come per la pedofilia maschile, anche la pedofilia femminile può esprimersi in svariate forme:
1) Pedofilia intrafamiliare: gli abusi vengono perpetrati tra le mura domestiche, proprio lì dove il bambino dovrebbe essere più al sicuro, protetto dai pericoli e dai nemici esterni che, invece, sono interni. E’ la forma di pedofilia più diffusa e quella che reca i danni maggiori alla vittima: il bambino, infatti, vede il proprio linguaggio, quello della tenerezza, che usa per comunicare con i genitori, venire “frainteso” da questi e interpretato erroneamente come un linguaggio sessuale, passionale, adulto. Dunque alla “richiesta affettiva infantile” del bambino si risponde con una “risposta sessuale adulta” (Ferenczi, S., 1933). Bonfiglio e Vergenelli (1993) identificano alcune caratteristiche della donna pedofila che mette in atto il suo comportamento all’interno del proprio contesto familiare:
- età media intorno ai 25 anni;
- matrimonio precoce e conflittuale, contratto per esempio per fuggire dalla famiglia di origine;
- presenza di patologia ostetrica o di precedenti aborti;
- patologia psichiatrica;
- abusi subiti in tenera età;
- basso livello socio-economico;
- alcolismo/tossicodipendenza.
2) Pedofilia extrafamiliare: il comportamento pedofilo è messo in atto al di fuori del proprio contesto familiare. Questo può avvenire semplicemente in luoghi fuori dalla famiglia ma comunque “vicini”, come a scuola, in chiesa, a casa di parenti e amici. Non mancano in questo senso notizie diffuse dai media.
3) Turismo sessuale: oggi, l’età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12 sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e l’appagamento materno (psicoterapie.org). Differenti sono le mete e rispetto a quanto riportato dall’indagine di alcuni anni fa di Panorama, si evidenzia come il mercato si sia adeguato anche alle richieste delle donne pedofile. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e, per le destinazioni più lontane, la Giamaica e il Brasile. La Thailandia, invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. A Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d’amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata. Più recentemente arriviamo al turismo sessuale femminile in Sri Lanka. Dalla testimonianza di volontari del posto, si apprende che le “turiste” arrivano portandosi da casa ormoni e droghe da somministrare a bambini dai 6 agli 11 anni, per consentire fisicamente l’atto sessuale (psicoterapie.org). Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale per ottenere l’erezione avviene tramite l’iniezione degli ormoni nei testicoli: questo causa l’abnorme ingrossamento dell’organo sessuale del bambino che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni e i danni spesso sono letali (repubblica.it).Negli ultimi anni sembra esserci stato un incremento esponenziale dei casi di pedofilia al femminile e tale fenomeno è particolarmente accentuato e ben visibile negli Stati Uniti. L’aumento della casistica di questo tipo di crimine confermato dalla cronaca nazionale e internazionale, non è dovuto ad un effettivo incremento del fenomeno, quanto piuttosto ad un’accresciuta sensibilità verso di esso, sia da parte degli operatori sanitari e sociali, sia da parte della società. Quello che differenzia la pedofilia femminile odierna da quella del passato è la sua espressione manifesta, la sua patologica volontà di uscire allo scoperto, quasi per voler rivendicare un posto accanto a quella maschile. (L. Petrone, M. Troiano, 2005). Ecco allora che debuttano, le prime donne indagate per pedofilia, i primi arresti, le turiste sessuali, la scoperta dei primi siti internet per donne pedofile. Pensiamo per esempio, che se all’inizio del 2004 le associazioni femminili pedofile che agivano su internet erano 5, solo nel 2007 siamo arrivati a 36, come riportato dall’associazione Meter, che da anni si occupa del fenomeno pedofilia (M. Valcarenghi, 2007). In Thailandia questi poveri bambini, vittime del turismo sessuale, per il 50% hanno contratto l’HIV e, non appena i sintomi della malattia si affacciano, vengono uccisi senza lasciare traccia (Petrone, 2005).
La pre-pedofilia. Petrone (2005) sottolinea inoltre un aspetto a mio avviso molto importante e cioè il concetto di “pre-pedofilia”. Tale termine indica quella sottile, complessa e perversa dinamica che ha vita quando la donna/madre non mette lei stessa in atto comportamenti pedofili nei confronti del figlio, ma rimane comunque “complice” di quegli altri individui che invece abusano davvero del bambino. E’ un fenomeno che rientra nel più generale concetto che lo psicoterapeuta Andrea Vitale (2008) definisce “coazione a veder ripetuto”: “non sono io a farti del male come già altri in passato lo fecero a me, ma lo lascio fare ad altri al posto mio, potendo comunque così io godere della mia spinta inconscia a rifarmi su terzi del male subito”. E’ come il meccanismo della coazione a ripetere, solo “filtrato” dalla presenza attiva di un’altra persona che, come dire, fa per interposta persona il lavoro sporco al posto di un altro. “Il suo “far finta di non vedere” è una ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarli e tutelarli. Il tradimento avviene su tutti i fronti e le piccole coscienze distrutte e i piccoli corpi martoriati vengono lasciati soli a se stessi. Queste donne, che se pure non hanno agito direttamente l’abuso, si sono macchiate dello stesso crimine perché, proprio come il loro compagno, non hanno considerato i bambini persone, li hanno ostacolati e menomati nello sviluppo fisico e psichico, li hanno piegati alle proprie ingiustificate e insane esigenze” (L. Petrone, 2005, p. 54). Il fenomeno della pre-pedofilia da parte della figura materna, si può verificare perché il compagno è un pedofilo e l’amore e la dipendenza patologica nei confronti del partner, la porta a seguire le inclinazioni di quest’ultimo. Pensiamo alla compagna del “mostro di Marcinelle”, che lo seguiva assecondando i suoi agiti o al caso, più recente, di questi giorni in Austria, dove un padre ha relegato la figlia per anni nello scantinato di casa, ha avuto da lei sette figli che ha poi cresciuto con la moglie, ossia la madre della ragazza. In moltissimi casi di incesto infatti, oggi come ieri, vi è una madre a dir poco assente, non attenta alla sua realtà familiare, non in grado né di essere moglie né di essere mamma (M. Malacrea, A. Vassalli 1990). È proprio il fallimento come donna e come madre, la paura di perdere il partner, a essere alla base del comportamento complice. Avviene infatti che la madre sappia dell’abuso, ma non faccia niente per impedirlo; anzi, se la figlia le rivela l’accaduto, l’accusa di mentire, di essersi inventata tutto, facendo sì che il marito continui a perpetrare l’incesto. Spesso la moglie vede nel marito una perdita di interesse nei propri confronti e, per non essere abbandonata, “suggerisce” in modo più o meno inconscio una relazione “sostitutiva” con la figlia. Molto spesso, infatti, i figli diventano oggetto di attenzioni sessuali nel momento in cui la madre non riesce più a svolgere il suo “ruolo sessuale” all’interno della coppia genitoriale (G. Mandorla, 2005). La pre-pedofilia ha manifestazioni differenti: può essere sottile, più silente e mascherata, come nelle famiglie incestuose, oppure essere più evidente, più ostentata, come nel caso di madri che “spingono” i figli in relazioni con altri abusanti, che addirittura “vendono” le prestazioni dei loro figli o che partecipano attivamente a giochi sessuali perversi con questi. Come ben descritto da Caputo (1997), la madre, di fronte ad un abuso subito dal figlio da parte del marito, può reagire come una:
1) madre complice: può variare da atteggiamenti ambigui (“complicità inconscia”) per cui la donna non è consapevole del fatto che una parte di sé è “favorevole” a che l’abusi si verifichi ed essere mossa da un’incontrollata pulsione a fare in modo che la “fatalità” dell’incesto si avveri, fino al vero e proprio aiuto fisico al coniuge che usa violenza alla figlia (“collusione manifesta”). L’inesistenza di relazione materna nei confronti della figlia ed affettiva nei confronti del marito; proprio questo atteggiamento può indurre talvolta il marito a dedicare morbosa attenzione alla figlia.
2) madre assente: è la madre che non è riuscita a stabilire un rapporto sano, autentico, di fiducia con i propri figli. Di fronte all’abuso del figlio non si sente “toccata” più di tanto, non si sente “emotivamente coinvolta” come figura di protezione e di responsabilità nei suoi confronti.
Secondo Petrone (2005) è possibile classificare varie tipologie anche di donna pre-pedofila:
1) la madre che collude: è la massima espressione della donna pre-pedofila. La madre, inconsciamente ma anche consapevolmente, sacrifica, o per meglio dire “dà in pasto” a pedofili conclamati il proprio bambino, soddisfacendo così il proprio bisogno di aggredire e umiliare l’altro rimanendo però in ombra, in una posizione “passiva”.
2) la donna che dipende: ha una personalità estremamente fragile. Non è dunque in grado di svolgere il proprio ruolo biologico di protettrice dei piccoli e non ha alcun potere all’interno della famiglia, ma è subordinata totalmente alla figura del partner.
3) la donna vittima: è sempre il discorso del circolo vizioso dell’abuso, per cui queste donne, come dimostrano molti studi, sono state in passato a loro volta vittime di abusi sessuali. In questo caso, oltre alla motivazione inconscia a rifarsi su terzi del male subito nell’infanzia, la donna mette in atto i ben noti meccanismi di difesa della negazione, della rimozione e della repressione, per cui le emozioni devastanti legati all’incesto messo in atto da un altro familiare vengono non riconosciute e dunque in qualche modo cancellate. La madre diventa allora ella stessa la piccola bambina di un tempo, che rimane inerme di fronte alle violenze agite da altri più forti. Gli studi di Everson (1997) rilevano che solo il 40% delle madri delle vittime si schiera dalla parte di queste una volta venute a conoscenza dell’abuso. L’autore, inoltre, divide le madri in base alle loro “reazioni” di fronte all’abuso dei figli da parte di un altro familiare:
4) la madre molto protettiva: crede al racconto del figlio, si schiera dalla sua parte, lo difende. Decide così di troncare il rapporto di coppia con il marito, già di per sé ormai deficitario e di scegliere il bene del figlio. Chiaramente una reazione materna del genere è per il figlio abusato una grande risorsa.
5) la madre poco protettiva: è rappresentata da quella donna che per suoi limiti personali non si accorge di fatto o non si vuole accorgere degli abusi che il figlio subisce dal marito. E’in questo senso totalmente assente nei confronti del figlio. In passato h anche lei dovuto subir maltrattamenti fisici o sessuali e, come era impotente allora nei confronti di chi le faceva del male, lo è ora nei confronti di chi fa male alla sua prole.
6) la madre ambivalente: la donna si accorge dell’abuso, in qualche modo ci soffre, vorrebbe intervenire, ma poi di fatto è combattuta. Riconosce il male, ma in qualche modo cerca anche di “minimizzarlo”, per limiti personali, ma anche per paura di ripercussioni sul rapporto di coppia e sull’ “immagine” della famiglia. La soluzione ideale a questo suo conflitto sarebbe che l’abuso si interrompesse da sé. Ritengo opportuno a questo punto fare un piccolo inciso personale su quanto emerso fin qui rispetto alle varie tipologie di donne pedofile. In primo luogo vorrei sottolineare come, indipendentemente dalle differenti tipologie di donne maltrattanti o pedofile, in realtà le differenze non sono così nette, ma più che altro sfumate e graduali tra una tipologia e l’altra. Sfumature differenti si hanno a livello “fenomenologico”, cioè rispetto al “come” si esprime e si traduce la spinta pedofila, ma rispetto al “perché” e quindi alla sua “origine”, le differenze vanno di fatto a livellarsi. Infatti alla base del nucleo inconscio profondo di queste donne ci sono sempre e comunque almeno due spinte emotive di base molto potenti: la paura per quello che hanno subito nel loro passato e la rabbia verso quei carnefici, che però oggi spostano su terzi che non hanno alcuna responsabilità dei traumi subiti. Questo significa che anche la madre vittima ha una rabbia inconscia come ce l’ha la madre che collude, ma evidentemente in misura minore, per cui sulla rabbia (comunque presente) prevale la paura. Allo stesso modo, al di sotto della rabbia inconscia della madre che collude, c’è comunque sempre presente un forte sentimento di paura. Questo senza togliere valore al fondamentale concetto di “sovradeterminazione”, per cui come per ogni altro comportamento umano complesso possono coesistere più motivazioni consce e inconsce che si organizzano in base ad una gerarchia di motivazioni. Questo significa che, per esempio, la paura e la rabbia di cui sopra come abbiamo visto possono avere minore o maggiore rilevanza l’una sull’altra. Inoltre, oltre a queste due emozioni di base, potrebbe essere determinante nel comportamento pedofilo anche una componente legata per esempio alla “trasgressione”: la pedofilia viene a rappresentare in questo senso “anche” (e sottolineo “anche” perché di certo non si diventa pedofili per puro spirito di ribellione o trasgressione) un modo per andare contro i normali valori di una famiglia o di una società vissuta come ostile. Oppure ancora, il rapporto sessuale con un minore potrebbe essere l’unico possibile e appagante per l’individuo, magari in seguito a ripetuti fallimenti con adulti dell’altro o dello stesso sesso. In questo modo il soggetto potrebbe andare così a soddisfare “anche” il suo bisogno di sentirsi uomo o donna, sessualmente attivi e capaci. In secondo luogo, credo che più che di pre-pedofilia, si possa meglio parlare di “para-pedofilia” o “atteggiamento simil-pedofilo” (Quattrini F., Costantini A., 2011). Il suffisso “pre”, rimanda secondo me troppo ad una fase che inevitabilmente “precede” una pedofilia conclamata (come avviene solitamente in ambito psichiatrico). Questo è effettivamente vero, perché immagino possa accadere che una donna cominci la sua “carriera pedofila” come pre-pedofila per poi divenire una pedofila vera e propria. Più in generale, però, credo che la pre-pedofilia sia già di per sé uno stato (se non addirittura un tratto di personalità, così come avviene per i tratti di personalità comuni nei pedofili) che può rimanere tale per periodi di tempo molto lunghi se non addirittura per sempre. Comunque anche parlare di pre-pedofilia rimanda ad un qualcosa “che si ferma un attimo prima di” diventare qualcos’altro di diverso e ben definito ed in questo senso trovo comunque valido l’uso del termine. Più in generale, credo che questo aspetto in particolare della pedofilia femminile sia di fatto l’unica vera grande differenza con la pedofilia maschile. Il pedofilo uomo infatti, benché non necessariamente debba essere uno spietato assassino seriale di bambini come nel ben noto caso del “Mostro di Marcinelle”, nella stragrande maggioranza dei casi ricopre un ruolo molto attivo in quella che è la relazione pedofila con il bambino. Questo sia nella fase dell’adescamento e del corteggiamento, sia nella fase della molestia o violenza fisica vera e propria. Difficilmente si riesce ad immaginare un pedofilo che attui la sua perversione per interposta persona, come avviene per le donne pedofile, ancor meno lo si riesce ad immaginare “complice passivo” di una donna pedofila attiva. Questa “variante” potrebbe anche verificarsi in teoria, ma dagli studi e ricerche del settore non sembrano provenire dati rilevanti. Anche dai mass-media non sono mai arrivate notizie del genere.
Altre espressioni della pedofilia femminile. Oltre alla pedofilia femminile intrafamiliare, a quella extrafamiliare e a quella legata al turismo sessuale, altre forme di pedofilia al femminile sono rappresentate dalla pedofilia on-line, dalla pedofilia legata al satanismo e dalla pedofilia nell’ambito dell’handicap. Per quanto riguarda la “pedofilia on-line” sono da menzionare alcuni dati (Petrone, 2005):
1) Gli U.S.A. detengono il primato dei server provider con immagini di minori. Segue al secondo posto il Giappone, poi i paesi dell’Est e infine l’Europa.
2) La pedo-pornografia crea un giro economico immenso: il prezzo delle fotografie in reta va dai 30 ai 130 euro; i cd con i cataloghi dei bambini offerti vanno dai 78 ai 130 euro; i filmati, quelli più richiesti, dai 260 euro in su, ma vengono venduti anche a cifre molto elevate se si tratta si scene violente (snuff-movie).
3) in tutto il mondo sono circa 29.000 i siti pedofili denunciati e oscurati dalle polizie internazionali.
4) su internet circolano almeno 12 milioni di immagini di pedo-pornografia, mentre i bambini coinvolti sono circa 2 milioni e mezzo.
5) il 7°% delle immagini in rete riguarda bambini tra i 4 e gli 8 anni e non vengono risparmiati nemmeno i neonati.
6) nel 1989 per la prima volta circolano in rete immagini pedo-pornografiche.
7) nel 2003 la prima scoperta ufficiale di 5 siti internet per donne pedofile.
Per quanto concerne la “pedofilia nei culti satanici”, bisogna sottolineare come il sesso sia considerato uno strumento fondamentale per entrare in contatto con il Maligno. Alcuni sono gli aspetti da sottolineare di questo raccapricciante fenomeno:
a) alta percentuale di donne che abusano di bambini, spesso le stesse madri. Rivestono frequentemente il ruolo di “sacerdotesse”;
b) età delle vittime tra gli 0 e i 6 anni;
c) rituali sessuali sempre accompagnati da torture fisiche di vario genere;
d) abusi “di gruppo” sul singolo bambino;
Purtroppo neanche il già di per sé complicato mondo della “disabilità” viene risparmiato dai pedofili:
a) i bambini con handicap sembrano essere più abusati di quelli normodotati. Su un campione di 445 bambini portatori di handicap, l’incidenza dell’abuso sessuale è del 15% contro il 2% del gruppo di controllo rappresentato da bambini senza handicap.
b) i soggetti con un livello “lieve” o “moderato” di disabilità sono maggiormente colpiti, rispetto a quelli con una disabilità più severa.
c) nel 44% dei casi gli abusanti sono i familiari, nel 33% gli operatori sanitari e nel 22% gli estranei.
d) i disabili “psichici” sono quelli maggiormente colpiti (56%), quelli con disabilità “multipla” rappresentano il 17% e quelli con disabilità “fisica” l’11%.
e) le denunce sono estremamente rare, visto che il bambino disabile difficilmente riesce a comprendere quello che gli viene fatto e spesso ha comunque enormi difficoltà nel comunicare e nel relazionarsi con gli altri.
Già di per sé la disabilità è una di quelle condizioni predisponenti la vittima ad essere abusata, a causa del disagio e dello stress che può causare in chi si occupa di questa e che, quasi in una sorta di “vendetta”, si rifà su di lei abusandone. In molti casi, la pedofilia femminile nei confronti di soggetti con handicap assume una connotazione del tutto particolare. Molte madri, per “accontentare” il figlio disabile e dunque per permettergli di scaricare le sue normali pulsioni sessuali lo masturbano o hanno rapporti sessuali con lui, giustificando il loro comportamento come fatto “per il bene del figlio”, dal momento che se non fosse per loro, nessuno desidererebbe mai avere un contatto intimo con quello che con disprezzo alcuni chiamano “un errore della natura”. Credo che anche in questo caso la motivazione di fondo dell’adulto non sia l’amore per il figlio, ma sempre una spinta “mascherata” allo sfruttamento fisico del figlio.
Le due pedofilie: pedofilia femminile vs pedofilia maschile. Come accennato in precedenza, credo che la pedofilia femminile sostanzialmente non si discosti poi moltissimo da quella maschile: le cause sono praticamente le stesse, le caratteristiche di personalità sono molto simili e così anche le storie di vita. Anche alcune espressioni delle due pedofilie sembrano essere comuni, come la pedo-pornografia, il turismo sessuale, il verificarsi di abusi incestuosi o al di fuori della famiglia. Cosa cambia allora e quali sono le differenze tra le due forme di pedofilia? Da quanto emerge dai contributi dei vari autori fin qui citati, le differenze sostanziali sembrerebbero riguardare:
1) è molto meno frequente, per un discorso “biologico” e “culturale” che vuole la donna più “passiva e morbida” rispetto ad un uomo più “attivo e duro”. E’ anche vero, però, che una buona fetta di pedofilia è indubbiamente “sommersa”, perché come abbiamo visto è più difficile da scoprire, perché più mascherata e sicuramente meno investigata rispetto a quella maschile.
2) la “pre-pedofilia. E’ il complesso fenomeno a cui ho dedicato un paragrafo a parte e che sembra essere una prerogativa della pedofilia maschile. Difficilmente si conosce o si riesce ad immaginare un pre-pedofilo uomo: un marito che non abusa direttamente dei propri figli, ma lo lascia fare in modo “passivo”, “indiretto” e più o meno “inconsciamente” a sua moglie. Potrebbero anche verificarsi situazioni del genere (e sicuramente da qualche parte nel mondo già si verificano), ma rappresenterebbero comunque davvero un evento molto raro, ben più raro della pedofilia femminile stessa.
3) a differenza dell’uomo, che per sua natura e per un discorso culturale trascorre ben poco tempo con il proprio bambino, la donna, in quanto madre, trascorre invece con lui gran parte (nei primi anni 24 ore su 24) della giornata. In particolare, la donna si occupa molto anche della cura “fisica” del bambino, cosa che il padre tendenzialmente non fa. Ecco allora che la pedofilia trova molteplici “mascheramenti” per potersi esprimere. Secondo Estela Welldon (1988), la perversione femminile più che attraverso la sessualità, passa attraverso la maternità e attraverso le pervasive strategie di manipolazione del figlio. La madre, infatti, può agire atti sessuali nei confronti del proprio bambino attraverso per esempio “bidet prolungati”, “bagnetti” frequenti in cui le mani della madre esitano più a lungo del dovuto sui genitali del bambino, dormire insieme nel letto matrimoniale o fare insieme il bagno nudi (entrambe queste ultime due situazioni sono, a mio avviso, ben rappresentate nel film “Il silenzio” di I. Bergman). L’uomo pedofilo difficilmente può utilizzare questo camuffamento per molestare un bambino.
4) benché anche la donna pedofila possa essere violenta con il bambino e benché, viceversa, anche il pedofilo maschio possa essere “dolce” nel suo approccio con il bambino, tendenzialmente la pedofila non ricorre alla violenza, mentre il pedofilo non di rado lo fa.
5) a differenza dell’uomo, la donna conosce bene la “psiche infantile” e sa meglio di lui come relazionarsi al bambino. Ha per natura una maggiore capacità di empatizzare con lui, di stimolare la sua curiosità, di ispirargli fiducia. In questo senso la donna riesce meglio nel suo intento pedofilo E’un estremo abuso di potere, perché una madre nei confronti del figlio ha un potere pressoché totale, più di quello che può avere lo stesso padre. La madre è come un “dio maligno” che può togliere e può dare a suo piacimento.
6) in virtù di quanto emerso fin qui, è chiaro che un’altra differenza con la pedofilia maschile riguarda i “danni”, le conseguenze psicologiche sul bambino dovute agli abusi. I danni di un abuso “al femminile” sono sicuramente maggiori, perché la mente del bambino non riesce a comprendere come la persona che lo ha messo al mondo e grazie alla quale rimane in vita sia la stessa che gli fa del male. Questo avviene anche se l’abuso è mascherato, il bambino in qualche modo recepisce dei messaggi negativi, ambigui, confusi dalla propria madre. Come sostiene Caputo (1997), molto spesso l’inevitabile conseguenza per un individuo che sia stato abusato dalla propria madre è la “psicosi”, mentre un abuso “maschile”, per quanto terribile, potrebbe essere più facilmente elaborato. Questo sembra essere confermato anche da una ricerca svolta dalla psicologa Daniela Tortolani dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che ha rilevato come su un campione di 250 bambini psicotici abusati, le madri rappresentino circa l’11% degli abusanti, al terzo posto dopo padri e conviventi (tratto da Caputo, 1997). Anche un abuso maschile può portare alla psicosi, ma è difficile che un bambino non psicotico abusato sia stato abusato da una donna. L’abuso femminile conduce quasi inevitabilmente alla psicosi. Il bambino, infatti, vive per i primi tre anni un “periodo critico” denominato la Lorenz (1949) “imprinting”, in cui il cervello del piccolo è in formazione e si formerà proprio in base agli stimoli ambientali che riceverà da chi si prende cura di lui. La madre è la persona a cui il bambino si “attacca” di più e il vedere in lei il duplice volto del bene e del male, di chi lo ama e di chi lo uccide, crea in lui il processo psicopatologico del “doppio imprinting” (Vitale, 2008), quando cioè il carnefice e il salvatore coincidono con la stessa persona. In questo caso il cervello va in “tilt”, c’è solo confusione, ci si ammala gravemente.
7) infine, anche le leggi dei vari paesi del mondo sembrano in qualche modo, a parità di reato, “punire meno” la pedofila del pedofilo. Anche questo credo sia legato ad un discorso più che altro culturale: la donna, la “mamma” in particolare non può mai essere davvero “cattiva” fino in fondo, non come può esserlo un uomo, un padre. Se così fosse, sarebbe duro da accettare e la Giustizia di tutto il mondo si dovrebbe, non senza difficoltà, regolare di conseguenza…Ripeto, è solamente una questione culturale, perché il comportamento pedofilo femminile è lo stesso e i danni inferti al bambino non solo sono gli stessi di quelli inferti dagli uomini ma, anzi, sono addirittura peggiori.
La famiglia incestuosa. Come sostiene M. Valcarenghi (2007) “la pedofilia incestuosa viola allo stesso tempo due tabù della nostra società civile: l’interesse sessuale verso i bambini e quello verso i consanguinei”. Da un’importante ricerca del Censis relativa al 1984 è emerso che ben l’85% delle denunce di pedofilia riguardavano incesti (M. Valcarenghi, 2007). Solo in Italia si verificano circa 2000 casi di incesto ogni anno (Caputo, I., 1997). Orfanelli e Orfanelli (2007) sottolineano come oltre il 90% degli abusi sessuali su minori avviene all’interno della famiglia. Secondo gli autori in questi casi è preferibile parlare di “incesto”: qualsiasi forma di rapporto sessuale tra un minore e un adulto che svolge nei suoi confronti una funzione parentale. Si tratta di incesto, quindi, anche in presenza di genitori affidatari, tutori, parenti, amici stretti della famiglia. Si rimarca così, a mio avviso, come il comportamento pedofilo incestuoso sia ancor più grave di quello che avviene al di fuori della famiglia, visto che i carnefici sono proprio coloro i quali si dovrebbero prendere cura del bambino. Come dire che “il nemico è in casa e non fuori”. Questi stessi autori rilevano come la forma di incesto più diffusa da sempre sia quella tra padre e figlia, ma si conoscono anche quelle tra madre e figlio e tra madre e figlia. Comportamenti questi ultimi ritenuti i più gravi dal punto di vista delle conseguenze psicologiche delle vittime. “Tutti gli esperti di child abuse sono concordi nel ritenere che una figlia, sia pure a costo di grandissime sofferenze e a patto di ricevere un aiuto terapeutico, può superare il trauma di una relazione con il proprio padre, mentre l’incesto consumato con la madre crea quasi inevitabilmente uno psicotico” (Caputo, I., 1997, p. 203). Miriam Johnson, nel suo famoso libro “Madri forti, mogli deboli” (1988) si è occupata molto della donna, del suo essere madre e moglie allo stesso tempo, sottolineando come nelle famiglie incestuose ci sia tendenzialmente una “madre” che non è riconosciuta fino in fondo come “moglie dal marito” che, anche per questo, tende a instaurare una relazione di coppia perversa con la figlia. Questo è quello che succede, continua l’autrice, nella stragrande maggioranza dei casi, ma non sono infrequenti anche rapporti incestuosi tra madre e figlio. Anzi, secondo l’autrice “se consideriamo il tabù, piuttosto che la persona che lo infrange, ci rendiamo conto che, a causa del dominio maschile, il vero tabù riguarda l’incesto tra madre e figlio. […] il sacrificio viene imposto al bambino maschio, che deve rinunciare al suo legame con la madre. La figlia non deve rinunciare così chiaramente al padre; dato che, dopo tutto, deve diventare una moglie e accettare il controllo del marito, il tabù è meno forte” (p. 229). Nel 1982 Jean Goodwin presentò degli importanti risultati di una ricerca proprio sugli abusi sessuali e non di madri sui loro figli, in cui si chiedeva ad un gruppo di 100 madri maltrattanti se prima dei 18 anni avessero subito abusi sessuali. Il gruppo di controllo era rappresentato da 500 donne normali della stessa comunità. Da questi risultati emerse che:
a) il 27% delle madri abusanti/maltrattanti aveva subito in passato relazioni incestuose, contro solamente il 3% del gruppo di controllo.
b) l’esperienza di incesto non era più frequente nelle madri che abusavano sessualmente dei figli, ma ugualmente frequente anche nelle madri che maltrattavano i figli ad un livello non sessuale.
Questi risultati sottolineano ancora il circolo vizioso dell’abuso e dell’incesto: madri che da bambine o adolescenti sono state abusate in famiglia, tenderanno a loro volta reiterare l’abuso subito sui propri figli, maltrattandoli a livello fisico, psicologico e, in alcuni casi estremi, sessuale (tratto da, Oliverio Ferraris, 1999).
Questa è la “forma” dell’abuso intrafamiliare, ma andiamo a vedere questa famiglia che caratteristiche ha per renderla candidata ideale per il compimento di abusi al suo interno. Di solito la famiglia incestuosa è una famiglia dove i confini tra la generazione adulta dei genitori e quella più giovane dei figli sono o molto labili, per non dire inesistenti, oppure, al contrario, sono estremamente rigidi. Malagoli Togliatti (2002) nel primo caso si parla di confini “diffusi” e di famiglie cosiddette “invischiate”, dove “tutti sanno tutto e […] un’emozione di un singolo è vissuta dall’intero sistema familiare, in quanto non sembrano esserci differenze” (p. 43). Nel secondo caso l’autrice parla di famiglie con confini rigidi, dove i sottosistemi genitori e figli sono talmente distanti a livello di interazione, che lo scambio comunicativo sia di informazioni sia di emozioni diventa impossibile. Si tratta delle famiglie cosiddette “disimpegnate”. E’ evidente come in entrambi i sopra citati casi le relazioni familiari siano fortemente deficitarie e prestino il fianco a situazioni di rischio soprattutto per lo sviluppo dei figli che, a differenza dei genitori ormai adulti, devono ancora, proprio all’interno della loro famiglia, crescere e formarsi come persone. Non necessariamente in una famiglia invischiata o disimpegnata si svilupperà tout court un incesto. Certo è che moltissimi studi dimostrano come in un clima del genere le relazioni familiari siano altamente disfunzionali: in entrambi i casi infatti a rimetterci sono tendenzialmente i figli. Figli che vengono considerati “oggetti personali” dei genitori, di cui fare utilizzo in ogni modo e ogniqualvolta se ne abbia la necessità, come se fossero “prolungamenti”, “estensioni” dell’adulto e non persone distinte (famiglie invischiate). Oppure i figli sono tenuti a debita distanza, soprattutto emotiva e il rapporto con loro è molto freddo, rigido, autoritario: anche in questo caso i figli non vengono considerati nei loro affetti, nei loro bisogni, nelle loro fragilità. In un contesto così disfunzionale spesso si riscontra un terreno fertile per l’instaurarsi di relazioni incestuose e quindi abusanti. Diversi autori (per es. Petrone L., Rialti, S., 2000) sottolineano come spesso l’incesto si verifiche all’interno di famiglie con genitori molto giovani (circa 25 anni): sono “famiglie premature” in cui il matrimonio precoce è un matrimonio di fuga da conflitti personali e con la famiglia di origine e che si ripercuotono poi sui figli attraverso un generale atteggiamento di scarsa empatia, di scarsa pazienza, dell’uso frequente di punizioni fisiche sul bambino. Un altro modello che va ad indagare ancor più nello specifico le dinamiche familiari è quello “circonflesso” di Olson (1983): il funzionamento familiare si svolge attraverso tre dimensioni, coesione, adattabilità, comunicazione. Per coesione si intende la vicinanza o la lontananza emotiva e psicologica tra i vari membri della famiglia. Per adattabilità si intende invece la capacità dei membri di modificarsi e di modificare l’intera struttura familiare in base agli eventi che si presentano e quindi di affrontare e superare i cosiddetti “compiti di sviluppo” (Malagoli Togliatti, 2002). Infine, per comunicazione l’autore intende la capacità dei membri di comunicare informazioni ed emozioni ed è quindi un aspetto rilevante della plasticità e dinamicità della famiglia. E’ evidente come una famiglia sarà tanto più funzionale quanto più il livello delle tre dimensioni si attesta a livelli medi, in un normale equilibrio strutturale. In base al posto che una famiglia occupa all’interno delle tre dimensioni e alla interazione tra queste, si parlerà di famiglie “estreme”, “bilanciate” e “intermedie”. Le ultime due rappresentano situazioni dove i membri sono coesi, ma allo stesso tempo differenziati e dove persistono buona flessibilità e comunicazione. Sono famiglie funzionali senza alcun spunto patologico. Le famiglie estreme invece sono altamente disfunzionali perché combinano bassa/alta coesione con bassa/alta adattabilità. Olson ne parla per questo come di “famiglie con emergenze sintomatiche”. Dall’incrocio di tali modelli estremi, scaturiscono una serie di possibili tipologie familiari altamente patologiche: “caotica-disimpegnata”, “rigida- disimpegnata”, “caotica-invischiata”, “rigida-invischiata” (tratto da Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2002). Da questa breve disamina delle varie dinamiche familiari, si evince facilmente come sfaccettate ed estremamente complesse possano essere le “chine scivolose” (Gabbard, 1995) all’interno di un contesto familiare che potenzialmente portano poi ad una condizione di abuso e di violazioni.
La sindrome di Munchausen per procura. Tra le varie forme di abuso perpetrate, ce ne è una che sembra essere in qualche modo una prerogativa della figura femminile, nello specifico di quella materna. Stiamo parlando della “Sindrome di Munchausen per procura”, una delle forme di “ipercura” più gravi: la madre simula nel figlio segni e sintomi di una qualche malattia e lo sottopone in modo “delirante” a visite, cure, interventi sanitari, costringendolo in alcuni casi anche a viaggi internazionali, tanto che Montecchi (2005) parla in questo caso di un vero e proprio “turismo sanitario”. Questo crea nel bambino una situazione di forte stress psicologico, di ansia, di paura. Allo stesso tempo, poi, il bambino ha ripercussioni anche a livello fisico, come conseguenza inevitabile dei continui controlli e ricoveri. E’un disturbo molto serio, che il DSM IV TR (2000) colloca tra i “disturbi fittizi” e che molti autori sono concordi nell’inquadrarlo in un contesto clinico di tipo “psicotico”. Esiste anche la Sindrome di Munchausen (non “per procura”), in cui l’individuo simula su se stesso i sintomi di una malattia per poter ricoprire costantemente il ruolo di “malato” ed essere quindi “curato”. E’un modo evidentemente di utilizzare il “corpo” per manifestare un disagio che è invece di natura fortemente “emotiva”. La sindrome di Munchausen per procura diventa, allora, una sorta di “utilizzo” del corpo dell’altro per soddisfare bisogni emotivi personali. La sindrome di Munchausen prende il nome dal personaggio letterario del Barone di Munchausen, che era noto per le sue storie “fantastiche” accompagnate da viaggi incredibili. La sindrome di Munchausen per procura è anche chiamata “Sindrome di Polle”, dal nome del figlio del Barone. La madre, chiaramente, non desidera “consciamente” danneggiare il proprio bambino, ma “inconsciamente” trasmette su di lui le proprie paure legate alla propria storia di vita. Questo atteggiamento permette alla madre da una parte di scaricare in qualche modo sul figlio la sua aggressività (il bambino, infatti, subisce un forte stress) per cure parentali inadeguate ricevute nella propria infanzia, dall’altra soddisfa il suo bisogno “narcisistico” di sentirsi fondamentale nel “prendersi cura” dell’altro: “senza di me mio figlio sarebbe spacciato, per fortuna che io me ne occupo e lo curo”. Montecchi (2005) individua altre forme di ipercura molto simili alla sindrome di Munchausen per procura:
1) sindrome psicopatologica per procura: tipica di madri “psicologhe” o che svolgono un lavoro “psicologizzato”. Ogni segnale di natura emotiva manifestato dal figlio, viene letto in termini “psicopatologici” per cui frequenti diventano controlli e visite da esperti del settore.
2) pseudo-abuso sessuale per procura: madri che spesso hanno subito nell’infanzia abusi o molestie sessuali, si convincono che il proprio figlio abbia subito abusi sessuali e lo sottopongono a ripetute perizie mediche e psicologiche.
3) sindrome da indennizzo per procura: nel caso di un infortunio del bambino, i genitori descrivono “per lui” una serie di sintomi a cui il bambino si adegua fino a quando non viene indennizzato.
4) chemical abuse: abuso di sostanze chimiche come farmaci, ma anche sostanze innocue come acqua o sale, che il genitore somministra al bambino in dosi eccessive creando danni alla sua salute fisica e psichica. Questo nella errata convinzione che il figlio sia malato.
5) medical shopping per procura: preoccupazione eccessiva per la salute del bambino, che spinge i genitori a consultare continuamente i medici, senza mai però riuscire a rassicurarsi definitivamente. Rappresenta una sorta di “ipocondria per procura” ed è dunque appartenente all’area delle nevrosi d’ansia e fobiche.
Petrone (2005) individua anche il cosiddetto fenomeno dell’Help seekers, in cui la madre si comporta nei confronti del figlio come avviene per la Sindrome di Munchausen per procura, ma con la differenza che la durata del suo comportamento è circoscritta nel tempo e rappresenta un bisogno della madre in un periodo particolarmente difficile della sua vita.
Conclusioni e riflessioni. Come abbiamo visto il tema della pedofilia, e in particolare quello della pedofilia femminile rappresenta un mondo davvero complesso, non semplice da comprendere fino in fondo in tutte le sue molteplici sfaccettature. La psicologia, la psichiatria, la giustizia, la società, i media molto spesso si contraddicono tra loro, non riuscendo a tracciare un quadro esaustivo del fenomeno e non riuscendo quindi il più delle volte ad essere efficace nella comprensione e nella risoluzione del problema. Troppo spesso si punta a risolvere il tutto in un modo troppo “semplicistico”, altre ancora si tende a “sensazionalizzare” quello che in realtà altro non è che “orrore”, orrore per le vittime, orrore per la società, orrore per ognuno di noi. Credo che molto si possa e si debba fare per “sensibilizzare” al problema, per “informare” e quindi per “prevenire”: utilizzare scuola, media, corsi di formazione, convegni e tutto quanto è in nostro possesso per aiutare le povere e innocenti vittime che ogni giorno sono in balia dei pedofili e sia, in un secondo momento, per aiutare anche i pedofili stessi che, prima ancora di divenire dei “mostri”, sono stati loro per primi vittime di gravi abusi e maltrattamenti. Con questo non voglio “giustificare” i pedofili che, anzi, condanno sempre e comunque per il male che commettono sui bambini. Credo, inoltre, che il primo grande aiuto sia inevitabilmente e necessariamente da rivolgere esclusivamente alle piccole vittime. Ciò però non toglie il fatto che per debellare definitivamente questa piaga oscura che sembra da sempre affliggere i nostri animi, sia necessario un intervento di rete che contempli anche la cura e il sostegno del pedofilo. Infatti ritengo che la semplice pena detentiva, benché giusta e meritata, non risolva di fatto il problema. Una volta uscito di prigione il pedofilo avrà sì scontato la sua pena per il male che ha compiuto, ma difficilmente avrà cambiato la sua personalità e le sue “pulsioni”. Non basta la “punizione” e la conseguente “paura della punizione” per risolvere il problema. Più in generale, credo che prima ancora di parlare di “lotta alla pedofilia”, si dovrebbe prima creare tutta una nuova “cultura del bambino”, sensibilizzando la società tutta a quello che è di fatto il mondo del bambino, i suoi sentimenti, i suoi bisogni. Questo porterebbe ad un maggiore rispetto e ad una maggiore considerazione di ciò che in definitiva ognuno di noi è stato e che in qualche modo ognuno di noi ancora è.
Puericultrice criminale: la pedofilia femminile. Dalla diseguaglianza tra i sessi ai tabù più pericolosi da smontare, il fenomeno corre sul web, scrive Rossana Campisi il 7 Luglio 2015. Torniamo a lei: la diseguaglianza tra i sessi. Torniamo per denunciare risvolti che sanno di contraddizioni, tabù evanescenti. Uno tra tutti, la convinzione dell'impossibilità (per una donna) di commettere (come gli uomini) certi gesti orrendi. Impensabili, tecnicamente (quasi) impossibili, come la pedofilia. Sì, quella di una donna, spesso compiuta a danno dei figli. Tenerla nascosta ci aiuta a proteggere certi stereotipi rassicuranti: una mamma non può concepire simili abusi, no per carità. Eppure il fenomeno è in crescita, l'allarme arriva dall'America e i siti internet sono ottimi catalizzatori. In Gran Bretagna, la storia di Vanessa George continua ad occupare ancora paginate di tabloid. Puericultrice alla Little Ted Nursery di Plymouth, la donna è stata giudicata colpevole di aggressione sessuale ripetuta su bambini dai 2 ai 5 anni e di produzione e diffusione di immagini pedo-pornografiche attraverso Facebook. Il caso non è isolato, ce lo conferma Childline, il servizio di assistenza telefonica che ha registrato un aumento del 132% di denunce per aggressione sessuale femminile, al punto che per i media inglesi siamo davanti a una vera «esplosione della pedofilia femminile». Questi i numeri. All'università di Montreal la criminologa Franca Cortoni ha invece voluto fare il punto con il primo studio completamente dedicato alla violenza sessuale. Sono stati coinvolti psicologi e medici, la domanda di partenza è stata: perché una donna si ritrova a commettere il reato che tecnicamente sembra inconciliabile con la sua identità? «Le donne rappresentano il 5% della popolazione dei delinquenti sessuali, una cifra probabilmente sottostimata. Perché? Le vittime d'abuso femminile parlano ancora meno di quelle che subiscono violenza dagli uomini. E' persino difficile da parte dai servizi medici e giudiziari trovare gli aggressori», ha premesso. Reticenti, dunque. Ma non solo, i figli molestati dalle madri se confessano vengono dagli stessi medici definiti spesso "deliranti" e, nella migliore delle ipotesi, consigliati a consultare uno psichiatra. Nella nostra rappresentazione sociale è assurdo pensare che l'abuso sia femminile, e per di più portato avanti da una madre. Il tabù più pericoloso da smontare. «Il 92% delle vittime sono bambini che hanno meno di 9 anni e con un rapporto di parentela filiale. Un terzo delle donne agisce da sola e in genere sceglie come vittime un maschietto, gli altri due terzi lo fa in compagnia di un uomo e sceglie le bambine. Le donne non sono sempre consenzienti ma spesso assecondano il desiderio dell'uomo che le costringe ad atti sessuali in tre e sono questi i casi di violenza più grave, quelli che possono portare anche alla morte le vittime». Cosa fanno queste donne? Le stesse cose concepite nella mente di un uomo: penetrazione digitale o con un oggetto, molestie imposte con la dolcezza o la violenza. La ragione, però, va ben oltre la semplice pulsione alla soddisfazione sessuale. Quale madre sarebbe capace di un incesto di questo tipo? Monique Tardif, psicologa all'Istituto Philippe Pinel, ospedale di psichiatria legale nelle banlieu di Montreal, parla di donne «che hanno alle spalle una storia di violenza sessuale o emotiva durante la loro infanzia, che crescono con una identità fragile e mostrano un'incapacità a costruire relazione sane. Sono le stesse che, plagiate dagli uomini, pensano che certi gesti sui figli siano l'unico modo per salvare la relazione di coppia col proprio compagno». Per evitare una rottura nella loro storia, portano avanti un crimine che è più di una lacerazione: per loro, però, i figli sono colpevoli, dunque il senso di colpa è distante. Assente. C'è erotismo e vendetta in quel momento. Poi ci sono le madri che scambiano l'approccio sessuale come quello più intimo, una prosecuzione del loro amore, una forma estrema. Quelle che arrivano a identificarsi quasi col corpo di quei bambini creati da lei, al punto da non sentire il confine tra le due persone. «Davanti ai giudici non manifestano pentimento per il male commesso verso i figli, semmai dolore per aver perso lo status di madre. Il loro gesto appare avvolto da un'aura di romanticismo, nulla di cui vergognarsi». Nulla di sano, ovvio. La velocità e la facilità con cui gli effetti di queste dinamiche possono viaggiare on line, infine, contribuiscono a normalizzare questa devianza sessuale. Un po' come dire, non sono isolata, faccio parte di un circuito che legittimizza quasi questo gesto. Dalla Cortoni alla Tardf, però parlare di esplosione del fenomeno è troppo. Spesso sono gli ex compagni delle donne che, per vendetta, denunciano le madri di molestie sessuali verso i figli. Quindi attenzione. Il tema è già di per sé delicato e grave per affrontarlo con l'approccio sensazionalistico e la deriva paranoica delle generalizzazioni. Dagli Usa al Canada, sono molte le donne che lavorano con i bambini vittime di accuse di violenza sessuale. A metà tra il tabù e la furia mediatica, forse è meglio lasciare posto al buon senso, unica strada percorribile, se è il caso, per vigilare sulla realtà delle cose e intervenire con un programma terapeutico personalizzato. Tutti concordi?
Il documentario di Amy Berg sulla pedofilia a Hollywood. Pedofilia Femminile: Non Se Ne Parla Ma Esiste, Ed È In Aumento. Non se ne parla ma esiste. Su questo argomento se ne sa veramente poco e poco è stato scritto in merito. Parlare di donne pedofile non è nè comune ne' semplice in quanto, nell'immaginario collettivo, il termine "pedofilia" viene associato al sesso maschile, al quale è stato sempre affidato un ruolo "attivo": la pedofilia è infatti "azione". E' considerata quindi, come la maggioranza delle parafilie, una patologia rara nel sesso femminile. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, complice la mancanza di informazione, la parafilia colpisce anche le donne, contraddicendo il tradizionale giudizio clinico che ha sempre sostenuto la rarità delle perversioni nelle donne. Da esaurienti studi clinici è emerso che le dinamiche delle fantasie perverse femminili sono più sottili ed imprevedibili rispetto alla sessualità maschile e quindi difficilmente identificabili e riscontrabili. Infatti, gli esperti hanno riscontrato che il vovyerismo, il frotteurismo, il feticismo, sono riscontrabili quasi esclusivamente nei maschi; così come il sadismo sessuale è raramente presente nei soggetti femminili, mentre il numero dei masochisti di sesso maschile è di gran lunga più alto di quello relativo al sesso femminile. Lo stesso si può dire della pedofilia. Invece, l'unica parafilia dove i soggetti di sesso femminile sono in numero paragonabile a quelli di sesso maschile è la zoofilia.
Le cause. Cause scatenanti la pedofilia femminile possono essere la separazione, l'abbandono, la perdita. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l'esasperazione nell'attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. Dal ruolo "passivo" che l'ha vista vittima e sottomessa -non avendo una propria autonomia economica e sociale fino ad alcuni decenni fa e quindi costretta a nascondere tale aspetto perverso della sessualità- la donna tenta in tal modo il riscatto ed una propria affermazione in un ruolo "attivo", grazie alla rivoluzione sociale che la rende così indipendente e libera. Tenendo presente che la pedofilia femminile intra-familiare ha caratteristiche differenti dalla pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche, preferendo mete lontane come luoghi di abbordaggio, si può affermare con certezza che tale fenomeno e' comparso, all'incirca, intorno agli anni '70. In quel periodo donne americane e canadesi, per lo più divorziate e vedove, favorite dall'emancipazione economica, hanno iniziato a recarsi verso spiagge lontane alla conquista dei "beach boys" soprattutto, ma anche delle "beach girls" che potevano farle sentire, al suono di 100 dollari, "regine per una notte". Alcune indagini giornalistiche come quella del settimanale Panorama, hanno messo in luce che oggi l'età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bimbi di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e, ad un tempo, l'appagamento materno. Esse, tuttavia, potendo difficilmente usufruire di infrastrutture organizzate al loro servizio come i pedofili maschi, sono costrette ad abbordare i ragazzini per strada e a viaggiare senza la protezione di un'articolata rete di agganci. Infatti non hanno alle spalle la tutela di organizzazioni che garantiscono loro la certezza di raggiungere il luogo di destinazione avendo già tutto stabilito, come accade per la maggior parte dei pedofili maschi. Differenti sono le mete. Le donne nordamericane si indirizzano, per la maggior parte, verso i Caraibi; mentre le europee provenienti dai ricchi paesi occidentali preferiscono come mete il Marocco, la Tunisia e il Kenya e per le destinazioni più lontane la Giamaica e il Brasile. La Thailandia invece, è la meta preferita dalle donne giapponesi che, con i voli charter, raggiungono i centri specializzati in massaggi sadomaso di Bangkok. E a Marrakesh trascorrono dei periodi le scandinave e le olandesi che consumano notti d'amore in acconto, cioè se la notte trascorsa non è stata soddisfacente la prestazione non viene pagata.
Gli strumenti. Sulle donne che praticano la pedofilia all'estero, si è saputo che per permettere l'atto sessuale, vengono iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni degli ormoni e droghe. Poco si conosce sull'uso di tali sostanze, a parte gli effetti collaterali estremamente sgradevoli per il minore. Dalla testimonianza di volontari dello Sri Lanka, si apprende che sono le donne pedofile stesse (la maggior parte svizzere e tedesche) a portare le droghe da iniettare nei bambini. Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale causa l'abnorme ingrossamento dell'organo sessuale ad un ragazzino di 11-12 anni che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni.
Conclusioni. E' difficile tracciare un quadro completo e ben delineato del fenomeno "pedofilia femminile". Essa, come quella maschile, si cela all'interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Ma esattamente come succede per i pedofili maschi, le donne pedofile evadano dalla comune realtà ricercando altrove gli oggetti dei loro spasmodici ed incomprensibili desideri: i meninos de rua, i bambini di strada. Come di consueto, quindi, per chi pratica la pedofilia, i soldi diventano lo strumento che compra il silenzio e l'accondiscendenza dei piccoli. In questo senso, tra uomini e donne - "pedofili" - non vi è alcuna differenza. Greta con la collaborazione di Nicoletta Bressan, consulenza a cura del Dott. Sergio De Martino
(...) La nuova emergenza (...) riguarda un notevole aumento della pedofilia femminile. Nel 2003 l’Associazione Meter aveva scoperto 5 siti internet di donne pedofile contenenti materiale fotografico e slogan di promozione e diffusione della pedofilia femminile. Ciò che può far scattare la propensione pedofilica o più marcatamente infantofila nel sesso femminile è un rifiuto verso il mondo adulto, ossia un fermo proposito di non crescere, per non diventare come coloro che, a livello inconsapevole, sono fatti oggetto di disprezzo e svalutazione. All’origine di questo atteggiamento psicologico potrebbe esserci un abbandono, una separazione o un’esperienza di abuso, eventi vissuti in maniera estremamente traumatica e che non sono stati elaborati e quindi risolti, con la conseguente coazione a riviverlo. Alcune donne hanno subito abusi da bambine e l'esasperazione nell'attività sessuale pedofila è riconducibile al tentativo di vendetta sugli uomini, per fare riemergere la propria femminilità. La dinamica pedofilica si può profilare anche come condotta d’appoggio ad un partner. In questi casi la donna, per amore o dipendenza dal compagno, diventa portatrice delle stesse tendenze, a scopo di comunione e condivisione. In questi casi si parla di “pre-pedofilia” per sottolineare il ruolo periferico della donna. Tenendo presente che la pedofilia femminile intra-familiare ha caratteristiche differenti dalla pedofilia femminile che si manifesta al di fuori delle mura domestiche, preferendo mete lontane come luoghi di abbordaggio, si può affermare con certezza che tale fenomeno è comparso, all'incirca, intorno agli anni '70. Alcune indagini giornalistiche, hanno messo in luce che oggi l'età di queste donne varia dai 25 anni circa ai 50 anni, mentre le motivazioni che le spingerebbero ad alimentare il desiderio di vivere una notte di sesso con bambini di 6-7 anni o di 11-12, sono sempre le stesse: la soddisfazione sessuale e, ad un tempo, l'appagamento materno. Sulle donne che praticano la pedofilia all'estero, si è saputo che per permettere l'atto sessuale, vengono iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni degli ormoni e droghe. Poco si conosce sull'uso di tali sostanze, a parte gli effetti collaterali estremamente sgradevoli per il minore. Dalla testimonianza di volontari dello Sri Lanka, si apprende che sono le donne pedofile stesse (la maggior parte svizzere e tedesche) a portare le droghe da iniettare nei bambini. Secondo il resoconto di una dottoressa che ha visitato alcuni di quei bambini, il trattamento ormonale causa l'abnorme ingrossamento dell'organo sessuale ad un ragazzino di 11-12 anni che non tollera più di 5-6 di tali iniezioni. Fonti: aquiloneblu.org e psicoterapie.org - tratto da violenza-donne.blogspot.it
Il dramma della pedofilia femminile: un disturbo mentale sconvolgente. Cos’è, quanti sono i casi in Italia e come interviene la polizia. Il ruolo sempre maggiore del web, scrive “Il Corriere della Sera” l'11 giugno 2010. Pochi ne parlano o forse pochi ne conoscono l'esistenza. E' un tabù, una stridente contraddizione in termini, uno choc: è la pedofilia femminile. Di questo si occupa la terza puntata di Vanguard Italia, la serie di video-reportage realizzati e prodotti dal network italiano di filmmaker, freelance, giornalisti indipendenti e reporter di Current, in onda mercoledì 16 giugno alle ore 21.10 sul canale 130 Sky. Cos’è la pedofilia femminile? Quanti sono i casi in Italia? Come interviene la polizia? L'inviata Vanguard Isabella Angius ne parla con medici, poliziotti, investigatori, studiosi e raccoglie per Current una serie di testimonianze dirette di familiari delle vittime, nonché ricostruzioni reali di donne autrici di abusi su minori. La pedofilia rientra tra i disturbi mentali, in psichiatria si definisce parafilia ovvero interesse sessuale patologico verso bambini sotto i 13 anni. Nello stereotipo culturale il pedofilo è maschio. Invece anche le donne possono esserlo, in una percentuale attualmente compresa tra l’8 e il 12% del totale. Spesso hanno un ruolo passivo e lasciano all’uomo un ruolo attivo, come nel caso della testimonianza di una pedofila che arrestata confessa: «Adoravo il mio fidanzato. Era affascinante come Steve Mc Queen. Era lui che mi chiedeva di coinvolgere mia figlia». Di pedofilia femminile si parla per la prima volta in America intorno agli anni '70 e soprattutto in relazione al fenomeno del turismo sessuale, spiega ai microfoni di Current lo psicologo giudiziario Carmelo Dambone dal suo ufficio alla Procura di Monza, dove interroga i minori vittime di abusi a sfondo sessuale. Su circa 600 casi di pedofilia trattati nella sua carriera, Dambone si è imbattuto in almeno 7 perpetrati da donne, «per lo più tra i 30 e i 45 anni - specifica - per la maggior parte sposate e con figli ma solitamente con trascorsi di violenze sessuali o divorzi». Cifre ancora troppo sottostimate secondo Loredana Petrone, psicologa e sessuologa autrice del libro 'E se l'orco fosse lei?'. «Pensare che una donna possa essere un'abusante sessuale - spiega Petrone - è raccapricciante, è sconvolgente perché la donna è associata all'idea di mamma. Teoricamente una madre non potrebbe mai danneggiare un bambino. Per questo molte vittime rettificano la loro versione dicendo di essere state abusate da uomini». Un dato però è certo: la baby sitter che abusa dei bambini rientra perfettamente nella casistica. È quello che tristemente si può definire un classico. «Chi è interessata ai bambini - chiosa la psicologa - farà lavori in cui potrà stare con i più piccoli». A fare emergere più chiaramente la diffusione della pedofilia femminile negli ultimi anni ha contribuito senza dubbio il web. Su internet sono sempre di più le immagini o i filmati pedopornografici che coinvolgono donne e soprattutto mamme. Al Centro Nazionale della Polizia di Stato per il contrasto alla pedopornografia i poliziotti parlano di oltre 570 siti nella blacklist della Polizia Postale. «Dalle comunità virtuali - raccontano gli agenti - arrivano i consigli per l'uso, le raccomandazioni e le piste per ottenere materiali e minori da poter abusare. Il prezzo lo impone la qualità e soprattutto la novità delle immagini. E' importante sottolineare - avvertono - che il clic alimenta la produzione e quindi l'abuso di produzione di questo materiale». E dunque l'incrermento dei casi, come confermano i dati riportati da Barbara Forresi dalla sede centrale a Milano di Telefono Azzurro: «Negli ultimi due anni, il 12% delle violenze sessuali denunciate su segnalazioni giunte al Telefono Azzurro hanno autrici donne». Luigi Colombo è psicanalista. Gestisce a Milano, insieme a altri medici, un centro per sex offender e da anni si occupa del recupero di pedofili. Tra le donne attualmente in cura la più giovane ha 25 anni, la più adulta circa 55. «Molte - assicura Colombo - riescono a tornare a una vita normale a sfruttare anche le possibilità dell'inserimento sociale. Soffrono molto durante la carcerazione e questo gli consente veramente di voltare pagina e di rettificare certi comportamenti».
Pedofilia femminile: le caratteristiche psicologiche delle donne pedofile. Scrive Igor Vitale il 7 agosto 2014 su Psicologia Clinica e del lavoro. Al fine di dare una spiegazione generale del fenomeno pedofilia, è bene accennare quale sia il suo significato. Il primo a darne una definizione, in ambito psichiatrico, è stato Auguste Forel nel 1905. Nel farlo, ha accorpato due termini di origine greca, paidòs (bambino) e filìa (amore), che insieme indicano amore per il bambino. In realtà questa definizione può sembrare ambigua, ma ciò a cui ci si riferisce veramente è un amore con forte accezione erotica, praticata da un adulto nei confronti di un bambino. Si parla di un bambino in età pre-pubere, ovvero che non ha intrapreso il suo sviluppo psico-sessuale e che, di conseguenza, non ha ancora consapevolezza di sé e del proprio corpo. Passiamo ora a vedere cosa sia la pedofilia e quali le sue possibili cause. Come è risaputo, da un punto di vista giuridico, la pedofilia è condannabile, in quanto reato. “In realtà, la spiegazione di questo fenomeno è spesso confusa, incompleta e nel peggiore dei casi anche non propriamente corretta. Pedofilia è diventato di fatto sempre più un termine usato e spesso abusato”. Infatti il fenomeno della pedofilia si ripercuote in tutti i campi, dal comportamento umano fino al suo sviluppo psicologico, sociale, culturale, giuridico, morale, religioso e perfino economico. In particolare, da un punto di vista psicologico, è riduttivo cercare un movente comune che possa spingere un essere umano verso l’atto della pedofilia. È vero, invece, che risulta necessario indagare quale sia il background della persona che arrivi a compiere questo gesto. “Nessun istinto mi sembra così complesso e spesso indecifrabile come l’istinto sessuale, sempre in bilico fra natura e cultura, fra storia personale e storia collettiva, fra la semplicità dell’impulso e la complicazione dei circuiti mentali”. Come ben espone la Valcarenghi, nella sua concezione psicoanalitica, è possibile che il fenomeno della pedofilia faccia parte della sfera istintiva umana e che una sua possibile esternazione sia bloccata dalle norme morali, imposte dalla società e dalla cultura. “Perché, che si tratti di un istinto represso o di una perversione, di un comportamento naturale o contro natura, in ogni caso un solo dato è certo: è dall’inconscio che l’impulso pedofilo arriva alla coscienza”. Per quanto riguarda le possibili cause alla base di una manifestazione pedofila, è bene rimarcare il fatto che non esiste un movente comune. In realtà è facile pensare che un soggetto che abbia subito abusi nell’età infantile sia maggiormente propenso ad un comportamento pedofilo, ma ciò risulta essere per lo più inesatto. Difatti è vero, per quanto il contenuto pedofilo sia inconscio e qui sia trattenuto da un divieto e da un’inibizione, è anche vero che i freni inibitori possano venir meno a causa di una struttura morale carente o anche, naturalmente, in seguito ad un trauma. Se è vero che il fenomeno della pedofilia viene riconosciuto come scabroso, e generalmente associato al genere maschile, lo è ancor di più se lo si pensa in un’ottica femminile. Se ne parla poco, non perché gli episodi di pedofilia femminile non avvengano, quanto piuttosto per il fatto che si tende a celare la figura della donna dietro la maschera di madre e caregiver. “Descrivere similitudini e differenze tra i generi sessuali del childmolester promuove una consapevolezza sociale, poco diffusa e spesse volte rinnegata, dell’esistenza anche di un femminile capace di maltrattare, offendere e abusare anche sessualmente i bambini”. Questo fenomeno rappresenta difatti un tabù in quanto in contrasto con quelle certezze razionali, sociali, culturali ed emotive radicate da sempre nella credenza comune. Per quanto sconcertante, la pedofilia femminile non è una novità dei nostri giorni, in realtà la storia ci restituisce dei casi da tempi ben più antichi. Lo stesso Petronio, infatti, narrava di un gruppo di donne compiaciute dinanzi allo stupro di una bambina di sette anni. “Era una racconto, non una testimonianza, ma era tuttavia possibile immaginarlo”. Questa affermazione sta ad indicare come il pensare comune del tempo rendeva la donna capace di un possibile atto pedofilo. Oggigiorno, al contrario, il pensiero sociale è portato a difendere la donna, ma la realtà è un’altra: la pedofilia femminile esiste e, seppur i casi riportati siano pochi, questi ci sono e sono reali. Proprio perché pochi e nascosti, i casi di pedofilia femminile non aiutano la comunità scientifica ad inquadrare al meglio questa scomoda realtà.
Caratteristiche delle donne pedofile. Nonostante ciò, sono state individuate una serie di caratteristiche comuni nelle donne sex offender. Sono emerse storie pregresse di maltrattamento infantile, disturbi mentali e della personalità, addiction da sostanze stupefacenti, assenza di intimità o difficoltà nelle relazioni intime, una predisposizione a scegliere quali vittime principalmente bambini e adolescenti, una tendenza ad agire contro familiari o su coloro che hanno una conoscenza con le stesse vittime, una tendenza ad agire abusi sessuali concertata con il proprio partner. In particolare, lo studio effettuato da Mathews, Matthews e Speltz nel 1989 individua tre tipologie di donne sex offender:
a) Male-coerced: tali donne si mostrano passive e dipendenti, hanno conosciuto abusi sessuali o relazioni intime problematiche e, spesso spinte dalla paura di essere abbandonate, vengono costrette ad agire abusi sessuali sui propri figli;
b) Predisposed: tali donne sono accomunate da storie incestuose o di vittimizzazione sessuale, difficoltà psichiche e fantasie sessuali devianti e una tendenza a vittimizzare i propri figli o altri bambini facenti parte della loro rete familiare;
c) Teacher/lover: queste donne, spesso accomunate da difficoltà nelle relazioni affettive con i propri partner coetanei, scelgono come vittime delle loro esperienze sessuali pre-adolescenti con i quali intrattengono relazioni di fiducia nelle sembianze di insegnanti o tutor. Le vittime, confuse da tali atteggiamenti di cura e protezione, non considerano tali pratiche sessuali come dannose o devianti.
Secondo la classificazione di Kaplan, invece, le donne pedofile possono essere classificate in due gruppi: le cosiddette prey to predator, cioè coloro che sono state vittimizzate nell’infanzia, e le self-made predator, cioè coloro che provano piacere sessuale nei confronti dei bambini. Secondo Saradjian e Hanks (1996), l’abuso può scaturire da un sentimento di ribellione nei confronti del bambino che disobbedisce, rappresentando la giusta punizione per il comportamento del bambino. Tra le figure di madri abusanti emergono anche coloro che trattano i figli come una proprietà, prendendosi il diritto di gestirne il corpo e facendo apparire l’iniziazione alle pratiche sessuali come un atto educativo. Una riflessione autorevole sulla pedofilia, ed in particolare sulla pedofilia femminile, ci viene offerta da Marina Valcarenghi, la quale sostiene che le donne pedofile non vengono solitamente prese in considerazione perché sono pochi i casi che vengono alla luce. Questo deriva anche dal fatto che le donne trasgrediscono la legge molto meno degli uomini, perciò si pensa che la minore incidenza del comportamento trasgressivo riguardi anche la sfera sessuale. La pedofilia femminile, inoltre, si orienterebbe sia all’interno della famiglia, sia verso il turismo sessuale. Naturalmente, il turismo sessuale femminile si sviluppa secondo modalità diverse rispetto a quello maschile, in quanto spesso le anziane signore che si dirigono verso paesi dell’Africa e dell’America latina e si accompagnano a ragazzini molto giovani accetterebbero anche amanti più adulti. Esse infatti desiderano nella maggior parte dei casi solo divertirsi senza condanne sociali. Le donne sembrano inoltre manifestare una minore tendenza alla pedofilia incestuosa rispetto agli uomini e spesso, coloro che la manifestano, sono donne fragili che utilizzano i figli maschi come oggetti sessuali compensatori. I freni inibitori di tali donne si disattivano non solo per la mancanza di una coscienza morale, ma anche per una confusione emotiva che le porta a vivere in maniera caotica qualsiasi relazione. La pedofilia affettiva fuori dal nucleo familiare, invece, si dirigerebbe secondo la Valcarenghi verso gli adolescenti. Queste donne sono spesso alla ricerca di conferme narcisistiche, che fantasticano un amore fuori dalle regole, che reagiscono a una delusione da parte di un uomo adulto, o che compensano una grave insicurezza che impedisce loro di affrontare i coetanei. È curioso esplorare l’altro lato della pedofilia femminile, ovvero quello passivo. Petrone (2005) parla in questi termini di “pre-pedofilia”, la quale indica l’atteggiamento non direttamente agito dalla donna nei confronti del bambino quanto piuttosto condiviso. Il vero protagonista dell’atto pedofilo è in questi casi l’uomo, di cui la donna si fa complice. Nonostante la donna si spogli delle sue responsabilità compie ugualmente una forte violenza ai danni delle piccole vittime, soprattutto per il fatto che il suo ruolo sarebbe invece quello di proteggerle. Secondo Mendorla (2005), dietro questo fenomeno passivo si nasconde una paura della donna, quella di perdere l’attenzione e l’interesse del proprio compagno, è così che pur di non essere abbandonata suggerisce essa stessa una relazione “sostitutiva” con la figlia. Ecco allora che i figli diventano l’oggetto delle attenzione sessuali all’interno della coppia genitoriale.
Se l'orco è donna. Scritto da Eugenio Cortigiano Venerdì 04 Marzo 2011. Vanguard, tramite il canale satellitare Current, ha recentemente presentato un reportage sugli abusi e violenze sessuali perpetrati ai danni di minori o degli stessi figli da parte delle donne. Madri, baby sitter, vicine di casa, insegnanti. Il fenomeno presenta il triste aumento del 137% negli ultimi anni, contro il 23% di aumento degli abusi da parte degli uomini, anche se molto probabilmente sono solo le segnalazioni e le denunce ad essere aumentate, mentre prima rimaneva sottotraccia. In Italia nel 2005 è stato presentato forse l'unico libro sull'argomento, scritto a 4 mani dalla Dott.ssa Petrone e dal Dott. Mario Troiano, psicologi e psicoterapeuti esperti di abusi su minori, dal titolo E SE L’ORCO FOSSE LEI?, edizioni Angeli. Questo libro mette in luce il fenomeno degli abusi al femminile e della pedofilia femminile. Parlare di donne abusanti e pedofile non è né comune né semplice, anche perché da sempre alla donna viene associato l’istinto di maternità che esclude, a priori, l’idea dell’abuso sui bambini. Pertanto, quando si parla di pedofilia, nell’immaginario collettivo scatta automaticamente la figura dell’uomo: giovane, di mezza età o anziano, ma pur sempre di sesso maschile. In realtà, la pedofilia colpisce sia uomini che donne. Per questo motivo la “pedofilia al femminile” è un campo di studio ancora poco esplorato e per questo agli autori va il merito di aver puntato l’attenzione su un fenomeno che deve essere conosciuto e compreso, al fine di predisporre tutte quelle opportune forme di prevenzione e tutela di un bene fondamentale quale è quello dell’integrità della salute psico-fisica del minore. Vi sono diverse tipologie di donne pedofile: la pedofilia latente, occasionale, dalla personalità immatura, regressiva, la pedofilia aggressiva, la pedofilia omosessuale. E’ tuttavia difficile tracciare un quadro completo e ben delineato di questo fenomeno. La pedofilia femminile, come quella maschile, si cela all’interno delle mura domestiche, tra segreti, sentimenti di amore-odio e rapporti pericolosi. Per approfondire almeno parzialmente l'argomento pubblichiamo inoltre un articolo pubblicato sul sito ADIANTUM, una associazione che raccoglie le associazioni che in Italia si occupano di tutela dei minori, che ringraziamo per la disponibilità alla pubblicazione. Il sito del Canadian Children’s Right Council (Consiglio per i diritti dei bambini canadesi) riferisce che le insidie più comuni per un bambino sono i parenti: le madri in cima alla lista. Ma in realtà chiunque potrebbe rappresentare un pericolo per un bambino come: baby-sitter, vicini di casa, insegnanti ecc. Le vittime di abusi sessuali materni non si trovano a combattere solo con il dramma del ricordo, ma anche con l’estremo isolamento nel quale si sentono scaraventate; convinte che pochi o nessuno sarà disposto a credere alla verità che portano dentro. L’abuso madre-figlia/o è un argomento che riceve poca attenzione da parte dei ricercatori, servizi di supporto e dai media. Il rapporto sessuale tra madre e figlio/a spesso è accolto con scetticismo o shock da parte di parenti, amici e anche dai professionisti della salute mentale. La società si aspetta che sia l’uomo a macchiarsi del crimine più turpe che l’umanità abbia mai conosciuto, certamente non la madre. L’abuso sessuale è da sempre invischiato nel contesto del potere maschile e dell’aggressività. Quest’ultima viene spesso considerata strettamente collegata al primo.
Il profilo socio-psicologico. Le principali cause scatenanti l’abuso sessuale materno possono essere: la separazione, l’abbandono e la perdita del coniuge. Alcune donne possono essere state a loro volta vittime di abusi intrafamiliari come abusi emozionali, maltrattamento fisico e/o incuria, traumi che possono aver contribuito all’emergere di un sentimento di rivalsa per quell’innocenza rubata. Dopo anni di violenze subite, nell’età adulta può nascere in loro il desiderio di dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stesse, la propria femminilità ricoprendo un ruolo attivo, scegliendo la vittima tra le vittime, i loro figli. Altre cause possono essere individuate nell’assenza di una figura parentale durante l’infanzia o nella responsabilità precoce nel dover sostenere economicamente la famiglia. Depressione, sentimenti di alienazione e isolamento, un passato di attività sessuale compulsiva o indiscriminata, abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti. Matthews chiama questa tipologia il “tipo predisposto”, in cui l’abuso su minore in età adulta, è facilitato da abusi sessuali subiti nella propria famiglia d’origine. La causa dell’abuso può essere attribuita più ad aspetti situazionali o ambientali che a caratteristiche individuali. Gli abusanti di questo tipo possiedono una personalità immatura perché spesso si trovano ad anteporre le proprie esigenze a quelle dei propri figli, e cercano da loro, sostegno emotivo; meccanismo che spesso porta a un rovesciamento di ruoli (Mitchell e Morse, 1998; Rosencrans, 1997). Secondo l’opinione di Finkelhor e Araji, l’eccitazione sessuale si riferisce alla risposta fisiologica suscitata da pensieri o azioni sessuali con minori, e può in parte essere il risultato di un condizionamento da precedenti esperienze traumatiche. Per blocco ci riferiamo a un’incapacità di soddisfare i bisogni sessuali o emotivi attraverso relazioni eterosessuali/omosessuali adulte, per motivi di sviluppo o situazionali. La disinibizione può essere aggravata da fattori di stress ambientali e personali. La madre abusante spesso non possiede una ben chiara demarcazione riguardo ai confini da rispettare nel rapporto con i propri figli. Molte volte la figlia abusata può essere percepita come un’estensione fisica del proprio corpo. Le vittime rischiano di non riuscire ad attribuire un senso al proprio sé, come persona emotivamente, fisicamente e sessualmente “altra” rispetto alla figura abusante (Rosencrans, 1977; Fitzroy, 1997). Tra le donne abusanti, non devono essere comprese solo quelle che in prima persona si macchiano del crimine, ma anche coloro che per paura di essere abbandonate dal compagno/coniuge, cedono la propria figlia come dono sessuale. In questa relazione incestuosa che ha il sapore di un patto demoniaco, il legame ancestrale tra madre e figlia assume l’aspetto necrotico di un tessuto familiare impossibile da ricostruire. Una delle principali motivazioni addotte dalle stesse donne è la paura di essere lasciate dal partner, e per impedire che ciò avvenga sono disposte a soddisfare ogni sua richiesta, spingendosi anche al di là del limite, costringendo i propri figli a partecipare alle attività sessuali della coppia. Questa tipologia di donne può essere ricondotta al disturbo di personalità dipendente, contraddistinte cioè da grande vulnerabilità ed estremo bisogno di essere amate. Si legano affettivamente in modo intenso a figure inappropriate e si rivelano smodatamente dipendenti dalle decisioni altrui, bisognose di rassicurazioni e in preda a terrori abbandonici. La terza tipologia di donna che può definirsi responsabile dell’abuso ai danni di uno o più dei suoi figli, è la madre “ambivalente”. È una madre consapevole degli abusi che il padre biologico dei suoi figli o il compagno mette in atto. È una donna e una madre vile, che non ha il coraggio di prendere una posizione, teme la disgregazione della famiglia a causa di una possibile carcerazione del proprio partner e ripercussioni economiche. L’ultima tipologia di madri che vivono l’abuso intrafamiliare nel silenzio delle mura domestiche è rappresentata dalla madre “poco protettiva”, che priva il proprio bambino di qualsiasi sostegno affettivo. Spesso si rivelano personalità fragili, con esperienze di depressione, vittime di abusi emotivi, trascuratezza o addirittura abuso sessuale nella propria infanzia e/o adolescenza. Possono essere assoggettate al partner perché violento nei loro confronti. La paura interiorizzata in anni di deprivazioni e violenze, atrofizza la loro capacità di carpire gli abusi e di agire per opporvisi. Come afferma Furniss: «l’incesto e l’abuso continuato a lungo termine sono improbabili in una famiglia con un rapporto madre/figlia improntato a sentimenti di fiducia e protezione» (Everson, 1997).
Le risposte della vittima all’abuso. Vittime di abusi materni, quando decidono di confidarsi con qualcuno riguardo all’orrore subito proprio da quelle braccia “protettive”, vengono spesso attaccate con frasi del tipo: «Lei è pur sempre tua madre, dovresti provare a parlarle». Tendono a sentirsi molto confuse riguardo al significato attribuito all’esperienza subita. Le risposte all’abuso possono configurarsi mediante la negazione della violenza: «Mia madre non avrebbe mai fatto una cosa del genere a me, sono la/il sua/o bambina/o», o attraverso la minimizzazione dell’abuso: «Come poteva essere cattiva. Il suo modo di agire non era violento». Per le vittime, la duplice immagine della madre come fonte di vita e allo stesso tempo di morte “potenziale”, così come l’identificazione con l’abusante come donna e madre, può essere fonte di grande dolore e angoscia (Rosencrans, 1997; Fitzroy, 1997). Altre vittime invece colpiscono duramente questi comportamenti, percependo peggiore l’abuso perpetrato dalle madri, rispetto a quello paterno. Una ragazza abusata dal padre dall’età di cinque anni con rapporti sessuali completi e rapporti orali durati fino all’età di undici anni, ha riferito in seguito che le violenze subite da suo padre sono state meno invasive di tutti gli abusi sessuali che fu costretta a subire dalla madre e dalla nonna (Denov, 2004). Si percepisce quel senso profondo di tradimento quando l’abusante è la madre perché è come se non esistesse più un posto sicuro in cui rifugiarsi, è come se non esistesse più nessuna persona verso la quale tendere le braccia per essere consolati e rassicurati dalle paure del mondo esterno. Come dice Alice Miller, il ricordo del dolore subito è così difficile da superare che l’autoinganno è sempre in agguato. Per il bambino maltrattato è impossibile vivere in maniera cosciente le violenze subite che vengono immagazzinate sotto forma di reminescenze inconsce. L’autoinganno sta nel fatto che, anche se non è consapevole della sofferenza passata, i ricordi immagazzinati cominceranno a premere a poco a poco, e come truppe nemiche cercheranno di abbattere le mura cinte che i nostri meccanismi di difesa erigono per proteggerci. Queste spinte che vengono dal profondo, a volte inducono l’adulto a mettere in atto scene già vissute, e come in un déjà vu la violenza tende a riproporsi in una sequela instancabile atta ad esorcizzare le paure mai sopite. Nelle vesti del carnefice si ritrova a ripetere quegli atti brutali, permettendo così alle sue inquietudini di placare il loro grido. A volte, quando le vittime di abuso materno riescono ad ammettere a se stesse la relazione incestuosa con la figura di attaccamento, una delle soluzioni per liberare se stesse dalla visione di una madre orrifica, è trasferire la colpa sulla propria persona, come se dicessero: «se mia madre mi ha fatto questo ci deve essere qualcosa di sbagliato in me, perché lei è mia madre, non avrebbe agito così se non lo avessi meritato». Questo meccanismo di difesa assunto da molte vittime adulte di abuso intrafamiliare, è un processo inconscio, un bisogno di protezione che consiste nell’identificazione con la figura dell’aggressore. Nell’incapacità di comprendere perché è costretta a subire quelle violenze, la vittima cerca inconsciamente di giustificare il suo aggressore sminuendo l’atto aggressivo, rendendo così, l’esperienza meno traumatica. È la sindrome di Stoccolma[3], con una maggiore probabilità di manifestarsi tanto più a lungo si è perpetrato l’abuso, quanto più la vittima è giovane e di sesso femminile. Se l’autrice dell’abuso percepisce se stessa come una vittima delle circostanze o del proprio compagno, il vero oggetto della violenza, il bambino, potrebbe provare compassione nei suoi confronti con conseguente paura di perderla. Questa dinamica rende assai difficile per le vittime vedere la propria madre come la vera responsabile del trauma. Alcune persone hanno l’abitudine a creare un’immagine dell’altro, facendo riferimento a categorie estreme, cioè come buono o cattivo. Per i bambini questa modalità di pensiero rappresenta la norma. Per le vittime di questi abusi, questo comune codice di ragionamento può guidare il loro comportamento per tutta la vita, impadronirsi di loro, destabilizzando la loro intera esistenza. Mentre i padri incestuosi possono servirsi della violenza instaurando in famiglia una sorta di clima del terrore, la madre incestuosa raramente si mostra violenta; il ruolo di madre le è sufficiente a manipolare il proprio bambino inducendolo in maniera subdola a fare ciò che le sue perversioni pretendono. In alcuni nuclei familiari invece, il padre può essere percepito come un estraneo dalla madre; quest’ultima vedendosi come l’unica figura genitoriale in grado di accudire i suoi figli, potrebbe sviluppare un rapporto morboso, come se detenesse un diritto esclusivo sui bambini. In altre situazioni invece, il marito/compagno della donna può essere violento, e il figlio maschio può sentirsi in diritto di difendere la madre dalle aggressioni, diventandone anche l’amante. In entrambi i modelli familiari disfunzionali, il bambino è costretto a subire un ribaltamento di ruoli, non più come oggetto di cure da parte soprattutto della figura materna, ma come adulto desideroso di compiacerla, rassicurarla e proteggerla. A causa di questo cambio d’“abito”, la violenza subita prima o poi prenderà il pagamento del proprio pedaggio. Senza rendersene conto potrebbe diventare un uomo molto remissivo, sentendosi in dovere di proteggere la propria partner sessuale come faceva da bambino con la propria mamma. Alcuni uomini, vittime di abusi durante l’infanzia/adolescenza, scelgono di difendersi dal ricordo traumatico attraverso un atteggiamento di costante stato di collera o di rabbia – una delle poche emozioni considerate socialmente accettabili per gli uomini. Un atteggiamento potrebbe essere quello avversativo nei confronti di tutte le donne indistintamente, diventando manipolatore, maniaco del controllo, inaffidabile e violento. Molti altri affrontano l’abuso annebbiando i ricordi con l’abuso di alcool, sostanze stupefacenti, evitando addirittura i rapporti intimi; intorpidendo i loro sentimenti, si costringono a non vedere le cicatrici, cadendo preda della depressione e dell’ansia. Molte donne abusate dalle proprie madri vedono riflessa nei loro occhi l’immagine della propria figura di attaccamento, costringendosi a vivere un’esistenza triste sia come donna che come madre. Possono sviluppare la convinzione di poter rappresentare un pericolo per i bambini e di non poter restare sole in loro compagnia. Questo sentimento d’inaffidabilità può indurle a desistere dal diventare mamme.
Da abusate ad abusanti: correlazioni e predisposizioni nella pedofilia femminile. Di Cristina Casella. La condotta di abusante può trovare spiegazione nelle relazioni traumatiche sostenute con il mondo adulto. Il comportamento deviante, infatti, è rintracciabile in vecchi traumi non riconosciuti come tali dalla vittima. I traumi possono bloccare ed ostacolare un corretto sviluppo della personalità, facendo irruzione improvvisamente nella vita adulta e relegando il comportamento sessuale all’interno di schemi infantili. La donna abusante, quindi, è colei che non ha ricevuto abbastanza protezione durante la sua infanzia e che, attraverso meccanismi di ripetizione e di identificazione con l’aggressore, tende a infliggere le stesse sevizie a cui è stata sottoposta. Scavando nel passato di queste donne, madri e non, emergono quasi sempre storie di maltrattamenti, umiliazioni e violenze sessuali. Recenti studi hanno dimostrato che il processo di identificazione con l’aggressore non è un semplice meccanismo di difesa attuato dalla vittima d’abuso, ma è supportato dalla presenza dei cosiddetti “neuroni a specchio”. Infatti, i circuiti neuronali attivi nel soggetto che compie un’azione, sono gli stessi che – automaticamente – si attivano nel soggetto osservante. Da qui nasce la teoria dell’“abusatore abusato”, secondo cui l’adulto replica esattamente quanto ha subito da bambino (identificazione con l’aggressore). Per mezzo dell’atto perverso, riesce ad ottenere potere e trionfo proprio in ciò in cui era stato vittimizzato. Sembrerebbe chiaro che le vittime di abuso sessuale infantile agiscano per ridurre gli effetti del trauma, cercando di superare il senso di impotenza e cancellando l’immagine negativa di se stessi. Attraverso la perpetrazione dell’abuso, il soggetto afferma il proprio controllo su altre persone, allontanando i vissuti destrutturanti. Ad ogni modo, le sole esperienze sessuali sperimentate in età precoce non sono in grado di sostenere l’ipotesi di disadattamento. Per tale motivo, bisognerà associare gli agiti ad altri fattori, come la violenza coniugata agli atti sessuali, il sesso dell’abusante e la relazione che quest’ultimo intrattiene con la vittima. Secondo Ward et al. (2005) risulta di fondamentale importanza la valutazione dei fattori eziologici distali e prossimali. I primi, ereditari e legati ad esperienze precoci di sviluppo, contribuiscono a rendere il soggetto vulnerabile, guidandolo – così – verso il reato. I fattori prossimali, invece, comprendono gli stati psicologici ed affettivi, assieme ad eventi e situazioni scatenanti. Si può affermare, dunque, che la comunanza di vissuti traumatici infantili tra le female sexual offenders, non comporta una univocità di atti comportamentali, in quanto ciascuna di esse agisce secondo la specificità dei bisogni da soddisfare.
Un esempio è rappresentato dalla seguente classificazione:
Gestire il potere e il controllo: la condizione di vittimizzazione subita nell’infanzia, fa sì che queste donne siano alla costante ricerca di dominio e controllo. L’abuso, difatti, diventa l’unico mezzo attraverso il quale esercitare il potere.
Dire alle proprie vittime che l’abuso è l’espressione del loro amore: il blocco dello sviluppo psicosessuale delle donne abusanti impedisce loro di stabilire relazioni affettive con i partner adulti. L’unica fonte di gratificazione sessuale deriva dall’abuso perpetrato sui bambini.
Percepire in maniera distorta il desiderio di affetto del minore interpretandolo come interesse sessuale: la percezione distorta è ricollegabile alle esperienze di contatto fisico, vicinanza e rassicurazione richieste dal bambino. Queste ultime vengono decodificate dall’abusante come desiderio di propinquità sessuale. Gli stessi bambini faticano a distinguere le varie tipologie di comportamento, labili a tal punto da mescolare abuso ed affetto.
Soddisfare i propri bisogni emozionali.
Paura di violenza da parte del partner: spesso le donne assistono e/o partecipano all’abuso assieme al partner, senza accennare ad alcuna forma di resistenza, poiché terrorizzate dall’idea che eventuali comportamenti violenti possano riversarsi su di loro.
Compiacere il partner per timore di essere abbandonate: le offenders nutrono assoluta devozione nei confronti del partner. Ciò è dovuto al forte senso di inadeguatezza e alla mancanza di autonomia, dunque la relazione di coppia sembra essere l’unico appiglio al quale ancorarsi.
Vendetta per l’abuso che loro stesse hanno subito: i traumi subiti in passato trovano sfogo nell’umiliazione della vittima mediante l’atto perverso.
Gelosia: è questo il caso delle madri che si servono dell’abuso per rivendicare il possesso sul corpo dei figli.
Soldi: in questa categoria, rientrano quelle donne che mercificano adolescenti e bambini al fine di realizzare filmati e foto da inserire nel circuito della pedopornografia.
Rabbia: il riconoscimento delle proprie fragilità, unito al forte rancore verso sé stesse, produce un senso di rabbia auto ed etero diretta.
Dallo studio di casi clinici, è stato possibile delineare altre motivazioni che spingono le donne ad abusare: Associando il genere maschile al concetto di pericolosità, si sentono maggiormente «sicure» nell’indirizzare le proprie scelte verso i bambini. Presentano disturbi psicopatologici, in maniera lieve o moderata. Queste donne hanno evidenti difficoltà di relazione col partner. I loro vissuti raccontano storie di matrimoni falliti e convivenze problematiche. Spesso sono oggetto di maltrattamenti fisici e sessuali ad opera di uomini particolarmente violenti. Ogni agito sessuale femminile presenta una sua univocità strettamente correlata ad una serie di fattori personali, maturati all’interno di specifiche situazioni ambientali. Per questo motivo, la motivazione che spinge al comportamento abusante non può ritenersi unica.
ACCUSA DI PEDOFILIA COME TRAPPOLA INFERNALE.
Pedofilia, trappola infernale. Il “detective” Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise don Giorgio, scrive Cristina Giudici su "Il Foglio". Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.
Atto Camera: Interpellanza 2-00630, presentata da FRANCESCO PAOLO LUCCHESE.
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, il Ministro per le politiche per la famiglia, il Ministro della pubblica istruzione, il Ministro della salute, per sapere - premesso che:
sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l'assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l'innocenza di una persona (vedi casi Cogne, pedofilia a Brescia, pedofilia a Milano, Rignano Flaminio eccetera) senza che queste perizie secondo l'interpellante possano considerarsi prove concrete come dovrebbe essere in un giusto processo;
lo stesso sistema, cioè l'uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all'interpellante come uniche prove, determina le decisioni del Tribunale dei Minori nell'adottare il provvedimento con la formula «urgente e provvisorio» per l'allontanamento dei minori dalle famiglie, diventano gli unici riscontri in fase iniziale per cause di pedofilia: queste perizie si basano secondo l'interpellante non su riscontri oggettivi, come nel caso della criminologia, ma su opinioni degli psicologi e psichiatri;
mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d'ingegneria occorre l'ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico (figura specializzata con corso triennale post-laurea comprendente 22 esami più la tesi di specializzazione, oltre la laurea quadriennale del percorso vecchio ordinamento), ma lo psicologo, lo psichiatra, l'assistente sociale, eccetera. La laurea (in psicologia, medicina, giurisprudenza, lettere o filosofia) era la condizione necessaria per accedere allo studio di criminologia clinica ma insufficiente per potersi occupare di crimine. Abolendo tale specializzazione si è lasciato campo libero a professioni (psicologi e psichiatri) che hanno la pretesa di essere esperti, pretesa mai suffragata da fatti concreti -:
il numero di bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento alle comunità alloggio oscilla tra i 23.000 e i 28.000 con un costo per la comunità di miliardi di euro, senza contare l'indotto in termini di necessità di assistenti sociali, spazi protetti, psicologi e neuropsichiatri infantili;
molti genitori, se vogliono rivedere i loro figli, si devono sottoporre a trattamenti psicologici prolungati ed estenuanti con il ricatto morale di non rivedere più il loro figlio;
quale sia l'entità dei bambini sotto tutela dei servizi sociali e collocati in comunità alloggio o in affido;
quale sia il numero di comunità-alloggio distribuite sul territorio italiano e la loro capacità ricettiva;
quale sia l'entità dei soldi erogati dai Comuni, Province, Regioni e Stato per il mantenimento dei bambini nelle comunità alloggio;
quale sia il tempo medio del procedimento ablativo;
quale sia il numero di bambini che torna nelle famiglie di origine dopo essere stato allontanato;
perché si siano chiuse le scuole di specializzazione post-lauream in criminologia clinica presso le facoltà di medicina e se si intenda ripristinare;
come mai dietro le cattedre di criminologia in Italia, anziché criminologi clinici, siedano quasi tutti psichiatri;
perché anziché promuovere specialisti di criminologia di alto livello si favorisca la nascita di «corsi fast-food», senza rendersi conto che il crimine ed i criminali si aggiornano anche con le tecnologie, mentre le figure che si occupano del crimine in Italia (psicologi, psichiatri, assistenti sociali) non hanno conoscenze ermeneutiche, epistemologiche e scientifiche. (2-00630)«Lucchese».
ADOZIONI INTERNAZIONALI. LADRI DI BAMBINI.
Veleni sulla nomina della moglie del pm. Laura Laera, consorte del procuratore Greco, premiata dal governo. È polemica, scrive Patricia Tagliaferri, Lunedì 22/05/2017, su "Il Giornale". Per i non addetti ai lavori, per chi non conosce il delicato settore che andrà a guidare, la nomina dell'attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera, alla vicepresidenza della Commissione per le adozioni internazionali, decisa dal premier Paolo Gentiloni, può sembrare un cambio ai vertici come tanti. Ma in realtà la questione è più complessa e non del tutto cristallina. Perché dietro al decreto di nomina firmato venerdì da Gentiloni c'è un retroscena che vale la pena conoscere, su cui da tempo insiste Fabrizio Gatti dell'Espresso sul suo blog. Innanzitutto perché la Laera, magistrato dalla lunga e specchiata carriera e una competenza specifica sull'infanzia, è la moglie del procuratore capo di Milano, Francesco Greco. E poi perché la neonominata prenderà il posto di Silvia Della Monica, il magistrato che ha scoperto una serie di presunte gravi irregolarità nelle adozioni da parte dell'ente milanese Aibi-Amici dei bambini, finito sotto inchiesta. Un'indagine delicata, anche con sospetti di pedofilia e traffico di minori, che adesso dipende da due toghe della stessa famiglia: la Laera si occuperà infatti del fascicolo amministrativo, mentre il marito procuratore di Milano di quello penale, ereditato da Roma. A questa nomina, inoltre, si è arrivati non senza polemiche, anche da parte delle famiglie adottive che hanno denunciato i traffici di bambini tra il Congo e l'Italia e che hanno cercato in tutti i modi di convincere il premier a non rimuovere dall'incarico la Della Monica, la quale credendo alle loro accuse aveva scoperchiato lo scandalo nelle adozioni senza peraltro essere mai appoggiata pubblicamente dal sottosegretario Maria Elena Boschi (presidente Cai negli ultimi mesi del governo Renzi), principale artefice della sostituzione. Lo scorso aprile le famiglie si erano rivolte al Csm, che doveva dare il nullaosta alla Laera, per chiedere di valutarne la compatibilità al nuovo incarico, chiedendo anche come mai Marco Griffini, il presidente di Aibi, l'ente sotto inchiesta, avesse deciso di «portare false accuse contro la Della Monica proprio all'attenzione del procuratore di Milano, mentre si compiaceva della nomina a vicepresidente della Cai della moglie di quest'ultimo». Il procuratore Greco, insomma, su input di Griffini, si sarebbe trovato a valutare l'operato di Silvia Della Monica come vicepresidente della commissione adozioni, incarico all'epoca ancora conteso da sua moglie. Le cose sono andate come previsto: oggi la Laera è la nuova vicepresidente e suo marito il capo della Procura che indaga sull'Aibi e sul suo presidente, Griffini. Ma non è tutto. C'è un'altra stranezza da segnalare. Riguarda lo stesso Griffini, che lo scorso 21 febbraio aveva anticipato su Twitter l'imminente cambio ai vertici della Cai prima che Palazzo Chigi, l'istituzione che controlla il suo ente, ufficializzasse la notizia.
Laura Laera alla Cai, l’Italia si apre alle adozioni gay. Il Csm ha dato il via libera alla messa fuori ruolo del magistrato, che presiede il Tribunale per i minorenni di Firenze, il primo a riconoscere l’adozione di due bambini da parte di una coppia omosessuale, scrive Lidia Baratta il 21 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. Per la nomina ufficiale bisognerà aspettare il varo del consiglio dei ministri. Ma il Csm ha già dato il via libera alla messa fuori ruolo del magistrato Laura Laera, che andrà a occupare la carica di vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali(Cai), succedendo alla contestatissima collega Silvia Della Monica. E quello di Laura Laera non è un nome qualunque. Il Tribunale per i minorenni di Firenze, che guida dal 2012, è quello che per la prima volta in Italia ha riconosciuto l’adozione di due bambini da parte di una coppia di due uomini italiani residenti nel Regno Unito. E la stessa Laera, come ha dichiarato più volte, è tutt’altro che chiusa all’ipotesi della stepchild adoption. La sua promozione al vertice della Cai, insomma, si potrebbe interpretare come un segnale di apertura alle adozioni da parte di coppie omosessuali. Tant’è che qualcuno da destra è già saltato sulla sedia. «Mettere alla testa delle adozioni internazionali una persona che ha un’idea incostituzionale delle adozioni stesse è, come si suol dire, mettere Dracula al vertice dell’Avis», ha detto il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri. Moglie del procuratore capo di Milano Francesco Greco, Laura Laera è arrivata al Tribunale per i minorenni di Firenze dopo aver guidato per 25 anni quello di Milano. Un curriculum con una competenza specifica sull’infanzia, che le famiglie adottive o aspiranti tali hanno subito accolto con favore. A partire da “Family for Children”, il comitato composto da un centinaio di coppie che hanno pagato migliaia di euro agli enti – Enzo B in primis – per adottare un bambino senza mai riuscirci. Laera ha presieduto per tre anni (2009-2011) l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, oggi in prima linea contro la soppressione dei Tribunali per i minorenni voluta da Orlando. E ha partecipato anche all’unica ricerca fatta dalla Cai sui fallimenti adottivi, cioè le adozioni non andate a buon fine. Nel complicato mondo delle adozioni internazionali italiane, Laera avrà tanto da fare. Non solo per risollevare i numeri delle domande di adozione, crollati dalle 8.274 del 2004 alle 3.668 del 2015. Ma anche perché bisognerà fare chiarezza su diversi scandali che hanno coinvolto gli enti autorizzati (dalla Cai) a gestire le adozioni nei Paesi esteri. Dal Congo all’Etiopia fino al processo che si sta celebrando a Savona sulle adozioni mancate in Kirghizistan. Laera dovrà lasciarsi alle spalle pure la contestata gestione della Cai da parte della collega Della Monica. Negli ultimi tre anni, l’attività della Commissione – come Linkiesta ha scritto più volte – si è di fatto azzerata. Non sono stati pubblicati i report sulle statistiche delle adozioni, la commissione non si è mai riunita, è stata sospesa la linea telefonica dedicata alle famiglie e non sono stati erogati nemmeno i contributi previsti dalla legge. E ora tutti sperano in un cambio di marcia. Quello di Laura Laera non è un nome qualunque. Il Tribunale per i minorenni di Firenze, che guida dal 2012, è quello che per la prima volta in Italia ha riconosciuto l’adozione di due bambini da parte di una coppia di due uomini italiani residenti nel Regno Unito. Davanti alla Commissione giustizia, nel maggio 2016 Laura Laera ha detto che la legge 184 del 1983 sulle adozioni è «distante ormai quasi quarant’anni». E si è domandata «se sia ancora un sistema valido e attuale per i nostri tempi». La legge, ha detto, «si fondava sulla famiglia legittima. Il fulcro dell'adozione così come è stata immaginata dal legislatore dell'epoca aveva come suo tema centrale la difesa della famiglia legittima». Ma, ha aggiunto, «capisco le posizioni di alcuni, che sono sulla difensiva rispetto alla famiglia legittima. È del tutto comprensibile, perché è un modello che abbiamo introiettato. I modelli culturali richiedono diversi anni per evolversi e modificarsi. Anche noi giudici, che lavoriamo su questi temi da tanti anni, abbiamo le nostre difficoltà. Quello che si cerca di fare, o almeno che io cerco di fare, è di non avere un approccio ideologico. Il giudice deve lasciare da parte qualunque approccio ideologico sulla materia famiglia, deve affrontare la casistica che gli si presenta di volta in volta con un approccio laico, deve verificare nel caso concreto quale sia la normativa applicabile nel rispetto dell'interesse del minore». E così ha fatto al Tribunale per i minorenni di Firenze. Riconoscendo in Italia la sentenza pronunciata nel Regno Unito per l’adozione di due bambini da parte di una coppia omosessuale nell’interesse dei minori di vivere in una famiglia stabile con relazioni parentali e amicali positive. «Si tratta di una vera e propria famiglia, di un rapporto di filiazione in piena regola e come tale va pienamente tutelato», si legge nel decreto del tribunale dello scorso marzo. Senza tralasciare le posizioni del magistrato a favore della stepchild adoption, l’adozione del figlio del compagno stralciata dalla legge Cirinnà. «L’articolo 44 non distingue il sesso o il genere delle persone, parla di persone che possono adottare», ha detto Larea. «Ovviamente sono adozioni che richiedono un giudizio caso per caso, quindi la funzione giudiziaria è fondamentale, non deve esserci automatismo in nessun tipo di adozione, ma questa deve essere lasciata alla valutazione del singolo caso concreto». Il manifesto di intenti c’è tutto, vedremo cosa accadrà quando entrerà nel palazzo inespugnabile della Commissione per le adozioni internazionali.
Gentiloni, il procuratore Greco e la moglie. Ecco tutti i retroscena di una nomina, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 21 maggio 2017. Il premier Paolo Gentiloni, nella tarda serata di venerdì 19 maggio, ha nominato l'attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera, vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali. La Cai è l'autorità di controllo sugli enti autorizzati dal governo a rappresentare lo Stato nelle delicate procedure che riguardano i bambini. Il prossimo provvedimento sarà probabilmente la nomina della sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, al vertice come presidente della commissione, carica fino a oggi trattenuta da Gentiloni. Il premier ha così scelto di non rinnovare il mandato alla vicepresidente uscente, Silvia Della Monica, scaduto lo scorso febbraio. La decisione apre di fatto un asse di simpatia tra Palazzo Chigi e la procura di Milano. Poiché, come scrisse l'editore e giornalista americano Joseph Pulitzer, un'opinione pubblica bene informata è la nostra Corte Suprema, ecco i fatti mai raccontati che hanno accompagnato questa nomina. Da oggi le indagini per lo scandalo su pedofilia e traffico di minori nelle adozioni italiane, scoperchiato dal magistrato Della Monica, dipendono dalla stessa famiglia: Laura Laera erediterà il fascicolo amministrativo dell'inchiesta, mentre suo marito Francesco Greco, procuratore di Milano, si sta occupando del fascicolo penale, ricevuto soltanto poche settimane fa dalla Procura di Roma che ha dichiarato la sua incompetenza territoriale. In altre parole Gentiloni ha affidato un incarico in seno alla Presidenza del Consiglio alla moglie del procuratore che deve accertare l'eventuale esistenza di contatti con gli indagati sia dentro la Presidenza del Consiglio, sia dentro il ministero degli Esteri, dove Gentiloni era ministro prima di diventare premier. Le inchieste penale e amministrativa riguardano "Aibi - Amici del bambini", l'ente di San Giuliano Milanese autorizzato dal governo e denunciato da decine di genitori adottivi: in un caso per aver omesso di segnalare tempestivamente una organizzazione di pedofili in Bulgaria, che con i piccoli di un orfanotrofio realizzava film pornografici, e poi per i presunti contatti con una rete di trafficanti di minori in Congo. Il presidente di Aibi, Marco Griffini, 69 anni, ha accolto con soddisfazione la decisione di Gentiloni. Già nella notte di venerdì su Twitter ha salutato l'arrivo di Laura Laera: «Gli auguri di @Amicideibambini». Griffini, sul suo profilo ufficiale di presidente di Aibi, ha anche rilanciato due tweet di un sostenitore con cui è in contatto sui social media, Mauro Leli: «Ancor prima deve iniziare quella pulizia su enti e personaggi...», commenta Leli. «Ora finalmente alziamo il sipario sulla verità», gli risponde Griffini. Mauro Leli è lo stesso che sempre su Twitter, a uno dei papà adottivi, il 9 e 10 febbraio 2016 scrive così: «Con i ferri ho un certo mestiere e mi pagano per esercitarmi ad utilizzarli bene... anche senza la Cai... non è nient'altro che la pura verità... aggiungo attività a cadenza mensile», alludendo evidentemente alle armi e a un poligono. E il 19 aprile di quest'anno, ancora Leli twitta: «Ora chiudiamo il conto anche con chi direttamente o indirettamente vi ha sostenuto... è tutto pronto, manca soltanto un semplice click!». Laura Laera, magistrato che ha sicuramente i titoli professionali per ricoprire l'incarico e un curriculum irreprensibile, così come lo è la carriera del marito, prenderà possesso della Cai nei prossimi giorni. Il lavoro che l'attende è inestricabile. Da subito dovrebbe segnalare alla Procura di Roma che proprio il 28 marzo scorso la sottosegretaria Boschi, sua probabile futura presidente, con le deleghe di firma attribuitele da Gentiloni, attuale presidente della Cai, non ha rispettato due decreti dello Stato e ha nominato nella Commissione per le adozioni internazionali il rappresentante di un'associazione controllata e guidata da vari enti, tra i quali Aibi. La Presidenza del Consiglio ha così permesso che nell'autorità di controllo sulle adozioni e sui finanziamenti pubblici vada a sedersi il rappresentante di un ente controllato, nel momento in cui tra l'altro l'ente è stato denunciato per fatti vergognosi. Un conflitto di interessi vietato dalla legge contro cui altre associazioni, escluse dalla commissione, hanno presentato un esposto all'autorità giudiziaria. Ma ecco i fatti ai quali la nomina di Gentiloni fornisce oggi la conferma necessaria perché possano essere raccontati. Scusate se in alcuni passaggi dovrò scrivere in prima persona. A inizio luglio dell'anno scorso "L'Espresso" pubblica la famosa inchiesta di copertina "Ladri di bambini" sull'attività di Aibi in Congo, in Bulgaria e sui contatti tra l'associazione di Marco Griffini, le istituzioni e numerosi parlamentari. È l'8 luglio 2016 e da quel giorno questo blog segue la vicenda. Dopo alcuni articoli, la sera del 2 agosto scopro sul mio telefonino che dalla procura di Milano mi sta cercando un ufficiale di polizia giudiziaria. È una persona onesta e perbene e per questo mantengo qui il suo anonimato. Con un sms mi scrive: «Avrei bisogno di parlare con te forse proprio della "cosa grossa" alla quale stai lavorando"». Gli telefono la sera del 3 agosto. Mi dice che il suo capo, cioè il procuratore Francesco Greco, gli ha chiesto di chiamarmi in merito ai miei articoli sulle adozioni. Spiega che forse hanno in corso attività investigative che riguardano lo stesso ente di cui ho scritto. E, tra le altre cose, mi chiede se la mia fonte sia dentro la Commissione per le adozioni internazionali. Gli rispondo che le mie fonti non sono nella commissione, che invece mantiene il più totale riserbo. Sono invece alcuni genitori adottivi che hanno denunciato ciò che hanno subito i loro bambini e alcuni dipendenti di Aibi. Di tutti loro però, facendo valere il mio segreto professionale, non posso rivelare il nome. L'ufficiale domanda allora se so dove sono state iscritte queste denunce. Mi risulta alla Procura di Roma: in particolare, quelle sui diciotto bambini trattenuti per un anno e mezzo in un orfanotrofio della rete di Aibi a Goma, una zona di guerra del Congo, contro le disposizioni delle autorità e la volontà dei genitori, che per tutti quei 540 giorni non hanno avuto notizie dei loro figli. Spiego che la Procura romana dovrebbe aver iscritto le segnalazioni a modello 45: cioè, purtroppo, a fatti non costituenti notizia di reato, come mi hanno riferito indignati alcuni avvocati delle famiglie. L'interesse della Procura milanese potrebbe dare nuova speranza ai genitori che chiedono giustizia. Forse, suggerisco, il procuratore di Milano dovrebbe sentire direttamente il suo collega di Roma. Gli propongo anche di vederci l'indomani noi due per un saluto. Ma mi dice che non può perché è in ferie. Deduco che per il suo capo Francesco Greco sia una questione molto urgente, se ha chiamato l'ufficiale in vacanza. E questa sembra una buona notizia. La telefonata, cominciata alle 21.45, si conclude dopo 39 minuti. Nel normale rapporto tra giornalisti e autorità dello Stato, risento l'ufficiale di polizia giudiziaria in ottobre e mi rivela che il suo capo è sempre interessato all'inchiesta giornalistica che, articolo dopo articolo, sto scrivendo su questo blog. Mi chiede di mandargli via email i link a tutti i servizi pubblicati online su Aibi, sui presunti traffici in Congo e sulla mancata denuncia dei pedofili in Bulgaria. Il 10 ottobre 2016 l'ufficiale della Procura di Milano riceve la mia email con gli articoli principali e per martedì 11 ottobre fissiamo un incontro con il procuratore Greco. Il capo dei magistrati di Milano è seduto alla sua grande scrivania. È molto cordiale. Dice che è molto interessato a quanto "L'Espresso" sta pubblicando su Aibi. Perché di quell'ente gli ha già parlato sua moglie, Laura Laera, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze. E non riferisce una buona opinione. Vorrebbe insomma indagare. Fa però presente, dopo una rapida verifica, che per gli eventuali reati ordinari è competente la procura di Lodi, poiché la sede legale di Marco Griffini è San Guliano Milanese, comune che ricade nel distretto lodigiano. Anche Greco mi domanda se la mia fonte sia dentro la Commissione per le adozioni internazionali e se so cosa stiano facendo alla Cai. Esprime quindi qualche perplessità sulle capacità della vicepresidente Della Monica. Rispondo, come è vero, che non ho contatti con la Cai, ma con i genitori e alcuni dipendenti di Aibi, indignati di quanto è accaduto in Congo e in Bulgaria. Lo invito a sentire Roma e a coordinarsi con il procuratore Giuseppe Pignatone, come dovrebbe essere normale. Gli faccio notare che i presunti reati ipotizzati dai genitori nelle loro denunce, per quanto mi hanno riferito, sono così gravi da riguardare la Direzione distrettuale antimafia: quindi non sono competenza di Lodi, ma eventualmente della Procura di Milano. Gli ricordo anche che se vuole indagare su Aibi, probabilmente a Milano è già aperto un fascicolo fin dal dicembre 2012, nato dalla denuncia sull'omessa segnalazione dei pedofili. E gli racconto che successivamente un Tribunale per i minorenni ha anche dato torto a Griffini e trasmesso gli atti per competenza proprio alla procura di Milano, dopo che Aibi aveva insinuato l'incapacità genitoriale che avrebbe portato alla revoca dell'adozione dei bambini bulgari arrivati in Italia, gli stessi che avevano avuto il coraggio di denunciare le violenze nell'orfanotrofio. Una mossa che sembrava una brutale ritorsione, fortunatamente neutralizzata dai giudici minorili. A questo punto Francesco Greco chiama nella stanza Pietro Forno, allora suo procuratore aggiunto a capo del dipartimento che si occupa dei reati sui bambini. Riassumo a Forno la vicenda del fascicolo sicuramente aperto a Milano su Aibi e dell'ulteriore trasmissione di atti. Forno, in piedi davanti alla scrivania di Greco, ci pensa su e dice che non gli risulta. Ai genitori adottivi dei bambini bulgari, che fin da piccoli per anni hanno subito violenze indicibili, ho promesso già nel 2012 che avrei fatto qualunque azione possibile nel mio lavoro di giornalista affinché si conoscessero i fatti. L'interesse personale del procuratore di Milano è una opportunità senza precedenti dopo quattro anni di silenzi. E così con Greco concordiamo che nel pomeriggio gli avrei mandato, per sua conoscenza, tutti i documenti e le denunce presentate dalle famiglie. Poco prima delle cinque del pomeriggio dell'11 ottobre invio una mail al solito ufficiale di polizia giudiziaria con l'esposto presentato dai genitori adottivi alla procura di Roma, il loro ricorso alla Corte europea dei diritti dell'Uomo contro la Bulgaria e il decreto del Tribunale per i minorenni che già il 13 maggio 2014 censura il comportamento di Aibi e di Griffini e invia gli atti a Milano per «quanto di competenza in ordine al procedimento penale già instaurato in relazione alla presente vicenda», scrivono i giudici. La procura di Milano, Francesco Greco e Pietro Forno hanno così tutto quanto può servire loro per approfondire le indagini sull'ente di San Giuliano Milanese. Il 12 ottobre la vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, denuncia davanti alla commissione Giustizia della Camera che associazioni italiane hanno trafficato bambini con il Congo. Il magistrato conferma ai parlamentari che tutto quanto ha pubblicato "L'Espresso" nell'inchiesta "Ladri di bambini" le risulta e quindi è vero. Scrivo l'articolo sull'audizione del magistrato. È un fatto nuovo, una conferma sconvolgente. La mattina dopo, il 13 ottobre, segnalo la novità via email allo stesso ufficiale di polizia giudiziaria perché giri il link al procuratore Greco, che aveva chiesto di essere tenuto aggiornato sugli articoli, ovviamente dopo la loro pubblicazione. Lo stesso pomeriggio l'ufficiale risponde: «Ciao Fabrizio, letto e riportato!!!». Avevo ragione. Il fascicolo su Aibi e la Bulgaria esiste ancora. È il numero 39190/12 formalmente contro ignoti, pervenuto a Milano il primo dicembre 2012, iscritto il 6 dicembre 2012 e affidato al pubblico ministero Gianluca Prisco del Terzo dipartimento. È appunto la squadra di magistrati che si occupa di delitti contro la famiglia, pornografia e pedopornografia anche on-line, diretto fino all'inizio di quest'anno dal procuratore aggiunto Pietro Forno. L'inchiesta parte dalla denuncia formale di "Telefono azzurro" che ha raccolto la segnalazione disperata dei genitori adottivi dei bambini bulgari, che Aibi aveva scaricato e abbandonato al loro destino. Una denuncia dettagliata che riferisce quanto è avvenuto in Bulgaria, di cui ovviamente la magistratura italiana non è competente, ma anche le presunte omissioni di Marco Griffini e del suo ente. Comportamento reso ancor più grave dal fatto che si tratta di una organizzazione autorizzata dal governo a rappresentare lo Stato italiano in tutto il mondo. «Si invia la presente per l'adozione dei provvedimenti che saranno ritenuti idonei», è scritto in fondo alla precisa denuncia di "Telefono azzurro". Il 15 novembre 2016 la voce dei genitori adottivi dei bambini bulgari è carica di rassegnazione: hanno appena ricevuto la notifica che l'11 novembre, un mese esatto dopo l'incontro in Procura con Greco e Forno, il pubblico ministero Gianluca Prisco ha chiesto l'archiviazione. Nessun colpevole. La procura si dichiara giustamente incompetente per i fatti avvenuti in Bulgaria, dove sono stati trasmessi gli atti. Ma nulla viene scritto o approfondito su Aibi. Dalle carte depositate risulta che il decreto con cui il Tribunale per i minorenni censurava il comportamento del presidente Griffini e trasmetteva gli atti a Milano era stato regolarmente acquisito dal dipartimento diretto da Pietro Forno fin dal 5 giugno 2014. Laura Laera, stimata presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, sicuramente conosce Aibi. Un po' perché il marito ne ha riferito i commenti. Ma anche perché il 3 ottobre 2013 partecipa a Firenze, con l'assessore regionale toscano al Welfare, a un convegno organizzato nella città sull'Arno proprio da Aibi. Seduti al tavolo con lei, nella foto ancora pubblicata dal sito Aibinews, ecco Marco Griffini, il presidente, e Giuseppe Salomoni, il vicepresidente, proprio colui che tenta di insinuare dubbi sull'adozione dei piccoli che hanno denunciato di essere stati violentati per anni nell'orfanotrofio: «Ritengo sia urgente da parte delle istituzioni preposte», scrive Salomoni in un rapporto a Griffini sui bimbi bulgari, «indagare e valutare se i bambini non siano esposti a rischio. Ritengo pure che la famiglia (sia) oggetto di indagine e valutazione. Aiutata a comprendere ciò che è stato da loro stessi innescato... poiché i comportamenti da loro assunti denotano una situazione di crisi che se non affrontata, potrebbe determinare nuovi danni oltre a quelli già arrecati ai propri figli». L'inchiesta de "L'Espresso" su Aibi e la Bulgaria è uscita nove mesi prima. A Laura Laera ovviamente può essere sfuggita. Può anche non averci creduto. Può aver partecipato a quel convegno solo per dovere istituzionale, com'è diritto di chiunque. E soprattutto non può sapere del fascicolo su Aibi formalmente aperto a Milano da quasi un anno. Arriviamo al 21 febbraio 2017. Marco Griffini dimostra di essere a conoscenza di notizie che escono direttamente da Palazzo Chigi: «Scelti i vertici della Cai: manca solo annuncio ufficiale», scrive alle 14.10 sul suo profilo Twitter. È il primo a rivelarlo. E linka l'articolo uscito lo stesso giorno sul sito della sua agenzia di informazione Aibinews: «Benvenuta nuova Cai. Dal decalogo della Boschi il programma di lavoro della Commissione per il rilancio della cultura delle adozioni internazionali». Il 22 febbraio Griffini pubblica anche il nome, allegando l'anticipazione di una pagina in uscita su "Panorama": «Laura Laera... vicepresidente della Cai». Il nome lo scopro proprio in quel momento. È davvero la moglie del procuratore della Repubblica di Milano. Tutti e due sono magistrati dalla carriera trasparente. Ma per comprendere la gravità di quanto è accaduto dobbiamo ribaltare i ruoli. Provate a immaginare. Un giornalista, nell'esercizio delle sue funzioni di giornalista protette dall'articolo 21 della Costituzione, si presenta al procuratore di Milano e chiede informazioni su un'indagine in corso su un dato settore, dicendo che vuole scrivere un articolo. Il procuratore, in virtù dell'articolo 21 della Costituzione, riferisce al giornalista notizie già pubbliche e nuove informazioni pubblicabili, ancora sconosciute. Bene: alla fine il giornalista non scrive nessun articolo e dopo quattro mesi si viene a sapere che la moglie del giornalista diventerà la vicepresidente dell'unica autorità di controllo di quello stesso settore. Se un magistrato e un ufficiale di polizia giudiziaria fanno bene il loro lavoro, anche se non è stato commesso nessun reato, anche se non c'è nessun comportamento illecito, sono obbligati a porsi delle domande. Griffini e il suo seguito twittano messaggi euforici per il mancato rinnovo dell'incarico a Silvia Della Monica, il magistrato che ha scoperchiato lo scandalo che li riguarda, e per l'arrivo di Laura Laera. I genitori che hanno denunciato Aibi sono terrorizzati. Sanno che a Milano, la procura del marito ha ufficialmente chiesto di archiviare l'indagine sulla mancata segnalazione tempestiva dei pedofili in Bulgaria. Per loro Della Monica è l'unico magistrato che ha saputo ascoltarli e comprendono che un cambio in corsa ai vertici della Cai potrebbe renderli più deboli ed esporli a conseguenze imprevedibili. Marco Griffini li ha già pubblicamente avvertiti della possibile richiesta di danni per milioni. E l'anonimo che si nasconde dietro il nome di Mauro Leli li ha già informati da tempo sulle sue capacità nell'uso delle armi. Per questo da giorni le famiglie stanno scrivendo e chiedendo al presidente del Consiglio di confermare Della Monica al vertice della Cai. Almeno fino a quando l'inchiesta giudiziaria che loro hanno avviato non sarà definita. Anche per questo il 22 febbraio pubblichiamo il titolo: «Bimbi rubati, Gentiloni vuole il colpo di spugna - Scelto giudice gradito a Marco Griffini». Che sia così, lo si legge tra i sostenitori di Aibi su Twitter. Il consiglio dei ministri in programma per il giorno dopo, però, non annuncia più le nuove nomine. La procedura viene per il momento sospesa. Chiama l'ufficiale di polizia giudiziaria. Dice che il capo è furibondo per il titolo e mi vuole parlare. È comprensibile. Ci sentiamo il 24 febbraio. Io sono seduto alla mia scrivania, con taccuino e penna, pronto ad appuntarmi eventuali suoi commenti. Il procuratore di Milano è davvero arrabbiato. Parla per venti minuti. È difficile stargli dietro. Dice che quanto sta accadendo è lo scontro «tra chi vuole la privatizzazione di tutto il mondo delle adozioni, ha spinto per l'abolizione dei Tribunali dei minorenni e chi si è opposto duramente a tutto questo. Ora mia moglie è una di queste, che ha lottato e sta lottando contro l'abolizione dei Tribunali dei minorenni e contro la privatizzazione delle adozioni». Gli faccio notare che la mia inchiesta giornalistica riguarda presunti traffici di bambini e la ritardata segnalazione di pedofili, non la privatizzazione delle adozioni. Lui continua: «Il mondo minorile è un mondo nel quale mia moglie si è impegnata, è da trent'anni che ci lavora e francamente parlano la sua storia, come ha riorganizzato il Tribunale di Firenze dopo lo scandalo del Forteto e cose di questo genere. Quindi pensare che esista solo una persona che in Italia combatte certe cose è ridicolo. Anche perché poi bisogna combatterle in maniera intelligente, non distruggendo tutto come ha fatto questa qui», riferendosi alla collega Silvia Della Monica. E ancora: «Francamente, avendo io indagato da Berlusconi a Fazio, tutti gli uomini più potenti in Italia, a me che cazzo me ne frega di questo qua», riferendosi a Griffini. E sempre sulla collega Della Monica: «È un mondo che si deve rimettere in piedi. Cioè, io adesso non lo so, non me ne frega niente, guarda l'ex collega, poi parlamentare del Pd, francamente non me ne frega niente. Io ho avuto a che fare con lei per processi a Perugia che sono poi tutti distrutti. Quindi se vai qui, ne parli di questa qui con la Boccassini, le si rizzano i capelli in testa... Ora, poi, non mi piace nemmeno il metodo... i metodi tra virgolette un po' mafioselli o cose di questo genere... Se lei ritiene questo, lo dica pubblicamente, no? Ma non è che stai lì, attacchi mia moglie per attaccare la Boschi... che ci sia corruzione in questa roba qui, ma io ne sono convintissimo. Ma il problema è che se poi non cominci, non vai da nessuna parte. Poi, se vedi che è possibile farlo, scoppierà il casino. Ma non è che lo fai in maniera così mafiosa o come dire retrostante o così via. Sono metodi che né a me né a mia moglie sono mai piaciuti. Io ho sempre detto quello che pensavo a tutti quanti e francamente». E sulla sottosegretaria Maria Elena Boschi: «Mia moglie non guarda in faccia a nessuno... Perché noi, di tutta 'sta storia non sapevamo niente... Io non l'ho mai vista la Boschi. Lei l'ha vista una sola volta in questa occasione, quando l'ha chiamata e le ha chiesto: ci stai? Punto e basta... La Boschi ha il tempo che sta per scadere pure lei». Gli ricordo quello che lui stesso aveva cercato di sapere. Che c'è stata una denuncia circostanziata dei genitori per i pedofili in Bulgaria. Che il fascicolo era arrivato poi a Milano. E che il pubblico ministero Prisco ha chiesto l'archiviazione a novembre, un mese dopo il nostro incontro, anche sulla parte che guardava le presunte omissioni di Aibi. «Questa non è mia materia», risponde Greco: «Se qualcuno me l'avesse segnalato, ne avrei avrei tenuto conto». Nei giorni successivi, improvvisamente, Aibi smette di celebrare la nomina di Laura Laera che, va assolutamente detto, non risulta avere nessun rapporto privato con l'organizzazione di Marco Griffini. Il 9 marzo la presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze diventa famosa in tutta Europa. In Italia ne parlano radio, giornali, tv, Internet. La notizia: «Il Tribunale di Firenze riconosce adozione a coppia gay. È la prima volta in Italia». Aibi e il suo seguito, essendo di ispirazione integralista cattolica, criticano la scelta della moglie del procuratore di Milano. I giornali della destra chiedono a Gentiloni di smentire la nomina di Laura Laera ai vertici della Cai: «Evitiamo di mettere Dracula a capo dell'Avis», scrive il "Secolo d'Italia" riportando una frase di Maurizio Gasparri, senatore del Popolo delle libertà. «Perché un giudice pro famiglie omosessuali al vertice della Commissione adozioni?», titola un altro articolo di Aibinews, l'agenzia di informazione di Griffini. Ovviamente è una coincidenza. È semplicemente ridicolo pensare che Laura Laera abbia riconosciuto l'adozione della coppia gay soltanto per dimostrare che non è gradita ad Aibi. La sera del 16 marzo ritelefona l'ufficiale di polizia giudiziaria: «Ti giro due email con due link a due articoli che il dottor Greco voleva farti leggere. Mi ha mandato un messaggio, te li giro pari pari». Viene da sorridere ad aprire la posta elettronica. La prima email è il link all'articolo critico di Aibinews che Laura Laera, dal suo indirizzo privato "laulae", invia all'indirizzo privato del marito su "gmail" e che il marito inoltra all'ufficiale perché lo riceva io. La seconda email, partita direttamente dalla posta privata di Greco e inoltrata dall'ufficiale, contiene il link all'articolo del "Secolo d'Italia" con il commento su Dracula. La coppia di magistrati evidentemente ci tiene a farmi sapere che Griffini, Aibi e la destra cattolica non gradiscono più la nomina che li riguarda da vicino. Il resto è un percorso in discesa. Nei giorni alla vigilia del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, il premier Gentiloni e la sottosegretaria Boschi trovano il tempo di avvertire una mia conoscenza in comune che la mancata conferma di Silvia Della Monica non c'entra nulla con le indagini sulle gravissime irregolarità nelle adozioni. Il 24 marzo la conoscenza in comune mi telefona e trasmette pedissequamente la versione del governo. Il 28 marzo Maria Elena Boschi firma l'incredibile decreto che nomina dentro la Commissione per le adozioni internazionali il rappresentante di un ente legato ad Aibi. Per farlo, la sottosegretaria usa i poteri di firma dei provvedimenti di competenza del presidente del Consiglio. Non si sa se Gentiloni se ne sia accorto. Quando era ministro degli Esteri, Marco Griffini è riuscito tranquillamente a dettare la linea all'ambasciatore d'Italia in Congo senza nessun intervento dei vertici della Farnesina. Ovviamente il futuro premier non ha nessuna colpa: non venire informati, non è reato. Il risultato lo abbiamo visto: per un anno e mezzo, 540 giorni, diciotto bambini con cognome italiano vengono trattenuti in un orfanotrofio della rete di Aibi a Goma, zona di guerra, contro le disposizioni della Cai, gli ordini delle autorità nazionali congolesi e la volontà dei genitori adottivi. Senza che loro, le mamme e i papà in attesa in Italia, per tutti quei diciotto mesi possano avere notizie dei figli. Il 19 maggio, quando ormai è quasi notte, l'ufficio del premier a Palazzo Chigi annuncia che Laura Laera è la nuova vicepresidente della Cai: poche righe sul sito istituzionale del governo, subito seguite dagli osanna su Twitter di Griffini, Mauro Leli e amici vari.
«Sull'aereo di Stato c'era un bimbo rubato» La denuncia di una mamma alla Camera, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 19 maggio 2017. Adottato con l'ente Aibi in Congo. Era sul famoso volo del 2014 con la ministra Boschi. Le famiglie raccontano: minacce e botte ai bambini prima della partenza per l'Italia. La versione di Gentiloni sull'incarico alla moglie del procuratore di Milano che sta indagando sul traffico di minori. Perfino sull'aereo di Stato dell'allora ministra Maria Elena Boschi, l'associazione Aibi sarebbe riuscita a infilare un bimbo sottratto ai suoi genitori naturali. Il volo è quello famoso del 28 maggio 2014, da Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, a Roma. È il giorno dell'arrivo di trentuno bambini adottati in Italia e accompagnati dall'attuale sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, all'oscuro delle origini del piccolo così come lo erano tutte le altre autorità. Lo racconta in un'aula della Camera, davanti a una platea ammutolita, Paola Zignone, mamma adottiva per mesi ignara dei raggiri ed ex volontaria dell'ente di San Giuliano Milanese, l'Ong per le adozioni internazionali oggi sotto inchiesta per non aver denunciato tempestivamente una banda di pedofili che realizzava film pornografici in Bulgaria e per aver omesso di segnalare un'organizzazione di trafficanti in Africa. Adesso hanno un nome, un volto, una voce. Oltre a Paola, parlano Giambattista De Mattia, Giovanni Conte, Giulia Fasano ed Eva Mannelli, padri e mamme adottivi. Sono le dieci del mattino di giovedì 18 maggio quando rivelano perché, insieme con un'altra cinquantina di famiglie, hanno denunciato Aibi e il suo presidente responsabile Marco Griffini, 69 anni. Spiegano perché ora lanciano un appello affinché altre coppie adottive escano allo scoperto. E ricordano perché pretendono che le istituzioni stiano dalla loro parte. Ad ascoltarli, c'è un solo parlamentare, Stefano Fassina, di Sinistra italiana. Hanno ragione: finora lo Stato ha dimostrato di non occuparsi di quello che hanno subito i loro piccoli, le minacce e le botte a Goma in Congo per costringerli al silenzio, i cuscini bagnati di lacrime al risveglio la mattina nelle nuove case in Italia per essere stati strappati ai loro genitori veri, ai fratelli, alle sorelle. «Conoscevamo Aibi già da tempo», racconta Paola Zignone, «avevamo collaborato con loro per molti anni, ci piaceva il loro modo di lavorare, la loro mission, partecipavamo alle riunioni che facevano nella sede di Torino e addirittura siamo diventati volontari per guidare gli incontri informativi per le coppie che desideravano adottare dei bambini. La collaborazione ci portò alla naturale scelta di Aibi come ente per fare l'adozione internazionale. Furono mesi drammatici ma successivamente il 28 maggio del 2014 con l'aereo di Stato su cui volarono la ministra Maria Elena Boschi e il magistrato Silvia Della Monica, i bambini arrivarono in Italia. Fu una grande festa. Ma nei primi mesi che nostro figlio era arrivato in Italia, anziché vedere un bambino felice di questa sua nuova vita, avevamo davanti un bambino che soffriva, un bambino che piangeva di notte. Io trovavo il cuscino la mattina bagnato di lacrime. E mi diceva: mamma, io ho un segreto ma non te lo posso dire. E si vedeva che era spaventato. Capivamo che questa sua tristezza era segno che ci fosse qualcos'altro. A questo punto scopriamo la sua vera storia. Nostro figlio ha una famiglia in Congo, una madre, il padre e un sacco di fratelli a Goma e sorelle. Siamo sconvolti, non avremmo mai immaginato una cosa del genere. Non avremmo mai adottato un bambino con la famiglia, portandolo via dal suo Paese. Noi che abbiamo messo la faccia per anni per questo ente dicendo che mai e poi mai questo ente avrebbe fatto adottare un bambino che non era abbandonato. È vissuto in famiglia, a casa, a Goma, fino a un anno prima di essere adottato e improvvisamente si è trovato all'istituto Fed di Goma inserito nel circuito delle adozioni. Ma scappava dall'istituto. Il giorno della partenza per Kinshasa è scappato ed è andato a casa. Per essere sicuri che tornasse, hanno mandato il suo migliore amico a prenderlo con la foto dei suoi genitori adottivi in mano, implorandolo di partire perché altrimenti non avrebbero fatto partire nemmeno lui. E questa è la storia che piano piano nostro figlio ci ha raccontato». «A questo punto», continua Paola Zignone, «pensavamo di essere soli e decidiamo di andare a Milano da Aibi, dalle persone che conoscevamo da tanti anni a raccontare quello che nostro figlio ci aveva raccontato. E per chiedere aiuto, consiglio. Ci incontriamo in un giorno di aprile del 2015. Ci accolgono il presidente e la responsabile dell'area Africa e un psicologa. Ci ascoltano. Ci dicono che la storia che nostro figlio ci ha raccontato è tutta falsa. Che sono solo fantasie dei bambini. Che è normale che si costruiscano una storia per vivere bene. Non ci crediamo perché nostro figlio non è un bambino piccolo, ha dieci anni, è molto pragmatico. Insistono che è una storia inventata. Quali fantasie? Qui vi stiamo informando che c'è una tratta di bambini. Continuano sulla loro piega che erano tutte fantasie. Ci salutiamo e ritorniamo a casa nostra. Ci sentiamo soli, abbandonati, perché ci sembra impossibile che ci siano altre famiglie in una situazione di questo genere. E per un bel po' di tempo lavoriamo in famiglia per riuscire ad andare avanti con questo peso nostro e di nostro figlio che probabilmente pensava che noi lo sapessimo, invece non era vero. A luglio del 2016, dopo che tutti gli altri bambini sono arrivati dal Congo, finalmente esce sull'Espresso l'articolo "Ladri di bambini". E ci si apre un mondo davanti. Scopriamo che non siamo soli. Scopriamo che purtroppo la situazione è di tante famiglie come la nostra. Ci ritroviamo al cento per cento in quello che viene descritto in questo articolo. E di conseguenza capiamo che è ora di fare la denuncia. Parliamo con nostro figlio, gli facciamo presente la situazione e decidiamo che deve essere fatta giustizia. Di conseguenza decidiamo di andare alla Cai, la Commissione per le adozioni internazionali. E quando arriviamo lì scopriamo che ce ne sono tanti altri in questa situazione». Quella raccontata da Giulia Fasano è la storia della sua bambina. «Un giorno di fine aprile 2014 abbiamo ricevuto una telefonata dalla sede centrale di Aibi che ci comunicò che alcuni ribelli erano entrati nell'istituto dove si trovava nostra figlia e che dei bimbi erano spariti. Ci comunicarono tuttavia che nostra figlia stava bene perché si trovava a scuola nel momento dell'irruzione. L'ente ci disse che era necessario spostare urgentemente i bambini abbinati perché la situazione era pericolosa. Chiedemmo all'ente di essere ricevuti nella sede centrale per avere maggiori informazioni. Accettarono di riceverci dicendoci però che ci avrebbero concesso al massimo trenta minuti. Chiedemmo anche di comunicare immediatamente l'accaduto alla Commissione adozioni internazionali, ma ci fu risposto che era meglio aspettare in quanto la presidente (il magistrato Della Monica) era nuova e incompetente. Tornammo a casa preoccupati perché il fatto di non informare la Cai ci lasciava perplessi, lo ritenevamo grave. Decidemmo quindi di informare noi stessi dell'accaduto la commissione. Da quel momento in poi», rivela Giulia Fasano, «è cominciata la strategia di terrorismo psicologico con atti intimidatori nei confronti nostri e delle altre famiglie adottive. Finalmente nel 2016 nostra figlia arriva. Una felicità immensa. I primi tempi era timida e impaurita. Ci raccontava che i genitori erano morti lungo una strada a causa della guerra e che era stata ritrovata da una signora che l'aveva portata in istituto. Noi ci guardammo sorpresi perché il suo racconto non corrispondeva alla scheda di abbinamento fornitaci da Aibi». «Poi un giorno, improvvisamente», aggiunge Giulia Fasano, «nostra figlia ci disse: non sono morti. Noi le chiedemmo a chi si riferisse e lei rispose che si riferiva ai suoi genitori. Cominciò a raccontare la sua vera storia, dicendo che aveva oltre ai genitori ancora vivi in Congo, anche fratelli in Italia da cui era stata separata e che erano stati dati ad altre famiglie. Chiedemmo qualche giorno dopo come mai si era tenuta questo segreto nel cuore e lei ci rispose che la maman dell'istituto l'aveva minacciata di non rivelare la sua storia e che se l'avesse fatto, sarebbe stata rimandata in Congo. Liberata di questo fardello, ora nostra figlia è molto più serena. Tuttavia continua a essere molto preoccupata per i suoi fratelli. Ironia della sorte noi avevamo scelto questo ente per le garanzie che davano sulle indagini svolte al fine di verificare il reale stato di adottabilità dei bambini. Riguardo a quello che ci era stato raccontato dell'irruzione della banda armata, lei ci disse che spesso i genitori venivano a riprendersi i figli in istituto. Ci racconta che anche sua madre veniva spesso a riprenderla, ma che determinate persone la riprendevano e la riportavano in istituto. Nostra figlia è stata minacciata e picchiata come i suoi fratelli e i suoi amici. Noi siamo inorriditi da tutto questo e siamo ancora più inorriditi dal comportamento delle istituzioni. Sentiamo parlare di storie inventate, di visioni, di bufale giornalistiche ed è per questo che siamo qui: per testimoniare la realtà di queste storie e chiedere alle istituzioni, al presidente della Repubblica e a tutti coloro che hanno a cuore l'onore delle istituzioni la tutela delle nostre famiglie, dei nostri bambini, siamo qui per chiedere giustizia e chiediamo la riconferma della dottoressa Silvia Della Monica a gran voce, perché è l'unica garanzia che questo lavoro venga completato». Suo figlio, Giovanni Conte non l'ha mai abbracciato. «A Natale 2013 abbiamo ricevuto notizia che era stata emessa la sentenza in cui anche in Congo nostro figlio aveva preso il nostro cognome, quindi era figlio nostro, di fatto, legalmente. Passano sette mesi, il 23 aprile riceviamo una telefonata dalla sede di Milano (di Aibi) e veniamo convocati urgentemente per il giorno successivo a Roma per ricevere una comunicazione urgente che riguardava nostro figlio. Il giorno dopo andiamo e avviene, è incredibile, una videoconferenza in cui veniamo messi a conoscenza che era avvenuto un rapimento di nostro figlio, nel centro dove risiedeva, l'Spd di Goma. Questo rapimento era avvenuto da parte di una banda armata. E ci hanno detto che l'evento era accaduto a fine marzo, quindi erano già passati ventiquattro giorni e noi l'abbiamo saputo dopo ventiquattro giorni. È stato giustificato questo ritardo perché le autorità locali avevano chiesto del tempo per fare le indagini e avevano bisogno di discrezione, perché ipotizzavano un rapimento a scopo di riscatto. Sono state date rassicurazioni sugli sforzi degli operatori e delle istituzioni locali, per cercare nostro figlio e altri cinque bambini». «La cosa incredibile», osserva Giovanni Conte, «è questa comunicazione: non è facile immaginare, però chi ha un figlio può pensare che ti venga comunicato in videoconferenza da un quadratino di dieci centimetri che tuo figlio è stato rapito da una banda armata... Mia moglie è scoppiata a piangere, io non avevo la voce per rispondere. Da Milano era arrivata la richiesta: ci sono delle domande? E io mi ricordo che chiesi con un filo di voce alla psicologa di dire che non avevamo la forza di rispondere, che ci saremo dovuti risentire. In quella sede ci è stato prospettato subito un nuovo abbinamento (cioè la sostituzione immediata del bambino). Ci prendiamo quattro giorni per rimettere insieme le idee. Abbiamo iniziato a chiedere a tutti quelli che potenzialmente potevano avere un contatto con l'ente e al di fuori dell'ente in Congo, le suore, i missionari. Il 28 aprile telefoniamo alla sede di Roma per chiedere un appuntamento urgente con la psicologa sul da farsi. L'appuntamento ci viene fissato per l'8 maggio. Quindi sono due settimane che passano per sapere qualcosa sul rapimento di nostro figlio. Il 5 maggio, avendo capito che la situazione era un'assurdità, inviamo una email a Roma e Milano in cui chiediamo un colloquio non in videoconferenza ma di persona. Arriva l'8 maggio e la psicologa dichiara di non avere avuto notizie. L'incontro viene incentrato sulla gestione del dolore. Usciti da questa seduta poco utile, vediamo che è arrivata una email della Cai con un protocollo, che invita le famiglie ad andare in Cai se sanno di qualcosa che non va. Noi in quel momento stesso chiamiamo in Cai e il giorno dopo veniamo ricevuti. Il giorno dopo era il 9 maggio. Questo è stato il primo momento in cui siamo stati accolti nella nostra sofferenza di famiglie allo sbando. Tanta è stata la fiducia che noi abbiamo presentato in quella sede una denuncia di quello che era accaduto. Dopo settantacinque giorni e altre vicissitudini, la Cai ci ha convocato e abbiamo saputo che non era vero niente, il rapimento non c'era mai stato ed era tutta una bugia. Vorrei chiudere facendo un appello. Vorrei fare un invito a quelle famiglie che si sentono isolate, che ancora vivono queste pressioni, di farsi avanti per far vedere che non sono sole». I due figli adottivi di Eva Mannelli sono stati trattenuti per un anno e mezzo con altri sedici bambini, contro la volontà dei genitori e gli ordini delle autorità, in un orfanotrofio a Goma che risulta tra i centri della rete di Aibi. «I nostri bambini sono stati gli ultimi ad arrivare in Italia», racconta la mamma, «nel giugno 2016, due bambini splendidi, solari. All'inizio è andato tutto bene. Un bel giorno di settembre viene fuori la prima falla nel sistema Aibi. I bambini parlano di un fratello di cui noi non sapevamo assolutamente niente. Abbiamo chiesto se il bambino era rimasto nell'orfanotrofio. No, no, mi dice, mamma il fratello è qui in Italia, è arrivato con noi. A quel punto siamo rimasti sconvolti da questa cosa. Tempestivamente abbiamo chiamato in Cai per capire se esisteva qualcosa di tutto questo. Purtroppo nessuno sapeva niente in quanto ai nostri figli e al fratello sono stati cambiati i dati anagrafici. Nome, cognome e quant'altro. Quindi era praticamente impossibile risalire a questa unione. Quando siamo venuti a Roma all'arrivo dei bambini, il fratello era in una stanza accanto con i bambini più grandi. Noi siamo venuti via con i nostri figli. Il fratello maggiore ci ha visti, ma non ha avuto la possibilità di salutarli né i nostri figli hanno detto niente perché erano stati obbligati a non dire niente. Quando erano a Goma, al centro Fed, gli era stato detto più volte che non dovevano comunicare come eravamo noi, della nostra famiglia, altrimenti i soldati venivano e li portavano via. Questo è quanto hanno dovuto sopportare due creature di sei e sette anni. Dopo aver comunicato alla Cai questa notizia sconvolgente di questo ulteriore fratello in Italia, siamo riusciti dopo un po' di tempo a trovarlo, li abbiamo fatti rivedere con una gioia immensa. Ci siamo trovati poi nel mezzo di una situazione dove la scheda era completamente, completamente voglio sottolineare, falsata. Completamente. Non c'era una virgola di verità. Anche questo ci ha ulteriormente devastati a livello psicologico. Nel periodo in Congo», aggiunge Eva Mannelli, «avendo dato mandato alla Cai che i bambini venissero spostati dal centro Fed, perché è in una zona di Goma molto pericolosa, a una struttura nella capitale più protetta, i nostri figli sono stati sequestrati dall'ente per diciotto mesi e sono rimasti al Fed. Per cui noi per diciotto mesi non abbiamo avuto lo straccio di una notizia». Questi sono i fatti. Poi ci sono le istituzioni. A cominciare dall'autorità più alta destinataria di numerose denunce, il premier Paolo Gentiloni, attuale presidente della Cai, che per ora non ha voluto rinnovare l'incarico di vicepresidente al magistrato Della Monica che ha scoperchiato lo scandalo e fa sapere all'Espresso: «La vicenda dei bambini è una cosa, la vicenda della nomina è un pochino più complessa». E c'è l'autorità giudiziaria, con la moglie del procuratore di Milano, Laura Laera, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze sulla soglia della pensione, in attesa che Gentiloni le dia il posto della collega Della Monica secondo un piano disegnato già nel 2016: Laera vicepresidente e la sottosegretaria Boschi presidente della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali, che è un piccolo ministero degli Esteri dentro la Presidenza del Consiglio e anche l'autorità di controllo sugli enti autorizzati per le adozioni internazionali. Vista da una certa angolazione è come se il governo volesse dare a tutti i costi un incarico alla moglie di Francesco Greco, il procuratore milanese che è anche titolare delle indagini sulle adozioni di Aibi in Congo e sui rapporti di Aibi dentro le istituzioni. Greco è un gran tifoso della nomina di Laura Laera, tutti e due magistrati dal curriculum irreprensibile: «Esiste una commissione e questa commissione deve funzionare», dice il procuratore di Milano in una conversazione con "L'Espresso", dopo che Griffini il 22 febbraio scorso aveva annunciato prima di tutti, e accolto con soddisfazione, la candidatura di Laera e Boschi ai vertici della Cai: «Questa commissione non funziona. È sparita, si è clandestinizzata. Ma pare possibile che un organismo dello Stato non viene riunito e nessuno sa perché?», si chiede Greco, criticando severamente il lavoro della collega Silvia Della Monica, che secondo lui usa «metodi tra virgolette un po' mafioselli... attacca mia moglie per attaccare la Boschi». In realtà non è la vicepresidente della Cai Della Monica a criticare il governo. Sono le famiglie che hanno denunciato l'ente di Marco Griffini a protestare con esposti e appelli perché, sostengono, il silenzio e le scelte di Paolo Gentiloni rafforzano Aibi. Griffini nel frattempo ha annunciato conseguenze legali milionarie per i genitori che l'hanno accusato. Mentre alcuni utenti anonimi di Twitter sono passati alle minacce: come quelle sulla capacità all'uso dei "ferri" e sull'addestramento mensile al poligono scritte a un papà adottivo che aveva accusato pubblicamente l'ente milanese. La Procura che sta indagando su Aibi dovrebbe sapere perché la Commissione per le adozioni internazionali non viene convocata. Ma evidentemente sfugge: Aibi, ente sotto indagine per presunte omissioni gravissime, siede per interposta persona nella stessa commissione di controllo che la dovrebbe controllare. E questo renderebbe illecita qualunque delibera, come hanno già denunciato alcuni enti alla Procura di Roma. Una irregolarità che a fine marzo Maria Elena Boschi ha reiterato invece che risolvere: con le deleghe di firma attribuitele da Gentiloni, ha infatti nominato nella Cai il rappresentante di un'associazione partecipata nel suo direttivo anche da Aibi. La sottosegretaria, aspirante presidente della commissione, ha così violato in un colpo solo due decreti che vietano le posizioni di incompatibilità, uno del presidente della Repubblica, l'altro del suo predecessore Graziano Delrio. E perfino l'interesse superiore dei bambini, inserendo in una importante autorità della Presidenza del Consiglio un ente che, stando alla testimonianza delle vittime, di fronte a pedofili e trafficanti non ha fatto quello che qualunque associazione o persona avrebbe dovuto fare. Una incompatibilità che l'attuale vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, il cui mandato è scaduto a febbraio ma può essere rinnovato, ha più volte segnalato nelle sedi istituzionali. E che nessun altro magistrato italiano, minorile o inquirente, ha invece osato denunciare. Quindi, a differenza del suggerimento di Gentiloni, la vicenda dei bambini e la vicenda della nomina appaiono piuttosto come la stessa cosa. Il 24 marzo scorso un conoscente comune tra il presidente del Consiglio e chi scrive, telefona: «È capitato qualche giorno fa di incontrare sia Gentiloni che la Boschi», rivela: «E con toni pacati, parlando d'altro, mi hanno detto: guarda che le due vicende, cioè la vicenda dei bambini è una cosa, la vicenda della nomina è un pochino più complessa... E mi hanno spiegato un po' di cose interne riguardo a questo magistrato (Della Monica), alcune questioni che sono avvenute, alcuni comportamenti avvenuti all'estero, alcune problematiche diplomatiche che si sono create. Questo collegamento non è così. E il governo non vuole tirare fuori queste cose, nel senso di dire quali sono le motivazioni complessive. È una decisione che è stata presa indipendentemente dalla vicenda dei bambini, in una sorta di scadenza naturale e che noi (il governo) adesso ci vediamo attribuita come una volontà politica di difesa di una associazione... Mi hanno fatto capire che non è proprio così collegata. Ti ripeto, con toni molto pacati mi hanno detto che non è così. Non è una rimozione. È una scadenza su cui si è intervenuti per una serie di ragioni generali... La nomina non è legata a questo fatto. E tiene dentro tutta una serie di questioni di varia natura. Sono questioni credo avvenute su alcuni comportamenti tenuti all'estero da parte sua, in difformità degli ordinamenti giuridici internazionali. E quindi delle denunce che sarebbero arrivate da alcune situazioni in cui lei si è mossa utilizzando poteri che non sono attribuibili alla sua figura. Ci sono state delle contestazioni a livello del ministero degli Esteri di una certa importanza che Gentiloni ovviamente conosce in quanto prima era ministro degli Esteri. Pensare che Gentiloni possa fare una rimozione per questo motivo qui, conoscendolo, mi sembra difficile da sostenere». Al presidente del Consiglio e alla sua sottosegretaria possono aver taciuto alcuni dettagli. Ma da quello che risulta da una lettera di Marco Griffini del 9 gennaio 2015 e da una successiva mail del 14 gennaio all'ambasciatore italiano a Kinshasa, Massimiliano D'Antuono, è proprio Aibi a dettare la linea al ministero degli Esteri sui bambini trattenuti negli orfanotrofi dell'ente in Congo. Il tentativo evidente è di ostacolare i trasferimenti dei piccoli in luoghi più sicuri disposti da Silvia Della Monica e dall'autorità congolese su richiesta dei genitori italiani. E i desideri di Aibi, già sotto inchiesta, vengono fatti propri dal ministero degli Esteri, allora guidato da Gentiloni, evidentemente tenuto all'oscuro. Lo dimostra la comunicazione urgente non classificata diramata subito dopo, sempre il 14 gennaio, dall'ambasciata italiana alla Direzione generale italiani all'estero, alla Direzione generale mondializzazione e questioni globali, al gabinetto del ministro, alla Presidenza del Consiglio, al ministero dell'Interno e ad altri destinatari che certifica la versione spacciata dal presidente di Aibi: da quella comunicazione della Farnesina, passerà un anno e mezzo prima che i bambini vengano liberati, come conferma la testimonianza alla Camera di Eva Mannelli. Quattro giorni dopo la telefonata del conoscente comune, il 28 marzo di quest'anno, Maria Elena Boschi, con i poteri di delega del presidente del Consiglio, nomina dentro la Commissione per le adozioni internazionali il rappresentante del "Forum delle associazioni familiari" ai cui vertici siedono due rappresentanti di Aibi. Un nuovo cortocircuito che rimette in gioco l'ente di Marco Griffini e i suoi infiniti poteri.
Incarico a Ong in contatto con i trafficanti Esposto in Procura contro M. Elena Boschi, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" l'11 maggio 2017. Dieci associazioni chiedono con un esposto che il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, apra un'inchiesta sulla decisione della sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, di nominare nella Commissione per le adozioni internazionali il rappresentante di un'organizzazione controllata anche da "Aibi - Amici dei bambini". Si aggiunge così un nuovo guaio all'agenda dell'ex ministra per le Riforme, già alle prese con le rivelazioni su Banca Etruria. La prima ragione su cui la Procura dovrebbe indagare è il decreto, firmato il 28 marzo 2017 dalla sottosegretaria del premier Paolo Gentiloni, in evidente contrasto con altri due decreti, uno del presidente della Repubblica, il secondo della Presidenza del Consiglio, che vietano il conflitto di interessi nella commissione. La seconda ragione è ancor più grave: Aibi, una Ong con sede a San Giuliano Milanese, è sotto inchiesta per non aver tempestivamente denunciato una rete di pedofili che in Bulgaria sfruttava per produrre film pornografici i bambini di un orfanotrofio poi adottati in Italia e per non aver mai denunciato i trafficanti con cui era e sarebbe in contatto in Congo che con l'inganno strappavano i figli ai loro genitori naturali per poi darli in adozione in Italia. I dieci enti che firmano l'esposto, tra i quali "Movimento Shalom" di don Andrea Cristiani, si rivolgono quindi alla magistratura perché «svolga ogni necessaria attività, affinché vengano effettuati gli opportuni accertamenti, nonché venga valutata la sussistenza di eventuali profili di rilevanza penale procedendo, in caso affermativo, nei confronti dei soggetti responsabili». Il decreto della sottosegretaria Boschi è infatti in contrasto con gli altri due decreti che vietano che enti autorizzati per le adozioni internazionali o associazioni da loro controllate entrino nella commissione della Presidenza del Consiglio, che è appunto la massima autorità di controllo sugli enti autorizzati. Nonostante ripetuti esposti e appelli al premier Gentiloni e la denuncia del conflitto di interessi in Parlamento da parte della vicepresidente della commissione, il magistrato Silvia Della Monica, Maria Elena Boschi ha nominato l'avvocato Francesco Bianchini, consigliere nel direttivo del "Forum nazionale delle associazioni familiari" dove siedono esponenti del vertice di Aibi. «La nomina e la partecipazione ai lavori della Commissione in pieno conflitto di interessi di enti autorizzati alle adozioni internazionali e l'alterazione della par condicio tra enti è gravemente lesiva della nostra posizione», scrivono le associazioni che chiedono l'intervento della Procura di Roma: «La questione è da tempo all'attenzione delle Istituzioni preposte alla materia e in questo ultimo triennio la Commissione per le adozioni internazionali ha doverosamente interrotto il protrarsi di una situazione illegittima, peraltro ripetutamente denunciata e portata all'attenzione degli organi competenti».
Incarico alla Ong in contatto con i trafficanti Aibi ammessa in commissione di governo, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 4 maggio 2017. Nell'autorità di Palazzo Chigi sulle adozioni entra un'associazione controllata dall'ente che non ha denunciato i pedofili in Bulgaria e le irregolarità con il Congo. La nomina firmata dalla sottosegretaria Boschi in contrasto con un decreto del presidente della Repubblica. Nuove minacce anonime ai genitori che hanno scoperchiato lo scandalo. Continua intanto l'iter di Gentiloni per mettere al vertice la moglie del capo della Procura di Milano, che sta indagando anche sui rapporti tra l'organizzazione e le istituzioni. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, alla ricerca di contatti tra Ong e trafficanti di persone, dovrebbe leggere il decreto firmato il 28 marzo scorso da Maria Elena Boschi. La sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, con la delega di firma attribuitale dal premier Paolo Gentiloni, ha nominato un nuovo componente nella Commissione per le adozioni internazionali, l'autorità di controllo che nei fatti è anche un piccolo ministero degli Esteri e della Cooperazione alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi. Il prescelto, l'avvocato Francesco Bianchini, per tre anni rappresenterà dentro la Presidenza del Consiglio il "Forum nazionale delle associazioni familiari", ente controllato anche da "Aibi - Amici dei bambini": Aibi è proprio l'organizzazione non governativa sotto indagine per aver segnalato con tre mesi di ritardo, soltanto dopo un'inchiesta de "L'Espresso", lo sfruttamento dei piccoli ospiti di un orfanotrofio in Bulgaria per la produzione di filmati pedopornografici e per non aver denunciato il traffico con il Congo di minori tolti con l'inganno alle loro famiglie da alcune autorità locali a Goma. Una forma sofisticata di tratta di persone, secondo i genitori che hanno scoperchiato lo scandalo, non meno odiosa di quella commessa dai trafficanti in Libia al centro delle polemiche di questi giorni, perché colpisce i bambini. Il decreto che nomina l'avvocato Bianchini violerebbe in un colpo solo il decreto del presidente della Repubblica numero 108 del 2007 e il decreto del presidente del Consiglio del 13 marzo 2015, che la sottosegretaria Boschi cita addirittura nelle premesse del suo provvedimento. In sintesi i due decreti violati stabiliscono, comprensibilmente, che gli enti autorizzati dal governo ad operare all'estero nel settore delle adozioni internazionali e in quella parte della cooperazione legata alle adozioni non possono sedere nella commissione, che è l'autorità di controllo che li dovrebbe controllare: l'evidente conflitto di interessi risulta cacofonico perfino nella lingua italiana. L'avvocato Bianchini siede infatti nel consiglio direttivo del "Forum delle famiglie" nel quale è presente, tra gli altri, Cristina Riccardi, coordinatrice di Aibi. Cristina Riccardi è anche contemporaneamente tra i sette membri con il presidente-fondatore Marco Griffini del consiglio direttivo di Aibi ed è segretaria nel consiglio direttivo della "Pietra Scartata", altra associazione di Griffini. Un altro manager di Aibi, Ermes Carretta, controlla invece i bilanci del "Forum delle famiglie": è infatti uno dei tre revisori dei conti, ma è anche, contemporaneamente, il numero tre di Aibi. Dopo il presidente Griffini e il vicepresidente Giuseppe Salomoni, Carretta è il segretario e tesoriere dell'associazione autorizzata dal governo ad adottare bambini all'estero. Che lo staff legale della sottosegretaria-ex ministro Boschi non fosse forte in diritto costituzionale lo hanno deciso quasi venti milioni di italiani nel referendum del 4 dicembre scorso. Ma, pur riconoscendole l'attenuante che possa aver firmato senza conoscere i decreti che lei stessa cita, al suo ufficio servirebbe ora qualche ripetizione in diritto amministrativo. Il decreto 108 del presidente della Repubblica stabilisce che gli enti autorizzati per le adozioni internazionali non possono ovviamente sedere nella commissione che li controlla. Il successivo decreto del 2015 risolve anche il conflitto di interessi del "Forum delle famiglie". Dispone infatti che «i soggetti designati dalle associazioni familiari a carattere nazionale non possono essere nominati o permanere nell'incarico: se alle associazioni familiari che li esprimono partecipano o aderiscano enti autorizzati dalla commissione; se, nelle associazioni familiari che li esprimono... ricoprono cariche sociali o di amministrazione, partecipano a organizzazioni di governo, organi direttivi, di controllo, di garanzia... anche tramite propri rappresentanti o soggetti che operano o collaborano con loro...». Il decreto del 2015 è firmato da Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Renzi e oggi ministro nel governo di cui Maria Elena Boschi è sottosegretaria. Insomma, sarebbe bastata una telefonata tra i due per evitare una grave figuraccia e soprattutto un pugno nei denti alle famiglie che hanno avuto il coraggio di denunciare e attendono senza successo che tutte le istituzioni facciano la loro parte. La situazione di evidente illegalità, che dal 2014 impedisce alla Commissione per le adozioni internazionali di riunirsi, è stata più volte denunciata anche pubblicamente dall'attuale vicepresidente, il magistrato Silvia Della Monica. L'organo di Palazzo Chigi dovrebbe infatti prendere provvedimenti contro Aibi e Griffini, a cominciare dalla revoca cautelativa dell'autorizzazione ad adottare. Ma non può chiaramente farlo perché, per motivare il provvedimento, il magistrato Della Monica dovrebbe illustrare documenti coperti dal segreto a una commissione dove siede il rappresentante di un'associazione partecipata e controllata da esponenti di Aibi. Il problema non è la presenza del "Forum delle famiglie", prevista dalla legge, ma la presenza di Aibi nel suo direttivo. Della Monica ha anche pubblicamente denunciato che in passato la commissione, in pieno conflitto di interessi, ha stanziato decine di milioni di soldi pubblici, dandone in parte ad Aibi e non ad altri enti concorrenti, non presenti in commissione. La sostituzione del componente uscente del forum, Simone Pillon, poteva essere l'occasione per ripristinare la regolarità. Invece scrive e firma la sottosegretaria Boschi: «Vista la dichiarazione resa dall'avvocato Francesco Bianchini in ordine alla insussistenza di cause di inconferibilità e incompatibilità... nonché all'assenza di situazioni, anche potenziali di conflitto di interessi, per lo svolgimento dell'incarico in parola». Non è solo una beffa. Al di là delle eventuali implicazioni legali e penali di quanto è avvenuto, i reati denunciati, la doverosa tutela a bambini violentati per anni o strappati alle loro famiglie con l'inganno meriterebbe maggiore attenzione. Quello che esattamente decine di famiglie italiane si aspettavano dalla sottosegretaria Boschi e dal premier Gentiloni. Il danno alle indagini viene ora reiterato dall'ammissione in un organismo di governo di rappresentanti di una Ong che non ha fatto tutto quello che poteva e doveva fare contro una rete di pedofili (l'ha già stabilito un Tribunale) e contro un'organizzazione di trafficanti di minori (è l'inchiesta in corso). Una presenza che impedisce alla Commissione per le adozioni internazionali di sospendere cautelativamente l'attività di Aibi. Il presidente Griffini continua a contare su evidenti appoggi in Parlamento e, lo vediamo palesemente ora, anche a Palazzo Chigi in chi ha confezionato il decreto sottoposto alla firma della sottosegretaria (non riusciamo a immaginare che Maria Elena Boschi fosse consapevole dell'errore). Questo fatto si aggiunge a quanto denunciato da Silvia Della Monica in un rapporto riservato al premier: «Già quando nel maggio scorso Matteo Renzi aveva ancora solo annunziato la mia sostituzione come presidente con Maria Elena Boschi, questo ha determinato una situazione di grave pericolo per coloro che in Rdc stavano adoperandosi per la Cai e per l'incolumità dei bambini che venivano tenuti ancora sequestrati a Goma». Cioè qualcuno a Palazzo Chigi ha spinto involontariamente Renzi a mettere in pericolo i mediatori del governo italiano e gli stessi bambini tenuti sequestrati a Goma, una zona di guerra in Congo. Chi è? Gentiloni e la sottosegretaria Boschi, da politici oltre che da pubblici ufficiali insieme con Renzi, dovrebbero rispondere con i nomi e spiegandone il perché. Invece hanno deciso di non rinnovare l'incarico al magistrato che ha scoperchiato lo scandalo e di sostuire Silvia Della Monica proprio con la moglie del procuratore di Milano, Francesco Greco, che ha ereditato da Roma il fascicolo dell'inchiesta, nel quale le famiglie denunciano esplicitamente presunti legami tra l'organizzazione non governativa Aibi e le istituzioni. Laura Laera, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, ha accettato l'offerta di incarico di Maria Elena Boschi, secondo un organigramma che prevede la sottosegretaria presidente della commissione (oggi è Gentiloni), Laera vicepresidente. E, lo apprendiamo dal decreto di nomina, Aibi ancora seduta nell'autorità di controllo attraverso il "Forum della famiglie". Il Consiglio superiore della magistratura ha accolto la proposta del governo e ha già deliberato il nulla osta per incaricare la moglie del procuratore di Milano. Lo scivolone di Palazzo Chigi è un pessimo inizio. Persa definitivamente la fiducia in Gentiloni, ai genitori che chiedono giustizia non resta che contare sull'autorevolezza e l'indipendenza riconosciuta a Francesco Greco perché la Procura milanese porti l'inchiesta fino in fondo. E sul fatto che Silvia Della Monica rimanga al suo posto per evitare che Aibi o sue emanazioni possano ottenere altri incarichi delicati. Alcuni dei genitori che hanno firmato le denunce hanno ricevuto minacce via twitter rlanciate da profili anonimi che si firmano Peder, ilBarba, Mauro Leli. Quest'ultimo ha anche scritto: «Con i ferri ho un certo mestiere e mi pagano per esercitarmi ad utilizzarli bene... anche senza la Cai», la Commissione per le adozioni internazionali. E alla protesta, sempre via Twitter di un papà, ha aggiunto: «Fai pure... non è nient'altro che la pura verità... aggiungo attività a cadenza mensile». L'allusione alle armi e ai tiri al poligono è evidente. Lo stresso anonimo che si firma Mauro Leli ha pubblicato anche un messaggio indirizzato al magistrato Della Monica: «Cara signora sappia che nessuno ce l'ha mai fatta quando mi è andato contro». Chi è davvero Mauro Leli?
Bimbi rubati, schiaffo alle vittime dei traffici E Gentiloni non risponde al magistrato, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 20 aprile 2017. L'appello riservato di Silvia Della Monica al presidente del Consiglio: «Commercio di minori e pedofilia, il governo italiano non può essere additato come difensore dei criminali». Ma il premier non riceve la vicepresidente della Commissione adozioni che ha scoperchiato lo scandalo. E il Csm dà il nullaosta alla sua sostituzione. Il Consiglio superiore della magistratura ha autorizzato il collocamento fuori ruolo della presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera: «Destinata a ricoprire l'incarico di vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali», spiega una nota dell'organo di autogoverno dei magistrati, «su nomina della presidenza del Consiglio». Il premier Paolo Gentiloni e la sottosegretaria Maria Elena Boschi hanno così confermato l'intenzione di non rinnovare il mandato al magistrato antimafia Silvia Della Monica, il cui incarico di vicepresidente era scaduto nelle scorse settimane. Sia il capo del governo, sia la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio hanno quindi deciso di ignorare gli accorati appelli di una cinquantina di famiglie adottive che hanno denunciato l'ente milanese per le adozioni internazionali "Aibi - Amici dei bambini" e chiedevano al governo la dovuta protezione di fronte alle continue minacce nei confronti loro e dei loro figli. I bambini sono infatti vittime e testimoni diretti di quanto è avvenuto nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove Aibi non avrebbe segnalato quanto sapeva su gravi irregolarità nelle procedure di adozione, e in Bulgaria, dove l'organizzazione di San Giuliano Milanese ha ritardato di tre mesi la denuncia contro una rete di pedofili che sfruttava i bimbi di un orfanotrofio per girare film pornografici. Ritardo confermato da un Tribunale italiano. E i pedofili non sono mai stati identificati. «Forse SDM (Silvia Della Monica) la scampa per problemi mentali, ma per la "company" saranno dolori forti forti. Auguri!», scrive ad alcune coppie adottive su Twitter un anonimo che si definisce "il Barba", profilo seguito da diciassette "follower" tra i quali Marco Griffini, presidente di Aibi, Irene Bertuzzi, sua moglie, e Maurizio Faggioni, un loro amico e collega (che ovviamente non hanno alcuna responsabilità per i testi pubblicati da "il Barba"). «E ora chiudiamo il conto anche con chi direttamente o indirettamente vi ha sostenuto... è tutto pronto, manca soltanto un semplice click», avverte in concomitanza con il nullaosta del Csm a Laura Laera, il profilo Twitter di un altro anonimo che si firma Mauro Leli e che poco dopo aggiunge: «Il tempo delle streghe e del medioevo è finito. E vi va pure bene perché a quel tempo le streghe e i suoi seguaci venivano bruciati vivi». Una situazione delicatissima che sta terrorizzando le famiglie che si sono fidate delle istituzioni. E che per questo chiedevano al premier, e tuttora chiedono, la riconferma di Silvia Della Monica, finora unico magistrato al vertice della Commissione che ha tutelato vittime e testimoni perché potessero consegnare le loro denunce in piena sicurezza all'autorità giudiziaria. Altri esposti su Aibi, nella gestione precedente della Commissione, erano finiti nel nulla. Il premier Paolo Gentiloni, che è contemporaneamente presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), è al corrente dei pericoli che corrono i piccoli testimoni. Ma anche i funzionari legali che hanno operato in Congo su mandato del governo locale e del governo di Roma per liberare diciotto bambini adottati da famiglie italiane e trattenuti per un anno e mezzo a Goma, nell'Est del Paese africano. Il 18 febbraio scorso il magistrato Della Monica ha inviato al presidente del Consiglio un resoconto sulle indagini, che abbiamo potuto leggere grazie a fonti della segreteria generale di Palazzo Chigi. Le stesse fonti rivelano che Gentiloni non ha mai risposto né voluto ricevere il magistrato, suo vicepresidente nella Commissione. Nonostante la delicatissima situazione, Palazzo Chigi ha lasciato cadere nel vuoto il resoconto-appello. «L'inquietudine e l'angoscia delle famiglie che da tempo aspettano un segnale dal governo, mentre subiscono scherno e minacce dall'ente che si è macchiato di gravissime responsabilità nell'ambito delle adozioni internazionali e mentre assistono sconcertate agli ignobili attacchi alla mia persona e all'istituzione che rappresento per aver smascherato inconfessabili infamie che sono state commesse sulla pelle dei bambini, è diventata la mia preoccupazione istituzionale», scrive Silvia Della Monica a Paolo Gentiloni: «Ritengo irrimandabile e necessario fornirTi, in ragione del Tuo ruolo di presidente della Commissione adozioni internazionali, ma soprattutto in ragione del Tuo ruolo di presidente del Consiglio e capo del governo italiano, alcuni elementi di conoscenza fondamentali, che riguardano il delicatissimo ambito di cui sono responsabile da tre anni e che, da quando hai assunto l'incarico di premier, ricade anche nella Tua responsabilità». «Quando ho assunto questo compito, ormai tre anni fa», continua il magistrato Della Monica, «pensavo sinceramente di potermi dedicare, dopo tanti anni di battaglie prima in sede giudiziaria, poi in sede parlamentare, ad un'attività sì impegnativa, sì delicata, ma certamente non così drammaticamente grave. Come sai, dopo la nomina a vicepresidente, Matteo Renzi mi ha conferito la delega di funzioni di presidente della Cai e questo, come è agevole comprendere dalla semplice lettura delle norme, nel pieno rispetto della legge. Quello che mi sono trovata di fronte, invece, é stata una situazione gravissima. Un organismo totalmente fuori controllo, o meglio un organo pubblico in cui alcune associazioni private che dovevano essere controllate e vigilate dalla Cai avevano preso il sopravvento. Soldi pubblici, milioni di euro, erogati con decisioni assunte in conclamato conflitto di interesse e quindi illegittime. Un organo collegiale in cui hanno seduto e siedono sotto mentite spoglie alcuni degli enti controllati, quelli che in pratica al posto di essere controllati e vigilati, controllavano la Commissione». «Ma soprattutto mi sono trovata di fronte all'abominio del traffico di minori, lo spregevole commercio dei bambini e l'orrore della pedofilia», denuncia la vicepresidente della Commissione adozioni internazionali a Gentiloni: «Nell'affrontare la moratoria delle adozioni in Congo mi sono trovata di fronte uno scenario dell'orrore che ha assunto tinte, se possibile, ancora più fosche dopo alcuni mesi dall'arrivo dei bambini in Italia e specialmente nelle ultime settimane. Come ho detto in sedi istituzionali, quindi in maniera ufficiale assumendomene tutta la responsabilità, sono arrivati in Italia sotto la responsabilità di un ente, bambini che hanno padri e madri a cui sono stati tolti con danaro o con l'inganno. Ci sono, in Italia, fratelli e sorelle che sono stati separati e che sono stati fatti adottare da genitori differenti. Queste famiglie ignare e schiantate da tanto dolore si sono affidate alla Commissione, a me, convinte che le istituzioni di questo Paese le avrebbero protette ed aiutate. Hanno affidato le vite dei loro figli, ora cittadini italiani, alle istituzioni italiane. E le istituzioni italiane non possono, non devono abbandonarle. Io non ho intenzione di farlo». «Sono stati commessi reati gravissimi che, l'ho detto pubblicamente ed in sede ufficiale, sono al vaglio della magistratura. Altro sta venendo fuori proprio in questi giorni e proprio grazie alla fiducia incondizionata che il mio lavoro di questi tre anni, la mia battaglia contro l'illegalità che si annidava in un organo alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio, ha determinato in una platea di famiglie, di cittadini italiani che non si fidavano della Cai, peggio non sapevano neanche cosa fosse. L'ente, con il suo presidente, ha montato una campagna diffamatoria e di calunnia nei confronti della mia persona e del governo italiano (visto che la Cai, mi preme ricordarlo, è nella diretta responsabilità del presidente del Consiglio). La macchina del fango è particolarmente in moto in questi giorni ed è esclusivamente mirata a chiedere la mia testa, perfettamente consci, coloro che si sono macchiati di fatti gravissimi, che dalla mia permanenza o meno al vertice della Commissione dipende la possibilità per loro di farla franca o di vedersi addossate le loro responsabilità, a partire dalla ineludibile revoca dell'autorizzazione ad operare come ente autorizzato. Ecco è proprio questo il punto. L'ente e il suo presidente sono perfettamente consapevoli di questo, come lo sono coloro che lo spalleggiano. Non sembra invece che lo sia il governo italiano. Ed è proprio la questione di cui mi preme renderTi consapevole. In questo momento la situazione è ad un punto delicatissimo, il mio venire meno dalla Commissione comporterebbe automaticamente l'irrimediabile affossamento di tutta l'attività di indagine portata avanti fin qui dalla Cai. E, lo affermo con grande determinazione, si comprometterebbero anche le indagini penali». «È certamente quello che vuole chi si è macchiato di gravi responsabilità e che sta disperatamente tentando di liberarsi di me che sto operando per portare fino in fondo l'azione di legalità», avverte Silvia Della Monica: «Ma certamente non è quello che può consentire il Governo della Repubblica italiana. Aggiungo con estrema serietà e con grandissima preoccupazione che, tra l'altro, la mia sostituzione metterebbe a rischio l'incolumità personale di coloro che su incarico della Cai, cioè su incarico del governo italiano, stanno ancora impegnandosi in Rdc per il nostro Paese, per la giustizia e per la legalità, avendo già pagato in questi tre anni un prezzo altissimo. Già quando nel maggio scorso Matteo Renzi aveva ancora solo annunziato la mia sostituzione come presidente con Maria Elena Boschi, questo ha determinato una situazione di grave pericolo per coloro che in Rdc stavano adoperandosi per la Cai e per l'incolumità dei bambini che venivano tenuti ancora sequestrati a Goma». «Non è questione di competenza ed autorevolezza, in questo momento chiunque, pur competente ed autorevole, non sarebbe in condizioni di poter portare avanti questa serissima azione di legalità. L'interruzione e lo stallo che un avvicendamento in questo momento comporterebbe in maniera ineludibile porrebbe nel nulla tutto il lavoro svolto. Questo succederebbe per fatto oggettivo, non per questione di incapacità o incompetenza di chi prenderebbe il mio posto. I trafficanti di minori se ne gioverebbero. Il governo italiano non può essere additato come difensore dei trafficanti di minori. Io fino ad oggi non l'ho consentito. Mi permetto di sottolinearTi ancora che questo sarebbe di fatto, per le ragioni che Ti ho sopra esposto. Il Governo che Ti ha preceduto a partire da Matteo Renzi, passando per Graziano Delrio e Maria Elena Boschi è stato da me puntualmente ragguagliato sulla situazione. La questione del traffico di minori verso l'Italia è sotto i riflettori della stampa italiana più autorevole e all'attenzione dei media internazionali». «Il mio interesse personale non conta», aggiunge Silvia Della Monica, «come non ha mai contato nella mia vita. Per me, che da servitore dello Stato, non ho mai arretrato, neanche di fronte al rischio della vita, quello che conta è il rispetto della legge, è che le istituzioni facciano il proprio dovere, che portino fino in fondo i propri compiti, che non abbandonino i cittadini inermi in balia del malaffare. La mia unica preoccupazione è che l'azione di moralizzazione intrapresa si fermi e venga posta nel nulla. La cosa sarebbe sicuramente letta come un favore fatto a quelli che hanno cose (terribili) da nascondere ed hanno lucrato sulla pelle dei bambini. Questo non posso permetterlo, Tu, caro Presidente, non puoi permetterlo, e d'altro canto non posso nemmeno nascondere la verità del coacervo di interessi della più varia natura di cui sono portatori quelli che auspicano la mia sostituzione. La fiducia nelle istituzioni si tramuterebbe in sconcerto e sarebbe interpretata come nel cliché della mafia, che mi è ben conosciuto per averla combattuta come magistrato, in un invito alle famiglie al silenzio e all'omertà, quando finalmente hanno rotto la consegna del silenzio che i trafficanti dei bambini hanno per anni imposto loro e ai loro figli. Ti chiedo un colloquio urgente, per lealtà istituzionale e per metterTi in condizione di tutelare il buon nome del Governo da Te presieduto». Il colloquio richiesto non è mai stato concesso.
Bambini rubati, esposto delle famiglie a Csm «Fermate la nomina al vertice Adozioni», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" l'11 aprile 2017. Esposto al Consiglio superiore della magistratura da parte delle famiglie adottive che hanno denunciato i traffici di bambini tra la Repubblica Democratica del Congo e l'Italia. I genitori chiedono al Csm di valutare con attenzione tutti gli aspetti di compatibilità sulla nomina del presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera, a vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai). Il magistrato è stato candidato dal premier Paolo Gentiloni a sostituire Silvia Della Monica, l'attuale vicepresidente che ha scoperchiato lo scandalo sulle ritardate denunce dei pedofili e sulle presunte irregolarità nelle adozioni da parte dell'ente milanese "Aibi Amici dei bambini". Ma perché la presidente del Tribunale venga trasferita al nuovo incarico è necessario il nullaosta dell'organo di autogoverno della magistratura. Nei giorni scorsi la candidatura di Laura Laera è già stata bocciata all'unanimità dal consiglio giudiziario della Corte d'Appello di Firenze, il cui parere però non è vincolante. Il sindacato dei funzionari di Palazzo Chigi "Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche" intanto con un comunicato ufficiale indirizzato a Gentiloni si rimangia il sostegno espresso altrettanto ufficialmente il 31 marzo all'indagine del magistrato Della Monica sulla rete di pedofili e trafficanti. Un dietrofront del segretario generale Lauro Crispino che fa pensare a pressioni esterne contro l'organizzazione di categoria, anche se gli interessati smentiscono. Il comunicato-giravolta di Crispino, datato 7 aprile, è stato pubblicato ieri, 10 aprile, dalla pagina ufficiale su Twitter di Marco Griffini, presidente di Aibi, l'ente sotto inchiesta. Il fascicolo con le denunce di una cinquantina di famiglie contro Aibi sarebbe stato recentemente trasmesso per competenza dalla Procura di Roma alla Procura di Milano. Se il Csm dovesse dare il nullaosta e il governo ufficializzare il nuovo incarico ai vertici della Cai ci si troverebbe di fronte a una curiosa coincidenza: Laura Laera da vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali indagherebbe su Aibi per le eventuali ricadute amministrative e il marito, Francesco Greco, procuratore di Milano, coordinerebbe l'inchiesta per gli eventuali risvolti penali. Un'altra circostanza rende ancor più intricata la vicenda: «Perché Marco Griffini, come apprendiamo dal suo sito», si chiedono i genitori nell'esposto inviato anche al presidente della Repubblica, «ha deciso di portare false accuse contro la dottoressa Della Monica proprio all'attenzione del procuratore della Repubblica di Milano, nel mentre si compiace della nomina a vicepresidente della Cai della moglie di quest'ultimo?». La Procura di Milano, su richiesta del presidente di Aibi, dovrebbe dunque valutare l'operato dell'attuale vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, il cui incarico è conteso dalla moglie del procuratore. Ovviamente della sovrapposizione di ruoli che si è venuta a creare i magistrati coinvolti non hanno alcuna responsabilità. Di loro parla l'integerrima storia professionale. Il problema è come Palazzo Chigi ha gestito l'inchiesta amministrativa fin dalle sue origini, decidendo di non rinnovare l'incarico a Silvia Della Monica nonostante le indagini siano ancora in corso. Per questo le famiglie adottive, che nell'esposto parlano anche delle minacce ricevute, chiedono particolare attenzione al Csm: «Nella grave situazione descritta, animati dal solo intento di difendere i diritti dei bambini e la credibilità delle istituzioni, riteniamo indispensabile sottoporre alla vostra autorevole attenzione le importanti questioni esposte, affinché il Consiglio superiore della magistratura, nell'assumere le sue determinazioni, non ometta di valutare tutti i delicati profili che abbiamo rappresentato e le loro ricadute». L'esposto oltre che al presidente Sergio Mattarella, al vicepresidente Giovanni Legnini e ai componenti del Csm è stato inviato anche al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nella lettera-dietrofront al premier Gentiloni della "Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche", il segretario generale Crispino smentisce invece l'evidenza dei fatti: «Ad un esame più approfondito della questione», scrive, «abbiamo dovuto rilevare con rammarico che alcune affermazioni contenute nella lettera relative a comportamenti illegittimi relativamente a presunti conflitti di interesse sono destituite da ogni fondamento essendo la composizione della commissione stabilità per legge, sia per quanto riguarda "soldi pubblici erogati con un sistema distorto", sia per quanto riguarda l'aver ipoteticamente tollerato che "i bambini siano trafficati, strappandoli alle famiglie di origine povere con l'inganno e con la forza del denaro"». Questo aveva invece scritto il sindacato prima della giravolta: «La Commissione oggi non è più la sede in cui si consumavano conflitti di interesse perché vi sedevano illegittimamente controllori e controllati e in cui venivano erogati soldi pubblici con un sistema distorto, non è più il luogo in cui si possano tollerare che i bambini siano trafficati, strappandoli alle famiglie di origine povere con l'inganno o con la forza del danaro. E nel perseguimento di questo obiettivo, il personale della Commissione adozioni internazionali che ha lavorato al fianco del consigliere Della Monica è stato coinvolto in un percorso virtuoso, nel quale si è sentito valorizzato ed ha accresciuto la propria professionalità».
Bimbi rubati, il sindacato di Palazzo Chigi «Premier difenda il magistrato dell'indagine», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 2 aprile 2017. Appello dei funzionari a Gentiloni: «La Commissione oggi non è più la sede in cui si consumavano conflitti di interesse perché vi sedevano illegittimamente controllori e controllati, in cui venivano erogati soldi pubblici con un sistema distorto». E ancora: «Non è più il luogo in cui si possano tollerare che i bambini siano trafficati, strappandoli alle famiglie di origine povere con l'inganno o con la forza del denaro». Una lettera del principale sindacato dei dipendenti della Presidenza del Consiglio chiede al premier Paolo Gentiloni di difendere i funzionari della Commissione per le adozioni internazionali: gli stessi che si sono occupati delle presunte omissioni dell'ente autorizzato dal governo "Aibi-Amici dei bambini" di San Giuliano Milanese nel segnalare pedofili e trafficanti di minori. In questo necessario intervento di difesa secondo Lauro Crispino, segretario generale vicario della "Flp - Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche", va inclusa anche la riconferma («perché possa portare avanti questa azione di legalità») del magistrato Silvia Della Monica, attuale vicepresidente della Commissione, che ha coordinato il lavoro dei funzionari, tutti dipendenti di Palazzo Chigi, permettendo così di scoperchiare lo scandalo. Rimuovere ora la vicepresidente, il cui mandato è scaduto a febbraio e può essere rinnovato, osserva Crispino, «farebbe solo il gioco dei trafficanti dei bambini e dei pedofili, di chi specula vergognosamente sulla pelle dei bambini e delle famiglie italiane». La lettera a Gentiloni, istituzionale nei toni, è molto severa nei contenuti: «La Commissione oggi non è più la sede in cui si consumavano conflitti di interesse perché vi sedevano illegittimamente controllori e controllati e in cui venivano erogati soldi pubblici con un sistema distorto», scrive il sindacato dei dipendenti della Presidenza del Consiglio, «non è più il luogo in cui si possano tollerare che i bambini siano trafficati, strappandoli alle famiglie di origine povere con l'inganno o con la forza del danaro. E nel perseguimento di questo obiettivo, il personale della Commissione adozioni internazionali che ha lavorato al fianco del consigliere Della Monica è stato coinvolto in un percorso virtuoso, nel quale si è sentito valorizzato ed ha accresciuto la propria professionalità». Continua l'appello del sindacato di Palazzo Chigi, inviato anche ai parlamentari, che l'hanno poi diffuso: «Questi risultati così importanti, anche sul piano della valorizzazione del lavoro pubblico, non possono essere vanificati. Questo farebbe solo il gioco dei trafficanti dei bambini e dei pedofili, di chi specula vergognosamente sulla pelle dei bambini e delle famiglie italiane e di chi denigra ingiustamente le amministrazioni pubbliche. Non sarebbe certo utile al governo italiano». «Lei», aggiunge il sindacato rivolgendosi al presidente del Consiglio, «è perfettamente a conoscenza dei vari servizi giornalistici che hanno portato alla luce scandali di adozioni sospette configurate come vere vendite di innocenti bambini, alcuni dei quali sottratti di forza alle proprie famiglie. Di questo si occuperà certo la magistratura che sta facendo il suo lavoro. Ma questa opera di pulizia e legalità deve essere portata a termine anche dalla Commissione che ha compiti precisi in questo senso e da chi l'ha degnamente guidata in questi tre anni». «Signor Presidente», conclude il segretario della Flp, «Le scriviamo affinché il Governo da Lei presieduto intervenga per fornire tutti gli strumenti a chi ha svolto e sta svolgendo questa preziosa azione e perché il personale della Commissione per le adozioni internazionali che affianca il consigliere Della Monica possa sentirsi, come è stato fin ad ora, fiero del lavoro che ha svolto a fianco della stessa per tutelare il superiore interesse dei minori da adottare». Il sindacato dei funzionari della Presidenza del Consiglio illustra anche i risultati economici della riorganizzazione della Commissione sotto il mandato del magistrato Della Monica: «Tale importante azione ha, tra l'altro, prodotto rilevanti risparmi di spesa e contenimento dei costi: basti pensare al più che dimezzamento delle spese sostenute per l'assistenza tecnica informatica (passate da euro 1.011.439 dell’anno 2013 a euro 479.155 dell’anno 2015) e delle spese sostenute per l'assistenza tecnica fornita dall'Istituto degli Innocenti (passate da euro 1.009.395 dell’anno 2013 a euro 490.911 dell’anno 2015), nonché alle spese sostenute per gli incontri internazionali e l'accoglienza delle delegazioni straniere (passate da 20.000 euro di media per ogni singolo incontro con le delegazioni estere dell’anno 2013, a 3.000 dell’anno 2015 con la nuova gestione)».
Bambini rubati, deputati Pd e governo contro le famiglie che hanno denunciato i trafficanti, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 23 marzo 2017. Conferenza alla Camera per sostenere la rimozione del magistrato Della Monica che ha scoperchiato lo scandalo. Coinvolto nell'operazione anche il Consiglio superiore della magistratura. L'attrice Sarah Maestri: non sono testimonial di Aibi. Il Pd si schiera contro i genitori che hanno denunciato i ladri di bambini. Almeno questo appare leggendo oggi l'agenzia d'informazione di Aibi, l'ente milanese accusato da decine di famiglie per aver ritardato di tre mesi la segnalazione di una banda di pedofili in Bulgaria e per aver omesso di denunciare un'organizzazione di trafficanti di minori che operava tra la Repubblica Democratica del Congo e l'Italia. L'associazione-impresa di Marco Griffini, il presidente e fondatore di Aibi, dà ampio risalto alla conferenza organizzata questo pomeriggio alla Camera dai deputati del Partito democratico Chiara Gribaudo, Vanna Iori e Tonino Moscatt con la partecipazione di una testimonial molto vicina all'ente di Griffini, l'attrice Sarah Maestri. I tre parlamentari intendono così «dar voce a tutti i bambini e alle rispettive famiglie che vivono da anni una situazione di incertezza ed angoscia a causa dell’impasse venutasi a creare con la Commissione adozioni internazionali», che è l'autorità governativa di controllo. Una curiosa coincidenza: le stesse famiglie ospiti di Gribaudo, Iori e Moscatt con un appello pubblicato da Aibi chiedono al premier Paolo Gentiloni che «venga sbloccata la situazione attuale delle adozioni internazionali»: in altre parole, che venga rimossa la vicepresidente della Cai, il magistrato Silvia Della Monica, che ha scoperchiato lo scandalo sul traffico di bambini e messo sotto inchiesta Aibi e lo stesso Griffini. Ma il Pd e il suo premier Paolo Gentiloni possono schierarsi senza perdere la faccia dalla parte di chi è accusato di aver violato la legge e non aver raccontato la verità su pedofili e trafficanti di bambini? Sembra che sia il partito di Matteo Renzi, sia Palazzo Chigi non si stiano preoccupando affatto della loro reputazione, viste le grandi manovre e le pressioni messe in atto da emissari del governo sul Consiglio superiore della magistratura affinché acceleri i tempi e dia il suo nulla osta al magistrato candidato dalla sottosegretaria di Gentiloni, Maria Elena Boschi, a sostituire Silvia Della Monica. Da quanto ci risulta nessun parlamentare del Pd ha invece mai ricevuto o messo a disposizione la sua voce per difendere le famiglie minacciate per aver denunciato i trafficanti e i bambini strappati ai loro genitori naturali in Congo e portati in Italia con l'inganno. Tanto che questi genitori adottivi, inizialmente ignari dei retroscena, per far arrivare al governo la loro richiesta di protezione hanno dovuto inviare decine di fax a Palazzo Chigi. Senza, comunque, ottenere risposta. Per essere meglio preparati sulla questione, i deputati Gribaudo, Iori e Moscatt potrebbero esaminare i documenti che pubblichiamo qui sotto. Il primo è il verbale, fronte e retro, della riunione del 1 aprile 2014 in cui viene certificata la falsa versione del sequestro di bambini da parte di un commando armato: versione inventata per giustificare l'intervento nell'orfanotrofio legato ad Aibi delle famiglie naturali che si erano riprese i loro figli, pronti a partire con nomi falsi verso l'Italia. Alla riunione partecipano (lo sivede bene nei timbri a fine verbale) il rappresentante di Aibi in Africa, Eddy Zamperlin, l'avvocato di Aibi, Martin Musavuli, la direttrice dell'orfanotrofio Bénédicte Masika Sabuni e il presidente del Tribunale per i minorenni di Goma, Charles Wilfrid Sumaili. I documenti successivi dimostrano che questa versione, dichiarata da Aibi negli atti ufficiali, non è vera. Quello che segue è il rapporto interno dell'avvocato di Aibi, Martin Musavuli, da cui risulta che l'ente di Marco Griffini è al corrente che i bambini scomparsi non sono stati rapiti ma sono stati ripresi dai loro genitori naturali. Lo dice addirittura (nelle prime righe della pagina) il presidente del Tribunale per i minorenni di Goma, che è lo stesso Charles Wilfrid Sumaili che nel verbale qui sopra ha firmato la versione non vera dell'assalto armato. Scrive l'avvocato di Aibi in Congo alla sede centrale di San Giuliano Milanese: «Tutti questi bambini hanno sia il loro padre sia la loro mamma in vita che oggi li reclamano». E il legale dei Griffini a Goma aggiunge: «Il presidente del Tribunale per i minorenni mi ha confidato che è stato lui a far rientrare all'orfanotrofio Rehema Melanie [una delle bimbe adottata da una famiglia italiana] prima che sparisse di nuovo (probabilmente», fa notare l'avvocato di Aibi, «lei è con sua madre). Sua madre ha reclamato sua figlia alla polizia speciale per l'infanzia. Il presidente del Tribunale per i minorenni ha affermato che la bambina Rehema Melanie assomiglia fortemente a colei che dichiara di essere sua mamma». Sono numerosi e quasi quotidiani durante il mese di marzo 2014 i rapporti interni con cui l'avvocato di Aibi a Goma, Martin Musavuli, spiega allo staff di Marco Griffini la verità dei fatti sui bambini già adottati da coppie italiane ignare, con sentenze che dichiaravano il falso, e ripresi il 7 marzo dai loro genitori naturali. Musavuli rintraccia addirittura le loro famiglie. Quindi, quando dal primo aprile in poi Aibi sosterrà ufficialmente la finta versione dell'assalto armato di un commando di uomini sconosciuti, i responsabili dell'ente sanno che non stanno dichiarando la verità. Il documento qui sotto è la mail con cui l'avvocato Musavuli trasmette il suo primo rapporto (ne seguiranno altre). Lo ricevono i dipendenti di Aibi Eddy Zamperlin, Filomena Giovinazzo, Mauro Pitzalis, Laura Brivio e Valentina Griffini, figlia del presidente-fondatore e responsabile per le operazioni in Africa. Nonostante le gravi irregolarità commesse, Aibi continua a essere rappresentata nell'assemblea della Commissione per le adozioni internazionali attraverso il Forum delle famiglie, così come ha più volte denunciato al Parlamento il magistrato Silvia Della Monica. La «situazione attuale» della commissione, come è scritto nell'appello a Gentiloni pubblicato da Aibi, è bloccata da questo grave conflitto di interessi. Fingere di ignorare tutto questo, significa stare dalla parte dei ladri di bambini. L'avvocato Lina Caputo, legale dell'attrice Sarah Maestri, comunica che «la notizia desumibile dall'articolo, secondo cui costei sarebbe "molto vicina all'ente di Griffini" e assolutamente strumentale e destituita da ogni fondamento. La Maestri non è, né è mai stata, associata e tantomeno ha avuto contatti con il suddetto ente (Aibi) di Marco Griffini. L'aver abbinato il nome della mia assistita», continua l'avvocato, «ad un'associazione attualmente accusata "da decine di famiglie per aver ritardato di tre mesi la segnalazione di una banda di pedofili in Bulgaria e per aver omesso di denunciare un'organizzazione di trafficanti di minori che operava tra la Repubblica Democratica del Congo e l'Italia" assume un tenore inequivocabilmente diffamatorio». Per completezza d'informazione, riportiamo qui sotto i "tweet" pubblicati nelle ultime 48 ore in cui Marco Griffini, presidente di Aibi, sulla sua pagina ufficiale cita Sarah Maestri e, in fondo, l'elenco degli articoli sull'attrice pubblicati dall'agenzia di informazioni Aibinews.
Bimbi rubati, ecco i primi rapporti sul traffico Così il vertice Aibi non ha dichiarato la verità, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 5 marzo 2017. Esattamente tre anni fa, il 7 marzo 2014, quattro minori adottati in Italia venivano ripresi dalle loro famiglie naturali in Congo. La confessione choc del presidente del Tribunale di Goma che li aveva dichiarati orfani: tutti quei bambini hanno la mamma e il papà in vita che li reclamano. L'Espresso pubblica in esclusiva i documenti. Il ruolo del "Giglio Nero": la sottosegretaria Maria Elena Boschi sapeva delle indagini e vuole tuttora rimuovere il magistrato che ha scoperchiato lo scandalo. Qui sopra pubblichiamo il verbale mostrato da alcune fonti interne in Italia e in Congo di "Aibi-Amici dei bambini", l'ente autorizzato dal governo per rappresentare lo Stato italiano nelle delicate procedure delle adozioni internazionali. È uno dei tanti documenti che dimostrano che Marco Griffini, presidente e fondatore dell'organizzazione di San Giuliano Milanese, e il suo staff non hanno raccontato la verità ai genitori adottivi dei piccoli scomparsi e alla Cai, l'autorità governativa di controllo. L'8 marzo 2014 la direttrice dell'orfanotrofio che riforniva Aibi di bambini, Bénédicte Masika Sabuni, dichiara al presidente del Tribunale per i minorenni di Goma, in Congo, al procuratore della Repubblica, alla polizia e ad altre autorità che il giorno prima, il 7 marzo, quattro persone sono entrate nel suo istituto "Spd" e se ne sono andate con nove bambini. Dei quattro adulti la direttrice riferisce anche i nomi. All'oggetto è infatti scritto: «Denuncia a carico della famiglia: Moise Sadam, Kahindo Kasisi Bahwa, Kapalata-Kasereka, Salama Immacule», che evidentemente rappresentano più famiglie. Marco Griffini e il suo staff hanno invece dichiarato alle coppie adottive all'oscuro dei traffici e alla Cai, l'autorità centrale di controllo, che i quattro bambini in attesa di partire per l'Italia, tra quei nove scomparsi il 7 marzo, erano stati rapiti da «alcuni uomini armati non identificati». In particolare, gli operatori di Aibi hanno riferito verbalmente alle famiglie che i loro piccoli sono stati sequestrati da un commando di guerriglieri sconosciuti. Il 15 marzo 2014 l'avvocato di Aibi a Goma, Martin Musavuli, trasmette via email (qui sopra) il suo primo rapporto sui fatti del 7 marzo denunciati dalla direttrice dell'orfanotrofio. Lo ricevono Eddy Zamperlin, operatore di Aibi in Congo, e gli altri suoi colleghi Filomena Giovinazzo, Mauro Pitzalis, Laura Brivio e Valentina Griffini, figlia del presidente-fondatore e responsabile per le operazioni di Aibi in Africa. Nel rapporto dell'avvocato Musavuli, come vedremo, non si parla di incursioni da parte di uomini armati ma dell'intervento di alcune persone che hanno riconsegnato alle loro famiglie naturali che li reclamavano i nove bambini, tra i quali i quattro già adottati in Italia. Il rapporto dell'avvocato di Aibi inviato via email allo staff di Marco Griffini non parla affatto di rapimento da parte di alcuni uomini armati non identificati. Già dalla prima pagina (qui sopra) rivela una realtà ben diversa. L'avvocato racconta che un'educatrice dell'orfanotrofio ha cambiato nome ai minori «che sono tutti originari del Sud-Kivu, per dar loro dei nomi del Nord-Kivu». E riferisce che, proprio per questo, la direttrice dell'istituto «Madame Masika Bénédicte ha rivelato che sarà impossibile ritrovare i bambini». Secondo l'avvocato di Aibi, la direttrice sostiene che i nomi sono stati cambiati a sua insaputa. Ma come abbiamo scritto il 15 novembre scorso, la direttrice ha poi ammesso la verità davanti alle telecamere di una tv americana: «Adottati in Italia bambini mai abbandonati dalle loro famiglie». Evidentemente Madame Bénédicte non immaginava che il documentario e la sua confessione sarebbero stati trasmessi via Internet in tutto il mondo. La seconda pagina del rapporto dell'avvocato di Aibi (qui sopra) contiene già tutte le informazioni che avrebbero dovuto spingere Marco Griffini, rappresentante legale dell'ente di San Giuliano Milanese, e sua figlia Valentina, responsabile delle operazioni in Africa, a dichiarare la verità ai genitori italiani e alle autorità di Italia e Congo. È il primo capoverso: «Tutti questi bambini hanno sia il loro padre sia la loro mamma in vita che oggi li reclamano», scrive l'avvocato dei Griffini a Goma: «Il presidente del Tribunale per i minorenni mi ha confidato che è stato lui a far rientrare all'orfanotrofio Rehema Melanie [una delle bimbe adottata da una famiglia italiana] prima che sparisse di nuovo (probabilmente», fa notare l'avvocato di Aibi, «lei è con sua madre). Sua madre ha reclamato sua figlia alla polizia speciale per l'infanzia. Il presidente del Tribunale per i minorenni ha affermato che la bambina Rehema Melanie assomiglia fortemente a colei che dichiara di essere sua mamma». Il presidente del Tribunale per i minorenni a Goma è Charles Wilfrid Sumaili, il giudice che ha firmato le sentenze che dichiaravano l'adottabilità dei bambini non adottabili e che, nelle comunicazioni interne, Aibi definisce proprio partner. Ed è proprio così: Sumaili è lo stesso magistrato che inventa le accuse per traffico di bambini contro gli enti incaricati dalle autorità italiana e congolese di mettere in salvo i minori ancora nelle mani di Aibi a Goma: denunce che Griffini puntalmente rilancia in Italia ripresentandole davanti alla Procura di Milano. Il presidente Sumaili è lo stesso che fa arrestare dall'amico procuratore di Goma un operatore che aveva messo in salvo quattro bambini e che durante la detenzione viene torturato. Ed è sempre lo stesso che ha confezionato le lettere e i verbali con cui Marco Griffini e Aibi oggi pretendono venti milioni da L'Espresso, colpevole di avere denunciato i traffici. Tra le frasi agghiaccianti riportate ai suoi superiori dall'avvocato dell'ente autorizzato dallo Stato italiano, una lo è più di tutti: «Il presidente del Tribunale per i minorenni mi ha confidato che è stato lui a far rientrare all'orfanotrofio Rehema Melanie prima che sparisse di nuovo». Cioè il presidente Sumaili, partner di Aibi a Goma, aveva già una volta sottratto la bambina Rehema Melanie alla sua famiglia (prima che sparisse di nuovo) pur sapendo che la sua mamma non intendeva abbandonarla. Anzi, la mamma ha reclamato Melanie davanti alla polizia speciale per l'infanzia. Uno dei politici meglio informati in Italia su quanto Marco Griffini, Aibi e il suo staff non hanno denunciato è la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi: da giugno 2016 fino alla caduta del governo di Matteo Renzi è stata presidente della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali, che come abbiamo visto è l'autorità di controllo sugli enti. La sottosegretaria Boschi è anche il segretario generale della "Fondazione Open", il pensatoio del Giglio Nero di Matteo Renzi, di cui tanto si parla in questi giorni. Il nome di Maria Elena (qui sopra) compare accanto al presidente Alberto Bianchi, l'avvocato che sussurrava a Renzi, Marco Carrai, consigliere dell'ex premier e Luca Lotti, ministro oggi sotto inchiesta e già sottosegretario alla presidenza del Consiglio prima della Boschi. È ovviamente soltanto una coincidenza quella che raccontiamo. Nel giugno 2016 una voce e una manina hanno convinto Matteo Renzi a togliere la presidenza della Cai al magistrato che ha scoperto lo scandalo, Silvia Della Monica che rimaneva come vicepresidente, e ad assegnare l'incarico proprio a Maria Elena Boschi. L'inaspettata nomina è avvenuta nel momento più delicato dell'operazione di trasferimento in Italia dei bambini che i partner di Aibi avevano illegalmente trattenuto a Goma contro la volontà dei loro genitori adottivi che non si fidavano più dei Griffini. Un braccio di ferro tre le autorità e l'ente di San Giuliano Milanese durato un anno e mezzo: le famiglie che hanno denunciato Aibi oggi non escludono che fosse l'estremo tentativo per evitare che i piccoli, tra i 3 e i 13 anni, una volta arrivati a destinazione potessero raccontare quello che sapevano e avevano visto. Il fatto è che la sostituzione di Della Monica con Maria Elena Boschi ha fatto il gioco di Aibi: non appena giovedì 9 giugno Renzi ha firmato il decreto di nomina, i partner di Marco Griffini in Congo l'hanno immediatamente saputo (prima di ogni comunicazione ufficiale del governo) e hanno tentato di fermare la partenza dei bambini. Sostenevano, sbagliandosi, che i provvedimenti firmati da Silvia Della Monica non avessero più alcun valore. Ma era troppo tardi: i piccoli testimoni erano già in volo per l'Italia. A questo punto ci permettiamo di suggerire tre domande al premier Paolo Gentiloni, presidente reggente della Cai dopo le dimissioni del governo Renzi. È importante che se le ponga perché le persone che hanno fatto firmare quel curioso decreto del 9 giugno ancora circondano il suo ufficio. Prima domanda: come mai i consiglieri di Matteo Renzi non si sono accorti che con quella nomina stavano (involontariamente, aggiungiamo per ora) aiutando chi non aveva denunciato la sottrazione dei bambini? Seconda domanda: perché Maria Elena Boschi scalpita per ritornare presidente della Cai così da poter rimuovere il magistrato Della Monica che ha scoperchiato lo scandalo? Terza domanda: che cosa sanno, nascondono o garantiscono Marco Griffini e la sua Aibi da renderli un affare di Stato?
01 mar
L'oltraggio di Aibi ai bambini violentati «L'Italia chieda scusa alla Bulgaria», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" l'1 marzo 2017. L'ente che non ha denunciato pedofili e trafficanti impone la linea al governo: subito il colpo di spugna. La protesta dei genitori: Gentiloni confermi il magistrato Della Monica al vertice dell'autorità di controllo. Lanciata la campagna per scuole e famiglie #NonEntrateaPalazzoChigi: non visitate la sede della Presidenza del Consiglio per solidarietà alle piccole vittime di violenze che hanno avuto il coraggio di parlare. Secondo Marco Griffini e la sua associazione "Aibi-Amici dei bambini", il governo dovrebbe chiedere scusa alla Bulgaria e alla Repubblica Democratica del Congo. Paolo Gentiloni dovrebbe cioè farsi perdonare il fatto che circa centocinquanta cittadini italiani, una cinquantina di bambini e i loro genitori adottivi, abbiano chiesto giustizia per quanto hanno denunciato: violenze sessuali per la produzione di film pedopornografici in Bulgaria, così come è stato accertato da un Tribunale per i minorenni italiano, e la compravendita dei minori o la sottrazione con l'inganno alle loro famiglie naturali per quanto riguarda il Congo. È davvero troppo. Ma tutto questo può accadere soltanto perché né il premier Paolo Gentiloni, né la sottosegretaria Maria Elena Boschi, né l'ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi hanno mai, proprio mai, espresso una parola di sostegno al coraggio dei bambini che hanno denunciato le gravissime irregolarità di Aibi o di supporto alle indagini dell'attuale vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), Silvia Della Monica, l'autorità di controllo. Il magistrato antimafia rimane così l'unico rappresentante delle istituzioni che ha avuto la determinazione di ascoltare i raccapriccianti racconti dei genitori adottivi, mentre Griffini e una schiera di parlamentari suoi amici rovesciavano fango su Della Monica, sulle famiglie, sui bambini nella speranza di fermare le indagini. E continuano a farlo. Ricordate "Spotlight", il film di Tom McCarthy, vincitore del premio Oscar 2016? Racconta l'inchiesta del quotidiano "The Boston Globe" sull'arcivescovo Bernard Law, accusato di aver coperto casi di pedofilia in molte parrocchie negli Stati Uniti e poi ospitato nella basilica papale di Santa Maria Maggiore a Roma. La richiesta di Marco Griffini e di Aibi affinché l'Italia chieda scusa vuole affidare un ruolo di coprotagonista a tutto il governo Gentiloni in questa orribile "Spotlight" italiana. Quella bulgara è infatti l'autorità che non ha voluto indagare su quanto avveniva in un orfanotrofio: l'indagine è stata aperta e chiusa in poche ore e per questo lo Stato bulgaro si trova oggi sotto procedimento davanti alla Corte europea per i Diritti dell'Uomo, proprio per non aver dato seguito alle denunce dei bambini bulgari adottati in Italia. A questo punto Gentiloni non può far finta che non stia succedendo nulla: il suo silenzio, il suo mancato sostegno alle indagini avviate dalla Commissione per le adozioni internazionali, che è un organo della Presidenza del Consiglio, il suo mancato rinnovo dell'incarico al magistrato Della Monica scaduto da due settimane fanno il gioco di Griffini. E di quanti vogliono coprire le violenze commesse in Bulgaria e in Congo su bambini diventati (tutti) cittadini italiani, nascondendo così le gravissime omissioni di altri cittadini italiani che ruotano intorno ad Aibi e al suo presidente-fondatore. Non ci si può certo aspettare che questa rassicurazione arrivi dal sottosegretario Maria Elena Boschi: per il suo ingombrante silenzio, quando è stata presidente dell'autorità di controllo dal giugno 2016 alla caduta del governo Renzi, la sottosegretaria Boschi viene tuttora trattata negli interventi pubblici di Aibi come una voce gradita, tanto da esserne la candidata ideale alla presidenza della Cai. Ma Gentiloni e l'istituzione che rappresenta possono lasciare che sia Marco Griffini a scegliere il vertice dell'autorità di controllo? Questa storia ha soltanto due vie d'uscita: il processo davanti a un Tribunale italiano contro quanti hanno aiutato i ladri di bambini, oppure il processo davanti alla Corte europea dei Diritti dell'Uomo contro tutta la Repubblica italiana. Protagonisti del nostro film horror non sono soltanto i preti, non c'è la Chiesa cattolica americana. Intorno ai nostri ladri di bambini abbiamo visto muoversi politici famosi, giornalisti, nomi dello spettacolo, addirittura irreprensibili magistrati. Interi pezzi della società civile che consapevolmente o inconsapevolmente, per colpevole ignoranza dei fatti o per brama di potere, hanno fatto proprio il pensiero di Marco Griffini: non è successo niente, non ci sono indagini, le inchieste (non le infiltrazioni di Aibi) stanno paralizzando l'autorità di controllo, il magistrato Della Monica deve essere rimossa. Dalla loro bocca escono più o meno consapevolmente le stesse parole, gli stessi ragionamenti, le stesse menzogne sostenute dal presidente di Aibi. Il risultato è mostruoso: dimostrano di credere ai presunti colpevoli e non ai bambini e alle famiglie che li hanno denunciati. Con le solite dovute proporzioni, è come sostenere che le stragi in Italia tra il 1992 e il 1993 non siano responsabilità della mafia ma di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che sulla mafia stavano indagando. Violentare bambini, sfruttarli per la produzione di film, sottrarli con l'inganno alle loro famiglie naturali, picchiarli e minacciarli nel caso avessero raccontato la verità sono reati altrettanto osceni: è questo che dal 2012 in poi i vertici di Aibi non hanno denunciato ed è per questo che Aibi e parte del suo staff sono stati denunciati. Se davvero il premier Gentiloni sta dalla parte dei bambini, e non ne abbiamo dubbi, lo dimostri. Prenda le distanze da questa ingombrante "Spotlight" italiana. Di fronte al suo silenzio le decine di genitori, contro i quali Griffini ha annunciato conseguenze legali per le loro denunce, chiedono un gesto alle scuole, agli insegnanti, alle famiglie e a tutti quanti abbiano a cuore la verità dei fatti: proprio in segno di solidarietà e sostegno al coraggio di decine di bambini, tenetevi alla larga da Palazzo Chigi, non visitatelo, se avete programmato una visita guidata, cancellatela aderendo così alla campagna di protesta #NonEntrateaPalazzoChigi. Perché quei bambini sono stati violentati, altri sono stati strappati alle loro famiglie, nel silenzio di quanti, come i vertici di Aibi, sapevano. E il silenzio, in questi casi, rende complici.
Bambini rubati, la versione di Maria Elena Ma Gentiloni ferma le nomine sulle adozioni, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 25 febbraio 2017. Secondo fonti vicine al premier, la sottosegretaria Boschi sosteneva che non ci fosse nessuna inchiesta penale di rilievo sul traffico di minori. Così avrebbe convinto il presidente del Consiglio ad affidarle l'autorità di controllo e a sostituire il magistrato Della Monica. Le proteste delle vittime e dei testimoni, con decine di fax inviati a Palazzo Chigi, hanno bloccato l'operazione. Le vittime e i testimoni del traffico di bambini con il Congo sono per ora riusciti a fermare la sostituzione ai vertici della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), l'autorità centrale di controllo. Da giovedì 23 febbraio, dopo la notizia dell'imminente colpo di spugna voluto dal governo, hanno inviato decine di fax di protesta a Palazzo Chigi. Così, al termine dell'ultimo consiglio dei ministri, il premier Paolo Gentiloni non ha annunciato come previsto la nomina della sottosegretaria Maria Elena Boschi alla presidenza della Cai. Una nomina rivelata con due giorni d'anticipo da Marco Griffini, presidente di "Aibi-Amici dei bambini", l'ente sotto inchiesta per le gravissime irregolarità nelle adozioni con lo Stato africano e per aver ritardato la segnalazione di una gang di pedofili che violentava i piccoli ospiti di un orfanotrofio in Bulgaria per produrre film. Fonti vicine al premier rivelano che Gentiloni aveva da subito affidato alla sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio il dossier sulle adozioni internazionali. E proprio in questa veste ufficiosa Maria Elena Boschi ha organizzato la sostituzione della vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, il magistrato che ha scoperchiato lo scandalo su Aibi e Griffini. Sia con il magistrato, sia con le inchieste in corso la Boschi ha sempre dimostrato estrema freddezza. L'operazione della sottosegretaria Boschi sarebbe dovuta andare in porto in due mosse. Prima la nomina di se stessa alla presidenza della Cai. Poi l'assegnazione dell'incarico di vicepresidente dell'autorità di controllo, il ruolo tecnico che ha anche compito di vigilanza e verifica sulle procedure, all'attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera. Le stesse fonti riferiscono che Paolo Gentiloni sia stato convinto dell'urgenza dell'operazione con due argomenti. Primo: non c'è nessuna inchiesta penale di rilievo contro Aibi. Secondo: con questa storia delle verifiche su Aibi, sempre secondo la versione della sottosegretaria Boschi, il magistrato Della Monica non convoca da oltre due anni la Commissione per le adozioni internazionali e per questo, ora che il suo incarico è scaduto, va immediatamente sostituita. Non è quindi da escludere che gli stessi argomenti siano stati riferiti alla presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, un giudice di specchiata professionalità che ha riorganizzato l'ufficio giudiziario fiorentino. È curioso notare come la versione presentata a Gentiloni coincida con quella che Marco Griffini e i manager di Aibi predicano dal 2014: cioè da quando il magistrato Silvia Della Monica ha scoperto che in Congo l'ente milanese prendeva in adozione bambini sottratti con l'inganno ai loro genitori naturali e che, per non rivelare il traffico, aveva fornito informazioni non vere all'autorità di controllo. Proprio per questa coincidenza, già delusi da Maria Elena Boschi che è stata presidente della Cai da giugno 2016 fino alle dimissioni del governo Renzi, le famiglie che hanno denunciato le gravissime irregolarità si sono sentite tradite dal governo. Temono infatti che un cambio ai vertici della Commissione per le adozioni internazionali le esponga alle conseguenze legali di Griffini che ha già annunciato cause risarcitorie contro chi ha parlato. Mentre numerosi altri testimoni in Congo stanno rischiando l'arresto e la vita, per le ritorsioni messe in atto dai partner locali di Aibi. Per questo le coppie adottive chiedono la riconferma del magistrato Della Monica sottolineando come la sua presenza sia fondamentale, anche a protezione delle indagini penali, delle vittime e dei testimoni. Ma anche perché l'attuale vicepresidente della Cai è l'unica persona nelle istituzioni che ha creduto alle denunce dei genitori e dei loro figli adottivi: sono almeno centocinquanta cittadini italiani che chiedono giustizia. Non sappiamo se l'ex ministro Boschi e Marco Griffini si conoscano personalmente. E non ci interessa. Ma la coincidenza della loro visione su quanto è accaduto in Congo e prima in Bulgaria, sul funzionamento della Cai e sui provvedimenti da adottare è agli occhi di tutti: rimuovere il magistrato che ha scoperchiato lo scandalo e riunire la Commissione per le adozioni internazionali, composta da rappresentanti dei ministeri e da associazioni della società civile. Non importa se, come è stato denunciato davanti alla commissione Giustizia della Camera, l'autorità di controllo risulta infiltrata dall'ente controllato Aibi, attualmente sotto inchiesta amministrativa e penale. Una coincidenza di vedute che sottovaluta gravemente quanto è successo. E, comprensibilmente, terrorizza le mamme e i papà che hanno firmato le accuse contro Griffini. Prima della partenza i partner congolesi hanno minacciato i loro bambini: hanno promesso che li avrebbero rimpatriati dall'Italia e avrebbero punito loro e i loro genitori naturali, nel caso avessero raccontato la verità. Proprio per questo il governo non può e non deve condividere la versione di Aibi.
Bimbi rubati, Gentiloni vuole colpo di spugna. Scelto giudice gradito a Marco Griffini, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 22 febbraio 2017. Pronta la nomina per sostituire il magistrato che ha scoperchiato lo scandalo. Talpe a Palazzo Chigi: l'annuncio anticipato dall'ente Aibi sotto inchiesta per non aver denunciato pedofili e trafficanti di minori. Presidenza della Commissione adozioni a Maria Elena Boschi. Le vittime dei ladri di bambini: così il governo tradisce la legalità, ci ripensi. Laura Laera è un ottimo giudice. È l'attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze. Ed è la moglie del procuratore di Milano, Francesco Greco, la cui storia personale parla da sé. A sua insaputa, però, ed evidentemente contro ogni sua responsabilità, la dottoressa Laera è anche la candidata preferita da Marco Griffini per la carica di vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), affinché il magistrato antimafia Silvia Della Monica sia rimossa e le sue inchieste siano fermate. Il fatto sconvolgente è che il premier Paolo Gentiloni ha accolto i desiderata di Griffini e si appresta a nominare Laura Laera al posto di Silvia Della Monica e il sottosegretario a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, a presidente della Cai. Un cambio che viene visto dal fondatore e padrone di "Aibi-Amici dei bambini" come l'atteso colpo di spugna alle indagini che lo riguardano: per aver omesso di denunciare una organizzazione di trafficanti di bambini tra il Congo e l'Italia, per aver ritardato di segnalare lo sfruttamento dei piccoli ospiti di un orfanotrofio in Bulgaria come attori di film pedopornografici e molto altro ancora. Uno scandalo, che "L'Espresso" sta seguendo e raccontando da tempo, ripreso lunedì sera anche dalla trasmissione di Raitre "Presa diretta". Con le dovute proporzioni e la premessa che né Griffini né Aibi sono indagati per associazione mafiosa, per capirci è come se il boss Matteo Messina Denaro chiedesse da mesi la sostituzione del procuratore nazionale antimafia perché troppo severo e le istituzioni accogliessero la richiesta di Messina Denaro scegliendo un nome apparentemente a lui gradito. Laura Laera e la sua alta professionalità dimostrata in anni di lavoro ovviamente non c'entrano nulla con le aspettative di Griffini. Soltanto i vertici di Aibi possono sapere perché il presidente del Tribunale per i minorenni fiorentino, a sua insaputa, sia fonte di così ampia fiducia. Ma una circostanza è evidente. Il presidente di Aibi, ente autorizzato dal governo a rappresentare lo Stato italiano nelle adozioni internazionali, ha accesso a notizie riservate della presidenza del Consiglio: cioè l'ente controllato sa in anticipo cosa l'istituzione che lo controlla sta per decidere. Già martedì 21 febbraio Griffini ha anticipato sulla sua pagina Twitter e poi sul sito della sua agenzia di informazioni Aibinews l'imminente cambio alla guida delle adozioni internazionali deciso da Gentiloni: «Scelti i vertici Cai: manca solo annuncio ufficiale», ha scritto Griffini, battendo in velocità perfino le segreterie di Palazzo Chigi che dichiaravano di non saperne nulla. Nel pomeriggio di oggi, 22 febbraio, Aibi è tornata sull'argomento che più le interessa, rilanciando su Twitter una notizia in uscita su "Panorama": «Laura Laera presidente Tribunale minori Firenze nuova vicepresidente Cai». Griffini è stato accontentato anche nella nomina della presidente della Commissione: Gentiloni ha deciso di restituire l'incarico al suo sottosegretario Maria Elena Boschi, già presidente dell'autorità di controllo sulle adozioni negli ultimi mesi del governo di Matteo Renzi. L'ex ministro alle Riforme non ha mai sostenuto pubblicamente le indagini del magistrato Della Monica e questo dall'ente sotto inchiesta è sempre stato interpretato come un atteggiamento non ostile. L'assegnazione dell'incarico alla Boschi dovrebbe essere formalizzata nella riunione del consiglio dei ministri di domani, giovedì 23 febbraio. Ed è il primo passo per la successiva investitura nelle prossime settimane di Laura Laera come vicepresidente della Cai. Gentiloni ha quindi fatto carta straccia degli appelli dei genitori adottivi: mamme e papà chiedevano al premier di rinnovare l'incarico a Silvia Della Monica perché potesse portare avanti l'inchiesta e continuare a proteggere vittime e testimoni dei traffici mai denunciati da Aibi. Al presidente del Consiglio le famiglie hanno anche segnalato le continue pressioni di Griffini, definite vere e proprie minacce, come l'annuncio di voler avviare cause di risarcimento contro quanti hanno firmato le denunce. Nelle ultime ore si è aggiunto l'appello di Silvia Della Monica al governo. L'attuale vicepresidente della Cai ha avvertito che un cambio in corsa del vertice ora darebbe un forte segnale di impunità all'ente sotto inchiesta, perché è esattamente quanto Griffini e una schiera di parlamentari a lui vicini chiedono da mesi: «È come se si stesse svolgendo in questo momento un processo di mafia. A un certo punto il giudice che si occupa del processo deve lasciare. Che cosa significa? Che il processo in quel momento si ferma e forse non si rimetterà mai più in moto», ha detto il magistrato Della Monica lunedì mattina in un'intervista a Controradio. Gentiloni però non ha voluto rispondere alle vittime dei trafficanti. Dando così alle famiglie l'idea che il premier abbia preferito schierare tutto il governo dalla parte dei ladri di bambini. E di quanti, come Griffini e il suo staff, hanno omesso di denunciare i traffici. Le verifiche sui singoli casi intanto proseguono. Poiché la sede legale di Aibi è a San Giuliano in provincia di Milano, il fascicoli potrebbero presto confluire alla Procura di Francesco Greco. Così, se Laura Laera venisse nominata da Gentiloni vicepresidente della Cai, ci troveremmo nella curiosa situazione di indagini penali da parte della Procura e di inchieste amministrative da parte della Cai da decidere tutte in famiglia. Anche per questo le decine di coppie adottive che hanno denunciato Aibi confidano in un passo indietro da parte del presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze. E soprattutto da parte del governo: «Gentiloni può ancora cambiare idea», dicono alcuni genitori: «Lui, il governo, i ministri che lo rappresentano non possono accogliere le richieste di Griffini dando così la conferma che sia Aibi a decidere per conto dello Stato. Il premier rinnovi l'incarico al magistrato Della Monica e dia pubblico sostegno all'inchiesta, al nostro impegno e al coraggio dei nostri bambini, perché nelle adozioni internazionali torni la legalità. Altrimenti l'Italia verrà considerata nel mondo il porto sicuro, il covo, il nascondiglio protetto dei ladri di bambini. E noi famiglie adottive italiane tutto questo non ce lo meritiamo».
Figli rubati, Della Monica (Cai): «Il silenzio del governo aiuta i ladri di bambini. Se non si ferma il traffico nessun minore è al sicuro», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 20 febbraio 2017. Il magistrato vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali in un'intervista a Controradio: «Famiglie e bimbi minacciati per aver denunciato. È come nelle inchieste su mafia e terrorismo. Il premier Gentiloni non può lasciarsi condizionare dai criminali: mi metta nelle condizioni di concludere le indagini». La vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali, Silvia Della Monica, fa proprie le denunce dei genitori che hanno adottato bambini nella Repubblica Democratica del Congo. Stamattina, lunedì 20 febbraio, il magistrato durante un'intervista a Controradio di Firenze ha chiamato in causa direttamente Palazzo Chigi: «Noi non possiamo accettare che la politica chiuda un occhio e finga che non sia successo niente. Il governo non può permettersi di lasciarsi condizionare in questa situazione, sostanzialmente da un manipolo di persone che hanno calpestato i diritti dei bambini, la loro incolumità, l'unità familiare. È come se chiudessimo gli occhi sulla lotta al terrorismo internazionale, a Cosa nostra. Il governo non si farebbe mai condizionare nelle sue scelte né dai terroristi dell'Isis, né dai mafiosi di Totò Riina. Ecco: non lo faccia nemmeno davanti a questa organizzazione di trafficanti di bambini. È inaccettabile». Nelle scorse settimane mamme e papà, vittime e testimoni che hanno segnalato la copertura che l'ente milanese "Aibi-Amici dei bambini" sta dando a un'organizzazione di trafficanti di minori, hanno scritto numerosi appelli al premier Paolo Gentiloni, presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), perché sostenga le indagini in corso con un intervento pubblico e con il rinnovo dell'incarico al magistrato Della Monica, appena scaduto. Ma il governo non ha mai risposto. «Un sistema consolidato per anni significa dare vita a una vera e propria macchina di potere, di interessi economici e di coacervi economici. Tutto questo sulla pelle dei bambini», dice il magistrato Della Monica rispondendo alle domande di Raffaele Palumbo: «Le offese e le aggressioni quotidiane alla mia persona, al mio operato devo dire non sono più tollerabili. Non per me che ho combattuto la mafia, sono abituata a ben altro, ma per l'onorabilità delle istituzioni, del governo che non può consentire, a causa di un silenzio, mentre la macchina del fango è in funzione, di essere associato a coloro che hanno molto da nascondere e di terribile, e che lucrano sulla pelle dei bambini». Ai bambini in partenza dal Congo i trafficanti hanno detto di non raccontare la loro storia altrimenti li avrebbero buttati dall'aereo: «Purtroppo è tragicamente vero», conferma la vicepresidente della Cai: «I bambini sono terrorizzati, sono trattati veramente come le vittime del traffico di esseri umani. E si può immaginare quanto questo possa incidere su un bambino che ha bisogno di ricordare le sue origini e la sua storia per poi diventare un adulto, un adulto consapevole. Quindi significa mettere questo bambino nella sua più nera disperazione, mettere nella più nera disperazione i suoi familiari. Se passa il principio che un bambino possa essere sottratto alla famiglia con l'inganno o con i soldi e chi lo fa resta impunito, nessun bambino, nessun genitore può sentirsi più al sicuro. Anche in Italia. E l'Italia questo non se lo può permettere. Io ho difeso l'onorabilità dell'Italia e del governo in tutte le sedi, nazionali e internazionali, e voglio andare fino in fondo». «Queste famiglie (che hanno denunciato il traffico di bambini) si sono affidate a me e alle istituzioni e hanno riposto la più assoluta fiducia nelle istituzioni», spiega Silvia Della Monica: «È come se si stesse svolgendo in questo momento un processo di mafia. A un certo punto il giudice che si occupa del processo deve lasciare. Che cosa significa? Che il processo in quel momento si ferma e per rimetterlo in moto, e forse non si rimetterà mai più in moto, non ce ne saranno più le condizioni. È esattamente quello che vuole chi ha commesso traffici di questo genere. Quindi i ladri di bambini vanno fermati. E il governo deve mettermi nelle condizioni di concludere questo lavoro d'indagine, di difenderlo dal continuo tentativo di inquinamento che purtroppo ha visto protagonisti in tutte le sedi, spero inconsapevoli: nelle istituzioni, nella politica, nel giornalismo, nel mondo laico e cattolico. Mentre la stampa internazionale ci ha messo alla berlina in tutto il mondo, io difendo ancora il governo e riesco a farlo grazie alla credibilità che abbiamo conquistato in questi anni di lavoro». «La questione della pedofilia (in Bulgaria, crimine su cui Aibi ha ritardato di mesi la denuncia) è esattamente uguale a quello che abbiamo vissuto e in questi giorni ancora stiamo vivendo per quanto riguarda i bambini del Congo», continua il magistrato: «Quindi anche lì minacce, minacce dei testimoni, minacce di coloro che hanno aiutato le autorità e le istituzioni, quando poi nei Paesi di origine coloro che hanno aiutato le istituzioni rischiano la vita... Io credo che la fiducia che hanno riposto nelle istituzioni può venir meno. E io credo che il governo debba fare soltanto una cosa e ripeto, io non lo dico per me. Se potessi, mi vorrei anche riposare da questa lunga fatica, ma io non mi posso tirare indietro. Il governo deve procedere con un segnale molto forte: deve dare la conferma della mia presenza, la conferma della mia posizione ai vertici della Cai e deve darmi tutti gli strumenti necessari per andare fino in fondo, per evitare che l'Italia venga additata come il terminale del traffico di minori e per evitare che il governo italiano possa passare alla storia come quello che ha fatto un favore ai trafficanti di minori». «È un traffico di bambini che non è sostenibile, una situazione che non è accettabile. Bambini che avevano le loro famiglie di origine, bambini che sono stati separati con l'inganno o con il denaro dalle loro famiglie. Sono stati divisi dai loro fratelli, le famiglie sono state minacciate, i bambini sono stati minacciati. E coloro che ci hanno aiutati, in Italia e in Congo, sono stati a loro volta minacciati». «Le offese e le aggressioni quotidiane alla mia persona, al mio operato devo dire non sono più tollerabili. Non per me che ho combattuto la mafia, sono abituata a ben altro, ma per l'onorabilità delle istituzioni, del governo che non può consentire, a causa di un silenzio, mentre la macchina del fango è in funzione, di essere associato a coloro che hanno molto da nascondere e di terribile, e che lucrano sulla pelle dei bambini». «Purtroppo è tragicamente vero (le minacce ai bambini congolesi: non raccontate la vostra storia altrimenti vi buttiamo dall'aeroplano). I bambini sono terrorizzati, sono trattati veramente come le vittime del traffico di esseri umani. E si può immaginare quanto questo possa incidere su un bambino che ha bisogno di ricordare le sue origini e la sua storia per poi diventare un adulto, un adulto consapevole. Quindi significa mettere questo bambino nella sua più nera disperazione, mettere nella più nera disperazione i suoi familiari. Se passa il principio che un bambino possa essere sottratto alla famiglia con l'inganno o con i soldi e chi lo fa resta impunito, nessun bambino, nessun genitore può sentirsi più al sicuro. Anche in Italia. E l'Italia questo non se lo può permettere. Io ho difeso l'onorabilità dell'Italia e del governo in tutte le sedi, nazionali e internazionali, e voglio andare fino in fondo». «Queste famiglie (che hanno denunciato il traffico di bambini) si sono affidate a me e alle istituzioni e hanno riposto la più assoluta fiducia nelle istituzioni. È come se si stesse svolgendo in questo momento un processo di mafia. A un certo punto il giudice che si occupa del processo deve lasciare. Che cosa significa? Che il processo in quel momento si ferma e per rimetterlo in moto, e forse non si rimetterà mai più in moto, non ce ne saranno più le condizioni. È esattamente quello che vuole chi ha commesso traffici di questo genere. Quindi i ladri di bambini vanno fermati. E il governo deve mettermi nelle condizioni di concludere questo lavoro d'indagine, di difenderlo dal continuo tentativo di inquinamento che purtroppo ha visto protagonisti in tutte le sedi, spero inconsapevoli: nelle istituzioni, nella politica, nel giornalismo, nel mondo laico e cattolico. Mentre giornalisti d'inchiesta hanno fatto un lavoro egregio e mentre la stampa internazionale ci ha messo alla berlina in tutto il mondo, io difendo ancora il governo e riesco a farlo grazie alla credibilità che abbiamo conquistato in questi anni di lavoro». «Un sistema consolidato per anni significa dare vita a una vera e propria macchina di potere, di interessi economici e di coacervi economici. Tutto questo sulla pelle dei bambini. E credo che sia una cosa terribile, ma è la stessa cosa di quando si parla dell'associazione mafiosa, del terrorismo. Noi non possiamo accettare che la politica chiuda un occhio e finga che non sia successo niente. Il governo non può permettersi di lasciarsi condizionare in questa situazione, sostanzialmente da un manipolo di persone che hanno calpestato i diritti dei bambini, la loro incolumità, l'unità familiare. È come se chiudessimo gli occhi sulla lotta al terrorismo internazionale, a Cosa nostra. Il governo non si farebbe mai condizionare nelle sue scelte né dai terroristi dell'Isis, né dai mafiosi di Totò Riina. Ecco: non lo faccia nemmeno davanti a questa organizzazione di trafficanti di bambini. È inaccettabile». «La questione della pedofilia è esattamente uguale a quello che abbiamo vissuto e in questi giorni ancora stiamo vivendo per quanto riguarda i bambini del Congo. Quindi anche lì minacce, minacce dei testimoni, minacce di coloro che hanno aiutato le autorità e le istituzioni. Quando poi nei Paesi di origine coloro che hanno aiutato le istituzioni rischiano la vita, in Italia coloro che finalmente si sono decisi a parlare e hanno rotto questo muro di omertà, finiscono col perdere la fiducia nelle istituzioni e il messaggio che passa è che non devono parlare, che bisogna andare avanti così perché basta fare un numero di adozioni elevatissimo perché a quel punto sia tutto a posto. E poi in fondo la cultura cambia. Perché se un bambino può essere strappato dalla sua famiglia, se un bambino può essere diviso dai suoi fratellini e dalle sue sorelline, se un bambino può stare in un Paese, anche se in realtà non ce ne sono le condizioni, perché si dice che tutto sommato questo Paese è in condizioni economiche disastrose, significa cambiare una cultura e una mentalità. E le famiglie italiane non lo meritano». «Io credo che la fiducia che hanno riposto nelle istituzioni può venir meno. E io credo che il governo debba fare soltanto una cosa e ripeto, io non lo dico per me. Se potessi, mi vorrei anche riposare da questa lunga fatica, ma io non mi posso tirare indietro. Il governo deve procedere con un segnale molto forte: deve dare la conferma della mia presenza, la conferma della mia posizione ai vertici della Cai e deve darmi tutti gli strumenti necessari per andare fino in fondo, per evitare che l'Italia venga additata come il terminale del traffico di minori e per evitare che il governo italiano possa passare alla storia come quello che ha fatto un favore ai trafficanti di minori. Quindi, come le famiglie lo chiedono per loro, per i diritti dei loro bambini, per esigenze istituzionali anche io lo chiedo soltanto per esigenze istituzionali. Io sono un servitore dello Stato, lo sono sempre Stata e sono veramente preoccupata di questa situazione che è diventata una situazione di stallo».
Le adozioni, i ladri di bambini e l'incredibile silenzio di Maria Elena Boschi, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 16 febbraio 2017. Una domanda al sottosegretario alla presidenza del Consiglio: trova davvero onorevole non aver detto nulla contro chi sta rovesciando letame sulle istituzioni al solo scopo di fermare le indagini in corso? Tra i tanti grattacapi del premier Paolo Gentiloni ce n'è uno sicuramente sottovalutato, che rischia di rovesciare sull'Italia e sugli italiani la vergogna di essere un popolo di trafficanti di bambini. Sappiamo bene che non è così. Ma il silenzio che il governo sta mantenendo su un manipolo di mele marce nel settore delle adozioni internazionali è incredibile e agghiacciante. Non fare abbastanza di fronte a un reato così barbaro significa esserne eticamente coinvolti. Non ho scritto complici perché non si tratta di complicità: per un politico, un amministratore, un appartenente alle istituzioni è già sufficientemente grave non vedere un crimine, non serve che lo commetta. Siccome "l'Espresso" le critiche e le inchieste le pubblica con nomi e cognomi, ecco la questione: ciò che colpisce e sconvolge è il silenzio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, su "Aibi-Amici dei bambini", l'ente autorizzato dal governo, di cui anche il sottosegretario Boschi è parte, a rappresentare lo Stato italiano nelle procedure delicatissime che verificano l'adottabilità di un bimbo straniero, orfano o abbandonato, e lo assegnano a una famiglia italiana. Le indagini giudiziarie su Aibi giustamente non si commentano: se ne aspettano gli esiti. Ma un gesto Maria Elena Boschi lo avrebbe dovuto fare già otto mesi fa, quando il 21 giugno 2016 l'allora premier Matteo Renzi, consigliato da terzi, le affidò l'incarico di presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), l'autorità centrale di controllo. L'allora ministro Boschi avrebbe potuto dare immediato, diretto, incondizionato, totale sostegno all'inchiesta amministrativa che la vicepresidente della Cai, il magistrato antimafia Silvia Della Monica, stava e sta conducendo sulle gravissime irregolarità scoperte nelle adozioni di bambini in Congo. Irregolarità che chiamano in causa non tutti gli enti italiani, ma soltanto Aibi, il suo presidente Marco Griffini e alcuni suoi manager. Sarebbero bastate poche parole. Così poche da stare perfino dentro un tweet, strumento molto usato oggi dalla politica, forse perché è sufficiente a contenerne la visione: «Il governo dà il pieno sostegno a Silvia Della Monica». Sono appena 53 caratteri. Maria Elena Boschi non lo fece allora. Non l'ha fatto durante l'audizione alla commissione Giustizia della Camera il 20 luglio 2016. E non lo fa nemmeno oggi, dando così l'impressione che l'attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio e l'intero governo stiano dalla parte dei ladri di bambini e di chi, come Griffini e Aibi, hanno omesso di segnalare all'autorità quanto sapevano. Non è solo un'impressione nostra. È il dubbio che sconcerta decine di genitori e i loro figli adottivi che hanno avuto il coraggio di denunciare Griffini e che in questi giorni hanno più volte inviato il loro appello al premier Gentiloni, rivolgendogli sempre la stessa domanda: dove sono le istituzioni? Da mesi Griffini e l'agenzia di stampa Aibinews insultano il magistrato antimafia Della Monica denigrandone le capacità, offendendone la reputazione, denunciando reati inesistenti inventati dai partner di Aibi in Congo, tra i quali alcuni magistrati di Goma. Insulti lanciati sui social media, pubblicati negli articoli di Aibinews e poi formalizzati nelle istituzioni grazie all'amicizia fraterna di parlamentari del Pd, di area cattolica Ncd-Udc e del Movimento 5 Stelle. Pochi finora hanno dimostrato l'indipendenza e la lucidità di non aderire al coro. Tra questi il senatore Idv, Maurizio Romani. Griffini e i suoi emissari continuano incredibilmente a trovare sostegno perfino in molte redazioni e nella Conferenza episcopale italiana. Noi, cioè "l'Espresso", che non facciamo parte di nessuna fratellanza, siamo stati invece citati in giudizio da Aibi con una richiesta danni di 20 milioni e il nome di chi scrive è stato in questi mesi associato pubblicamente da Griffini a testicoli di animale, coprofilia, menzogne, cani da salotto, complicità con i trafficanti di bambini (!). Da giornalisti ci si fa la pelle dura. Ma lei, sottosegretario Boschi, trova davvero onorevole non dire nulla a favore di chi difende la legalità e contro chi sta rovesciando letame sulle istituzioni al solo scopo di depistare l'attenzione e fermare le verifiche in corso? La vicenda ricorda molto da vicino quella del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri. I giornalisti de "l'Espresso" scrivevano dei suoi contatti con mafiosi e prestanome di Cosa nostra e i governi Berlusconi sostenevano il senatore. Poi però, proprio per quei contatti, Dell'Utri è stato condannato a sette anni di reclusione e giustamente rinchiuso in carcere. Aibi non è ovviamente un'associazione mafiosa. Ma Griffini si difende proprio come Dell'Utri: offende i magistrati e conta su un ampio appoggio parlamentare. Ecco, non vorremmo scoprire in futuro che anche il silenzio del governo Gentiloni è frutto di questo osceno appoggio. Giusto per rinfrescare la memoria, questi sono i fatti che il magistrato Silvia Della Monica, nella solitudine in cui la politica l'ha abbandonata, ha riferito alla commissione Giustizia della Camera e, pochi giorni fa, in un convegno in Senato: tra i bambini del Congo adottati da famiglie italiane (allora ignare delle irregolarità), alcuni non sarebbero stati adottabili perché avevano una famiglia naturale alla quale sarebbero stati sottratti con l'inganno e, presumibilmente, dietro il pagamento di somme di denaro; la Commissione per le adozioni internazionali non può emanare provvedimenti collegiali (tra i quali l'inevitabile sospensione dell'autorizzazione a Griffini) poiché tra i commissari siedono, illegalmente, uno o più esponenti di associazioni che rappresentano proprio Aibi, tanto da rendere illecita e priva di valore qualsiasi delibera decisa dalla Cai; servono strumenti normativi affinché le autorizzazioni degli enti non siano permanenti, come accade ora, ma rinnovabili. Con le dimissioni del governo Renzi e la nomina del nuovo esecutivo, Gentiloni ha assunto anche la carica di presidente della Cai e finora non l'ha delegata a nessuno. Mentre dal 13 febbraio scorso la vicepresidente Silvia Della Monica svolge a pieno titolo le sue funzioni in regime di prorogatio. Per questo i genitori, vittime con i loro figli del traffico di bambini, chiedono da settimane al premier di commissariare la Cai e confermare al vertice il magistrato Della Monica, affinché continui a proteggere le verifiche in corso dai molti tentativi di inquinamento. Perché nel frattempo, signor presidente del Consiglio, approfittando anche del silenzio Suo e del sottosegretario Boschi, Marco Griffini ha addirittura annunciato conseguenze legali contro le famiglie che hanno revocato il mandato ad Aibi: cioè contro i cittadini che hanno avuto fiducia nelle istituzioni e hanno denunciato quanto hanno subito, visto e saputo. Ci sono tanti modi di influenzare la parte offesa o un testimone. Non fare nulla, a questo punto, ci rende tutti complici.
La caccia di Gentiloni ai ladri di bambini Insulti di Aibi: giornalisti Espresso sono cani, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" l'8 febbraio 2017. Minori sottratti alle famiglie con l'inganno o in cambio di denaro. Il 13 febbraio scade l'incarico alla vicepresidente della Commissione per le adozioni che ha scoperchiato lo scandalo. Il premier deve scegliere: se sostituisce il magistrato, fa un favore ai trafficanti e affonda le indagini. C'è qualcosa di cui il governo di Paolo Gentiloni dovrebbe andare fiero: è l'indagine silenziosa sui ladri di bambini. Un traffico criminale che riporta l'Italia al Medioevo e che un magistrato al servizio del Paese, la vicepresidente della Commissione governativa per le adozioni internazionali, Silvia Della Monica, sta smascherando giorno dopo giorno, ostacolo dopo ostacolo, con un'indagine sostenuta anche dal coraggio di decine di genitori adottivi e dei loro bambini. Non si tratta soltanto di una questione da codice penale, ma di un affare di Stato: perché l'ente sotto inchiesta, "Aibi - Amici dei bambini" di San Giuliano Milanese, è autorizzato dal governo e quindi rappresenta (e continua a rappresentare) Gentiloni, l'Italia e ciascuno di noi nelle procedure di adozione internazionale, davanti alle autorità statali nel mondo. Martedì 7 febbraio, nel corso del convegno a Roma promosso dal senatore Maurizio Romani (Idv/Gruppo misto), la vicepresidente Della Monica ha confermato quanto "l'Espresso" ha rivelato in questi mesi: alcuni dei bambini arrivati negli ultimi anni non erano adottabili perché, all'insaputa delle coppie adottive, avevano una famiglia naturale dalla quale sarebbero stati sottratti con l'inganno e, presumibilmente, dietro il pagamento di somme di denaro. Commercio di minori, insomma. Quando l'estate scorsa abbiamo pubblicato la prima puntata della nostra lunga inchiesta dal titolo "Italiani, ladri di bambini" siamo stati criticati e spesso insultati in rete dai presunti amici delle adozioni. E soprattutto dai tanti amici di Aibi, dentro e fuori il Parlamento e le istituzioni. Il 5 gennaio scorso l'ufficio stampa diretto da Marco Griffini, fondatore e presidente dell'ente milanese, scriveva così in un articolo pubblicato sul sito di Aibi: «Denis McQuail definiva i media come i "cani da guardia" della democrazia, addetti a sorvegliare i poteri forti a servizio dei cittadini. Oggi molti di essi sembrano aver perso completamente questa capacità, trasformandosi piuttosto in cani da salotto o da compagnia, fedeli a chi offre l'osso più grosso. È il caso de l'Espresso». E citava i nomi di chi vi scrive e del direttore, Tommaso Cerno. Griffini ci accusa di non avere pubblicato le smentite del presidente del Tribunale dei minori di Goma, in Congo, che nelle comunicazioni interne Aibi indica come proprio partner. Il magistrato congolese, Charles Wilfrid Sumaili, è anche uno dei protagonisti della riunione con la direttrice dell'orfanotrofio di Aibi a Goma, l'avvocato di Aibi e il rappresentante italiano di Aibi Eddy Zamperlin, in cui viene avvalorata la messinscena del sequestro di quattro bimbi da parte di un inesistente commando armato: una simulazione sottoscritta a verbale per coprire il ritorno in famiglia di quattro piccoli minori già adottati attraverso Aibi con sentenze che non dichiaravano il vero. I quattro bambini non erano orfani e sarebbero stati sottratti ai loro genitori con l'inganno: particolare di cui erano sicuramente a conoscenza l'avvocato di Aibi e Zamperlin, così come dimostrano le comunicazioni interne dell'ente. Peccato, tra l'altro, che le smentite del magistrato congolese non siamo mai arrivate a "l'Espresso". Mentre, come sembra, le ha ricevute soltanto Griffini. «Se i bambini sono stati strappati alle famiglie e gli enti ne erano consapevoli, ci sono precise responsabilità da accertare», ha detto Silvia Della Monica che ha anche denunciato le minacce e gli attacchi quotidiani che riceve da parte di quanti non vogliono «adozioni etiche e pulite». Griffini e i suoi sostenitori infiltrati tra i membri "laici" della Commissione tengono il governo con le spalle al muro, tanto che l'assemblea da quasi tre anni non può essere riunita. La vicepresidente Della Monica ha più volte denunciato il conflitto di interessi di cui Aibi è protagonista. Perché della Commissione per le adozioni internazionali, che è l'organo governativo di controllo, fa parte per legge anche il Forum delle associazioni familiari, un'organizzazione cattolica «che nella sua compagine vede la presenza di alcuni enti per le adozioni, tra i quali proprio Aibi, che è presente nel consiglio direttivo del Forum». In altre parole, i controllati pretendono di essere i controllori: una situazione vietata dalle norme che renderebbe qualsiasi atto illegale e impedisce, tra l'altro, che la Commissione revochi l'autorizzazione all'ente di Griffini. «Ho fatto presente il problema al presidente del Forum», ha rivelato Silvia Della Monica, «ho anche cercato la mediazione della Conferenza episcopale. Ma il Forum non vuole arretrare, dicono che non si sentono in conflitto d'interessi. E proprio in questi giorni il Forum ha chiesto la convocazione della Cai». Un atteggiamento, secondo la vicepresidente, arrogante e sfacciato: «Chiedo strumenti normativi», ha aggiunto il magistrato Della Monica, «bisogna fare in modo che le autorizzazioni agli enti non siano permanenti. E devono essere gli enti a dover dimostrare dopo la scadenza di avere ancora i requisiti, non la Cai a dover dimostrare che non li posseggono». Griffini, però, e i suoi partner per ora restano ai loro posti. A Silvia Della Monica rimangono invece pochi giorni di lavoro. Il 13 febbraio il suo incarico, rinnovabile, termina. Gentiloni deve scegliere: se sostituisce il magistrato fa esattamente quello che da tempo chiede Aibi, affonda le indagini e schiera se stesso e il governo dalla parte dei ladri di bambini e di quanti, come Aibi, non hanno denunciato i traffici con il Congo. Se conferma Silvia Della Monica, magari delegandole la carica di presidente e commissariando l'intera Commissione infiltrata e ormai impresentabile, dimostra dopo mesi di silenzio delle istituzioni che la legalità e la giustizia meritano sempre fiducia, sostegno e coraggio. In attesa che l'altra giustizia, quella penale, faccia il suo corso.
«Aibi ha minacciato i genitori adottivi». Esposto delle famiglie al premier Gentiloni, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 29 dicembre 2016. Bambini rubati, appello firmato da decine di coppie: «Griffini e il suo ente annunciano conseguenze legali per quanti di noi hanno denunciato irregolarità, il governo dimostri di sostenere l'inchiesta del magistrato Della Monica». Informati il Quirinale e i presidenti di Camera e Senato. «In questi mesi abbiamo dovuto anche assistere all'inverecondo baccano fatto dall'ente Aibi e dal suo legale rappresentante Marco Griffini, non solo contro la Cai, cioè l'istituzione che presidia e controlla la legalità nell'ambito delle adozioni internazionali, ma anche contro le famiglie martoriate che attendono pulizia e giustizia. Inverecondo baccano che ha raggiunto vertici ignobili in questi giorni con minacce fatte via Twitter alle famiglie che esprimono il loro sostegno all'azione di legalità». È una segnalazione diretta, senza giri di parole, quella inoltrata da decine di genitori adottivi al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, da cui dipende l'attività di controllo e verifica della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali. Sono tutti madri e padri che hanno adottato bambini nella Repubblica Democratica del Congo. Decine di procedure inizialmente avviate attraverso la mediazione di "Aibi - Amici dei bambini", l'ente di San Giuliano Milanese autorizzato dal governo a rappresentare l'Italia nel mondo, e poi trasferite alla Cai su richiesta esplicita delle famiglie adottive: una decisione presa dopo che alcune di loro erano state intimate dallo staff di Aibi a non avvertire le autorità sulla scomparsa di alcuni bambini a Goma, nella regione orientale del Paese africano. I bimbi erano stati ripresi dai loro genitori naturali: alcuni procacciatori congolesi li avevano prelevati dalle loro case con la scusa di farli studiare e li avevano fatti adottare con nomi falsi, all'insaputa delle loro famiglie vere e delle coppie adottive in Italia. Marco Griffini, la figlia Valentina e altri cittadini italiani dipendenti di Aibi, piuttosto che riferire alla Cai quanto conoscevano sulle gravissime irregolarità, hanno invece sostenuto la versione inventata del rapimento dei piccoli da parte di un commando armato. E proprio allora ha inizio la guerra personale di Griffini, affiancato da amici parlamentari e da pezzi di istituzioni, contro chiunque sostenesse la verità. A cominciare dall'attuale vicepresidente della Cai, il magistrato Silvia Della Monica che sta svolgendo l'indagine amministrativa su quanto è avvenuto. Per poi prendersela con gli stessi genitori adottivi che avevano revocato l'incarico ad Aibi, prospettando loro il rischio di cause legali e di richieste di risarcimento per i commenti pubblicati sui social media. Così come lo stesso Griffini ha fatto nei confronti de "l'Espresso" che, per aver raccontato come si sono svolti i fatti, è stato citato a giudizio dal presidente e fondatore di Aibi con una richiesta di risarcimento di danni presunti per venti milioni. Griffini ha pubblicato in questi giorni la sua intimazione sulla sua pagina Twitter. Dopo aver liquidato i fatti ricostruiti da "l'Espresso" come «grossolane bugie» , si rivolge alle famiglie adottive che sui social media hanno condiviso e qualche volta commentato le notizie che le riguardano: «La invitiamo a voler attentamente ponderare il contenuto di suoi eventuali nuovi interventi», sono le parole di Marco Griffini, «giacché se un sereno e pacato confronto è sempre il benvenuto, la ripetizione acritica e preconcetta di falsità lesive dell'onorabilità e del decoro di Aibi non verrà ulteriormente tollerata e, d'ora in poi, sarà perseguita sia in sede civile che penalmente». Nonostante la richiesta di risarcimento per venti milioni, "l'Espresso" continua ovviamente a indagare e a riferire sulla vicenda. Ma nemmeno le famiglie adottive si lasciano intimorire. Già hanno dovuto sopportare mesi di angoscia e di attesa per l'atteggiamento dei partner congolesi di Aibi che, secondo le denunce presentate, hanno ritardato di un anno e mezzo il trasferimento dei figli adottati, trattenendoli nel frattempo in zone pericolose: un braccio di ferro con le autorità durato da marzo 2014 a giugno 2016. Conoscendo direttamente tutta la storia per averla subita, con i loro commenti i genitori esercitano quanto sancito dall'articolo 21 della Costituzione. E con l'esposto al presidente del Consiglio rispondono ora alle dichiarazioni di Griffini e del suo ente che, tra l'altro, rischiano di confondere le indagini: sia quelle avviate dall'autorità giudiziaria, sia quelle affidate alla Cai. Lo scorso autunno la vicepresidente Silvia Della Monica aveva infatti denunciato in un'audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera l'esistenza di associazioni italiane coinvolte in traffico di bambini. Da allora però la politica, che parla e twitta su tutto, non ha mai espresso il suo aperto sostegno all'inchiesta. Mentre non sono mancati i parlamentari, da destra a sinistra, che si sono mossi a favore dell'ente di San Giuliano Milanese e di Griffini. È questo silenzio del Parlamento e del governo a spaventare le famiglie adottive: dopo aver denunciato le gravissime irregolarità e quindi aver avuto fiducia nelle istituzioni, rischiano ora di essere citate a giudizio dal presidente di Aibi. Per questo hanno deciso di indirizzare l'esposto al premier Gentiloni, inviandone copie anche al Quirinale e ai presidenti di Camera e Senato. «Una cosa più di tutte ci ha in questi mesi umiliato in questa sofferenza: il silenzio», scrivono i genitori adottivi: «Come è possibile che di fronte a quanto è venuto alla luce, la conseguenza sia il silenzio? Accanto all'instancabile lavoro della Commissione per le adozioni internazionali che ci siamo ritrovati vicino anche, e forse di più, in questi mesi dopo l'arrivo dei nostri figli e dopo l'importante audizione fatta dalla consigliere Della Monica alla commissione Giustizia, chiediamo che le istituzioni facciano ciò che devono e che i cittadini per bene si aspettano». L'intervento di Aibi, continuano i firmatari dell'esposto al presidente del Consiglio, è «volto a mistificare la realtà, a rivendicare e millantare regia e credito presso le istituzioni per ottenere un cambio alla guida della Cai. Un cambio, voluto e invocato da chi teme la legalità, ma che il mondo delle famiglie e delle adozioni pulite non vuole e non accetterebbe. Fatti gravi sono avvenuti in Congo e noi ne siamo consapevoli. Ora attendiamo giustizia e pulizia... Per questo, come primo inequivocabile segnale della volontà del Suo governo di sostenere quest'azione di legalità e di affermazione della giustizia, Le chiediamo di confermare alla presidenza della Commissione adozioni internazionali la presidente Silvia Della Monica, l'unica persona che realmente ha avuto a cuore nei fatti l'interesse dei minori e delle loro famiglie in attesa, l'unica che con coraggio e determinazione, come altre volte ha fatto nella sua vita, sta portando avanti una profonda e necessaria azione di ristabilimento della legalità e della moralità nel mondo delle adozioni internazionali, l'unica che sappiamo con assoluta certezza potrà portare e porterà a termine il lavoro iniziato. È questo il segnale inequivocabile che ci attendiamo da Lei, il segnale che per il governo da lei presieduto prima di tutto viene la giustizia. Lo chiediamo a nome dei nostri bambini, novelli cittadini italiani che attendono giustizia e che vogliono poter essere orgogliosi delle istituzioni».
IL DOCUMENTO - L'esposto delle famiglie adottive. (Omettiamo le firme per evitare ai genitori conseguenze legali da parte di Aibi). Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Dott. On. Paolo Gentiloni. Gentilissimo Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, siamo le cosiddette "coppie ex-AiBi", un nutrito gruppo di famiglie che di recente hanno adottato in Repubblica Democratica del Congo, scegliendo di dare mandato diretto alla Commissione Adozioni Internazionali e abbracciando, dopo una dolorosa attesa, i propri figli con grande gioia. Innanzitutto vorremmo ribadire, come già fatto in precedenti occasioni, i nostri ringraziamenti al duro lavoro svolto dalla Commissione Adozioni Internazionali, in particolare nelle vesti della cons. Silvia Della Monica. Grazie a questo meraviglioso lavoro, nei primi mesi dal loro arrivo, abbiamo potuto guardare e ammirare i nostri figli, conoscerli, consolarli, giocare con loro, abbracciarli. Una sensazione indescrivibile. Ora che la confidenza è cresciuta, ora che i loro “papà, mamma” hanno un tono sicuro e deciso, ora che sanno che noi per loro ci saremo sempre, sono già arrivati i momenti che tutti noi aspettavamo con trepidazione: quelli in cui tuo figlio o tua figlia ti guarda dritto negli occhi e ti interroga, cerca di conoscerti nel profondo. È per questo sguardo che Le scriviamo. Non avremmo mai creduto di dover scrivere certe cose, ma non possiamo stare zitti. Recenti avvenimenti e l'inchiesta de L'Espresso a firma di Fabrizio Gatti hanno portato alla luce gravissimi fatti avvenuti in Repubblica Democratica del Congo durante l'attesa dei nostri figli, che hanno in noi, in quanto diretti interessati, reso più grande quella ferita che ancora sanguina. Ma una cosa più di tutte ci ha in questi mesi, diciamo pure, umiliato in questa sofferenza: il silenzio. Come è possibile che di fronte a quanto è venuto alla luce, la conseguenza sia il silenzio? Non una parola, non un accenno, nessun intervento, nulla. Mio figlio, mia figlia mi sta guardando negli occhi: “Papà, mamma, perché non hanno fatto niente? E agli altri, cosa succederà?”. Cosa devo rispondere? Accanto all'instancabile lavoro della Commissione per le Adozioni Internazionali che ci siamo ritrovati vicino anche, e forse ancor di più, in questi mesi dopo l'arrivo dei nostri figli e dopo la importante audizione fatta dalla Cons. Silvia Della Monica alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati chiediamo che le istituzioni facciano ciò che devono e che i cittadini per bene si aspettano. Caro Presidente, abbiamo bisogno di credere nelle istituzioni, nella umanità delle istituzioni, nella risolutezza delle istituzioni, nella rettitudine e nella giustizia delle istituzioni. Ma in particolare ci dovranno credere i nostri figli, glielo dobbiamo. Il lavoro svolto dalla Cons. Silvia Della Monica e dalla Commissione Adozioni Internazionali, è stato ed è un lavoro non solo di grande umanità e spirito di dedizione fuori dal comune, ma anche di evidente competenza e profonda giustizia. Grazie a questo lavoro, a questo esempio di come si servono le istituzioni noi siamo orgogliosi di essere cittadini italiani e vorremmo che lo siano anche i nostri figli. Ma questo lavoro non è finito e deve essere portato a termine. Lo chiediamo con tutta la nostra forza! E non arretreremo di un millimetro in questa nostra richiesta. Perciò chiediamo pieno sostegno da parte delle istituzioni alla Presidente Silvia Della Monica. In questi mesi abbiamo dovuto anche assistere all'inverecondo baccano fatto dall'ente AiBi e dal suo legale rappresentante Marco Griffini, non solo contro la CAI, cioè l'istituzione che presidia e controlla la legalità nell'ambito delle adozioni internazionali, ma anche contro le famiglie martoriate che attendono pulizia e giustizia. Inverecondo baccano che ha raggiunto vertici ignobili in questi giorni con minacce fatte via Twitter alle famiglie che esprimono il loro sostegno all'azione di legalità portata avanti dalla Presidente Della Monica (alleghiamo copia dei citati messaggi presenti sui social network). Un inverecondo baccano volto a mistificare la realtà, a rivendicare e millantare regia e credito presso le istituzioni per ottenere un cambio alla guida della CAI. Un cambio, voluto ed invocato da chi teme la legalità, ma che il mondo delle famiglie e delle adozioni pulite non vuole e non accetterebbe. Fatti gravi sono avvenuti in RDC e noi ne siamo consapevoli. Ora attendiamo giustizia e pulizia! Presidente siamo certi che Lei darà seguito a questo lavoro, non tralasciando nulla, con giustizia e tenacia, dando continuità al lavoro di una Commissione Adozioni Internazionali che fino ad ora ha svolto eccellentemente il proprio mandato e sostenendo questo duro lavoro di giustizia a favore dei più indifesi, i bambini. Per questo come primo inequivocabile segnale della volontà del Suo Governo di sostenere quest'azione di legalità e di affermazione della giustizia Le chiediamo di confermare alla Presidenza della Commissione Adozioni Internazionali la Presidente Silvia Della Monica, l'unica persona che realmente ha avuto a cuore nei fatti l'interesse dei minori e delle loro famiglie in attesa, l'unica che con coraggio e determinazione, come altre volte ha fatto nella sua vita, sta portando avanti una profonda e necessaria azione di ristabilimento della legalità e della moralità nel mondo delle adozioni internazionali, l'unica che sappiamo con assoluta certezza potrà portare e porterà a termine il lavoro iniziato. E' questo il segnale inequivocabile che ci attendiamo da Lei, il segnale che per il Governo da Lei presieduto prima di tutto viene la giustizia! Lo chiediamo a nome dei nostri bambini, novelli cittadini italiani che attendono giustizia e che vogliono poter essere orgogliosi delle istituzioni di questo Paese.
Ladri di bambini, abusi sui minori in Bulgaria. Tre domande all'ex vicepresidente della Cai, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 9 dicembre 2016. L'inchiesta de "l'Espresso" sulle presunte irregolarità nelle adozioni internazionali: abbiamo chiesto la testimonianza di Daniela Bacchetta, già vice presidente della Cai, l'autorità italiana di controllo, per i suoi contatti con l'ente "Aibi-Amici dei bambini" ora al centro di un nuovo scandalo in Congo. Ecco le nostre domande. Gentile dottoressa Daniela Bacchetta, per completare un'inchiesta giornalistica che sto svolgendo per il settimanale "l'Espresso", devo porgerLe alcune domande. La mattina del 7 gennaio 2013 l'avevo contattata al telefono in merito alla denuncia di alcuni bambini adottati in Italia che dichiaravano ai loro genitori adottivi di essere stati costantemente violentati da adulti. Violenze avvenute in un orfanatrofio in Bulgaria e in una discoteca, sempre in Bulgaria, dove i bambini venivano periodicamente trasferiti durante le vacanze. I genitori adottivi lamentavano di avere contattato l'associazione "Aibi-Amici dei bambini", che aveva mediato l'adozione come ente autorizzato dal governo italiano, e di non avere ricevuto forme adeguate di assistenza: sia sotto il profilo psicopedagogico, sia per le ovvie esigenze giudiziarie. Non pretendo che Lei ricordi il contenuto della nostra telefonata del 7 gennaio 2013. Lo rammento qui. La chiamai nella Sua qualità di vice presidente della "Cai - Commissione per le adozioni internazionali" e le chiesi se e quando Marco Griffini, presidente dell'ente Aibi, o altri rappresentanti per conto di Aibi, Le avessero segnalato la denuncia dei genitori adottivi in merito agli abusi sui minori nell'orfanotrofio in Bulgaria. Lei mi rispose che aveva appreso della questione via telefono dal signor Griffini soltanto dopo che Griffini aveva ricevuto via email da me le domande che gli avevo inviato prima di scrivere un articolo sulla vicenda. E sempre Lei mi confermò anche che fino a quella data la Cai non era stata informata di nulla. La data della mia prima email di domande al signor Griffini è il 3 gennaio 2013. Verifico oggi che la Sua dichiarazione è smentita dalla ricevuta di ritorno della raccomandata con cui i genitori adottivi segnalavano alla Cai, di cui Lei era vice presidente, sia le gravi violenze sui bambini nell'orfanatrofio bulgaro da cui Aibi aveva fatto adottare altri minori, sia i gravi ritardi dell'ente autorizzato Aibi nell'affrontare la questione. Ritardi tra l'altro successivamente acclarati dai giudici di un Tribunale dei minorenni. La "prova di consegna" della suddetta raccomandata dimostra infatti che la Cai ha ricevuto l'esposto dei genitori adottivi nei primissimi giorni di dicembre 2012. Essendo i contenuti dell'esposto estremamente chiari e inequivocabili nei fatti narrati, le chiedo:
1) perché mi ha fornito una risposta mendace;
2) perché per tutto il mese di dicembre 2012 fino alla mia telefonata di gennaio 2013 non ha esercitato i suoi poteri di verifica e controllo come vice presidente della Cai nei confronti dell'ente Aibi;
3) quali azioni ha successivamente intrapreso nei confronti dell'ente Aibi che, dopo tre mesi dalla prima segnalazione dei genitori adottivi al signor Griffini (già il 12 ottobre 2012), non aveva ancora informato la Cai su fatti così gravi - particolare che lei stessa conferma dicendomi al telefono che Griffini l'ha avvertita soltanto dopo l'invio delle mie domande e cioè dopo il 3 gennaio 2013.
Adozioni, la confessione della direttrice «Prendevo bambini dappertutto», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 16 novembre 2016.
LA TRADUZIONE IN ITALIANO DELLE INTERVISTE. DAL FILM-DOCUMENTARIO "The Traffickers" di Nelufar Hedayat. L'interprete e la giornalista Nelufar Hedayat a Goma (da:The Traffickers). La direttrice Bénédicte Masika Sabuni appare al ventiseiesimo minuto del film mandato in onda dalla tv americana "Fusion.net". Questa la traduzione in italiano con cui seguire le interviste (da 26'00" -clicca qui).
Giornalista: «Quanti bambini ha gestito per destinarli all'adozione internazionale?».
Bénédicte: «Ne abbiamo adottati 28 in tutto: 17 sono già in Italia. Il resto è a Kinshasa in attesa che venga tolto l'embargo sui visti d'uscita, così possono partire».
Giornalista: «Quanti di questi 28 bambini che ha fatto adottare hanno un genitore vivo o un membro della famiglia?».
Bénédicte: «Ne posso contare dieci che hanno i genitori».
Giornalista: «Qualche volta i genitori hanno bisogno di essere convinti a firmare il decreto di abbandono e come li convince?».
Bénédicte: «Prima noi constatiamo che una famiglia sta avendo dei problemi e se sono interessati, sono i genitori stessi a firmare. Anche quando accettano e poi rifiutano, cerchiamo i modi e le ragioni per convincerli ad accettare la procedura di adozione senza problemi».
Giornalista: «La disinvoltura con cui Bénédicte può assicurare che l'adozione vada a buon fine anche quando i genitori cambiano idea è inquietante».
Jack, l'interprete che accompagna la giornalista e la troupe di "The Traffickers" a Goma, rivela che suo cugino, per colpa dei raggiri della direttrice dell'orfanotrofio, ha perso tre figli: sono le sorelline Aline e Alice e il fratellino Alliance, ora in Italia.
Jack: «C'era un network. Uno degli insegnanti è andato in giro a parlare con la gente e ha incontrato mio cugino e voleva che gli portasse i bambini perché potevano essere adottati. E perfino lui stesso è tornato da Bénédicte a dire "io non voglio dare i miei bambini". Ma i bambini erano già partiti. Non sono più qui. Lei (la direttrice) va in giro, manda gente in giro a raccogliere i bambini per portarli nel centro».
Giornalista: «Quando il cugino di Jack, Jean Marie, ha perso il lavoro e si è trovato in difficoltà, membri del locale orfanotrofio l'hanno convinto ad affidare tre dei suoi bambini per assicurare loro un futuro. Jean Marie ha convinto sua moglie che fosse la cosa giusta da fare. Ma il fatto ha creato tensioni in famiglia, per il sospetto che il padre avesse venduto i bambini a Bénédicte».
Jack, rivolto al papà di Alina, Alice e Alliance: «Quando ha rinunciato ai bambini, cosa le hanno dato in cambio?».
Papà: «Niente».
Un parente: «Nessun compenso? Così li hai semplicemente sacrificati. Non posso credere che non hai ricevuto denaro. Nemmeno una mancia».
Papà: «Io non li ho venduti. Il mio scopo per loro era mandarli a studiare in un ambiente migliore».
Giornalista: «Crede di aver capito cosa significa esattamente adozione? Cioè che stava rinunciando ai suoi diritti di genitore sui bambini?».
Mamma: «No, non ci hanno detto questo. Ci hanno detto che prendevano in consegna i nostri bambini per educarli. E ci hanno promesso che quando avranno 17 o 18 anni, noi potremo rivederli. Questo era il nostro accordo».
Giornalista: «Signora, loro non sono più i suoi bambini. Non ha più nessun diritto su di loro. Non c'è nulla che possa fare. Lei ha firmato i documenti».
Mamma: «Poiché non sono ancora partiti e sono ancora a Kinshasa, non importa in quali condizioni siano. Li rivoglio indietro».
Giornalista: «Jack, noi dovremmo andare dalla direttrice, da Bénédicte, adesso con tutti. Così possiamo avere una conversazione faccia a faccia».
Sempre la giornalista, ora con Bénédicte e i genitori dei tre bambini: «Alcune dichiarazioni sono state fatte contro di lei. Vorrei darle l'opportunità di replicare: lei ha detto al papà che riavrà i suoi bambini indietro quando avranno 18 anni?».
Bénédicte: «Normalmente il padre dovrebbe conoscere il sistema delle adozioni. Sono i genitori che adottano che diventano i genitori dei bambini. È questo che io ho spiegato».
Giornalista ai genitori: «Vi ha spiegato questo?».
Papà (parla solo la lingua locale, ma gli atti sono scritti in francese): «Quello che è successo è che sono andato a incontrare Madame Bénédicte per l'adozione. Eravamo d'accordo che dopo che i bambini erano partiti, loro potranno ritornare in Congo quando avranno 17 o 18 anni. Loro sono andati via per studiare, ma rimangono nostri figli».
Giornalista: «Questo è il problema Bénédicte. Lui pensa di essere ancora il padre. Lei pensa di essere la madre.
Dove sono i bambini di Jean Marie e della signora?».
Bénédicte (ora in lingua locale): «Per ora so che sono a Kinshasa. Ho lasciato i bambini all'orfanotrofio Ange Gabrielle. Li è dove li ho lasciati. Ora non sono più lì, ma loro potrebbero sapere dove sono».
La mamma di Aline, Alice e Alliance alla giornalista: «Ti supplico di continuare a cercarli visto che loro non sono ancora partiti per l'Italia. Per favore, riportameli indietro».
Giornalista a Bénédicte: «Quando stava facendo la procedura, perché non ha fatto le dovute verifiche per scoprire se questi genitori erano vivi o no?».
Bénédicte si giustifica: «Prima non avevo l'esperienza. Stavo prendendo bambini dappertutto, senza sapere chi erano o da dove venivano».
Mamma: «Se non avrò indietro i miei bambini, il loro padre dovrà vedersela con me. Perché io non ho partorito per il mondo o per gli altri. Io - e guarda il marito - sono quella che ha affrontato i dolori della nascita. Non l'ho fatto per il mondo. Dio me li ha dati e poi solo per essere portati via così?».
Giornalista: «È duro sapere come quante altre famiglie sono state divise».
Jack legge il documento con cui il padre autorizza la consegna dei tre figli. È un semplice foglio bianco, scritto a penna, senza nessuna intestazione: «Io, genitore di Aline, Alice, Alliance, accetto di dare i miei tre bambini perché vadano in un Paese straniero: Italia».
Adozioni, nuovi interrogatori in tutta Italia Melissa Satta cancella la campagna con Aibi, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 16 novembre 2016. Al via gli interrogatori della Guardia di finanza per lo scandalo sulle adozioni internazionali. In questi giorni sono stati sentiti testimoni in vari uffici, dalla Lombardia alla Sicilia. Gli investigatori stanno indagando sui rapporti istituzionali di Marco Griffini, 69 anni, fondatore e presidente di "Aibi-Amici dei bambini", l'associazione di San Giuliano Milanese autorizzata dal governo per le adozioni internazionali: in particolare sui ritardi nella denuncia di una rete di pedofili che hanno violentato e sfruttato per la produzione di film pornografici i bambini di un orfanotrofio in Bulgaria, poi adottati in Italia attraverso Aibi. Proprio da quei bambini era partita la denuncia ignorata da Griffini, che per questa grave omissione e per i ritardi nella tutela dei piccoli è stato anche censurato da un Tribunale dei minorenni. I fatti risalgono al 2012 e 2013. La Guardia di finanza sta esaminando i contatti del presidente di Aibi con alcuni componenti della Commissione per le adozioni internazionali, l'organo di controllo del governo, nella sua composizione di allora che aveva come vicepresidente il magistrato minorile Daniela Bacchetta, fino a questo momento estranea ai fatti contestati. I reparti investigativi hanno finora interrogato medici, psicologi e funzionari del ministero della Giustizia che si sono occupati del caso. Dopo lo scandalo sulle adozioni in Congo, in cui è coinvolta sempre Aibi, anche la showgirl Melissa Satta ha sospeso la sua collaborazione pubblicitaria con l'associazione. Lo rendono noto gli avvocati di Marco Griffini, Stefano Papa e Marco Squicquero. La disdetta di Melissa Satta risale alla scorsa estate: «La signora Stefania Castaldi, dell'agenzia intermediaria nella relazione tra Aibi e la testimonial Melissa Satta», fanno sapere gli avvocati di Griffini, «ha comunicato per iscritto all'associazione e per essa alla dipendente Chiara Angeli, addetta alle relazioni con aziende e partner per l'attività di raccolta fondi, la volontà di non procedere con la campagna sms prevista per il periodo dal 17 settembre al 3 ottobre 2016 e, più in generale, la volontà di sospenderela collaborazione in attesa dell'evolversi della situazione spiegando come, prima di procedere con qualsiasi attività promozionale, fosse "importante che venga fatta chiarezza sulla situazione"». Anche Unicef, dopo lo scandalo sulle adozioni in Congo, ha cancellato un finanziamento ad Aibi di oltre 245 mila euro. Oltre alla vicenda bulgara, lo staff di Griffini è infatti sotto indagine amministrativa e giudiziaria per non aver denunciato l'attività di un'organizzazione che in Congo procacciava illegalmente bambini perché venissero adottati in Italia. Le irregolarità gravi, rivelate dall'inchiesta "Ladri di bambini" pubblicata su "l'Espresso" nel luglio 2016, sono state recentemente confermate dal film-documentario "The Traffickers" mandato in onda domenica 13 novembre dalla tv americana Fesion.net.
Congo, confessa la direttrice dell'orfanotrofio di Goma: «Adottati in Italia bambini mai abbandonati dalle loro famiglie», scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 15 novembre 2016. Bénédicte Masika Sabuni, responsabile del centro che riforniva anche Aibi: ho preso bimbi dappertutto, senza sapere chi erano o da dove venivano. Il presidente Griffini chiede venti milioni a "l'Espresso" per aver denunciato lo scandalo. Ma l'Unicef, la multinazionale Henkel e la showgirl Melissa Satta sospendono la collaborazione con l'associazione. Sono almeno dieci i bambini assegnati dal Tribunale minorile di Goma in Congo all'Italia senza i requisiti fondamentali per l'adozione: non sono mai stati abbandonati dalle loro famiglie e nemmeno erano orfani. Lo ammette Bénédicte Masika Sabuni, direttrice dell'orfanotrofio che riforniva anche "Aibi-Amici dei bambini", l'associazione di San Giuliano Milanese autorizzata per le adozioni internazionali. «Stavo prendendo bambini dappertutto», rivela la direttrice, «senza sapere chi erano o da dove venivano». La mamma di tre di loro, Aline, Alice e il fratellino Alliance, li sta cercando disperatamente. Ma non ha possibilità economiche per incaricare un avvocato e far valere i suoi diritti: «Madame Bénédicte ci ha detto che prendevano in consegna i nostri figli per educarli. E ci hanno promesso che quando avranno 17 o 18 anni, noi potremo rivederli. Questo era il nostro accordo». I tre piccoli abitano già con i loro genitori adottivi italiani, ignari del raggiro: sono arrivati a Roma nella primavera del 2016 grazie a sentenze esecutive emesse a Goma che invece ne dichiaravano l'adottabilità perché orfani o abbandonati. La confessione è stata mandata in onda domenica sera, ora di Miami, dalla tv americana Fusion.net. La direttrice è stata intervistata dall'inviata Nelufar Hedayat in una drammatica puntata della serie "The Traffickers", i trafficanti. Masika Sabuni conferma davanti alla videocamera quanto ha scritto "l'Espresso" nell'inchiesta di copertina "Ladri di bambini" pubblicata nel luglio 2016. In realtà, l'intervista tv è precedente. Risale alla scorsa primavera: la responsabile dell'orfanotrofio parla con tranquillità, non immaginando che di lì a pochi mesi sarebbe scoppiato lo scandalo. Nella parte mandata in onda la donna rintracciata a Goma, la città sul lago Kivu al confine con il Ruanda, non nomina mai Aibi. Ma davanti ai genitori disperati di Aline, Alice e Alliance che rivogliono i loro figli, dice di averli trasferiti all'orfanotrofio "Ange Gabrielle" di Kinshasa: si tratta della casa-famiglia finanziata da Aibi con il supporto di Alessi, la famosa fabbrica di design, ovviamente all'oscuro delle irregolarità nelle procedure di adozione. In fondo a questo articolo, le dichiarazioni integrali della direttrice Bénédicte Masika Sabuni. Marco Griffini, 69 anni, presidente e fondatore di Aibi, proprio in questi giorni, attraverso due suoi avvocati ha citato in Tribunale "l'Espresso" e chi scrive pretendendo un risarcimento complessivo di venti milioni di euro. Griffini sostiene di essere stato accusato ingiustamente di: corruzione di un giudice congolese, favoreggiamento di trafficanti di bambini, false dichiarazioni rivolte a pubblici ufficiali, sequestro di minori, concorso in arresti illeciti e torture. Sulla base dell'atto di citazione milionario, Griffini sta velatamente alludendo di portare a giudizio anche i genitori adottivi che hanno commentato gli articoli e chiedono giustamente trasparenza, il minimo che possano fare: «Loro sono dei moltiplicatori di risorse per il nostro fondo» scrive il presidente di Aibi la sera del 7 novembre sulla sua pagina Twitter @aibipres. Le varie puntate della nostra inchiesta "Ladri di bambini" non hanno mai attribuito ad Aibi i reati che Griffini elenca. Hanno invece raccontato come i vertici dell'associazione, a cominciare da Valentina Griffini, la figlia responsabile delle attività in Africa, abbiano omesso di denunciare e sostenuto una versione non vera sulla scomparsa dall'orfanotrofio diretto da Bènédicte Masika Sabuni di quattro bambini adottati da coppie italiane, ignare delle irregolarità. Le email interne di Aibi confermano che gli operatori sapevano che i piccoli erano stati ripresi con la forza dalle loro famiglie che non li volevano cedere: quindi non erano adottabili. Ma ai genitori in Italia e alla Commissione per le adozioni internazionali, cioè l'autorità governativa di controllo, il presidente Griffini, la figlia e i loro più stretti collaboratori hanno dichiarato che i bimbi erano stati rapiti da un commando armato di guerriglieri. Versione concertata in una riunione avvenuta a Goma nello studio dell'avvocato di Aibi, Martin Musavuli, tra il legale, il presidente del Tribunale per i minorenni Charles Wilfrid Sumaili, l'inviato di Aibi e cittadino italiano Eddy Zamperlin e, appunto, la direttrice dell'orfanotrofio Bénédicte Masika Sabuni. Quando la scorsa primavera Nelufar Hedayat e la troupe di Fusion.net volano a Goma per seguire la rotta delle adozioni verso gli Stati Uniti, incontrano l'interprete Jack. E da lui raccolgono le voci su Bénédicte e la storia mai raccontata dei tre piccoli sottratti, come altri, con la scusa di farli studiare in Italia. Così come era accaduto ai protagonisti della nostra inchiesta "Ladri di bambini": Mirindi, 6 anni, assegnata a una coppia di Pisogne, in provincia di Brescia; Melanie, 10 anni, a una famiglia di Cosenza; Aimé, 6 anni, ai nuovi genitori a Roma; Nicole, 6 anni, a una coppia di Casorate Primo, nel Pavese e Martine, 6 anni, a una famiglia in provincia di Venezia. Bimbi mai arrivati a destinazione, per la reazione delle loro famiglie naturali che se li sono ripresi. Mentre i genitori adottivi italiani stanno ancora aspettando da Aibi la verità. Le inchieste giornalistiche sulla rete in Congo di procacciatori di bambini (chiamiamoli così) che rifornivano Aibi adesso sono due: due indagini indipendenti, condotte da giornalisti che non si conoscevano, che negli stessi mesi, partendo da luoghi lontanissimi del pianeta, hanno portato alle medesime persone. Nel suo atto di citazione Griffini rivela che alla sua associazione cominciano ad arrivare le prime disdette: Unicef, l'agenzia delle Nazioni Unite, ha ritirato un finanziamento di oltre 245 mila euro. Via anche la multinazionale Henkel, che affiancava Aibi nelle scuole. E si allontanano contribuenti privati e testimonial, come la showgirl Melissa Satta che ha cancellato la campagna pubblicitaria prevista dal 17 settembre al 3 ottobre 2016. Resta qualche agghiacciante domanda, di cui Griffini sicuramente non conosce la risposta. Ma Madame Bénédicte forse sì. Non si può dire che in una zona di conflitti, come la regione di Goma, manchino orfani: perché allora far adottare con l'inganno bambini che hanno i genitori? In altre parole: gli orfani veri dove finiscono?
«Associazioni italiane trafficavano bambini». La sconvolgente denuncia in Parlamento, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 13 ottobre 2016. Chiedono i parlamentari: ci sono associazioni italiane coinvolte in traffici di bambini, ci sono stati traffici di minori con il Congo? «Ci sono stati, purtroppo ci sono stati», risponde la vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), il magistrato Silvia Della Monica: «Le famiglie sono disperate. E si rivolgono a noi chiedendo al governo di essere aiutate». È uno dei momenti più drammatici dell'audizione di mercoledì pomeriggio davanti alla commissione Giustizia della Camera. Un confronto durato oltre due ore, un'ora in più del previsto, in cui Della Monica ha anche denunciato la campagna di aggressione e delegittimazione messa in campo dall'associazione Aibi (più volte citata) di Marco Griffini, 69 anni, famoso imprenditore della solidarietà. E ha confermato quanto "l'Espresso" ha raccontato nell'inchiesta "Italiani ladri di bambini": «L'inchiesta pubblicata sull'Espresso riporta fatti gravissimi di cui la Commissione per le adozioni internazionali è pienamente consapevole. Il tentativo di banalizzazione o anche l'atteggiamento negazionista non risponde alla priorità di chiarezza e di sostegno all'ineludibile azione di pulizia che deve essere necessariamente portata fino in fondo e che io intendo portare fino in fondo, in ragione dei miei doveri d'ufficio, della mia storia personale. Ma soprattutto in ragione della tutela del governo italiano». «Capisco che le famiglie siano smarrite di fronte a quanto hanno subito da parte di alcuni enti: di un ente in particolare che è sotto inchiesta da parte della Commissione e anche sotto inchiesta di carattere penale per fatti molto seri, dei fatti gravissimi. Io mi interrogherei anche: ma se questi fatti sono veri, e la Commissione per le adozioni ha preso atto di fatti gravissimi, è giusto che si possa andare avanti in un sistema di questo tipo?», chiede Silvia Della Monica ai deputati: «Non stiamo parlando solo di Congo. Stiamo parlando di fatti molto gravi avvenuti in altri Paesi. Recentemente la Corte europea dei Diritti dell'Uomo è intervenuta per quanto riguarda la situazione in Bulgaria, in cui si parla di abusi da parte di pedofili» su bimbi poi adottati attraverso Aibi in Italia. «La Commissione per le adozioni internazionali ha preso in carico 50 procedure adottive in Congo, sei delle quali con genitori disperati per non avere più i propri figli. Tutte le famiglie (italiane) che hanno revocato l'incarico all'ente, hanno chiesto di essere tutelate dal governo italiano. Tutte hanno diffidato l'ente Aibi», spiega Della Monica, «dall'interferire nelle loro procedure adottive. E mentre la Commissione lavorava per risolvere questa delicatissima situazione, altri hanno lavorato per impedire invece una felice soluzione utilizzando a tal fine qualsiasi mezzo. A cominciare da una sistematica campagna mediatica di delegittimazione della Commissione e degli enti che in quel momento stavano aiutando la Commissione a portare a compimento queste procedure adottive così delicate. Vorrei ricordare che un sacerdote molto stimato in Congo è stato accusato di rapimento inesistente di bambini. Noi abbiamo avuto un'azione sistematica nei confronti di questa persona, mentre le loro famiglie adottive disperate dicevano: nessuno ha rapito i nostri figli. Altrettanto è accaduto per quanto riguarda un altro ente accusato di avere commesso traffici inesistenti di minori, sostenendo addirittura che questi bambini erano stati trasferiti irregolarmente in Italia». «Sin dal maggio 2014, mentre arrivavano i primi 31 bambini dal Congo, mentre si intensificavano le relazioni con tale Paese per addivenire alla soluzione della moratoria», riferisce la vicepresidente della Cai, «ci siamo trovati di fronte alla denuncia da parte di famiglie interessate di fatti che si sono delineati a breve come gravissimi e hanno posto la Commissione di fronte alla necessità, non solo di portare avanti con decisione e fermezza l'attività di indagine su tali gravi fatti e di tutelare le famiglie e i minori coinvolti, ma anche di porre in essere ogni cautela per evitare che tale situazione si riverberasse negativamente sulla soluzione della crisi in Congo: rischiando di travolgere non solo la posizione dell'Italia, cioè i 181 minori adottati dalle famiglie italiane, ma anche quelli degli altri Paesi coinvolti, cioè oltre 1500 minori adottati da famiglie di altri sette Paesi. Voi potete immaginare quale sarebbe stato il riflesso in sede internazionale. Innanzitutto i bambini non sarebbero più arrivati. In secondo luogo avremmo dovuto parlare in Commissione di questo, con la presenza del controllore-controllato poiché l'ente Aibi esprimeva direttamente in commissione un proprio rappresentante. Facendo parte del Forum delle associazioni familiari e del direttivo del Forum delle associazioni familiari, (Aibi) avrebbe dovuto essere presente in un momento in cui c'era un'indagine di carattere amministrativo e un'indagine di carattere penale». Della Monica ha ringraziato le famiglie adottive italiane e gli enti che si sono schierati dalla parte della legalità e che nell'anno e mezzo di difficili trattative hanno pazientemente atteso la liberazione di tutti i loro figli, illegalmente trattenuti negli orfanotrofi legati ad Aibi e a Marco Griffini in Congo. «Non vorrei dimenticare», continua la vicepresidente della Cai, «quanto siano gravi le condizioni in particolare nel Nord Kivu da cui venivano tanti bambini che sono stati adottati da famiglie italiane e che per ragioni, che sono oggetto di un'indagine approfondita da parte della Commissione e che è stata sottoposta anche alle autorità competenti nelle sedi penali, sono stati illecitamente trattenuti a danno del loro superiore interesse e contro la volontà delle loro famiglie». Mentre, secondo il magistrato Silvia Della Monica, Aibi ostacolava l'arrivo dei bambini adottati in Congo, altri enti amici accusavano le autorità della Bielorussia mettendo in pericolo le procedure di adozione verso l'Italia attualmente in corso per centotrenta bambini: «Le autorità bielorusse si dichiarano sbalordite dell'arroganza di enti italiani, che considerano soggetti privati sottoposti al controllo del governo italiano. Solo gli ottimi rapporti tra la Bielorussia e la Cai hanno scongiurato un nuovo blocco delle adozioni. Abbiamo ricevuto proteste formali scritte delle autorità bielorusse, come proteste formali abbiamo ricevuto dalle autorità della Repubblica Democratica del Congo». Proteste che hanno reso necessarie «lunghe negoziazioni per far comprendere che l'autorità centrale italiana era ben consapevole dell'importanza del lavoro che gli stessi Paesi di origine stavano svolgendo. E che era un lavoro finalizzato ad evitare che si verificassero traffici di minori». Durante l'audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera è stato denunciato anche il ruolo che Aibi ha avuto nell'indirizzare l'attività di alcuni parlamentari: «Credo che sarà possibile fare chiarezza rispetto a tutta una serie di notizie e di affermazioni non corrette che sono state veicolate in più sedi anche autorevoli, come quella parlamentare, di cui io ho un grandissimo rispetto, in maniera strumentale e da parte di alcuni con un esclusivo obiettivo di delegittimare l'azione della Commissione per le adozioni internazionali, anche per distogliere l'attenzione da fatti gravi e per contrastare una decisiva azione di legalità intrapresa in questi due anni che ha prodotto un cambio di passo della Commissione adozioni internazionali». Sarebbe invece urgente una nuova norma che limiti la durata dell'autorizzazione che il governo affida agli enti privati come Aibi per accompagnare le famiglie nei procedimenti di adozione internazionale e per rappresentare lo Stato italiano all'estero: «Gli enti non possono avere un'autorizzazione perenne», osserva Della Monica: «Non è possibile che l'autorizzazione duri fino alla revoca, che non comporti possibilità di una sospensiva. Tutto questo metterebbe anche gli enti in una diversa ottica. Oggi ci sono garanzie giuste nei confronti degli enti, ma non giuste nei confronti delle famiglie». «Devo ribadire con forza la questione delicatissima della presenza di conflitti di interesse in un organo di vigilanza e controllo», aggiunge il magistrato Della Monica, aprendo un altro capitolo. Riguarda il "Forum delle famiglie", associazione presente per legge all'interno della Commissione per le adozioni internazionali, che è la massima autorità di controllo del governo. Ma lo stesso "Forum delle famiglie" ha nel suo direttivo l'associazione Aibi, cioè un ente autorizzato dal governo e questo è vietato dalla legge. Da tempo cioè un ente controllato siede nella Cai che è l'autorità che lo controlla. Sarebbe bastato un passo indietro di Aibi e del suo presidente Marco Griffini con l'uscita dal "Forum delle famiglie" e la questione sarebbe risolta. Ma non è andata così. «Nella Commissione siedono controllori e controllati», denuncia la vicepresidente della Cai. Così «la presenza nella Commissione di coloro che surrettiziamente rappresentano gli enti, perché sono espressi nel direttivo del Forum, finisce con il creare un problema di legittimità delle delibere. E come tale è stato posto il problema alla Commissione, chiedendoci addirittura di riesaminare le delibere che sono state emesse in precedenza, in quanto queste delibere sono andate a impattare su altri enti autorizzati che non sono rappresentati. E giustamente non lo dovrebbe essere nessuno in Commissione». Il magistrato spiega ai parlamentari che si tratta dei «cosiddetti progetti di sussidiarietà in relazione al fatto che ne sono stati approvati soltanto alcuni e non altri, soltanto alcuni riguardanti determinati enti, di cui uno rappresentato direttamente nell'ambito della commissione e rispetto al quale non c'è nessun controllo. Né da parte di una commissione esterna alla stessa Commissione per le adozioni internazionali come si fa normalmente quando si parla di un bando che deve distribuire soldi pubblici, né in una successiva attività di accertamento della regolare esecuzione nel Paese estero delle attività che sono state finanziate con soldi pubblici. Tutto questo ha prodotto un'indagine seria per capire quanto fosse fondata la richiesta degli enti di rivalutare questa attività così delicata». Una situazione che impedisce al vertice della Cai di riunire i ventuno commissari perché qualunque loro atto potrebbe essere impugnato e dichiarato illegittimo. Tanto più che nella prima e unica riunione costitutiva della nuova Commissione, due anni fa, i commissari in palese conflitto di interessi autocertificavano il contrario: «Nella prima riunione della Commissione in cui si doveva discutere della legittimità della sua costituzione», denuncia ancora il magistrato Della Monica, «da parte di quegli stessi soggetti, che in modo conclamato avevano un conflitto di interessi, si assumeva di non avere conflitti di interessi e si firmava anche un documento nell'ambito del quale si asseriva qualcosa che non è assolutamente vero».
Ladri di bambini, nuovo appello a Mattarella. Ma la Camera ospita la conferenza di Griffini, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 10 ottobre 2016. Essere stato censurato da un Tribunale dei minorenni nel 2014, per aver ritardato la segnalazione di una gang di pedofili e la tutela dei bambini che l'avevano denunciata. Essere il presidente di un ente messo sotto inchiesta nel 2016, per non aver riferito quanto i vertici sapevano su un'organizzazione che avrebbe fatto adottare in Italia bimbi sottratti ai loro genitori in Congo. Essere tutto questo e accusare quasi quotidianamente il magistrato che sta indagando su di lui, chiedendone la rimozione, dev'essere una qualifica onorevole per Marco Griffini, 69 anni, fondatore e presidente di "Aibi - Amici dei bambini" di San Giuliano Milanese, associazione autorizzata dallo Stato come ente di riferimento per le adozioni internazionali. Da mesi infatti Griffini continua a essere invitato ai più alti livelli istituzionali. La foto qui sopra, pubblicata dall'agenzia di informazione di Griffini "Aibinews", ritrae l'incontro con il presidente Sergio Mattarella, all'oscuro dei retroscena, durante il ricevimento nei giardini del Quirinale per i settant'anni della Repubblica, il primo giugno 2016. Poi la visita al Garante per l'infanzia, Filomena Albano, massima autorità italiana per la protezione dei più piccoli. E ancora pochi giorni fa, il 3 ottobre, perfino la Camera dei deputati, con la partecipazione dell'onorevole di Area popolare Aldo Di Biagio, ha ospitato una conferenza del fondatore-padrone di Aibi. Una presenza che dev'essere sfuggita all'ufficio della presidente Laura Boldrini. Per chiedere che le istituzioni mettano fine a queste passerelle personali di Marco Griffini, almeno fino a quando l'indagine amministrativa non avrà chiarito le presunte responsabilità dei vertici di Aibi, trentuno enti autorizzati dal governo ad adottare bambini all'estero sollecitano l'attenzione del presidente della Repubblica. Due le priorità segnalate nell'appello al capo dello Stato. Prima di tutto: estromettere dalla Commissione per le adozioni internazionali (Cai) i commissari in stretto contatto con le organizzazioni sotto inchiesta (le verifiche non riguardano soltanto Aibi), al costo di sciogliere tutto l'organo governativo di controllo. L'altra: fermare la campagna avviata dal presidente di "Aibi-Amici dei bambini" contro la vicepresidente della Cai, il magistrato Silvia Della Monica, che ha aperto l'indagine amministrativa su Marco Griffini e sulla sua organizzazione. Griffini e la sua ampia schiera di sostenitori, anche dentro il Parlamento, protestano da tempo perché l'ultima riunione plenaria della Commissione per le adozioni internazionali risale a fine giugno 2014. Nessuno dei parlamentari però fa notare che la data coincide con il periodo in cui i vertici della Cai scoprono le gravi irregolarità nelle adozioni in Congo e il fatto che alcuni commissari-controllori, violando le norme, rappresentino associazioni partecipate dagli enti controllati, tra i quali la stessa Aibi. In altre parole, Griffini chiede la rimozione del magistrato Della Monica per non aver convocato da due anni i commissari, alcuni dei quali in grave conflitto di interessi, e non aver fornito loro gli atti e le informazioni per le quali l'associazione di Griffini è sotto inchiesta amministrativa. Un cortocircuito che fa sorridere e che comunque violerebbe la legge, oltre che il buon senso di qualunque verifica. A fine giugno 2014 tutti i commissari, al momento del loro insediamento, hanno infatti firmato un'autocertificazione attestando «che non sussistono situazioni anche potenziali di conflitto di interessi, che possano pregiudicare, anche nell’apparenza, l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite». Un'autocertificazione che per alcuni è stata smentita dai fatti. La vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, riferirà in un'audizione mercoledì pomeriggio davanti alla commissione Giustizia della Camera che già si era occupata di adozioni il 20 luglio scorso, pochi giorni dopo la pubblicazione su "l'Espresso" dell'inchiesta "Italiani ladri di bambini". In quell'occasione, il ministro Maria Elena Boschi, presidente della Cai, aveva confermato la segnalazione all'autorità giudiziaria delle presunte irregolarità nelle procedure di adozione di bambini congolesi in Italia. Durante l'audizione però tutti i parlamentari, da destra a sinistra, si sono tenuti alla larga da qualsiasi domanda che potesse mettere in difficoltà il ministro. Così non si è parlato del doppio ruolo di controllato-controllore esercitato da alcuni enti all'interno della Commissione per le adozioni internazionali. La commissione Giustizia avrebbe invece molti argomenti da approfondire. Nella versione sostenuta dal presidente di Aibi e dai suoi più stretti collaboratori infatti quattro bambini congolesi, già beneficiari di sentenze di adozione in Italia e con cognomi italiani, sono stati rapiti da un commando armato e sono scomparsi nella giungla. Una versione comunque smentita dalle carte, secondo le quali quei quattro bambini (ma ce ne sarebbero altri) sono stati ripresi dalle loro famiglie congolesi tenute all'oscuro delle procedure di adozione. Così come Aibi non avrebbe comunicato alle quattro famiglie italiane il fatto che i figli che avevano adottato non fossero adottabili, perché sottratti ai loro genitori. Per capire però quanto siano lontane dalle preoccupazioni della commissione Giustizia della Camera le sorti dei bambini, delle famiglie congolesi e di quelle italiane che tra l'altro hanno versato inutilmente migliaia di euro a un ente autorizzato dallo Stato, basta risentire uno degli interventi rivolti al ministro Boschi: «Visto che per due anni non si è riunita la Cai, che ci sono state molte tensioni in diversi degli enti che lavorano, nelle famiglie, in quanti attendono ancora e non hanno avuto risposte, e anche in relazione al calo abbastanza significativo, con le ragioni che ha portato, che mi sembrano tutte assolutamente condivisibili, mi domando e le domando se non ritenga opportuno che si possa pensare a una campagna che eventualmente rilanci un po’ il settore delle adozioni internazionali e riapra alla fiducia». Parole dell'onorevole Sandra Zampa, vicepresidente del Pd, vicepresidente della commissione parlamentare per l'Infanzia e componente della commissione Affari esteri. Interpretate dalla parte di Griffini, sono un invito chiaro e tondo a chiudere la vicenda. E a voltare pagina: pensiamo a riconquistare fiducia, non alle cause che eventualmente l'hanno fatto perdere. Così da tempo Sandra Zampa è una delle parlamentari più benvenute e rilanciate dall'agenzia di informazioni Aibinews e dalla pagina Twitter del fondatore.Proprio per il rischio che lo scandalo venga dimenticato senza che si sia fatta chiarezza, i trentuno enti chiedono al presidente Mattarella e ai presidenti di Camera e Senato la loro autorevole vigilanza, a protezione e sostegno dell'inchiesta avviata dalla vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica. Perché «tutti gli attori istituzionali si pongano sulla corretta posizione di sostenere chi ha intrapreso quest'azione di pulizia» e «la Commissione non venga riunita fino a quando, non solo non vengano rimosse tutte le incompatibilità ai sensi del decreto del presidente del Consiglio del 13 marzo 2015 e/o altre che siano state o venissero individuate, ma anche in ragione della necessità di garantire la prosecuzione delle indagini: senza che ci possa essere inquinamento delle prove o violazione del segreto istruttorio». Gli enti che hanno firmato l'appello:
Adottare Insieme - Anna Mattei
Agapè Onlus – SilvanaValentino
AIAU Onlus - Tommaso Nencini
AIPA Onlus - Miriam Ramello
Alfabeto – Mauro Mosconi
Amici di Don Bosco – Giampietro Pettenon
A.N.P.A.S – Luigi Negroni
Arcobaleno Onlus – Bruna Rizzato
Ariete Onlus – Anna Benedetta Torre
ASA Onlus – Maria Virgillito
Associazione Cuore Onlus – Alla Shegelman
As. Famiglie Adottive Pro I.C.Y.C Onlus – Giovanni Palombi
Associazione Figli della Luce – Mariarosaria Amato
Associazione I Cinque Pani Onlus – Maurizio Sanmartin
Associazione Progetto Sao Josè Onlus – Angelo Giacomini
Brutia Onlus – Mario Vetere
Coop.Soc. EmmeEmme Onlus – Marilena Mohrhoff
Enzo B – Cristina Nespoli
Ernesto – Morena Grandi
Fondazione Patrizia Nidoli Onlus – Paola Nidoli
GVS – Don Franco Corbo
Il Mantello –Gerardina Paciello
La Cicogna – Anna Waszczynska
La Dimora Onlus – Ornella Licitra
La Primogenita – Franco Tognola
Lo Scoiattolo Onlus – Pierluigi Carnevali
Marianna Onlus – Antonio Marano
Missionari della Carità
Movimento Shalom Onlus – Luca Martini
Rete e Speranza – Silvano Rota
Senza Frontiere Onlus – Rosa Treppo
Papa Francesco, quella preghiera per gli amici dei ladri di bambini, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 24 settembre 2016. È comprensibile che papa Francesco non possa conoscere tutto degli scandali italiani. Ma qualche eminenza del suo cerimoniale deve avergli addirittura nascosto le notizie. Perché il Santo Padre ha fatto involontariamente da testimonial all'associazione Aibi che, secondo indagini in corso, ha fornito informazioni non corrispondenti al vero su una rete di trafficanti che sottraeva bambini ai loro genitori in Congo. E che, secondo i giudici di un Tribunale minorile, per mesi ha omesso di segnalare all'autorità giudiziaria le denunce su un'altra rete di pedofili fatte da alcuni minori, tutti al di sotto dei dieci anni: una volta adottati in Italia, i piccoli avevano raccontato di essere stati regolarmente violentati e sfruttati per la produzione di film pedopornografici, da adulti che frequentavano il loro orfanotrofio in Bulgaria. Per Marco Griffini, 69 anni, famoso imprenditore della solidarietà e fondatore-presidente di Aibi, è stato un mese di riconoscimenti importanti (per lui) e sconcertanti (per quanti ancora credono nella Giustizia). Il ministro ombra delle Adozioni internazionali, così soprannominato per i suoi larghi appoggi trasversali in Parlamento e nell'ufficio del ministro Maria Elena Boschi, dopo l'omaggio di papa Francesco è stato riabilitato anche dal garante per l'infanzia, Filomena Albano, la massima autorità italiana per la protezione dei bambini. Il 24 agosto, la mattina del terremoto ad Amatrice, durante l'udienza del mercoledì il papa ha pubblicamente dedicato una preghiera all'associazione “Aibi-Amici dei bambini” di San Giuliano Milanese, l'ente autorizzato dal governo per le adozioni internazionali. Erano presenti decine di sostenitori arrivati a Roma in pellegrinaggio per il "Giubileo della misericordia": genitori adottivi, famiglie e simpatizzanti certamente ignari degli agghiaccianti retroscena. Ma il messaggio del pontefice è stato subito sfruttato e pubblicato su tutte le pagine Internet dell'ente di Griffini. La ritardata denuncia della rete di pedofili risale a fine 2012. La magistratura fu informata solo da un'inchiesta de “l'Espresso” che ricostruiva i fatti. Nessun provvedimento di revoca dell'autorizzazione governativa venne successivamente adottato nei confronti di Aibi dall'allora responsabile della Commissione per le adozioni internazionali, il magistrato minorile Daniela Bacchetta sostenuta dall'ex ministro Carlo Giovanardi, né proposto dai commissari, molti dei quali emanazione della stessa Aibi attraverso il Forum delle famiglie e altre organizzazioni. Griffini e il suo staff operativo hanno potuto continuare la loro attività nel mondo secondo la loro prassi. Così negli ultimi due anni gli stessi collaboratori del presidente-ministro ombra, tra i quali la figlia di Griffini, hanno ancora una volta omesso informazioni e fornito ufficialmente notizie contrarie alla verità su una rete di trafficanti che ha tentato di far entrare nel nostro Paese bambini sottratti ai loro genitori in Congo. Uno scandalo denunciato da “l'Espresso” in luglio nell'inchiesta di copertina “Ladri di bambini” e su cui sono in corso indagini amministrative e penali. È vero che un credente sincero, a cominciare dal pontefice, non nega a nessuno la sua preghiera. Ma oltre ad Aibi, i prelati che nel cerimoniale curano le udienze di papa Francesco avrebbero potuto suggerirgli di dedicare un pensiero anche ai piccoli congolesi sottratti con l'inganno alle loro famiglie. E ai genitori adottivi italiani che, grazie a notizie non corrispondenti al vero fornite da Aibi, non sanno più nulla dei loro figli rimasti in Congo. Se perfino l'infallibilità papale è stata esposta a tanto, non deve quindi stupire l'incontro il 13 settembre tra Marco Griffini e la garante per l'infanzia, Filomena Albano. Nel clima di cortesia della giornata la massima autorità italiana per la protezione dei bambini, già illustre giudice del Tribunale di Roma, stando a quanto scrive l'agenzia di stampa di Aibi ha trattato il tema delle adozioni in Congo, ma senza alcun riferimento a fatti e procedimenti che potessero mettere in imbarazzo il presidente dell'associazione. Così anche la censura del Tribunale dei minori nei confronti di Aibi e Griffini sulla ritardata segnalazione della rete di pedofili ancora una volta è caduta nel vuoto. È solo l'inizio della campagna d'autunno del ministro ombra. Grazie agli agganci in Vaticano, nella politica e nel ministero degli Esteri, Marco Griffini sa gestire la sua immagine. È infatti un ex sondaggista, con la sue società di famiglia “Griffe Comunicazione” e “Mixer srl”, specializzate in consulenze, ricerche di mercato, sondaggi di opinione. Società sciolte oltre dieci anni fa. Nell'ultima raccolta fondi per la costruzione di un ospedale pediatrico in Siria, i nomi dello spettacolo sono tornati al suo fianco. A cominciare da Sabina Guzzanti e Nino Frassica: sicuramente non informati delle mancate denunce sui pedofili in Bulgaria e sui trafficanti in Congo. Così come, evidentemente, nulla sapevano la garante per l'infanzia e papa Francesco.
Ladri di bambini, il Tribunale dei minori: Aibi non ha denunciato i pedofili, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 21 luglio 2016. È un precedente agghiacciante, nell'inchiesta sui ladri di bambini in Congo. L'associazione Aibi, autorizzata dallo Stato per le adozioni all'estero, ha omesso di denunciare con tempestività un'organizzazione di pedofili che sfruttava i piccoli ospiti di un orfanotrofio in Bulgaria per produrre video pornografici. Lo dimostrano gli stralci di un documento che pubblichiamo qui sotto. La segnalazione sulle violenze è stata inviata da Aibi alle autorità con più di tre mesi di ritardo, soltanto dopo aver saputo dell'uscita di un'inchiesta giornalistica de "l'Espresso" che coinvolgeva l'ente. I fatti risalgono alla fine del 2012 e l'inizio del 2013 e l'inchiesta "Bulgaria, nella tana dei pedofili" la potete leggere qui. Aibi, di cui è presidente Marco Griffini, 69 anni, è la stessa associazione coinvolta ora nelle presunte gravi irregolarità per le adozioni dal Congo all'Italia: con la denuncia di falsi rapimenti, bimbi tenuti in ostaggio e le menzogne raccontate alle famiglie adottive sulla scomparsa dei loro figli. Ecco perché la decisione di riunire la Commissione per le adozioni internazionali a settembre, annunciata il 20 luglio dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, rischia di fare un favore a quanti in questi stessi giorni si stanno prendendo gioco della legge e dei genitori adottivi. La Commissione per le adozioni internazionali (Cai), cioè l'autorità di controllo della Presidenza del Consiglio di cui il ministro Boschi è stata da poco nominata presidente, potrebbe invece riunirsi al più presto con la vicepresidente, il magistrato Silvia Della Monica, e i commissari, per valutare dal punto di vista amministrativo se la potente associazione di Griffini rispetti ancora i criteri di legalità e affidabilità e garantisca un servizio adeguato per le mamme e i papà che stanno adottando un figlio all'estero. Lo stesso ministro Boschi, nella recente audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera, ha confermato che in merito all'inchiesta sui ladri di bambini in Congo, i casi sono stati segnalati alla magistratura. In questi stessi giorni il presidente di Aibi, Marco Griffini, attraverso la sua agenzia di informazione, ha invece dichiarato che, non solo i fatti avvenuti in Congo, ma anche le violenze nell'orfanotrofio bulgaro sono una bufala. La dichiarazione fa probabilmente parte della sua strategia di difesa. Quanto è avvenuto in Bulgaria e le gravi omissioni di Aibi e del suo presidente sono invece dimostrate da quanto pubblichiamo qui sotto. Non possiamo rivelare tutto il documento, per l'obbligo di nascondere l'identità dei bambini, delle loro nuove famiglie italiane e le città in cui vivono: è il provvedimento con cui un Tribunale per i minorenni italiano censura il comportamento di Marco Griffini, della sua associazione e di alcuni suoi operatori. Si tratta della scansione di alcuni brani significativi tratti dalle dieci pagine del dispositivo, che porta la firma di tre giudici e del presidente del Tribunale ed è stato depositato nel maggio 2014.
Ladri di bambini, la conferma del ministro Boschi: casi segnalati all'autorità giudiziaria, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 21 luglio 2016. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha avuto a disposizione un'ora ventidue minuti e quarantuno secondi per smentire l'inchiesta de "l'Espresso" sui ladri di bambini e sulle presunte gravi irregolarità nelle procedure di adozione tra il Congo e l'Italia. Tanto è durata la sua audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera il pomeriggio del 20 luglio nell'ambito dell'indagine conoscitiva del Parlamento in materia di adozione e affido. Ma il ministro Boschi, che da giugno ha assunto le deleghe di presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), cioè l'autorità di controllo della Presidenza del Consiglio, non ha smentito "l'Espresso". Rispondendo alle domande dei parlamentari, il ministro Boschi ha dichiarato: «Credo siano stati raggiunti alcuni risultati importanti, compresa la soluzione delle adozioni in Congo... Fortunatamente si è risolta positivamente, nonostante le molte difficoltà». E ha aggiunto che per quanto riguarda le vicende specifiche sui singoli enti «là dove si è ritenuto che ci fossero delle situazioni da parte della precedente presidenza da dover segnalare alle autorità competenti, sono state segnalate. Quindi credo che questa sia una valutazione che non attiene alla Cai, attiene ovviamente alla Giustizia. Se ci sono o meno responsabilità, non possono essere da noi valutate: possono solo essere segnalate, come soggetto vigilante, preoccupazioni da questo punto di vista alle autorità competenti». Per chi ama i dettagli, il ministro-presidente della Commissione per le adozioni internazionali ha dato questa risposta a un'ora un minuto e diciannove secondi dall'inizio del filmato dell'audizione. Illustrando il suo programma di presidente della Cai e annunciando la convocazione della Commissione per le adozioni entro settembre, il ministro ha anche detto: «...Eventualmente affrontando dove fosse necessario, su singoli casi, iniziative che non competono ovviamente alla Commissione delle adozioni internazionali ma agli organi giudiziari affrontare. Chiaramente senza fare sconti rispetto a eventuali responsabilità». Proprio in questi giorni Marco Griffini, 69 anni, ex sondaggista di mercato e fondatore e presidente dell'associazione per le adozioni e la cooperazione internazionale "Aibi" di San Giuliano Milanese, ha annunciato di aver querelato "l'Espresso" per la pubblicazione dell'inchiesta che coinvolge il suo ente. Attraverso il suo profilo Twitter, il presidente di Aibi ha anche più volte insultato l'autore (cioè chi vi sta scrivendo). L'agenzia di informazione di Griffini fa sapere che contro il settimanale è stata presentata una querela di 91 pagine corredata da 56 documenti allegati. "l'Espresso" conferma ogni parola dell'inchiesta.
I bambini italiani scomparsi in Congo e il ministro ombra Griffini, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso" il 19 luglio 2016. Con la strage di Nizza, l'attacco sul treno in Germania, la paura diffusa di nuovi attentati, è difficile pensare ad altro. Ma in questi stessi giorni un uomo, cattolico fervente (almeno a parole), presidente dell'associazione per le adozioni e la cooperazione internazionale "Aibi" di San Giuliano Milanese, ancora una volta sta cercando di imporre il suo punto di vista al governo. E quindi a tutti noi. Proprio come se fosse lui il ministro ombra della Famiglia e della Solidaretà. Marco Griffini, 69 anni, l'uomo in questione, l'aveva già fatto quattro anni fa: nel 2012 aveva omesso di trasmettere immediatamente alle autorità italiane e bulgare la denuncia dettagliata di alcuni bambini adottati in Italia, che in un orfanotrofio in Bulgaria erano stati violentati da adulti e impiegati per la produzione di video pedopornografici. L'omissione è costata a Griffini nel maggio 2014 una censura da parte dei giudici di un Tribunale per i minorenni italiano per aver «determinato un ritardo negli interventi di tutela». Tutto qui. L'allora Commissione per le adozioni internazionali, nel 2012 guidata da altri nomi incaricati da altri governi, non aveva riscontrato nulla di anomalo nella mancata segnalazione della gang di pedofili: nonostante l'associazione di Griffini sia un ente privato che opera su autorizzazione pubblica di un ufficio della Presidenza del Consiglio. Lo Stato, grazie a funzionari sicuramente non avversi al comportamento omissivo del presidente di Aibi, aveva insomma adottato il punto di vista del ministro ombra Griffini. Tra il disinteresse di schiere di parlamentari e ministri cattolici (e non) che non perdono occasione nel dichiararsi sempre al fianco dei bambini (e spesso anche di Griffini). L'8 luglio, e ancora la settimana dopo, "l'Espresso" ha raccontato come la stessa associazione di Griffini per le adozioni e la cooperazione internazionale ha operato in Congo. E soprattutto come il ritorno nelle famiglie d'origine di quattro bambini, che non potevano essere adottati perché probabilmente sottratti illecitamente ai loro genitori, sia stato mascherato dagli operatori di Aibi e poi da Marco Griffini in persona come un rapimento da parte di un commando di guerriglieri armati. Una versione falsa che ha disseminato il panico tra le mamme e i papà rimasti "orfani" dei loro figli, già adottati e quindi praticamente cittadini italiani, e tra le famiglie italiane che negli stessi mesi avevano i loro bimbi ancora bloccati nel Paese africano. Bloccati, secondo le denunce, anche per responsabilità di Griffini e di alcuni suoi operatori. Le domande che ci poniamo sono tre. Perché Griffini non ha segnalato tempestivamente quanto di gravissimo avveniva nell'orfanotrofio in Bulgaria? Perché Griffini non ha ammesso subito che i quattro bambini congolesi erano stati ripresi dai loro familiari, come certifica l'avvocato di Aibi in Congo in una relazione interna? Terza domanda: cosa nasconde davvero il ministro ombra Griffini, tanto da raccogliere intorno a sé il supporto incondizionato di vari parlamentari, di alcuni prelati e delle lobby amiche? Il modo di agire e reagire di Marco Griffini e il consenso che raccoglie ricorda per certi aspetti Luigi Verzé, l'imprenditore e sacerdote sospeso a divinis, famoso per aver fondato l'ospedale San Raffaele di Milano e per averlo lasciato, alla sua morte nel 2011, in una voragine di debiti. I punti in comune non sono ovviamente le vicende giudiziarie e finanziarie che hanno coinvolto il San Raffaele, ma una sorta di sprezzo della legge, delle regole, del buon senso e della stessa pietà cristiana. Messi in campo sempre e comunque sotto i paramenti della missione e del fervore religiosi. Da giorni Griffini mi sta insultando per aver scritto su "l'Espresso" l'inchiesta “Ladri di bambini” che lo coinvolge. Secondo quanto pubblicano lui, sua moglie Irene Bertuzzi e un gruppo di loro sostenitori sulle loro pagine Twitter, sarei un burattino manovrato da qualcuno e un ciarlatano. Ciascuno è ovviamente libero di informarsi come vuole. Ma in Italia non tutti gli operatori del settore delle adozioni e della cooperazione internazionale sono come Marco Griffini. Altri enti rispettosi della legalità e decine di genitori, in questi stessi giorni di insulti, hanno scritto ai presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera e alla Presidenza del Consiglio per chiedere che il governo sostenga gli interventi avviati dalla Commissione per le adozioni internazionali e dal magistrato Silvia Della Monica per isolare e sanzionare chi ha eventualmente violato la legge. Anche perché, dal 9 giugno scorso, presidente dell'autorità di controllo di Palazzo Chigi sulle adozioni non è il ministro ombra Griffini ma la ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi. O no?
La lettera.
Al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Al Presidente del Senato della Repubblica Piero Grasso
Alla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini
Al Presidente del Consiglio Matteo Renzi
Con la presente intendiamo esprimere il nostro sdegno e la nostra preoccupazione per i gravissimi fatti accaduti in Congo e descritti nell’articolo a firma di Fabrizio Gatti e pubblicato da L’Espresso sul numero 28 dal titolo “Ladri di Bambini”. Oggi – grazie al lavoro straordinario di un Giornalista che può davvero fregiarsi di questo appellativo, dopo fiumi d’inchiostro e di parole di pennivendoli e parolai (curiosamente sempre gli stessi per mesi) che hanno partecipato senza vergogna all’operazione di delegittimazione della Commissione per le Adozioni Internazionali e della Presidente Silvia Della Monica – e’ finalmente tutto più chiaro. Siamo sconvolti dal comprendere finalmente quale guerra ha dovuto combattere la Presidente Silvia Della Monica, in Italia e in RDC, per portare a casa tutti i bimbi adottati in Congo dalle famiglie italiane e per questo, innanzitutto, vogliamo esprimere a lei e a chi con lei ha combattuto questa guerra la nostra solidarietà, la nostra vicinanza, il nostro affetto, la nostra gratitudine. Allo stesso tempo e con la stessa forza condanniamo l’indecente coro di attori e sostenitori – anche istituzionali, che ci auguriamo davvero ignari della verità – dell’operazione di aggressione, che in questi mesi hanno sottoposto ad un fuoco di fila di strumentali ed ingiustificati attacchi la nostra Autorità centrale e la sua Presidente proprio mentre era impegnata nella delicata (e oggi sappiamo anche quanto pericolosa) azione di risoluzione del “dossier Congo”. La nostra solidarietà, la nostra vicinanza, il nostro affetto, ed anche la nostra gratitudine, va anche a tutte le famiglie coinvolte, che hanno combattuto e sofferto in silenzio, affidandosi alla Commissione e resistendo, e pensiamo a quelle famiglie che avevano i loro piccoli a Goma, ad un micidiale ricatto emotivo senza mai cedere, scegliendo fino in fondo e ad ogni costo di stare dalla parte della legalità. Siamo per questo anche straordinariamente vicini alle decine di famiglie che erano in attesa dei loro figli dalla RDC e a quegli enti operanti in tale paese che in questi mesi hanno sempre sostenuto il lavoro della CAI e della Presidente Della Monica. Questo è il mondo delle adozioni pulite, il mondo degli enti che operano in trasparenza e legalità, che si pongono al fianco dell’Autorità centrale e la rispettano e la sostengono, il mondo delle famiglie che credono e praticano l’adozione come misura di protezione dell’infanzia e che mai vorrebbero un bambino sottratto illegittimamente alla sua famiglia e al suo paese. A fronte di tutto questo siamo indignati ed esterrefatti di fronte alle reazioni, che abbiamo registrato dopo l’uscita dell’inchiesta, da parte degli attori che si sono resi protagonisti accanto ad AiBi della campagna di sistematica delegittimazione della Commissione – e ci riferiamo a testate giornalistiche, a parlamentari, ad associazioni familiari – tutti ancora una volta appassionatamente uniti nella difesa e nel sostegno delle tesi e della posizione di un associazione privata contro una istituzione pubblica autorevole! Tutti allineati sulla direttiva dettata da AiBi: banalizzare, ridicolizzare, tentare di deviare l’attenzione, far finta di non vedere e naturalmente delegittimare ed infangare. Non ci sono parole. Tra questi attori alcuni si sono distinti. Avvenire, che non ha aspettato un momento per continuare la sua campagna di delegittimazione nei confronti di Silvia Della Monica, neanche il tempo di una riflessione, e che, curiosamente, nel passato non ha trovato il modo di dare spazio alla pubblicazione di una lettera indirizzata al Direttore dal Presidente dell’ente Movimento Shalom critica nei confronti della campagna stampa di tale giornale contro la CAI ed, invece, – meraviglia! – da immediatamente spazio ad una lettera anonima (di un sedicente genitore RDC!?) per avere una ennesima occasione di delegittimazione della CAI e addirittura alzare il tiro fino ad arrivare ad attaccare l’editore dell’Espresso per aver pubblicato l’inchiesta di Fabrizio Gatti!!! Il CARE – una associazione familiare, che si è contraddistinta in questi mesi per aver sempre appoggiato AIBi, cioè un ente sottoposto a verifica dall’istituzione di cui lo stesso Care ha fatto parte, fino a sottoscrivere insieme documenti di attacco alla CAI – che, al posto di preoccuparsi della sofferenza e degli interessi delle famiglie coinvolte, ha immediatamente – in perfetta linea con la posizione di AIBI – tentato di banalizzare quanto raccontato dall’Espresso, addirittura sbeffeggiando la testata ed ha tentato di infangare le famiglie adottive italiane, provando a travisare il contenuto dell’articolo e tentando di veicolare un falso messaggio certamente non contenuto nel servizio! Parlamentari, che invece di porsi al fianco della CAI, e cioè di una istituzione pubblica, parlano di caccia alle streghe ed invocano, esattamente come fa l’ente AIBI (che non a caso da immediata ospitalità a tali dichiarazioni sul proprio sito) indagini sull’operato della Commissione! Tutto questo se non si riferisse ad una vicenda tragica e delicata sarebbe ridicolo. Per questo chiediamo senso di responsabilità, senso del limite, senso della decenza e rispetto per la sofferenza delle famiglie e dei bambini coinvolti in questa tragica storia e rispetto per l’impegno e il rigore istituzionale della Commissione che per mesi ha lavorato in silenzio nella massima riservatezza sotto una grandine di indecorosi attacchi – che oggi comprendiamo meglio a cosa erano finalizzati – perseguendo un unico interesse, quello della tutela dei diritti dei minori coinvolti. Per questo vogliamo dire grazie a Silvia Della Monica e a chi ha lavorato al suo fianco, non solo per aver portato a casa, come aveva promesso, tutti i bambini adottati dalle famiglie italiane in Congo e per l’operazione di pulizia nel mondo delle adozioni che ha avviato e che deve poter portare a termine, ma anche per aver dato una lezione di come si lavora nelle e per le istituzioni italiane di cui ci ha reso orgogliosi. Per questo chiediamo che venga al più presto fatta piazza pulita di coloro che operano sfruttando lo stato di bisogno delle famiglie adottanti al fine di operare nella illegalità facendo piena luce e verità sui fatti descritti da Fabrizio Gatti de l’Espresso, cui va la nostra ammirazione e sincero ringraziamento. Per questo chiediamo che tutti gli attori istituzionali si pongano sulla corretta posizione di sostenere chi ha intrapreso quest’azione di pulizia. Per questo chiediamo che la Commissione non venga riunita fino a quando, non solo non vengono rimosse tutte le incompatibilità ai sensi del decreto del presidente del consiglio del 13 marzo 2015 e/o altre che siano state o venissero individuate, ma anche in ragione della necessità’ di garantire la prosecuzione delle indagini senza che ci possa essere inquinamento delle prove o violazione del segreto istruttorio. Per questo chiediamo al Governo di garantire la prosecuzione di una straordinaria stagione di cambiamento nel campo delle adozioni internazionali che, grazie alla Presidente Silvia Della Monica, ha ridato speranza alle famiglie e agli enti autorizzati che hanno sempre operato nel solco della legalità e che ha finalmente dato lustro alla nostra Autorità Centrale sulla scena internazionale, la stagione delle “Adozioni Pulite”. Presidente Renzi, dobbiamo dirglielo, non abbiamo capito la revoca delle deleghe a Silvia Della Monica e la nomina del Ministro Boschi a Presidente della CAI. E ancora meno abbiamo capito l’entusiasmo con il quale AiBi ha salutato tale nomina! Oggi capiamo ancora meno.
SULLA PELLE DEI VOLONTARI.
I finti volontari della biblioteca nazionale: "Pagati per anni con rimborsi spese fasulli, ora ci mandano a casa". Una lettera degli "scontrinisti" denuncia pubblicamente il caso di una cooperativa gestita da un sindacalista, dipendente del Mibact, che fornisce servizi alla biblioteca nazionale di Roma. Quindi allo stesso ministero, scrive Matteo Pucciarelli il 18 maggio 2017 su "La Repubblica". Sono volontari, ma per finta. Perché lavorano alla biblioteca nazionale di Roma, sul serio: con turni, ferie, mansioni specifiche e il pagamento finale con assegno. Alle dipendenze di una cooperativa, gestita da un sindacalista, dipendente del ministero per Beni culturali, che con lo stesso Mibact da anni ha in piedi una convenzione. Loro si sono autodefiniti "scontrinisti": la loro situazione è la nuova frontiera del lavoro precario e malpagato, senza diritti e senza alcuna forma di riconoscimento. Per essere pagati devono presentare scontrini per 400 euro. Essendo formalmente volontari, infatti, lo stipendio è ufficialmente un rimborso spese. "Raccogliamo anche gli scontrini per terra pur di raggiungere la cifra, se necessario: mica possiamo spendere davvero quei soldi...", racconta una delle lavoratrici, Federica Rocchi. Dopo anni di questo sistema gli "scontrinisti" hanno deciso di denunciare tutto con una lettera su Facebook: "Siamo inseriti nel registro dei turni del personale della biblioteca per lo svolgimento di diverse mansioni come la vigilanza agli accessi, il servizio accoglienza, l'ufficio prestito, la distribuzione del materiale librario nelle sale di lettura, i servizi di magazzino e in altri uffici. Lavoriamo quattro ore al giorno, cinque giorni su sette, e, in vista delle festività invernali ed estive, dobbiamo presentare una richiesta ferie per assentarci. È evidente, dunque, che la biblioteca fa affidamento su di noi per lo svolgimento dei servizi". Lettera firmata da sette persone, le altri quindici invece preferiscono non andare allo scontro. "In passato siamo stati minacciati", spiega Rocchi. La cosa paradossale è che il sistema sta in piedi grazie ad una cooperativa, Avaca, il cui presidente Gaetano Rastelli, risulta componente del coordinamento generale Flp Bac, sindacato dei lavoratori pubblici dei beni culturali. E dove andavano i finti volontari a ritirare lo stipendio? In via del Collegio Romano, cioè alla sede del Mibact. La situazione va avanti da almeno dieci anni. "Un anno fa siamo usciti allo scoperto - c'è scritto nella lettera - con un'azione sindacale che aveva l'obiettivo di aprire un dialogo con il direttore della biblioteca e con il ministero, ma il nostro tentativo è stato immediatamente rigettato da una chiara risposta di entrambi: voi non potete essere considerati dei lavoratori perché formalmente siete dei volontari". Come denunciano i "volontari", il loro lavoro "ha permesso al ministero e alla biblioteca di garantire gli stessi servizi un tempo forniti dal personale di ruolo, risparmiando sulla nostra pelle, togliendoci la dignità che meritiamo e permettendo, di fatto, un'elusione fiscale e contributiva ancora non quantificabile". Nessuno li ringrazierà, però. Con la circolare del 20 aprile scorso, emanata a tutte le biblioteche pubbliche statali, il Mibact ha imposto che le stesse, con l'arrivo del servizio civile nazionale, facciano "un'attenta valutazione in merito alla sostenibilità economica del rinnovo delle convenzioni in scadenza con le associazioni", e "qualora l'analisi della situazione economica conduca a ritenere il permanere dell'interesse a stipulare convenzioni con associazioni di volontariato questi istituti dovranno: individuare la controparte mediante procedura di gara; prevedere la rotazione semestrale delle unità di volontari assegnati; applicare modalità organizzative atte a scongiurare qualsivoglia pretesa di riconoscimento di rapporto di lavoro subordinato". Significa che, si legge ancora nella lettera di denuncia, "il lavoro fintamente volontario che abbiamo prestato finora sarà sostituito dal servizio civile. Il 30 giugno verrà interrotto il rapporto con noi della biblioteca nazionale di Roma e saremo mandati a casa senza, peraltro, alcuna forma di sostegno al reddito. E laddove proseguisse il rapporto con associazioni che offrono lavoro volontario, questo dovrà essere continuamente sostituito in modo da non dare adito al sospetto che si tratti di quello che in realtà è: lavoro mascherato da volontariato". Abbiamo cercato di contattare Rastelli per avere la sua versione dei fatti via telefono fisso, cellulare e mail, ma senza successo. Quanto ai finti volontari della biblioteca nazionale di Roma, loro invece chiedono "a tutti coloro che vivono una condizione di sfruttamento e non riconoscimento del proprio lavoro di unirci a noi e alle forze sindacali e politiche di essere in piazza il 25 maggio alle ore 10 davanti alla biblioteca nazionale contro lo sfruttamento dei lavoratori del Mibact e per valorizzare il patrimonio culturale nazionale".
"Gli scontrinisti? Sono dei raccomandati e ci sono associazioni che fanno i milioni sulla pelle dei volontari". Dopo la denuncia dei finti volontari della Biblioteca Nazionale di Roma, la risposta di Gaetano Rastelli, il sindacalista e presidente dell'associazione che dà loro i rimborsi spese, scrive Matteo Pucciarelli il 22 maggio 2017 su "La Repubblica". "Mi sento un perseguitato, accusano me ma ci sono associazioni di volontariato che fanno i miliardi!". Dopo la denuncia degli "scontrinisti" raccontata da Repubblica.it giovedì scorso, arriva la replica di Gaetano Rastelli, componente del coordinamento generale Flp Bac, sindacato dei lavoratori pubblici dei beni culturali, ma soprattutto presidente dell'associazione Avaca. La quale versa in media 400 euro a ventidue "volontari", indispensabili però per tenere aperta la Biblioteca Nazionale di Roma. Dalle parole di Rastelli esce fuori un quadro chiaro: tutto appare effettivamente a norma di legge, ma è una legge che di fatto consente al Mibact di non assumere personale di cui invece di sarebbe bisogno. E in tutto questo qualcuno, dice sempre Rastelli, ci specula sopra. Sulla pelle dei volontari, ovviamente.
Quali sarebbero le menzogne raccontate dai volontari?
"Loro non sono dipendenti ma volontari, è questo il punto. Anche due giudici del lavoro del tribunale di Roma lo hanno confermato e hanno condannato i ricorrenti a pagare le spese processuali. Non si possono aggirare le leggi, nel pubblico si entra solo per concorso pubblico. Lo ha detto anche il ministro Dario Franceschini".
Formalmente sono volontari, lo dicono anche loro, però hanno dei turni. Se uno è volontario va quando vuole no?
"Fanno turni da almeno da quattro ore, ma è tutto regolare grazie a una convenzione fatta con Giovanna Melandri e Walter Veltroni anni fa, firmata anche dalla Cgil. Che poi inganna queste persone dicendo che saranno assunte".
Tutti i volontari hanno un rimborso fisso, come se fosse uno stipendio. Normale anche questo?
"Sono dei rimborsi spese e ho anche sbagliato a darglieli. Io vado dalla magistratura, me ne strafotto di quel che hanno dichiarato, è assurdo dire che prendessero scontrini a caso. Se sono fasulli allora è una truffa, quindi appena mi chiamerà la Guardia di Finanza porterò tutto alla magistratura".
Mi scusi, ma lei andrebbe a fare il "volontario" quattro ore al giorno, con rimborso spese di 400 euro?
"Lo ha fatto anche mio figlio, quindi sì. Io vorrei che fossero assunti, ci mancherebbe".
Però?
"Però non dipende mica da me, io cosa c'entro?".
Mi perdoni, quindi il sindacato tutto, dalla Cgil fino alla Uil e via dicendo, ha firmato anni fa un accordo dove si istituisce il volontariato nei musei. E questi volontari, insieme ai dipendenti, mandano avanti la baracca. Ma le sembra normale, da sindacalista?
"Il governo non vuole assumere perché non ha i soldi, questa è la verità".
E quindi ecco l'escamotage dei volontari.
"Guardi che la mia è una formica come associazione: Auser, Touring club, associazioni carabinieri, sa quante ce ne sono? E loro danno dei buoni pasti ai volontari, che sono dei pensionati. Una cosa illegale. L'unico modo che io avevo per dargli un rimborso era il metodo degli scontrini. Sono persone di supporto ma non indispensabili e io non schiavizzo nessuno".
Ma come si sono avvicinate queste persone alla vostra associazione?
"Di questi venti della biblioteca, io non ne ho messo neanche uno. Sono stati segnalati, figli di dipendenti, iscritti a un certo sindacato...".
La Cgil?
"Sì, ma se loro vogliono farmi una persecuzione, allora dico tutta la verità, davanti al magistrato".
Scusi ancora, ma da sindacalista, non vede un problema etico in tutto questo?
"Ma è tutto previsto dalla normativa. Devono cambiare la legge allora. Da sindacalista dico che sanno benissimo di essere volontari. A me danno 100 e 99 vanno a loro, il mio bilancio è pubblico, ho mani e coscienza pulita".
Com'è fatta questa convenzione? Lei ci guadagna qualcosa?
"Qui ci sono associazioni grosse che hanno i miliardi. Il ministero ci dà un rimborso a noi e noi lo giriamo ai volontari. Stabilimmo con Veltroni questo, è previsto. Siamo nella piena legalità".
Quindi tutte queste associazioni fanno filantropia, sta dicendo questo?
"Io non ho nessun guadagno, la mia è un'associazione non lucrativa. Se vuole le mando il bilancio".
Lei è un dipendente del Mibact. Presiede un'associazione che fornisce un servizio al Mibact. Non c'è un conflitto di interesse?
"No, è tutto regolare, altrimenti mica avrei potuto farlo".
Facciamo finta che domani nessun "volontario" si presenti nei musei italiani. Cosa succede?
"Chiuderebbero in tanti".
Allora a rigor di logica il ministero sta sfruttando questi volontari, anche con la complicità di associazioni come la vostra.
"Ma perché? Non sono lavoratori questi. Sono loro che vengono a chiedere di dare una mano, gli servono per i crediti formativi all'università. Ripeto sono io che ho sbagliato a dargli i rimborsi spesi, sono l'unico. E tanto è vero che altre associazioni sono miliardarie".
C'è un business dietro sulla pelle dei volontari, sta dicendo questo?
"Ma questo lo chieda a loro".
Sarò ripetitivo, glielo chiedo ancora, al di là della legge non vede un problema etico in questa faccenda?
"Ascolti, per quelli che hanno fatto quella denuncia pubblica è l'ultima spiaggia per trovare un lavoro, per questo protestano. Perché non se ne sono andate come hanno fatto altri? Quelle che hanno fatto casino prendono 600 euro. Potevano rifiutarsi di prendere i soldi no?". (A fine conversazione interviene anche Rinaldo Satolli, coordinatore generale della Flp-Bac e spiega che "da quando si è insediato Franceschini abbiamo cominciato a fornire dati oggettivi circa la mancanza endemica di organico. In questi anni, lo sappiamo, è accaduto che si sono inventate delle forme creative per sopperire a delle mancanze. Servirebbero almeno tremila assunzioni attraverso concorso, l'età media degli assunti del Mibact è di 58 anni").